Come nasce la Costituzione

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MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XXII.

SEDUTA DI MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Sul processo verbale:

Lizzadri                                                                                                            

Geuna                                                                                                               

Moscatelli                                                                                                      

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Gallo:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri (Seguito della discussione):

Einaudi                                                                                                             

Bencivenga                                                                                                      

Conti                                                                                                                

Cortese                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

Benedetti                                                                                                         

Interpellanza e interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

BATTISTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.                        

PRESIDENTE. Sul processo verbale ha chiesto di parlare l’onorevole Lizzadri. Ne ha facoltà.

LIZZADRI. Onorevoli colleghi, chiedo scusa, se nel giro di pochi giorni sono costretto a prendere la parola per la seconda volta sul processo verbale; ma nell’ultima seduta di questa Assemblea sono stati mossi dei rilievi all’opera della Confederazione del lavoro sul problema dell’emigrazione da parte di un onorevole Deputato, ed io reputo opportuno fornire alcuni chiarimenti in merito a questo problema, che credo interessi tutti gli onorevoli colleghi e il Paese.

Possiamo in un certo senso tener conto di questi rilievi, giustificati dal fatto che probabilmente non si conoscono i limiti ai quali può arrivare l’opera e l’azione della Confederazione del lavoro. La Confederazione del lavoro non è il Governo; è una organizzazione sindacale che agisce nei limiti delle organizzazioni sindacali italiane e internazionali. In un certo senso ringrazio l’onorevole collega che mi dà l’occasione di poter fornire alcuni chiarimenti a questa Assemblea.

Naturalmente, in sede di processo verbale, entro i limiti stabiliti dal Regolamento, non mi è consentito dilungarmi troppo, ma mi auguro, in una prossima discussione su questo importante problema che assilla tutti i lavoratori italiani, di poter fare delle dichiarazioni a nome della Confederazione del lavoro, affrontando il problema nella sua interezza.

Non posso perciò qui illustrare l’opera che la nostra Confederazione ha già svolto in seno alla Federazione mondiale dei sindacati e dell’Ufficio internazionale del lavoro. Posso solo accennare al fatto che se nello statuto della Federazione mondiale dei sindacati esiste una clausola che riflette le condizioni da fare agli emigranti, questo si deve proprio all’intervento dei nostri delegati nell’ultima Assemblea.

In fondo, se foste a conoscenza degli articoli di questo regolamento, vedreste che noi italiani ci siamo preoccupati proprio di premunire i nostri lavoratori dal cadere vittime di quei negrieri, ai quali l’onorevole Patrissi ha accennato nel discorso dell’ultima seduta.

Mi limiterò a dare alcune illustrazioni su quello che abbiamo fatto nei riguardi della Francia: noi, Confederazione italiana del lavoro, abbiamo preso contatto con la Confederazione del lavoro francese fin dall’aprile 1945, e nel settembre-ottobre successivo, una delegazione della Confederazione italiana del lavoro si incontrò con i colleghi della organizzazione francese per concludere le trattative durate circa tre mesi. Furono stabilite alcune clausole a parte, di carattere secondario, che però la Confederazione italiana del lavoro crede pregiudiziali per i nostri lavoratori all’estero e per quanto riguarda specialmente la Francia.

Abbiamo chiesto ed ottenuto:

1°) che i lavoratori italiani fossero sottoposti allo stesso trattamento dei lavoratori francesi a tutti gli effetti, cioè salari, mense, ferie, ecc.;

2°) che fosse estesa ai lavoratori italiani la legge degli assegni familiari.

Voi sapete che la Francia corrisponde questi assegni familiari solo ai lavoratori francesi, ed era perciò molto difficile che la Francia accedesse alla nostra richiesta, a meno che la stessa Confederazione del lavoro francese non facesse sua questa domanda. Ciò avvenne, e noi oggi possiamo dichiarare che i nostri lavoratori in Francia – ed è un’eccezione fra tutti i lavoratori di tutti gli altri Paesi emigrati in Francia – percepiscono gli assegni familiari come i lavoratori francesi. Tenete conto che gli assegni familiari in Francia per un lavoratore che ha 4 persone a carico significano il raddoppio del salario;

3°) chiedemmo che i nostri lavoratori usufruissero di tutte le assicurazioni e di tutte le provvidenze sociali dei lavoratori francesi; ma c’è qualche cosa di più: quando un lavoratore italiano o straniero in genere, dopo un certo numero di anni, ritornava al suo Paese di origine, perdeva i contributi pagati in Francia, non solo quelli pagati dal datore di lavoro, ma anche quelli trattenuti sullo stesso salario. Abbiamo proposto, e la Confederazione del lavoro francese ha accettato, che qualora, dopo un minimo di due anni, il lavoratore italiano rientrasse in Italia, a lui devono essere restituiti i contributi trattenuti sul suo salano.

4°) La questione dello stato giuridico, come voi sapete, è una grave questione fra noi e la Francia, specialmente per i lavoratori italiani che vanno in Francia.

Io non sono qui per entrare nel merito di questa grave questione. Noi abbiamo impostato il problema per i lavoratori che emigravano in Francia e per quelli che si trovavano già in Francia.

Avveniva che i lavoratori che non prendessero la cittadinanza francese erano soggetti ad una speciale legge di polizia, per cui, anche per vendetta personale, un lavoratore accusato di qualche cosa potesse in 48 ore, con un ordine di polizia, essere accompagnato alla frontiera.

Io vi chiedo scusa di dilungarmi, ma è un problema molto importante.

PRESIDENTE. Lo so; ma d’altra parte lei deve rispettare il Regolamento. Mi sono occupato anch’io in Francia di questi problemi.

LIZZADRI. Comunque, noi abbiamo chiesto alla Confederazione del lavoro francese che i lavoratori italiani in Francia fossero soggetti alle stesse leggi alle quali obbediscono i lavoratori francesi. Per tal modo il lavoratore italiano, accusato di qualche cosa, non dovrebbe essere sottoposto ad un qualsiasi provvedimento di polizia, ma dovrebbe essere giudicato da un tribunale, con pieno diritto alla difesa.

Queste clausole noi abbiamo poste come pregiudiziali alla Confederazione del lavoro francese, che le ha accettate. Abbiamo pertanto pregato la Confederazione del lavoro francese di far sue presso il Governo francese queste richieste e in un ricevimento che il Capo dello Stato francese organizzò in onore delle delegazioni che erano a Parigi, soffermandosi presso la delegazione italiana ebbe a dire: «Noi dobbiamo andare d’accordo; abbiamo bisogno della vostra emigrazione e sappiamo che avete avanzato richieste a mezzo della Confederazione; posso assicurarvi che il Governo le ha prese nella debita considerazione».

Per il resto vi dirò, in relazione alle accuse che sono state fatte a proposito dei nostri minatori nel Belgio, che la Confederazione non arruola essa i lavoratori che vanno nel Belgio: questi sono stati arruolati dagli Uffici del lavoro, spesso senza neanche sentire il parere della Confederazione.

È avvenuto che molti di questi lavoratori andati nel Belgio non erano minatori; con l’aiuto degli italiani residenti in quelle zone, con l’aiuto delle agenzie consolari e dell’Ambasciata è stato possibile sistemare alcuni di questi lavoratori. Comunque, la Confederazione del lavoro ha mandato nel Belgio gli onorevoli Bitossi e Morelli, i quali hanno preso contatto con le organizzazioni locali e con l’Alto commissario del carbone del Belgio, che è lo stesso Presidente del Consiglio e, d’accordo con quel Governo, si è stabilito che la Confederazione invierà – già due sono partiti – cinque ispettori minerari, che saranno a contatto diretto sia con la Confederazione, che con il Governo belga, in modo da accertare tutti gli inconvenienti e le difficoltà che possono verificarsi nel lavoro di questi nostri operai all’estero.

Concludo, e a malincuore, perché avrei ancora qualcos’altro da dire, affermando che la sorte dei lavoratori italiani, di questi nostri fratelli che sono costretti a lasciare la Patria e spesso anche la propria famiglia ed i figli, sta a cuore a noi organizzatori sindacali come a tutti gli italiani e non trascureremo nulla perché i loro interessi siano salvaguardati all’estero nel miglior modo possibile. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Geuna. Ne ha facoltà.

GEUNA. Parlo come partigiano e come membro del Comitato militare regionale piemontese.

Intendo contestare fermamente le asserzioni dell’onorevole collega Negarville, pronunciate in quest’Aula sabato scorso 21 corrente circa le agitazioni dei partigiani del Nord.

È necessario che la nazione sappia con esattezza di chi è la responsabilità di uno spirito e di un metodo che hanno sorpreso e allarmato l’opinione pubblica (anche perché tutti i partiti avevano proclamato che i partigiani avevano versato le armi) e che non ha certo servito all’estero la causa del nostro Paese, nello sforzo che esso sta compiendo per la propria rinascita.

Non è vero, onorevoli colleghi, che tutti i partigiani abbiano approvato e, tanto peggio, appoggiato il ricatto armato imposto da una parte di essi al Governo italiano.

PAJETTA GIAN CARLO. A Firenze però parlavate un altro linguaggio! Ai partigiani queste cose non le raccontavate. (Interruzioni).

GEUNA. Si sappia che i partigiani delle formazioni democristiane, in un fermo e preciso ordine del giorno – diramato a tutti i quotidiani di Torino – pur rivendicando ai partigiani tutti i diritti e i riconoscimenti sacrosanti ad essi spettanti – e dal Governo troppo trascurati – hanno condannato il metodo inammissibile della violenza e dell’imposizione sorretta dalle armi, usato da loro compagni di altro colore politico, e hanno fatto plauso all’atteggiamento di disciplina e di ordine perfetto dato da tutte le forze inquadrate nei loro ranghi.

Parimenti il Comando delle formazioni autonome del Piemonte ha sconfessato l’atteggiamento di un comandante che, solo, aveva appoggiato il movimento di insurrezione con le proprie personali dichiarazioni.

Il Congresso stesso dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia a Firenze, radunatosi proprio per tutelare e rivendicare, nella legalità, i nostri diritti, ha deplorato e condannato l’atteggiamento dei reparti che si erano sollevati.

PAJETTA GIAN CARLO. Dovevate deplorare l’atteggiamento del Governo. (Interruzioni Commenti).

GEUNA. Perché, sebbene l’onorevole Nenni – dal banco del Governo – abbia voluto enfaticamente giustificare l’atto di debolezza del Governo stesso nei confronti del capitano Lavagnino, richiamando il fenomeno politico che, dietro l’insubordinazione ingiustificabile di un dipendente dello Stato si agitava, non si deve confondere, in un tutto, due episodi nettamente distinti e di ben diversa natura.

E mi spiego: il quadro esatto è questo. Ad un certo momento un funzionario dello Stato – un ufficiale di polizia e quindi un tutore dell’ordine pubblico, rappresentante dell’autorità e della forza dello Stato e che dovrebbe essere perciò di esempio al paese per senso del dovere – riceve un primo ordine (di lasciare l’incarico ricevuto) ed egli lo discute.

Riceve un secondo ordine e si ribella: prende le armi e passa alla montagna. Ma non basta, accetta e porta con sé i suoi uomini, dando prova di aver capovolto il concetto del dovere e della disciplina.

Non entro in merito alla giustezza o meno dell’ordine ricevuto; ma se si ammette il principio che ogni funzionario, quando non gli garba, possa ridersi del Governo – che è la volontà legale del popolo – e possa ribellarsi ad esso, con quale diritto potrebbe questo funzionario invocare l’autorità di cui dallo Stato è investito per espletare il proprio mandato?

In quel momento il capitano Lavagnino non aveva alcuna veste di rappresentare i diritti misconosciuti del partigiano: era semplicemente un dipendente ribelle, e il Governo doveva intervenire energicamente. (Applausi al centro e a destra Interruzioni del deputato Pajetta Gian Carlo).

Pochi giorni prima, il Presidente del Consiglio, a nome di tutto il Governo, aveva fortemente dichiarato che avrebbe preteso la «difesa dell’autorità, del prestigio, del decoro del nuovo Stato, e in particolare da parte delle forze adibite all’ordine». (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Geuna.

GEUNA. L’Assemblea Costituente unanime aveva approvato. Nell’assenza del Presidente del Consiglio, un rappresentante del Governo patteggia con un tutore dell’ordine che passa alla montagna. E stupisce che proprio da uomini di quei banchi della sinistra, di cui tutti noi – anche se avversari politici – dobbiamo lealmente ammirare la fedeltà e la ferrea disciplina al proprio movimento, si levi un inno in difesa della indisciplina più sfrontata. (Applausi a destra e al centro). Ed io, commilitone di lotta, sia pure sotto altri colori, del partigiano onorevole Moscatelli, deploro vivacemente che egli, deputato al Parlamento italiano di un partito che ha i suoi uomini al Governo, si sia recato ad Asti ad accogliere festosamente il ritorno del funzionario ribelle al proprio Governo. (Applausi al centro e a destra).

E veniamo all’agitazione partigiana. Noi siamo solidali con tutti i nostri compagni di lotta. (Interruzioni a sinistra).

Abbiamo combattuto e sofferto vicini, fianco a fianco, e chiediamo e vogliamo per tutti i combattenti della resistenza il riconoscimento tangibile e reale del sacrificio e del sangue loro e della vittoria delle nostre armi, perché partigiani anche noi, ma nella legalità e nell’ordine.

MOSCATELLI. Ma lo dica ai partigiani, questo! (Interruzioni Rumori).

GEUNA. È il metodo della violenza, che è metodo fascista che noi condanniamo: e non potevamo approvarlo.

Onorevoli colleghi, venti anni fa, da questi stessi banchi, si legittimava la violenza, la forza, il dispregio della legge, lo squadrismo, la marcia su Roma: e abbiamo avuto il fascismo!

Per abbattere questo metodo, abbiamo lottato, sofferto, siamo stati in galera, abbiamo perduti i fratelli più puri e più cari sui monti, al confino, sulle forche e non permetteremo mai più che nessun’altra marcia su Roma, né nera, né bianca, né rossa, ci umili nuovamente e uccida la libertà conquistata, che gronda sangue e tanto sangue italiano.

Perciò noi rivendichiamo alla grande maggioranza dei partigiani, dinanzi alla Nazione, il merito e l’onore di aver dimostrato che come hanno saputo combattere e morire in guerra per il Paese, sanno, in pace, servirlo con fedeltà e disciplina, primi fra tutti.

Perché per noi, essere partigiani, veri partigiani, non vuol dire soltanto essere andati sui monti per combattere tedeschi e fascisti in lotta fratricida; no, onorevoli colleghi, partigiani per noi vuol dire e ha voluto dire allora donare qualcosa di più che gli altri, per salvare il Paese, per abbattere la tirannide, perché la Patria risorgesse.

Ha voluto dire lottare, patire il freddo e la fame e le catene della prigione, dare tutte le nostre energie spirituali e morali e materiali, il sangue e la vita, se era il caso, per un vero ordine nuovo, per una maggiore giustizia, per una umanità migliore.

Partigiani voleva dire difendere la nostra terra, fedeltà a un giuramento, amore dei nostri fratelli più grandi (e voi ne avete avuti tanti e mirabili nella loro fermezza) che primi, per venti anni, avevano patito sotto la tirannia fascista.

Perciò partigiano non ha voluto dire neppure chi è salito ai monti con le scarpe rotte o scalzo e ne è disceso in «Aprilia» (ché oggi troppi si sono accodati e fregiati di un titolo rubato), ma chi forse lasciò a casa e beni di fortuna e l’«Aprilia» e ritornò il 25 aprile con le scarpe rotte o scalzo e lacero, o più non ritornò.

Partigiani ha voluto dire per noi donazione e sacrificio – in spirito cristiano – e solo questo ci ha meritato la vittoria.

E noi che, senza merito, siamo tornati alla famiglia, alle cose nostre, mentre tanti nostri fratelli sono caduti lungo la strada, per rispetto ad essi e per non tradire la loro consegna, ci sentiamo partigiani ancora nella volontà e nel bisogno di donare ancora qualcosa al nostro Paese, primi fra tutti a fare tutto il nostro dovere.

PRESIDENTE. Onorevole Geuna, la prego di rispettare il Regolamento e di concludere.

GEUNA. Amici di sinistra, mi rivolgo alla vostra lealtà. Mi si consenta, onorevoli colleghi, che proprio io – che nella lotta clandestina militai come partigiano monarchico – chieda e esiga la difesa, il rispetto, il prestigio del nostro Governo repubblicano, perché dietro il Governo, per me, c’è l’Italia. (Applausi Rumori).

MOSCATELLI. Chiedo la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Voglia indicare in che cosa consiste il fatto personale.

MOSCATELLI. Mi dispiace che non sia presente l’onorevole Nenni… (Interruzioni Rumori) il quale sarebbe d’accordo con me (Interruzioni) nell’affermare che quanto ha detto poc’anzi l’onorevole Geuna risponde al falso (Rumori); e lo dimostro.

PRESIDENTE. Onorevole Moscatelli, si limiti al fatto personale!

MOSCATELLI. Il fatto personale è questo: l’onorevole Geuna ha affermato di non essere vero che i rappresentanti di tutte le formazioni indifferenziate avevano solidarizzato col movimento di Asti. (Interruzioni a destra). Siccome io ho affermato che tutti i rappresentanti delle formazioni indifferenziate si erano invece dichiarati solidali col movimento di Asti, è evidente che ci troviamo di fronte ad un falso e lo dimostro. (Interruzioni).

Quando giunse a Roma la delegazione dei partigiani di Asti, essa venne accompagnata all’onorevole Nenni, il quale in quel momento sostituiva l’onorevole De Gasperi. Presso l’onorevole Nenni si trovavano i delegati di Asti, i rappresentanti delle formazioni garibaldine, i rappresentanti delle formazioni autonome nelle persone di Salivetto e Poli, due autentici partigiani, i rappresentanti delle brigate del popolo nella persona del vicesegretario delI’ANPI, dottore Sertori, e il rappresentante delle formazioni Matteotti nella persona di Graceva… (Interruzioni Rumori).

PRESIDENTE. Venga al fatto personale.

MOSCATELLI. Signor Presidente, il fatto personale consiste in questo: che qui si è dichiarata falsa l’affermazione di coloro che hanno sostenuto che tutti i rappresentanti delle formazioni partigiane hanno solidarizzato con Asti. Ora è falso o non è falso? L’accusa è falsa. Siccome io, colle formazioni Garibaldi ho solidarizzato e sostenuto la solidarietà di tutto il consiglio delI’ANPI…

PRESIDENTE. Non è fatto personale questo; si iscriva a parlare.

MOSCATELLI. È fatto personale, perché è stato fatto il mio nome, deplorandosi che io, come partigiano, sia andato ad Asti a fare opera di chiarificazione e pacificazione. (Interruzioni).

Vi ho citato i nomi dei rappresentanti di tutte le formazioni indifferenziate che davanti a me hanno dichiarato di solidarizzare in pieno con i partigiani di Asti. Perché sono andato ad Asti? Perché ero stato richiesto dagli stessi partigiani di Asti, perché mandato dal Consiglio nazionale delI’ANPI, perché mandato dall’onorevole Nenni. Il fatto che migliaia e migliaia di cittadini di Asti hanno salutato entusiasticamente i partigiani che rientravano dalle montagne, (Commenti) indica che non solo i partigiani hanno solidarizzato con coloro i quali, con il loro gesto di protesta, hanno voluto dimostrare al Governo che con la pazienza dei partigiani non si scherza. (Applausi a sinistra Rumori).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Deputati: Di Giovanni, Ferrarese, Costa, Lazzati, Dossetti, Rubilli.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. In relazione alla istituzione di quattro Commissioni permanenti per l’esame dei disegni di legge, deliberata dall’Assemblea nella seduta del 17 corrente, comunico che le Commissioni stesse risultano così composte:

Prima Commissione: Andreotti, Arcangeli, Bencivenga, Bergamini, Camposarcuno, Carboni, Condorelli, Del Curto, Della Seta, D’Onofrio, Foresi, Fornara, Galati, Gronchi, Lombardi Riccardo, Longo, Martino Gaetano, Molè, Moscatelli, Nobile, Tonello, Turco, Vernocchi.

Seconda Commissione: Amendola, Arcaini, Assennato, Cartia, Castelli Edgardo, Cicerone, Cuomo, Dugoni, Fioritto, Giacometti, La Malfa, Lombardi Carlo, Marinaro, Martinelli, Patrissi, Pella, Persico, Pesenti, Tosi, Valiani, Valmarana, Vanoni, Vicentini.

Terza Commissione: Alberganti, Bassano, Bei Adele, Bianchi Costantino, Bitossi, Bonomi Paolo, Braschi, Bruni, Cappugi, Capua, Cavalli, Corazzin, De Maria, Foa, Lucifero, Massini, Mastino Gesumino, Perrone Capano, Piemonte, Santi, Simonini, Villani, Zerbi.

Quarta Commissione: Angelini, Barontini Ilio, Bibolotti, Buonocore, Camangi, Cevolotto, Covelli, Colombo Emilio, De Palma, Di Fausto, Firrao, Malagugini, Monticelli, Orlando Camillo, Pera, Pucci, Reale Vito, Rodinò Mario, Ruggeri Luigi, Salerno, Schiavetti, Stampacchia, Tambroni Armaroli.

Avverto che le Commissioni si riuniranno domani, per procedere alla propria costituzione: la prima e la seconda alle ore 9,30, la terza e la quarta alle 11,30.

Il Governo ha già fatto pervenire tre provvedimenti, due dei quali saranno, domani stesso, sottoposti alla prima Commissione e uno alla terza.

Comunico che, in sostituzione degli onorevoli Di Vittorio e Pesenti, dimissionari, ho chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione gli onorevoli Assennato e Corbi.

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Gallo.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le domande di autorizzazione a procedere contro il Deputato Gallo.

Di queste domande, due riguardano i reati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, omicidio, tentato omicidio, invasione di terreni ed edifici privati, sequestro di persone, estorsione, associazione a delinquere, correità in rapine e in tentate estorsioni, falsità materiale, detenzione di armi da guerra. (Commenti).

Per esse, la competente Commissione propone, ad unanimità, che sia concessa la richiesta autorizzazione a procedere in giudizio, ma non quella per la emissione del mandato di cattura contro l’onorevole Gallo.

La terza riguarda i reati di radunata sediziosa, istigazione di militari a disobbedire alle leggi e denigrazione della guerra, reati coperti tutti dalla recente amnistia. La Commissione, unanime, propone che l’autorizzazione a procedere sia concessa, affinché l’amnistia possa essere applicata.

Pongo a partito queste proposte della Commissione.

(Sono approvate).

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Onorevoli colleghi, chiedo venia a voi, se in questa appassionata discussione politica oso introdurre una parentesi di scarna tecnica economica.

Ascoltando, l’altro giorno, il discorso dell’amico onorevole La Malfa, la mia attenzione si è fermata su un punto, in cui egli osservava che elemento essenziale obiettivo di una politica del tesoro era la conoscenza dei fatti, la conoscenza dei dati che costituiscono la base di ogni ragionamento.

Sarebbe mio desiderio che alla fine di queste poche parole voi riconosceste che nessun’altra mira mi ha mosso all’infuori di quella di offrire a voi e a me stesso alcuni elementi di meditazione che servano per rispondere ad una domanda che credo tutti gli italiani si siano fatta ed è questa: se la lira potrà essere stabilizzata.

Dicendo «se la lira potrà essere stabilizzata» io pongo il problema nella sua forma ipotetica, che è la forma abituale a noi cultori di scienze economiche. Noi infatti non possiamo profetizzare nulla: se profetizzassimo qualche cosa, mancheremmo ad un nostro stretto dovere. Noi possiamo soltanto dire quali sono le condizioni, date le quali, la lira può essere stabilizzata.

Non pongo fra le condizioni essenziali l’esigenza di cui ho sentito parlare, cioè la riunione dei due Ministeri del tesoro e delle finanze.

Se si vuol risalire alle sue origini storiche, questa separazione non fu nient’altro se non uno strumento di governo di uno dei più grandi uomini che siano vissuti nella storia, e precisamente di quel tiranno di genio che si chiamava Napoleone. Napoleone, allo scopo di meglio dominare, di meglio poter usare la pratica del divide et impera, divise il Ministero delle finanze in due Ministeri, quello del tesoro e quello delle finanze. In tal modo egli poteva controllare l’opera dell’uno con l’opera dell’altro Ministro. E quei due suoi Ministri egli conservò per tutta la durata del suo dominio, uno il conte di Mollien, Ministro del tesoro, l’altro Gaudin, Duca di Gaeta, Ministro delle finanze. Le memorie, gli scritti che essi lasciarono, sono tra i documenti più importanti e più interessanti per lo studio di quel grande uomo di Stato, che in verità nulla sapeva di economia, ma intuiva i fatti e faceva incessanti progetti, i quali normalmente – come accade a tutti coloro che non conoscono un dato ramo dello scibile – non potevano essere attuati. Ascoltando quei due suoi fedeli Ministri, Napoleone riconosceva però che le sue idee erano sbagliate e dando testimonianza di quel che è il vero genio, finiva di applicare quelle dei suoi fedeli servitori.

La separazione dei due Ministeri delle finanze e del tesoro che, dunque, aveva servito come arma di governo a quest’uomo, che peraltro, usando sistemi di tirannia, condusse la Francia alla rovina, risorse in Italia dopo tanto tempo nel 1878, rapida meteora che durò soltanto pochi mesi. Riprese poi nel 1888, per ragioni semplicemente parlamentari, e precisamente allo scopo di offrire una maggiore quantità di posti ministeriali ai membri del Parlamento.

Credo che una delle pochissime cose fatte bene dal regime fascista, sia stata la riunione dei due Ministeri. Ma non considero che quella separazione, nuovamente operata in appresso, sia un fattore essenziale per la risoluzione del problema della stabilizzazione della lira. Non lo credo. Da tutti i Ministri del tesoro che si sono succeduti, a partire dal compianto Soleri, ad andare a Ricci e poi a Corbino, ho sempre sentito ripetere lo stesso giudizio che Corbino espresse l’altro giorno, e cioè che i suoi rapporti con i colleghi Ministri delle finanze Pesenti e Scoccimarro erano stati sempre rapporti più che cordiali, rapporti attraverso i quali si potevano e si possono discutere e risolvere le questioni finanziarie da sottoporre ai Consigli di gabinetto. Il problema, sebbene non attuale, dovrà in avvenire tuttavia essere esaminato e risoluto; non certo nel senso della permanenza della separazione dei due Ministeri.

Ma forse non potrà neanche essere risoluto nel senso di una semplice unione. Noi nei paesi latini siamo troppo affezionati alla logica, troppo affezionati alle cose chiare e diciamo perciò: uno o due Ministeri. In altri paesi ciò non avviene. Nel paese che è stata la culla del Governo parlamentare, in Inghilterra, non si fanno distinzioni nette fra separazione o riunione. Nell’organizzazione finanziaria di quel paese non ci sono né uno né due Ministeri che si occupano delle cose finanziarie; ce ne sono parecchi i quali fanno parte di quella cosa colossale che è il Governo in Inghilterra, che comprende ora una cinquantina ed ora una ottantina e forse più tra Ministri, Vice-ministri e altre persone appartenenti al Governo. Dentro a questo grande gruppo di persone che fanno parte del Governo c’è un gruppo che si occupa delle cose finanziarie: c’è il primo Lord della Tesoreria che di solito è il primo Ministro; dipendono da lui il Cancelliere dello Scacchiere ed altri Ministri e Sottoministri, la cui opera è tutta unificata dal comando di uno solo. Io credo che per le complicazioni crescenti del sistema finanziario e del sistema economico italiano, verrà un giorno in cui si riconoscerà la necessità di costituire un Sotto-gabinetto dentro al Gabinetto, un Sotto-ministero entro il Ministero. In questo Ministero ci sarà un Ministro principale, il quale darà l’indirizzo agli altri Ministri e sarà responsabile dell’opera loro, rivolta principalmente alle cose dell’amministrazione.

Non è questo un problema essenziale oggi per la stabilità della lira. Non credo nemmeno che sia essenziale per la sistemazione del problema della lira lo scarto che potrà esistere durante l’esercizio in corso fra le entrate e le spese. L’amico e compagno di università onorevole Bertone, Ministro del tesoro, dirà oggi o domani quali sono le condizioni delle finanze e le condizioni del tesoro. Io mi limito a costruire argomentazioni sui dati che sono di dominio pubblico, sebbene forse non sempre siano noti a tutti. In primo luogo, le spese, le quali durante l’esercizio scorso 1945-46 avevano finito per essere previste, giunsero alla cifra di 510 miliardi di lire. Lo stato di previsione originario non arrivava in verità a questa somma, ma, come si sa, e come sempre è accaduto, le note di variazioni successive hanno aumentato l’anno scorso, come aumenteranno anche in questo esercizio, le previsioni originarie ed alla fine, tenuto conto di tutte le variazioni, la spesa complessiva prevista era arrivata a 510 miliardi di lire. Non credo che in questo esercizio la previsione finale, non quella che si potrà fare oggi, ma quella riassuntiva che avremo alla fine dell’esercizio, si fermerà su questa cifra di 510 miliardi di lire di spesa.

Vi sono certamente alcuni capitoli di spesa che non esistevano l’anno scorso. Ricordo il capitolo, che appena appena si iniziava con i premi di consegna addizionale, del prezzo politico del pane. Tutti sapete che il prezzo politico del pane era stato abolito una seconda volta dal Ministro Soleri all’inizio del 1945; così come da lui medesimo, Commissario all’alimentazione sotto il Governo Giolitti, era stato abolito nel 1920. E come allora la finanza italiana era stata salvata dal pericolo maggiore che su di essa incombeva – ed era un pericolo che oggi sembrerebbe piccolissimo: 500 milioni di lire al mese, ma allora era un pericolo grande – così una seconda volta, al principio del 1945, la finanza italiana fu assestata con l’abolizione del prezzo politico del pane. Le vicende dei prezzi e le esigenze dell’agricoltura hanno fatto sì che questo problema si ripresenti oggi. Non credo che una somma minore di 80 miliardi di lire potrà bastare nell’esercizio in corso 1946-47 a coprire l’onere del prezzo politico del pane. Il costo per lo Stato assomma invero alla cifra di 3732 lire per quintale di frumento trasformato in farina dal mugnaio, mentre il prezzo di realizzo da parte dello Stato del medesimo quintale è soltanto di 1322 lire, con una perdita di 2410 lire, che moltiplicata per il numero dei quintali forniti dal Governo alla popolazione urbana, ammonta per l’appunto a 80 miliardi di lire.

È una spesa sulla quale il Governo dovrà decidere, e dovrà decidere questa Camera. La decisione sta nel vedere se convenga accollare ai contribuenti l’intera spesa di 80 miliardi di lire, o se invece convenga attribuirla a coloro i quali devono, secondo le diverse classi sociali, far fronte alla spesa medesima. Se lo Stato, se il legislatore ritenesse, come per ben due volte già ritenne, che si debba abolire il prezzo politico del pane, non tutto l’onere per lo Stato sarebbe risparmiato: l’onere si ridurrebbe probabilmente da 80 miliardi di lire a forse 27 miliardi, a causa dell’aumento dei salari che dovrebbe esser concesso ai dipendenti e agli impiegati dello Stato, perché essi sovvengano al maggior prezzo del grano. Per gli altri lavoratori, posti alla dipendenza altrui, sarebbero i datori di lavoro i quali dovrebbero, con adeguati aumenti di salari, provvedere essi a sopperire alla maggior spesa del pane. Non si tratta di abolire la spesa: questa esiste e dipende dall’onere della produzione del grano e della fabbricazione della farina e del pane; si tratta soltanto dei modi di distribuzione di questa spesa: o tutta sul bilancio dello Stato, o ripartita in parte sul bilancio dello Stato, in parte su coloro i quali hanno lavoratori alle loro dipendenze e finalmente su coloro che possono qualificarsi economicamente indipendenti.

Così pure non credo che sia stato compreso nelle previsioni dell’esercizio scorso il maggior onere che dai giornali si sa essere in corso di discussione per l’aumento della remunerazione degli statali. Da una richiesta di circa una settantina di miliardi da parte dei dipendenti statali ad una offerta iniziale da parte del Governo di 28 miliardi, si verrà forse ad una transazione; e forse saranno 40 miliardi circa, i quali dovranno essere iscritti per questa ragione nello stato di previsione.

Dalle dichiarazioni dell’onorevole Presidente del Consiglio ho tratto la somma di circa 180-190 miliardi di lire di opere pubbliche, le quali sarebbero già state deliberate. Ma parte di queste costituiscono probabilmente un doppio delle spese che erano già state deliberate l’anno scorso; una parte invece è una spesa aggiuntiva e nuova.

Così pure non credo che si sia potuto, se non in piccola parte, inscrivere nel bilancio preventivo dell’esercizio scorso la somma che oggi si deve somministrare in biglietti della Banca d’Italia agli alleati. Siccome gli alleati hanno cessato di emettere le loro lire militari, in luogo di esse oggi si consegnano biglietti della Banca d’Italia. Sinora, nei mesi che sono decorsi dall’inizio di questa nuova procedura, sono circa 3 miliardi e mezzo di lire al mese che sono stati forniti agli alleati.

È una somma di quasi una quarantina di miliardi di lire. Io non oserei affermare se la spesa finale, la quale con il preventivo iniziale e con le variazioni successive potrà essere determinata, possa essere inferiore ai 700 miliardi di lire.

Non credo tuttavia che questa somma potrà essere mai effettivamente spesa. La esperienza passata ci indica che c’è molta strada fra ciò che si preventiva e ciò che si può effettivamente spendere.

L’anno scorso si erano preventivati 510 miliardi di lire e se ne sono spesi 339 miliardi; e così credo che anche questo anno un notevole scarto vi sarà fra il preventivato e la spesa.

Lo scarto deriva soprattutto da una circostanza, che si chiama il «tempo tecnico». Io ammiro lo zelo con cui il Ministro Romita prepara piani di lavori pubblici: zelo necessario per il nostro Paese, perché è giusto che i piani siano preparati, che se non sono preparati per tempo, il lavoro non potrebbe poi essere compiuto, perché mancherebbero al momento utile i fattori produttori necessari per l’attuazione dei piani stessi.

Noi tutti ci auguriamo si possano compiere tutte le opere previste, ma non bisogna dimenticare che per costruire un ponte occorrono cemento, mattoni e carbone. Per quanto riguarda il carbone, ne arriva in Italia appena mezzo milione di quintali al mese ed entro quella quantità si deve svolgere tutta l’attività economica del Paese, e quindi soltanto una parte può essere destinata ai lavori pubblici. C’è, come si vede, un limite infrangibile che si oppone. Bisogna preordinare le idee e predisporre i piani in tempo utile; ma si può affermare non sapersi quanta parte di quella somma di 700 miliardi, che io ho calcolata, possa poi essere tradotta nella realtà.

Accanto al «tempo tecnico» c’è un altro fattore che fa sì che non tutte le somme possono essere spese, e questo fattore si incarna nel nome di una persona che molti di noi consideriamo come una specie di «orco», che impedisce al Ministro del tesoro di fare quanto egli desidererebbe; e questo personaggio si chiama il ragioniere generale dello Stato.

Io ne ho conosciuto uno prima della guerra, il De Bellis, il quale, anche se quasi sempre sorridente nell’aspetto, seppe tenere in pugno per tanti anni le redini del bilancio della spesa dello Stato, impedendo che si facessero troppe spese tumultuariamente anziché fare lo stretto necessario, e quindi impedendo che si sprecassero i denari dello Stato.

Suo erede è oggi il ragioniere generale Balducci, sorridente anch’egli, il quale ha ereditato le qualità migliori del De Bellis. Rendo omaggio a lui, che paragono a un Fabius cunctator, occupato a trattenere le spese pubbliche dall’andare al di là di quanto può essere vantaggioso ed utile spendere. Se si deve fare un ponte e questo ponte costa, a costruirlo bene, un milione di lire, è perfettamente inutile e dannoso spendere per quel ponte 2 o 3 milioni per farlo in fretta e male. Tutto quello che si spende in più del necessario è sprecato e serve unicamente a fare aumentare i prezzi e a produrre il danno dell’inflazione che tutti noi paventiamo.

In virtù dei due numi tutelari del tesoro, che si chiamano il tempo tecnico e il tempo finanziario, impersonato quest’ultimo nel ragioniere generale dello Stato, le spese non giungeranno quindi di fatto alla cifra, che può sembrare spaventevole, dei 700 miliardi di lire.

Contro questa cifra di spesa quale è la cifra di entrata? I giornali hanno anche pubblicato qualche dato; ma non è tanto la somma assoluta delle entrate la quale sia importante, quanto la sua variazione nel tempo.

Erano, nel primo trimestre 1945-46, sei miliardi e 200 milioni al mese che si introitavano per quelle che si dicono entrate effettive, cioè entrate derivanti da imposte e tasse, entrate per cui lo Stato non ha più niente da restituire, entrate che diventano proprietà definitiva dello Stato.

Nel secondo trimestre la cifra sale a 10 miliardi e 800 milioni; nel terzo trimestre dell’esercizio 1945-46 le entrate salivano, sempre mensilmente, a 11 miliardi 700 milioni; nel quarto trimestre a 16 miliardi ed abbiamo letto nei giornali di questa mattina che nel mese di luglio le entrate sono state di 16 miliardi e mezzo e nel mese di agosto hanno superato 18 miliardi di lire. Credo, perciò, che le stime delle entrate effettive nell’esercizio in corso, di cui si è parlato, siano moderate. Nell’esercizio passato lo scarto, tra il primo e l’ultimo trimestre, fu all’incirca del 160 per cento; limitandoci a calcolare questo anno uno scarto fra l’ultimo trimestre dell’esercizio 1945-46 e l’ultimo trimestre dell’esercizio 1946-47 soltanto del 50 per cento, noi possiamo calcolare su una entrata la quale si aggirerà sui 240 miliardi di lire, molto di più dei 130 circa che furono le entrate tributarie dell’esercizio precedente.

Una voce. Sono stati 180 miliardi.

EINAUDI. Siamo lontani dal totale delle spese; ma siamo sulla via del ricupero. La macchina finanziaria non agisce ancora perfettamente: è ancora una macchina che va avanti a furia di rattoppi e di pezzi di spago con cui si mettono insieme le diverse parti dei congegni. Tuttavia è una macchina che ha dato risultati non scarsi. Molto migliori risultati darà questa macchina nell’esercizio in corso, nel quale potremo anche sperare di superare i 240 miliardi, se a questa macchina sarà dato un po’ di olio, se la macchina potrà svilupparsi con maggiore agilità di quanto non abbia fatto nell’esercizio scorso.

Per quanto riguarda la stima dei terreni io so, per aver partecipato a qualche seduta del Consiglio superiore del catasto, che la macchina va svolgendosi con la rapidità richiesta. Ritengo che alla fine di quest’anno solare saranno riveduti gli estimi catastali, così che il reddito su cui potranno basarsi le tassazioni nel 1947 sarà un reddito più vicino alla realtà di quanto non sia oggi. E così come accade per il catasto mi auguro possa avvenire anche per altri rami della pubblica amministrazione.

A questo riguardo, io devo manifestare il mio scetticismo inveterato, che non data da oggi, ma da tempo, quando in situazioni consimili, verificatesi nell’altro dopoguerra, si presentavano gli stessi problemi, il mio inveterato scetticismo di fronte alle invocazioni di «nuovi sistemi tributari». Mi sia consentito di dire che in materia finanziaria non c’è assolutamente più nulla da inventare; tutti gli immaginabili sistemi di imposte sono stati discussi, provati e riprovati, cosicché nulla di nuovo vi è in materia finanziaria che possa realmente portare contributi apprezzabili alla finanza dello Stato.

Quello che occorre fare soprattutto è semplicemente far funzionare la macchina fiscale; è la macchina fiscale cha deve procedere agli accertamenti con quella maggiore esattezza che sia possibile nelle cose di questo mondo, ché esattezza e precisione assolute non le avremo mai. Dal funzionamento di questa macchina ordinaria noi dobbiamo attendere le maggiori speranze per il rifiorimento delle entrate.

È inutile, dal punto di vista del rendimento, fare differenze fra imposte ordinarie ed imposte straordinarie. In questa materia della differenza tra i due tipi di imposizione due soli uomini hanno detto qualcosa degna di essere meditata da quando si è acceso il dibattito (circa 130 anni or sono) fra imposta straordinaria e imposta ordinaria, od in altri termini fra imposta straordinaria e debito pubblico. Di questi due uomini, l’uno era inglese ed è il maggiore economista che sia mai vissuto, Davide Ricardo, l’altro era un professore italiano, che sedette anche su questi banchi, Antonio De Viti De Marco. Tutti coloro che si sono illusi – forse anch’io mi sono illuso – studiando e scrivendo di aver detto qualcosa di nuovo, dobbiamo persuaderci di non aver fatto altro se non portare alcuni granellini invisibili in aggiunta a ciò che avevano detto questi due grandi, il Ricardo ed il De Viti De Marco. Riassumerei la conclusione alla quale erano arrivati quei due dicendo che la differenza tra i due metodi è puramente tecnica; che si possono ottenere i medesimi risultati, quanto a gettito per lo Stato ed a distribuzione fra le diverse classi sociali, sia con l’un sistema che con l’altro. Trattasi di avvedimenti puramente tecnici, intorno ai quali si può discutere, non dal punto di vista della sostanza politica e sociale, perché il risultato è sempre lo stesso; ma solo dal punto di vista del costo della applicazione dei due sistemi.

Quindi, dato che lo strumento dell’imposta straordinaria è ancora da costruire e pur non escludendo che lo strumento possa essere nel frattempo apparecchiato, ritengo sia meglio far sì che nell’esercizio in corso il rendimento delle imposte salga al disopra della previsione di 240 miliardi, e nell’esercizio successivo si possa arrivare ancora più in là. Il metodo migliore è quello tradizionale, di basarsi sulle imposte vigenti. Noi abbiamo già imposte che, secondo la lettera della legge, salgono ad altezze che sono uguali a quelle di qualche altro paese che ci si addita ogni giorno ad esempio. Troppo spesso si sente dire che noi dobbiamo imitare questa o quella imposta straniera. È bene a questo proposito ricordare che da noi le imposte dirette sul reddito (imposta reale, imposta complementare e imposta ordinaria sul patrimonio) sono già così alte nelle loro aliquote da assorbire proporzioni del reddito che vanno da un minimo del 20 per cento sino al 70-80 per cento e qualche volta anche al 96 per cento. Le imposte ci sono, «ma chi pon mano ad elle»? Questo è il punto essenziale: il sistema tributario esistente deve essere bene applicato. Solo abbassando le aliquote vigenti e diminuendo la spinta alla frode si potrà ottenere un gettito migliore per lo Stato, con risultati più cospicui di quelli prevedibili da qualunque ulteriore inasprimento formale delle aliquote, sicché il contribuente possa essere assoggettato ad un carico percentuale minore ed assoluto maggiore. Il gettito di 240 miliardi di lire non rappresenta molto sul reddito nazionale. Occorre che i 240 miliardi aumentino in modo che il sacrificio dei contribuenti giunga all’altezza richiesta dalle esigenze della pubblica finanza, pur lasciando ai contribuenti medesimi incentivo sufficiente a lavorare ed a risparmiare.

Quale è la percentuale del peso tributario sul reddito nazionale? Qui non siamo più nel campo delle cifre verosimili che si possono ricostruire leggendo i documenti pubblici. Siamo nel campo delle valutazioni ipotetiche. Gli statistici, i quali sono i professionisti della materia, non sono tra di loro sempre d’accordo. Ciò che si sa, ciò che si sente che possa essere considerato come sicuro è che, dopo essere giunti sino ad un livello assai basso di reddito nazionale, ossia di somma totale dei redditi di tutti i cittadini italiani, dopo aver toccato l’infimo abisso, noi stiamo risalendo. All’incirca si può dire che, se partiamo da un reddito nazionale calcolato avendo per base il 100 del 1938, noi eravamo discesi nel 1944 a un livello che poteva essere uguale a 70. Dico questa percentuale con molta esitazione e senza giurare affatto su di essa, perché si tratta di calcoli che, pur essendo compiuti da persone peritissime, restano sempre calcoli ipotetici più o meno fondati. Nel 1945 eravamo discesi ancor più in basso. Il livello del reddito nazionale oscillava, a seconda degli apprezzamenti, fra 50 e 60 per cento del reddito quale era nel 1938. Si può ritenere che nel 1946 si stia risalendo.

Apprezzamenti, valutazioni approssimative, fatti diversi, ci fanno presumere che il reddito nazionale tenda di nuovo ad essere, nel 1946, quello che era nel 1944, ossia si trovi all’incirca nuovamente al livello 70. Siamo ancora lontani dal livello 100 del 1938, ma abbiamo già superato il punto più basso, che era quello 50-60 del 1945. Se il reddito nazionale potrà ritornare a quello che era nel 1938, le entrate potranno essere molto superiori a 240 miliardi, potrebbero arrivare anche a 500-600 miliardi.

Nel 1945, al livello percentuale fra 50 e 60 per cento del reddito del 1938, corrispondeva un reddito che era variamente calcolato in circa 1550-1600 miliardi di lire. Oggi, se è vero, come io credo, che il reddito sta crescendo, e possa essere arrivato al livello del 70 per cento, quel reddito nazionale che era l’anno scorso di 1.600 miliardi di lire, potrebbe giungere anche 1.800-2000 miliardi di lire; e se noi ritornassimo al livello 100 del 1938, il reddito nazionale potrebbe essere calcolato 3000 miliardi di lire. Ed allora molte cose che oggi è difficile fare (certamente meno difficile di quanto non fosse nell’esercizio precedente, ma indubbiamente ancora molto difficile), potrebbero invece essere fatte.

In questo quadro, di spese, di entrate e di reddito nazionale, che cosa è avvenuto, in passato nella circolazione cartacea?

In altra sede mi è già accaduto di esporre alcune cifre illuminanti che erano state calcolate dall’ufficio studi dell’Istituto di emissione.

Dal principio della guerra fino al 1945 la responsabilità dell’aumento della circolazione va attribuita per il 61,2 per cento ai tedeschi ed ai neo-fascisti, vale a dire: se la quantità dei biglietti in circolazione dall’inizio della guerra fino alla fine del 1945 era aumentata, così come aumentò, la responsabilità cadeva per il 61,2 per cento sui tedeschi e sui neo-fascisti, e per il 37,8 per cento sugli alleati. Soltanto per l’1 per cento quella responsabilità spettava al Governo legittimo. Il fatto verificatosi durante gli anni recenti, ci dà una speranza, la speranza che se in Italia si governerà bene, se in Italia si farà tutto ciò che occorre per promuovere la formazione del reddito, la circolazione per colpa del Governo non aumenterà in avvenire, così come in passato non è aumentata se non nella misura minima dell’l per cento.

Che il Ministro del tesoro non abbia chiesto nulla alla Banca d’Italia è verità indiscutibile. L’ultima lettera che è stata ricevuta dall’Istituto di emissione per ottenere una anticipazione straordinaria dei biglietti, risale al 12 marzo 1945. Questo è stato l’ultimo giorno nel quale il tesoro ha chiesto anticipazioni alla Banca d’Italia! Ne aveva ben donde il compianto Soleri in quel giorno di chiedere anticipazioni alla Banca d’Italia! Ricordiamo tutti che in quei giorni, prima della liberazione, il Governo del Sud aveva redditi che non giungevano certo ai 18 miliardi, a cui si giunse nel mese di agosto ultimo! Le entrate di allora oscillavano fra 1 miliardo e un miliardo e mezzo al mese ed il Governo del Sud non doveva soltanto sopportare le spese sue, ma aveva da far fronte alle spese di tutta Italia, alle spese di liberazione, doveva sovvenzionare i partigiani del Nord.

Era necessario ed era umano che il Ministro del tesoro di quel tempo ricorresse all’arma straordinaria della richiesta di anticipazioni da parte dell’Istituto di emissione. Ma quella fu l’ultima volta. Dopo di allora non una lettera in quel senso è stata ricevuta. Non vorrei che da questa dichiarazione si deducesse una conseguenza non logica, ossia che la quantità dei biglietti in circolazione non abbia per altro subito variazioni. È evidente che la vita del paese non può rimanere fissa, non può rimanere congelata in quella che era in un determinato momento. È evidente che la quantità di biglietti in circolazione può aumentare e diminuire. La cosa essenziale è che non aumenti per via di quelle tali lettere inviate dal tesoro all’Istituto di emissione per richiedere anticipazioni straordinarie.

Siccome di questo si è già parlato e qualche altro oratore ne ha fatto cenno, dirò anch’io che la circolazione negli ultimi tempi è aumentata. Dal 31 dicembre 1945, quando essa era di 380,1 miliardi di lire, comprese le lire militari alleate, la circolazione è aumentata al 31 luglio 1946 a 407,5 miliardi di lire e al 20 agosto, secondo l’ultima situazione decadale, essa è aumentata a 412,6 miliardi di lire. Dalla fine del 1945 ad oggi, quindi, si può ritenere che la circolazione sia aumentata di 32,5 miliardi di lire. Le spiegazioni di questo fatto sarebbero molteplici e per dare delle spiegazioni complete sarebbe necessario sviluppare e spiegare quei grandi fogli nei quali sono scritte le partite attive e passive dell’Istituto di emissione: ché non esiste nessuna cifra scritta da una parte la quale non determini una variazione corrispondente nell’altra parte di quei fogli. Una sola cosa deve certamente esistere in un qualunque bilancio ed è che i totali debbono pareggiare; e quindi se muta una cifra da una parte, mutano una o più cifre dall’altra parte del bilancio. Bilancio è parola che deriva appunto da bilanciare.

Ricorderò soltanto alcuni dei fatti dai quali sembra si possa dedurre una spiegazione in parte confortante dell’aumento.

Una ragione è stata quella dei prelievi degli alleati. Gli alleati dal 12 marzo al 20 agosto di questo anno hanno chiesto all’Istituto di emissione (ne avevano diritto in virtù delle clausole di armistizio e delle convenzioni addizionali che avevano posto fine alla emissione delle am-lire) somministrazioni di biglietti per 18 miliardi e 822 milioni di lire. Non tutta questa somma è a fondo perduto, perché sapete che contro quella parte di queste somministrazioni, che corrisponde alle paghe dei soldati americani, si hanno accreditamenti in dollari negli Stati Uniti a favore del tesoro italiano. Questa spesa, questo aumento della circolazione a cui pure non ci possiamo sottrarre, ha per effetto di costituire dei crediti, non in tutto, ma in parte (sarà del 40 o del 30 per cento a seconda della proporzione che le paghe degli alleati hanno sul totale della spesa), di costituire dei crediti in dollari negli Stati Uniti a favore del tesoro italiano. Il che vuol dire che il popolo italiano, pagando qualche cosa di più per il prezzo cresciuto delle merci che gli alleati comprano con quei biglietti che noi loro forniamo – e gli alleati comprando merci, influiscono, se anche in una proporzione piccola, all’aumento dei prezzi – e soggiacendo all’onere così cresciuto, si procura una parte dei mezzi che potranno servire l’anno venturo per poter provvedere a comprare quel carbone e quel grano che non ci saranno più forniti per altra via. Non esisterà più invero l’U.N.R.R.A. e questa non ci fornirà più gratuitamente quei tanti beni che in quest’anno ancora ci fornisce. Trattasi di un sacrificio e di una rinunzia attuale, compiuta allo scopo di ottenere un vantaggio futuro, dandoci la possibilità di acquistare merci negli Stati Uniti.

La seconda causa di aumento di circolazione è data dagli ammassi del grano. Dal 20 giugno al 20 agosto vi fu un aumento negli sconti dell’Istituto di emissione per risconto di ammassi di grano di 13 miliardi e 691 milioni di lire. Se ciò ha dato luogo ad aumento di circolazione, trattasi di una variazione stagionale. Si comincia a comprare il grano; questo si trasforma in farina ed in pane; ma coloro che compreranno il pane o che ne dovranno rimborsare il costo ai consorzi agrari faranno col tempo risalire indietro i biglietti alle casse dell’Istituto di emissione.

Finalmente, c’è un’altra partita grossa, la quale può spiegare l’aumento della circolazione: una partita di 16 miliardi e 988 milioni, la quale consiste in somministrazioni agli esportatori italiani di merci. Le esportazioni italiane in quest’anno, e principalmente negli ultimi tempi, sono cresciute. Non so quale sia il contributo, perché è impossibile determinare la influenza di ogni singolo fatto in ogni data conseguenza. Moltissimi fattori influiscono sempre sul verificarsi di ogni singolo fatto. Uno dei fattori dell’incremento delle esportazioni è stato l’avere concesso agli esportatori il 50 per cento di valuta libera, cosicché essi possono realizzarla a un prezzo migliore del cambio ufficiale pagato dall’Ufficio cambi. Limitandoci a quella parte, che è pagata dallo Stato in varie maniere agli esportatori in lire prima del realizzo delle divise cedute dagli esportatori medesimi, noi constatiamo che gli esportatori hanno chiesto all’Istituto di emissione, attraverso l’Ufficio cambi, una somma di circa 17 miliardi di lire. Questo è stato uno dei fattori che hanno contribuito all’aumento totale della circolazione, aumento tuttavia minore della somma dei fattori sopra indicati. Cosa vuol dire il fatto, che si sono anticipati 17 miliardi di lire, per pagare gli esportatori italiani, i quali esportano arance, limoni, tessuti, prodotti ortofrutticoli all’estero? Vuol dire che lo Stato, attraverso i suoi organi, che si chiamano Ufficio cambi od Istituto di emissione, ha acquistato, pagandone il controvalore in lire, dollari, sterline, franchi svizzeri, belgi e francesi, per un ammontare di 17 miliardi di lire. Noi abbiamo aumentato – eventualmente soltanto in parte, perché la somma delle cifre ora ricordate – (18,8 + 13,7 + 17) fa 49,5 e non 32,5, – la circolazione. Abbiamo però acquistato, emettendo biglietti, crediti all’estero. Abbiamo ripetuto in altro modo l’operazione, che in scala più vasta, in parte si compie nel dare biglietti agli alleati. Come dare biglietti agli alleati significa passaggio a credito del tesoro d’una somma in dollari negli Stati Uniti, così pagare lire agli esportatori vuol dire che questi cedono all’Ufficio cambi, ed in definitiva, al tesoro, le corrispondenti divise in dollari, sterline, franchi belgi e francesi.

MARINARO. Ed hanno avuto la possibilità di aumentare la borsa nera delle valute.

EINAUDI. Questo non c’entra; la borsa nera si alimenta per altra via, non con i dollari che sono ceduti allo Stato.

Lo Stato che ha acquistato il controvalore dei 17 miliardi, con essi potrà, l’anno venturo comprare parte del carbone e del grano, che sarà necessario comprare e che noi non saremo più in grado di ottenere attraverso i canali dell’U.N.R.R.A. Sappiamo che con la fine dell’esercizio in corso queste forniture dell’U.N.R.R.A. verranno a cessare. La operazione deve perciò essere considerata non solo prudenziale, ma doverosa; è consistita nel costituire una riserva, allo scopo di impedire che l’anno venturo non ci sia più alcun mezzo per importare carbone e grano. Aggiungerò che le anticipazioni in lire agli esportatori sono state il mezzo per cui gli esportatori di prodotti ortofrutticoli e di altri prodotti hanno potuto procurarsi il denaro per pagare gli operai, per rifornirsi di materie prime e per rimettere in moto la macchina della produzione, che è la sola fonte da cui possono venire le imposte, destinate a loro volta a riportare in equilibrio il bilancio.

Mentre tutto questo accadeva, ossia mentre coi sacrifici attuali si preordinavano le vie per ottenere risultati che altrimenti non si otterrebbero a brevissima scadenza (non bisogna dimenticare che il 1947 batte alle porte ed è necessario aver preordinato qualcosa per non trovarci sprovvisti di mezzi di acquisto all’estero) qualche altro fatto si verificava, o meglio si verificava il primo inizio di un fatto che può sembrare di scarsa importanza, ma che invece ha già grande importanza ora, ed una ancora più grande ne potrà avere in avvenire.

L’onorevole Pella ha ricordato l’enorme scarto fra l’ammontare della circolazione in biglietti e l’ammontare di quella che si chiama nel linguaggio bancario massa fiduciaria, ed è costituita dalla somma di tutti i depositi sia presso le banche, sia presso le casse di risparmio ordinarie come presso le casse di risparmio postali, depositi a risparmio, depositi in conto corrente, depositi per corrispondenza. Egli ha osservato – e mi ha fatto l’onore di dire che aveva ripreso l’osservazione dalla relazione annua dell’Istituto di emissione – che durante il tempo di guerra era sorto uno scarto pauroso fra l’ammontare della circolazione e l’ammontare dei depositi a risparmio. L’ammontare del medio circolante è aumentato 18 volte, mentre quello dei depositi è aumentato – ricordo la cifra più recente del maggio di quest’anno – solo di 7,2 volte.

Che cosa vuol dire ciò?

Il significato della sconcordanza tra l’aumento nella quantità dei biglietti circolanti in paese e l’aumento del risparmio depositato presso tutte le specie di banche e casse di risparmio è chiaro. I prezzi in media sono aumentati in una certa proporzione, notevolmente più alta della quantità dei biglietti in circolazione. Infatti i biglietti sono aumentati dal 1938 in qua 18 volte in quantità, mentre i prezzi che si poteva ritenere fossero aumentati da 22 a 25 volte alla fine del 1945, ora si calcola da taluno che siano aumentati fino 30 volte. La cifra si riferisce soprattutto alla alimentazione e la media dell’aumento forse è più bassa; certo però superiore a 18. Alcuni prezzi sono aumentati di più, altri di meno; ma nell’insieme possiamo ammettere siano aumentati di 30 volte. Ed era inevitabile che accadesse questo. È un fatto perfettamente conforme alla logica, in quanto le variazioni dei prezzi sono il risultato di tanti fattori. Per lo meno sono il risultato da una parte della quantità dei biglietti che gli italiani offrono per avere le merci, e dall’altra della quantità delle merci c dei servizi che si offrono in corrispondenza di questi biglietti.

Ora abbiamo visto che, mentre la circolazione era aumentata 18 volte, il reddito nazionale dal 1938 ad oggi era diminuito almeno di circa il 30 per cento. Essere il reddito nazionale diminuito del 30 per cento vuol dire che la quantità dei beni e dei servizi prodotti correntemente di giorno in giorno, dei beni e dei servizi cioè che si offrono contro i biglietti, è minore di prima; da una parte vediamo che i biglietti crescono e dall’altra parte vediamo che la quantità dei beni corrispondenti diminuisce. Cresce cioè 18 volte l’una quantità e diminuisce del 30 per cento l’altra. Quale meraviglia che i prezzi crescano tanto di più? Che cosa ci si poteva aspettare al di fuori di un aumento dei prezzi maggiore di quello che non sia stato l’aumento della circolazione? Sarà di 10, di 20 volte, di 25 volte, sarà di 30 volte a seconda della natura dei beni, ma è evidente che in media il livello dei prezzi doveva fatalmente aumentare più di quanto non aumentasse la circolazione. Non c’è altro rimedio, all’infuori delle parole, all’infuori dei discorsi che non servono a niente, non c’è altro rimedio per far sì che l’aumento dei prezzi sia in corrispondenza con l’aumento della circolazione all’infuori di un aumento nella produzione dei beni e dei servizi. Se si potesse far sì che la circolazione restasse quale è e che il reddito nazionale tornasse ad essere quello che era nel 1938, potrebbe darsi che il livello dei prezzi ridiscendesse al disotto del livello attuale, ma allora soltanto. Invece di 30 volte si avrebbe un aumento di 16 volte, di 20 volte o qualche cosa di simile.

Mentre ciò accadeva, accadeva anche che, inevitabilmente, il capitale circolante del paese, di cui abbisognano tutti i produttori, agricoltori, industriali, commercianti, tutti coloro cioè che producono qualche cosa, il capitale circolante si volatilizzava in pari tempo. L’indice della consistenza del capitale circolante, indice abbastanza fedele, è dato dalla massa fiduciaria, dalla massa dei depositi esistenti nelle banche, nelle Casse di risparmio e nelle Casse postali. Esso non è tutto, ma è una parte significativa del capitale circolante del paese, parte che possiamo appurare variabile in corrispondenza delle variazioni del tutto. Orbene gli industriali di quanto capitale circolante hanno bisogno se i prezzi in media crescono 30 volte? Se essi devono comperare le loro materie prime aumentate di prezzo 30 volte, se devono comperare il carbon fossile a prezzi cresciuti, se devono pagare i salari aumentati, essi hanno bisogno corrispondentemente di un capitate circolante maggiore. Se noi supponiamo un aumento generale dei prezzi di 25 o di 30 volte, il capitale circolante teoricamente avrebbe dovuto aumentare anch’esso nella medesima proporzione di 25 o di 30 volte. Invece noi sappiamo che è aumentato soltanto di sette volte. Ecco una delle spiegazioni di quel paradosso che si verifica sempre in tutti i paesi e in tutte le epoche di inflazione monetaria, di aumento della circolazione. In quei momenti tutti gli industriali, tutti gli agricoltori, tutti i commercianti si lamentano della scarsità dei mezzi di pagamento. La lagnanza c’è sempre stata, non solo, in Italia, ma in qualunque paese nel quale si è verificato il fenomeno inflatorio. Più aumenta la quantità dei biglietti in circolazione e più aumenta la lagnanza da parte degli industriali e dei produttori di essere scarsi di mezzi, di non avere danaro per fare andare avanti le loro macchine produttive. Ciò accade inquantoché il risparmio lentamente, molto lentamente tiene dietro all’aumento della circolazione e invece di aumentare, come avrebbe dovuto per almeno 18 volte, il risparmio è aumentato soltanto di 7 volte.

Il risparmio nazionale, come noi lo vediamo scritto sui libri delle banche, delle Casse di risparmio e delle Casse postali, oggi è all’incirca di 618 miliardi di lire. Ciò non vuol dire che ci siano da qualche parte riposti danari in quella misura.

Nessuno di noi partecipa all’ingenuità di quel contadino del mio paese il quale, dopo aver depositato 100 mila lire in una Cassa di risparmio, un bel giorno andò e chiese la restituzione delle 100 mila lire; e quando le ebbe avute, ed ebbe contati uno ad uno i suoi biglietti da mille, tornò a restituirli nello stesso momento allo stesso sportello. Era soddisfatto, in quanto aveva visto che i suoi danari c’erano. (Ilarità). C’era la solita riserva che le banche debbono tenere in cassa. Sarebbe un guaio, un disastro enorme se in realtà i danari depositati presso le banche, le Casse di risparmio, ecc., esistessero materialmente ancora. Esiste una piccolissima quantità, quella minima frazione, che l’esperienza ha indicato ad ogni singolo direttore di banca o di Cassa di risparmio, essere necessaria per far fronte alle domande di rimborso che si verificano di giorno in giorno; non di più. La quasi totalità è impiegata. I 618 miliardi di lire di depositi bancari non rappresentano altro che i beni circolanti, non rappresentano altro se non quel fondo di magazzino, il quale è necessario che ci sia ogni momento affinché la macchina produttiva possa funzionare: materie prime, combustibili, fondi di salario devono essere anticipati dalle banche ai produttori, affinché la macchina produttiva funzioni. I produttori debbono certamente disporre anche di mezzi proprî; ma non possono fare a meno di ricorrere all’uopo anche al credito.

Il male di cui noi soffriamo non è che ci sia troppo risparmio impiegato; il male è che oggi i risparmi sono cresciuti di meno di quanto non sia cresciuto il fabbisogno del risparmio, determinato dal moltiplicarsi dei biglietti e dal crescere dei prezzi, e dal crescere quindi del fabbisogno di capitale circolante da parte dei datori di lavoro, industriali, commercianti e agricoltori. Noi abbiamo bisogno che il risparmio cresca, e cresca con una velocità notevole, se vogliamo che la produzione torni a svilupparsi. Condizione necessaria affinché il reddito nazionale torni ad essere quello che era nel 1938 e che le condizioni quindi non solo dei datori di lavoro, ma anche dei lavoratori – e massimamente dei lavoratori – tornino ad essere per lo meno quelle che erano nel 1938 e si avviino ad essere sempre migliori in avvenire, è che cresca il risparmio, che i 600 miliardi, permanendo invariati gli altri fattori di equilibrio, diventino almeno 1600 miliardi. Finché non saremo giunti a questo livello, non potremo dire che ci sia troppo capitale circolante, troppo capitale impiegato: dovremo sempre dire che ce n’è troppo poco.

Su questa via ci siamo già incamminati; un piccolo avviamento, ma tuttavia incoraggiante. Nel 1938 il rapporto esistente tra la massa totale dei depositi e la quantità della circolazione era da 3.83 a uno: contro un biglietto da una lira esistevano depositi per 3.83 lire. Alla fine del 1944 eravamo arrivati al punto più basso e preoccupante: contro una lira di biglietti, la massa dei depositi giungeva soltanto a 0.98; non arrivava cioè neppure alla lira: eravamo paurosamente al disotto di quello che era necessario esistesse come capitale circolante. Nel maggio 1946 – sono l’ultime cifre di cui dispongo – contro una lira di biglietti siamo già risaliti a 1.55. È ancora poco in confronto al 3.83. del 1938; ma è già qualche cosa di più di fronte all’infimo livello del 0.98 contro una lira, cui eravamo arrivati alla fine del 1946.

Mi avvicino così alla fine di queste considerazioni, che avevano lo scopo di porre alcune condizioni oggettive necessarie affinché la situazione economica presente si conservi, specialmente per quanto riguarda il potere di acquisto della moneta, e migliori anzi ulteriormente.

Noi abbiamo necessità che la quantità del capitale circolante e del risparmio aumenti. Ma si tratta di vedere che cosa s’intende per risparmio.

L’onorevole La Malfa ha ricordato, nel suo discorso, che nell’intervallo fra le due guerre mondiali la scienza economica e monetaria ha fatto grandissimi progressi, ed è vero: la scienza economica e monetaria ha fatto progressi che possono essere paragonati per la loro importanza soltanto ai progressi che si erano compiuti dopo le guerre napoleoniche. Le guerre sono sempre il tempo nel quale l’attenzione degli economisti si rivolge ai fatti spettacolosi che sono le conseguenze della guerra. Essi sono tratti a meditare a fondo sui fatti che accadono loro dintorno. Nascono così quelle che si chiamano teorie. Dopo le guerre napoleoniche si sono avute infatti le più grandi scoperte nel campo economico; ed oggi nuovamente la scienza economica ha compiuto dei notevolissimi progressi. Il nome più noto nel mondo è quello dell’economista inglese Lord Keynes.

Sulle varie scoperte gli economisti hanno scritto in proposito molti libri difficili, complicati, che non molti hanno letto e di cui il sugo non è sempre facile a trarsi.

Una fra queste scoperte non è tanto una scoperta, quanto una riscoperta di qualcosa che era stata già detta nel periodo successivo alla guerra napoleonica. Un modesto amico di Davide Ricardo, un uomo che aveva familiarità con tutti i cultori della scienza (credo fosse un semplice impiegato di banca, ma era certo un osservatore acuto delle cifre che gli capitavano sotto gli occhi), un uomo che non lasciò un grande patrimonio scientifico, ma solo pochissime lettere, tre o quattro, che egli indirizzò ai suoi amici, ai quali evidentemente nelle conversazioni aveva esposto i risultati delle sue osservazioni. Quelle poche lettere erano andate disperse. Per poterle raccogliere ho dovuto durare una fatica di anni. Adesso sono state rimesse in valore, quando nessuno se ne ricordava più. Queste lettere del Pennington, rilette e riscoperte dagli economisti fra le due grandi guerre, hanno costituito la base di trattazioni importanti. Si trattava di una cosa molto semplice, di ciò che comunemente si suol dire «un uovo di Colombo».

Quando pensiamo al risparmiatore, istintivamente a che cosa pensiamo? Io stesso, quando ero ragazzo e prendevo qualche buon voto a scuola, ricevevo da papà e mamma cinque lire, e siccome l’abitudine di casa era di non comprare cioccolatini, noi le depositavamo sul libretto della cassa di risparmio postale, così da potere un po’ per volta lentamente giungere alla cifra di 100 lire, la cifra del biglietto rosso, che allora aveva in ogni famiglia un significato notevole.’

Molti di noi, quando pensiamo al risparmio, pensiamo ad un risparmio che nasce in questa forma. C’è un risparmiatore che guadagna una certa somma, 100, e non la spende tutta; spende 95 e le altre 5 lire le porta alla banca o alla cassa di risparmio.

Così si ritiene per lo più si formino quei 618 miliardi di lire che costituiscono la massa fiduciaria o fondo di risparmio nazionale, tutto impiegato come capitale circolante del paese.

Le cose stanno ancora così, in gran parte, nel nostro paese; ma non stanno nemmeno del tutto così. Esiste un’altra origine di quello che si chiama risparmio; un’origine un po’ paradossale.

Pennington, dai libri di banca di 100 anni fa, aveva osservato che il risparmio nasce da un altro atto. Non è un risparmiatore, una brava persona, che parte da casa e va alla banca a depositare i suoi risparmi. Questo è il modo comune, corrente, e per oggi ancora dominante, del risparmio in Italia; ma non più dominante in altri paesi. Se in Italia costituirà ancora i due terzi e forse più di quei 618 miliardi, in altri paesi, che sono considerati più progrediti, Inghilterra e Stati Uniti, la proporzione è per lo meno inversa. Il risparmio che si forma nella maniera tradizionale è la parte minore della massa dei depositi bancari e dei depositi a risparmio. L’altra parte, la parte maggiore – quella che tende a divenire maggiore anche da noi – si forma in tutt’altra maniera.

C’è un dirigente di una banca il quale ha fiducia in un imprenditore, in un industriale, in un commerciante, lo conosce come persona proba, come persona che in passato ha sempre fatto onore ai suoi impegni: questa è la circostanza essenziale che si cerca in coloro in cui i dirigenti della banca hanno fiducia. Il cliente che ha dimostrato di godere questa fiducia chiede, per esempio, una apertura di credito per una cifra di un milione di lire. Il banchiere gli dà una lettera di affidamento; gli scrive una lettera in cui semplicemente gli dice: voi avete presso la mia banca aperto un credito di un milione di lire. Il fatto primo nella formazione dei depositi è quello del banchiere che ha fiducia nel suo cliente e gli scrive una lettera. In conseguenza di questo fatto primo, accadono dei fatti di scritturazione. Può darsi che in alcuni paesi, quello stesso banchiere che ha scritto la lettera di affidamento, nel tempo stesso scriva sui suoi libri a debito del cliente un milione di lire e a credito un milione di lire: che egli abbia aperto un credito di un milione di lire può essere tradotto così nelle scritture della banca. Ecco nato senz’altro un deposito di un milione. Il deposito non è nato da un fatto precedente: dal fatto di colui il quale abbia portato il denaro alla banca. È nato dal fatto primo di un banchiere che ha dato affidamento ad un cliente: da quell’atto nasce un deposito presso la banca.

E se anche da noi non si usa sempre effettuare subito queste scritturazioni immediatamente; le scritture nascono necessariamente in un secondo momento, in quanto il cliente che ha avuto l’affidamento trae assegni sulla banca per 100 mila lire, prima, poi per 50 mila, finché esaurisce tutto il milione, il cui credito è stato aperto a suo nome. Coloro che ricevono gli assegni a proprio favore, cosa ne fanno? Li portano o li inviano alla propria banca perché l’ammontare ne sia scritto a loro credito. Nasce così il deposito. La banca scrive a credito di colui che ha ricevuto l’assegno la corrispondente cifra a deposito. Questa seconda specie di deposito – che in Italia, come ho detto, ritengo non superi un terzo della massa totale dei risparmi – origina da un atto di fiducia. È un atto dello spirito umano che dà origine a queste cifre che noi chiamiamo risparmio, deposito. In realtà non si tratta di entità materiali, di somme che effettivamente una determinata persona abbia portato in deposito ad una banca; si tratta di affidamenti, di atti di fede che una determinata persona ha compiuto verso un’altra persona e che dànno modo a quest’ultima di potere effettuare determinate operazioni.

Certamente l’atto di fede non può essere compiuto da tutti e verso tutti, ma soltanto in favore di quelle persone che meritano la fiducia e che hanno dimostrato con la loro condotta, in maniera inoppugnabile, di aver sempre adempiuto ai propri impegni. L’atto di fede implica anche delle condizioni in chi lo presta; deve cioè essere una persona la quale deve scegliere, e saper scegliere, fra tutti coloro che a lui si rivolgono per avere un affidamento.

Questo meccanismo economico si sviluppa da noi per ora in una proporzione che può essere considerata ancora non rilevante in confronto a quella di altri paesi più progrediti.

In questi ultimi paesi il deposito nato nella maniera normale tradizionale, rappresenta la minima parte dei depositi. In questi paesi, detti capitalistici, che si trovano al sommo di questa erta della creazione del reddito, l’elemento fondamentale del credito, elemento essenziale della produzione, non è più qualcosa di materiale; è un atto di fede di una certa persona verso un’altra.

Certamente si possono commettere errori nel compiere atti di fede, e gli errori debbono avere una sanzione, se si vuole che il meccanismo funzioni. Esistono differenze tra un paese e l’altro circa il modo di colpire con una sanzione coloro che ripongono malamente la loro fiducia in coloro che non la meritano. In alcuni paesi – che non qualificherò con aggettivi, perché mi voglio astenere da qualsiasi argomentazione che abbia carattere politico e sociale – la sanzione si chiama fallimento: è il modo più mite di agire contro coloro che compiono malamente atti di fede. In altri paesi la sanzione può giungere anche al carcere o alla fucilazione. Sono metodi diversi di esercitare una sanzione punitiva contro coloro che sbagliano. Gli atti di fede non si compiono infatti soltanto nei paesi capitalistici; in qualsiasi regime sociale ed economico la massa maggiore delle operazioni economiche finisce per svolgersi attraverso tipi di atti che hanno carattere immateriale. Sia in regime di mercato libero, come collettivistico ci deve pur esser sempre qualcuno, posto alla testa delle organizzazioni che concedono il credito, che compia atti di fede. Negli uni la sanzione sarà il fallimento, negli altri la fucilazione, ma in ogni caso la sanzione contro l’errore deve esistere. Gli atti di fede si debbono compiere, perché, se aspettassimo la rinascita nazionale soltanto dagli atti di risparmio faticosamente accumulato – sono meritevoli anche questi, anzi sono meritevolissimi, ma non sono sufficienti – se la aspettassimo soltanto dagli atti di risparmio di una quota parte dei redditi recati alle banche, il rifiorimento, la ricostruzione, sarebbero troppo lenti.

Se la ricostruzione deve avvenire con un moto abbastanza rapido, è necessario che gli atti di fede da parte dei dirigenti il credito si moltiplichino. Ma perché gli atti di fede, di credito, si moltiplichino, è necessario porre le condizioni affinché essi possano compiersi. Non nascono gli atti di credito se non esiste la fiducia nell’avvenire. Coloro i quali devono mettere le condizioni siamo noi che sediamo su questi banchi, sono gli uomini che siedono al banco del Governo, affinché nel mondo economico si possano compiere quelli atti di fede, senza di cui è impossibile che l’economia di un paese possa risollevarsi.

A questo punto è chiusa la mia esposizione puramente tecnica; e, come le mie ultime parole hanno indicato, si dovrebbe passare al campo politico. Ubbidendo al mio proposito iniziale, mi fermo e mi limito a concludere.

Le conclusioni possono essere le seguenti. Innanzi tutto noi abbiamo un reddito nazionale il quale è ancora tenue, ma ha già superato i limiti minimi che potevano essere valutati in 1500-1600 miliardi annui e sta avvicinandosi ai 2000 miliardi di lire. È necessario che l’incremento continui, affinché lo Stato possa prelevare su una massa crescente di reddito una proporzione crescente di imposte per sovvenire ai bisogni pubblici. Se il reddito nazionale è basso, è inutile immaginare che lo Stato possa prelevare forti percentuali.

Occorre che vi sia un minimo di vita per i cittadini. Soltanto al di sopra di questo minimo può cominciare il prelievo da parte dello Stato. L’incremento del reddito nazionale è condizione e nel tempo stesso accompagnamento dell’incremento delle spese pubbliche. L’incremento del reddito nazionale deve essere destinato sia dallo Stato, sia dai privati non soltanto alla produzione di beni di consumo, ma, in una proporzione oggi più notevole dei tempi normali, alla produzione di quelli che si ha l’abitudine di chiamare beni strumentali, dei beni della ricostruzione. In un periodo come quello nel quale viviamo, è necessario che gli uomini consumino il meno che possono, non allo scopo di produrre di meno, ma allo scopo di produrre quei beni-capitali i quali sono la condizione necessaria affinché il reddito nazionale possa poi crescere. In sostanza, il significato economico di quelli che si chiamano piani quinquennali o settennali, in Russia o in altri paesi, consiste semplicemente nel chiamare gli uomini a fare delle rinunzie, a spendere una parte relativamente minore di ciò che si produce per soddisfare i bisogni presenti, affinché si possa ricostituire il capitale del paese. E quando parlo del capitale del paese, intendo dare una importanza uguale al capitale materiale ed a quello che si chiama nel nostro linguaggio economico capitale personale. Non è soltanto necessario ricostruire quel 20 per cento dei beni materiali che sono stati distrutti dalla guerra. Non è necessario soltanto ricostruire strade, porti, ferrovie e case. È forse più necessario ricostituire la salute fisica, intellettuale c morale degli uomini che vivono nel nostro paese. È necessaria la ricostruzione di ospedali, la ricostruzione di scuole. L’attrezzatura degli ospedali e delle scuole è un’impresa altrettanto necessaria per l’incremento del reddito nazionale come la ricostruzione delle ferrovie, dei ponti e delle strade.

Io ho ascoltalo con commozione le parole di alcuni giorni or sono dell’onorevole collega Carmagnola. Ben a ragione egli ha insistito sulla necessità di ricostituire il capitale che gli economisti chiamano capitale personale, capitale costituito dagli uomini viventi. Noi abbiamo bisogno che gli uomini viventi siano più sani, siano più istruiti, possano frequentare scuole luminose e sane. Noi vogliamo che la scuola sia accessibile a tutti. Le somme impiegate nella ricostituzione del capitale personale saranno altrettanto produttive di quelle che vengono impiegate nella ricostituzione del capitale materiale, di quel capitale che può tradursi in lire, soldi e denari.

Gli uomini, oggi, abolita la schiavitù, non si valutano più in lire e centesimi. Ma, sebbene non si tenga conto degli uomini nella valutazione della fortuna nazionale, sempre gli uomini hanno costituito la parte principale della fortuna di ogni paese.

Un’ultima avvertenza. Qualunque siano le nostre aspirazioni al bene, giova riconoscere che il nostro reddito, chiuso entro quelle cifre che ho indicato, e che hanno una significazione soltanto di indici dei beni che si producono, e dei servizi che si scambiano, è tuttavia troppo basso per poter rapidamente, in un termine di anni non troppo lungo, riuscire a quella esaltazione della ricchezza nazionale, a quella esaltazione del reddito che è condizione indispensabile affinché il tenore di vita di tutti gli uomini possa innalzarsi. Noi non possiamo far ciò con le nostre sole forze. È necessario anche l’aiuto straniero. In questi anni terribili che stanno dinanzi a noi, del 1946, 1947 e anche del 1948, è necessario che venga a noi l’aiuto straniero, che ci siano concessi non più in dono, com’è stato fatto nell’anno in corso, ma a prestito, i beni necessari allo scopo di poter integrare l’opera nostra di ricostruzione del paese.

Oggi lo straniero guarda a noi con una certa diffidenza. Ma io sono sicuro che se sapremo dar prova di volere sul serio attuare questo piano di sacrifici e di lavoro, l’attuale condizione di cose nella quale noi chiediamo e gli altri sono riluttanti a dare, si capovolgerà. Sono sicuro che se sapremo dimostrare di produrre e risparmiare, non saremo più noi a chiedere, ma bensì gli altri verranno a noi. Allora saremo noi a mettere le condizioni per l’accettazione delle offerte che ci saranno fatte. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Come al solito, sarò breve. Avrei anche rinunziato alla parola se la mia coscienza non mi avesse spinto a prospettare il problema dell’ora in un campo alquanto trascurato dai precedenti oratori.

Ho ascoltato discorsi di alto interesse sui problemi della ricostruzione materiale, ma non ho inteso parlare del problema che, a mio parere, è alla base del nostro risorgimento nazionale: quello psicologico e morale.

Come sempre avviene dopo una guerra che richiede il massimo sforzo e il massimo dei sacrifizi a tutti i cittadini, nella quale per ovvie cause le manifestazioni più pure, più alte del sacrifizio e dell’eroismo si intrecciano alle più volgari passioni di lucro e di egoismo, si determina un disordine morale, uno stato di rilassamento che trova spiegazione nello sforzo compiuto. Ciò avviene sempre dopo una guerra, anche quando si concluda con la vittoria delle armi. È facile comprendere cosa debba avvenire quando la sorte delle armi sia avversa.

È in questo clima, in fatti, che trovano terreno favorevole al loro sviluppo i movimenti rivoluzionari. Dobbiamo ascrivere alla saggezza ed al buon senso del nostro popolo l’aver superato la crisi paurosa dalla quale sarebbero scaturiti nuovi lutti e nuovi dolori.

Perché non devo insegnare a voi, onorevoli colleghi, che non è su un organismo debole, logoro per lo sforzo comune che possono essere realizzate radicali trasformazioni sociali.

Ho detto della crisi profonda che si è determinata nel nostro paese in conseguenza degli eventi di guerra. Essa avrebbe dovuto essere fronteggiata nel campo politico e morale; nel campo politico instaurando un vero regime di libertà e di democrazia: nel campo morale, risollevando gli spiriti depressi, facendo appello ai più nobili sentimenti sempre latenti nel nostro popolo, sentimenti di orgoglio nazionale, di fratellanza, di fede nei nostri destini.

Fu proprio battendo una tale via che la Francia risorse rapidamente dopo la guerra franco-prussiana del ’70-71 e la Germania dopo la grande guerra.

Purtroppo ciò non è stato fatto dai Governi che si sono succeduti dopo la liberazione di Roma.

L’onorevole Nitti, con l’alta autorità che gli deriva dal suo passato politico e dalla sua alta cultura, l’amico Giannini, con la sua sferzante ma signorile ironia, vi hanno già detto e dimostrato che non siamo ancora riusciti a gettare le basi di una vera e sana democrazia! Donde una profonda delusione nel paese, in quella parte del paese, che è poi la maggioranza, che anela al ritorno alla normalità, per riprendere il lavoro, per ricostruire le fortune della patria. Essa avverte essere il nostro paese come nave senza nocchiero in gran tempesta. Convengo che non era facile stabilire un regime democratico sulle rovine del crollo del regime dittatoriale e dopo la dissuetudine del popolo italiano all’esercizio della propria sovranità, ma queste difficoltà potevano essere c dovevano essere superate col ripristino delle vecchie istituzioni politiche e col ripristino di quelle leggi che avevano avuto, prima dell’avvento del fascismo al potere, il suffragio del popolo.

Questa instaurazione e questo ritorno al passato dovrebbero costituire la base di partenza per quella radicale trasformazione, che si fosse ritenuta necessaria.

L’aver battuto diversa via è causa di quel malessere del popolo italiano, di quella opposizione, che è andata sempre crescendo e di cui si è resa interprete la stampa.

Orbene, è avvenuto questo: che i Governi che si sono succeduti nel tempo, invece di tenerlo nel debito conto, hanno preferito fronteggiare questo malcontento, decretando disposizioni, che hanno offeso ed offendono ancora il senso di equanimità e di giustizia del popolo italiano.

Il maggiore accanimento è stato contro la stampa. Ed è strano che ancora oggi si chiedano leggi repressive, per limitare anche quella libertà, già insidiata, più o meno subdolamente, da disposizioni amministrative, agitando lo spettro di una riviviscenza nel fascismo.

Vi sono tra voi coloro, i quali si preoccupano della stampa di opposizione e vogliono vedere in essa l’eco di nostalgie fasciste. Non intendo convincere coloro che lanciano l’accusa, allo scopo di fare tacere voci moleste. Dirò soltanto che questa stampa, almeno nei suoi organi maggiori, combatte per gli stessi ideali di libertà e di democrazia, che costarono la vita a Giovanni Amendola ed a Giacomo Matteotti, che valsero a molti di noi galera, confino ed esilio.

Ma quand’anche fosse accettabile l’accusa, essere questa stampa intonata, ispirata da mentalità fascista, la sua popolarità dovrebbe aprirvi gli occhi e farvi considerare i motivi di questa nostalgia di un passato, già morto e sepolto, per virtù degli stessi fascisti.

I giornali non sono quelli che fanno la pubblica opinione, ma semplicemente ne rispecchiano il pensiero e le aspirazioni. E l’opinione pubblica – come dice un illustre storico francese, l’Hanotaux – «è quella potente, indefinibile ed imponderabile, costituita dalla circolazione di idee attraverso il corpo sociale, senza che sia possibile dire donde viene l’impulso. Dalla periferia al centro, dal centro alla periferia è un movimento perpetuo, uno scambio politico».

Ed a coloro, che vedono insidiato il regime attuale dalla stampa di opposizione e chiedono misure repressive, voglio ricordare le parole pronunziate all’Assemblea francese dal Capo del Governo De Broglie nell’aprile del 1871, quando taluni, allarmati dalla campagna dei legittimisti, da una parte, e dei buonapartisti, dall’altra, temevano per le sorti della repubblica e chiedevano misure antiliberali per la stampa.

«Tutti i regimi di repressione, egli diceva, sono falliti, quando l’opinione pubblica si è schierata con lo scrittore, per supplire al suo silenzio, alle sue reticenze, per comprendere le sue allusioni. L’Assemblea non vuol più veleno soporifero, che spiana la via alla dittatura; essa vuole i rimedi dolorosi, ma vigorosi e virili della libertà».

Ho detto della crisi morale che attraversa il nostro Paese. Il nostro popolo non comprende una politica di odio e di rancori. Tutti commettemmo errori; tutti abbiamo responsabilità di ciò che è accaduto dal 1919 in poi.

Nel suo innato senso di giustizia il popolo italiano, se vuole la condanna e l’ostracismo di coloro che, al coperto della dittatura, commisero arbìtri e violenze ed offesero le leggi morali e penali, non accetta la discriminazione tra puri ed impuri; non tollera il bando dalla vita civile di uomini retti che credettero in buona fede, o, per disciplina, alla autorità costituita, servirono gotto il regime fascista; bando che priva lo Stato del consiglio e dell’opera di uomini capaci di concorrere all’immane opera di ricostruzione che ci attende in tutti i campi, da quello politico ed amministrativo, a quello delle attività private.

Se era comprensibile che in un primo momento si desse una qualche soddisfazione all’opinione pubblica, il persistere su questa via è un errore che non può non accentuare la frattura tra Governo e Paese.

Ma la depressione morale del nostro popolo trae origine preponderante dalla trascuratezza dei Governi nel risveglio dello spirito nazionale, nel trattamento fatto ai reduci della guerra, nell’insano proposito di fare dell’esercito il capro espiatorio del disastro nazionale. L’ingenuo tentativo di ammettere la responsabilità del popolo italiano nello scatenamento della guerra per mendicare condizioni di pace meno gravose, ha nociuto allo spirito nazionale ed ha offeso la verità storica.

La guerra, come molti avvertirono e come l’attuale Conferenza di Parigi ha rivelato, non era affatto una lotta per la libertà e la democrazia, ma una lotta di imperialismi, che fatalmente doveva coinvolgere il nostro Paese.

La situazione dell’Italia nel 1939 può paragonarsi a quella in cui già si era trovata nel 1914. Purtroppo la mancanza di libertà, e la mancanza di istituzioni democratiche, impedirono al popolo italiano di scegliere tempestivamente la propria via. Questa è la responsabilità del fascismo, questa è la conseguenza dei regimi dittatoriali, come aveva già dimostrato l’esperienza della Francia di Napoleone III.

Sta di fatto che allorché nel luglio del 1939 Hitler fece conoscere la sua ferma decisione di invadere la Polonia e di scatenare la guerra, furono dati ordini per la fortificazione della nostra frontiera orientale, per riservare al nostro Paese libertà di azione. Purtroppo il crollo militare della Francia, crollo che non ha precedenti nella storia, offrendo all’esercito tedesco la possibilità di agire contro di noi dalla frontiera occidentale, precluse ogni indipendenza alle nostro decisioni.

È pertanto ingiusto attribuire alla nostra guerra il carattere di una guerra di aggressione per libidine di potere e di conquista. Se la Francia, invece di crollare come un castello di carta, avesse tenuto, è molto probabile che, come già nel 1914, ben altre sarebbero state le nostre decisioni.

Comunque il popolo italiano, privato dei suoi diritti politici, come poteva opporsi alla dichiarazione di guerra?

Poteva l’esercito, potevano le forze armate rifiutarsi di combattere? Non credo che si possa ammettere questo principio. Le forze armate sono al servizio dello Stato e devono ubbidire all’ordine che ricevono da chi è investito dall’autorità per darlo.

Dall’affermazione essere stata la nostra guerra una guerra di aggressione a pro del regime, è derivato per logica conseguenza uno stato d’animo dei reduci e del Paese, per il quale gli uni hanno il pudore delle gesta compiute e gli altri si astengono dal rendere loro onore.

Le madri che hanno perduto i loro figli, le vedove, gli orfani devono rinunziare all’orgoglio di aver dato alla Patria ciò che avevano di più caro!

Occorro riparare a queste offese al sentimento nazionale; occorre dimostrare che la Patria non dimentica chi per lei ha dato il proprio sangue, ha affrontato pericoli e sopportato fatiche; onorare i morti; dare ai vivi una prova di sollecitudine per ricostruire la propria vita, dopo la lunga parentesi della guerra: escogitare, promuovere, incoraggiare forme associative di lavoro, fare in sostanza quello che venne fatto per i combattenti della guerra vittoriosa.

Ed ora lasciate che io mi soffermi sulla opera, che non esito a dichiarare disfattista, che è tuttora in atto contro l’esercito. Opera pericolosa per la fatale reazione che essa può provocare e dannosa per la ricostruzione di quelle forze armate che sono il presidio della libertà e dell’indipendenza nazionale.

Si è voluto fare dell’esercito, come ho già detto, il capro espiatorio dei tragici avvenimenti del nostro Paese, quasi che l’esercito avesse contribuito alla instaurazione della dittatura, che esso ne fosse stato il principale sostegno, che esso avesse voluto la guerra. Alle tre accuse io debbo opporre la più energica smentita. È documentato che tutte le misure erano state prese per arrestare la cosiddetta marcia su Roma e gli uomini che avevano il comando delle forze militari a protezione della Capitale avevano energia e volontà di metterle in atto. Il generale Pugliese, che aveva il comando delle truppe, valoroso ufficiale della grande guerra, ha documentato ciò in una pubblicazione che a torto è stata fatta passare sotto silenzio, mentre si è data tanta pubblicità a pubblicazioni che riflettono risentimenti, gelosie e rivelano da parte degli autori più attitudine al pettegolezzo che alla serietà delle indagini storiche.

L’esercito italiano non fu mai fascista (Commenti); per le sue basi schiettamente democratiche, per i suoi quadri reclutati fra quella borghesia che negli ordinamenti democratici vede una garanzia contro arbìtri e favoritismi e, non fosse altro, per il risentimento dovuto alla capitolazione impostagli di fronte al movimento rivoluzionario, che condusse il fascismo al potere e per la comprensibile rivalità nei riguardi della milizia.

Che sull’esercito, sui suoi capi, sullo Stato Maggiore, si debba far ricadere la responsabilità della guerra, è un grossolano errore. L’esercito aveva coscienza della sua impreparazione, perché le riviste militari del tempo rivelavano gli armamenti poderosi degli eserciti con i quali vi era possibilità di conflitto. Sta poi di fatto che quando il Ministro delle forze armate, nell’aprile del 1939, fece presente la fatalità di una guerra per il 1943 (dico 1943) lo Stato Maggiore fu preso da vero sgomento, nonostante gli fosse stato assicurato che nessuna limitazione di mezzi finanziari sarebbe stata posta alla preparazione dell’esercito. E la cosa è ovvia. Quale capo poteva rischiare a cuor leggiero la propria reputazione e diremo altresì il proprio benessere, del quale il fascismo era stato prodigo? È semplicemente ridicolo fare oggi processi per dimostrare la fascistizzazione dell’esercito denunciando alcuni provvedimenti amministrativi, o l’introduzione del passo dell’oca, o più ancora per aver coltivato quei sentimenti di disciplina e di onore militare che sono le basi sulle quali poggiano gli eserciti; questi ultimi solo perché erano – ed aggiungo – una delle cose buone del credo fascista.

Ma se il nostro esercito ha scritto pagine meravigliose in questa guerra sulle nevi e sulle sabbie infuocate e sulle insidiose montagne della Balcania, è proprio per virtù dei capi che queste idee di disciplina e di onor militare inculcarono.

Sono gli stessi avversari che cavallerescamente lo riconoscono; sono stati gli stessi germanici, quando combattevano fianco a fianco con noi, a rendere il dovuto omaggio ai nostri combattenti provvisti di armi che, rispetto a quelle degli avversari, potevano considerarsi frecce e coltelli di fronte ad armi da fuoco!

Se un organismo aveva il diritto di essere non già travolto dalla reazione antifascista, ma considerato esso stesso vittima del fascismo, era proprio l’esercito, che ha cosparso di morti i campi di battaglia, fra cui ben 56 generali! Questi morti non hanno neppure il riposo in quei cimiteri di guerra, che la pietà umana circonda di rispetto e di amore. I nostri morti sono un po’ dovunque, senza una croce che li ricordi alle madri, alle vedove, ai figli, e senza che vi possano portare un fiore e innalzare una preghiera!

L’indifferenza dei Governi per le prove di valore date dall’esercito è veramente la pagina più dolorosa che la storia dovrà scrivere su quanto avviene oggidì. Nell’ultima seduta abbiamo visto il Sottosegretario alla guerra affrettarsi a stringere la mano al Vicepresidente Nenni per l’esaltazione dell’opera dei partigiani nella seconda fase della guerra. (Interruzioni Commenti).

Una voce. Hanno fatto onore all’Italia! (Rumori).

BENCIVENGA. Non mi interrompa! (Rumori).

Noi ci associamo a questo omaggio; non certo però alla giustificazione del movimento sedizioso! Ma io mi domando se questa squisita sensibilità del Sottosegretario alla guerra non sarebbe stata doverosa anche nei riguardi dell’esercito ignobilmente offeso a Parigi, quando io gliene avevo offerto il destro con una interrogazione alla quale, per ovvie ragioni, avevo dato il carattere di urgenza! (Applausi a destra).

Sull’esercito e sulle forze armate in genere, nelle dichiarazioni del Capo del Governo, non vi è stato che un accenno sui criteri che sono allo studio per la riduzione dei quadri, in conseguenza delle imposizioni del trattato di pace. Non una parola di più. Al riguardo mi si permetta di esprimere il mio pensiero che è quello di un vecchio soldato, ricco di esperienza, tratta dall’altro dopo-guerra. E mi permetto di dare un consiglio: e cioè che non si precipiti nelle decisioni. Io non credo che il nostro Paese andrà al fallimento ritardando la riorganizzazione delle forze armate. Non è nel clima del dopo guerra e specie nel clima attuale, che si può sperare di trattenere in servizio gli ufficiali migliori. Fu un errore favorire l’esodo nel 1920; oggi sarebbe un errore ancora maggiore. Del resto mi parrebbe ovvio attendere l’elezione del nuovo Parlamento, perché leggi sull’ordinamento delle forze armate sono assai complesse e delicate. Nella fretta si corre il rischio di costruire su fragili fondamenta con le relative conseguenze.

E chiudo il mio dire. Chiudo facendo appello alla collaborazione di tutti per il risveglio delle forze morali, che sono la forza vera dei popoli.

Voi potrete emanare le leggi più geniali per la ricostruzione della nostra economia, per una maggiore giustizia sociale; ma queste leggi non daranno quello che se ne attende, fino a quando incomberà sulla nostra Patria un’atmosfera di odii e di rancori ed aleggerà lo spettro della vendetta.

Voi, onorevole De Gasperi, che siete a capo di un grande partito che ispira la sua azione morale alle alte idealità della nostra religione, dovete provocare la pacificazione nazionale. Noi dovremo salire tutti sull’altare della Patria e deporre qui i nostri rancori, affratellarci nella sventura. L’Italia è guardata con concupiscenza dalle grandi Potenze che hanno interessi sul nostro mare. Non abbiamo amici, almeno nel nostro continente. Ci si vuol disarmare materialmente. E sia! Un giorno, forse non lontano, vi saranno Nazioni che riconosceranno l’errore!

Ma gli spiriti non debbono lasciarsi disarmare! E noi dobbiamo dare un esempio al mondo come la nostra Nazione sappia risorgere dopo una guerra perduta, e risorgere più grande di prima! (Applausi a destra).

Una voce a destra. Viva l’Italia!

Presidenza del Vice-presidente PECORARI

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Conti. Ne ha facoltà.

CONTI. Onorevoli colleghi, vi prego di essere indulgenti con me, perché io non farò un discorso che possa inquadrarsi tra quelli che sono stati pronunciati qui dentro. Io mi sento un po’ un irregolare, non ho confidenza con la prassi parlamentare, e mi sento un po’ fuori da questa atmosfera nella quale si respira sempre un’aria parlamentaristica, che non è quella che io desidero di respirare.

Perciò non mi sentirete parlare di gruppi parlamentari e di manovre. Siamo in una discussione che è stata provocata dal tentativo di crisi. Dal giorno in cui io ho sentito parlare della possibilità di una crisi, ho pensato che non avrei potuto convivere con i colleghi e partecipare a qualunque movimento crisaiolo. Eppure di una crisi siamo stati spettatori. Per una via o per un’altra, l’esercitazione si è voluta! Qui non si sa rinunziare a questa esercitazione.

Si dice che è necessario, ormai, di adattarsi al regime dei partiti, che noi dobbiamo comprendere questo nuovo mondo nel quale i partiti sono destinati a dominare la vita del Paese. Sarà così: io non voglio essere un uomo dell’altro mondo, e posso anche ammettere che debba essere così. Ma se è vero che la situazione nella quale si trova il Paese è quella che è, se è vero che in Italia e qui dentro ci sono programmi di rinnovamento e di risurrezione, se è vero che vogliamo una rivoluzione, risanatrice della rovinata e anche corrotta vita del nostro Paese, a me pare che sia una necessità che noi forziamo queste concezioni o convenzioni nuove, e che le allontaniamo, rendendoci conto della realtà in cui ci troviamo, per trovare una via che ci porti ad un risultato utile al Paese.

Noi continuiamo a vivere, onorevoli colleghi, – credo ne possiate essere convinti tutti, appena l’argomento sia toccato – noi continuiamo a vivere con la mentalità, con le tendenze, con le virtù e con i vizi con i quali abbiamo vissuto nel passato. Eccoci, così, di fronte al Governo, e quasi alla crisi.

Su quel banco è un Governo. Si dice: non va, bisogna cambiarlo. Io mi sono domandato subito, quando ho ascoltato le prime voci annunziatrici della piccola tempesta parlamentare: mandiamo via quelli: quali uomini andranno?

Di qua (indica la sinistra) si diceva: non va. E io pensavo: se non va; chi va?

Di là (indica la destra) c’era vento di fronda: chi va?

In sostanza, onorevoli colleghi, dobbiamo riconoscere che di tanto in tanto perdiamo quella calma, quella serenità, quella obiettività e quella decisione a non recitare sempre commedie qua dentro, che è necessaria e che non deve essere perduta e deve essere il nostro monito, se vogliamo far fronte ai nostri impegni, verso il Paese.

Non si può vivere questa vita dondolante. Si parla tutti i giorni di fare, di rifare, di modificare, di riformare e non si fa niente, non si modifica niente, mentre si promuove la lotta dell’uomo contro l’uomo: «e levati tu che ci voglio star io».

Affrontiamo questo problema, onorevoli colleghi; per me il problema è questo: la funzione e il modo di Governo. È l’organo che non funziona. Il Governo di De Gasperi, in questa fase della vita politica italiana, è un Governo che somiglia ai Governi che abbiamo avuti dal 1943 a questa parte. Nessuna differenza. È un Governo fatto per combinazioni di uomini, per accordi, per intese. Esso dal Viminale vuole governare tutta l’Italia con i metodi del passato. Gli stessi metodi, gli stessi risultati, la stessa impossibilità di governare c la stessa impossibilità di raccogliere risultati: questa è la realtà.

Non si è fatto nulla, perché si potesse avviare la vita italiana su un’altra strada. Non si è fatto nulla durante il periodo precedente al referendum del 2 giugno, non si è fatto nulla a Repubblica proclamata. Noi, repubblicani specialmente, dobbiamo difenderci dalla giusta domanda del Paese: è questa la Repubblica? Dobbiamo continuare a rispondere – e lo dissi in una delle nostre prime sedute, quando mi sembrò che l’onorevole Nitti volesse attribuire alla Repubblica il «nullismo» governativo – la Repubblica non c’è, non esiste ancora. È innegabile, onorevoli colleghi, che noi continuiamo a vivere come nel periodo pre-repubblicano, come nel periodo monarchico. Perché la Repubblica, signori, non è un nome, la Repubblica è un fatto organico, una trasformazione di istituti, è una trasformazione di costumi, è una vita diversa da quella che noi viviamo. Ed allora? Ci domanderà qualcuno (credo che questo pettegolezzo parlamentare sia inevitabile): perché, dunque, siete al Governo? Perché non ve ne andate? Dopo aver fatto un poco di chiasso, dopo aver messo un po’ il campo a rumore, perché siete al Governo? Perché partecipate?

La spiegazione è semplice e tutti la dovrebbero intendere: siamo al Governo, perché ci sta a cuore la Repubblica, questa fanciulla che sta crescendo, che si sta formando, questa Repubblica che è un fatto del nostro sentimento prima ancora che della nostra ragione; lavoriamo, perché questo organismo repubblicano sorga nel nostro Paese, si affermi e divenga una grande cosa, il giorno in cui l’Assemblea Costituente avrà dato alla Italia, con la Costituzione, le istituzioni che trasformeranno il nostro Paese.

Noi siamo, dunque, al Governo non per effetto ed in conseguenza di combinazioni, di calcoli, o di ordini del giorno: noi siamo al Governo perché vogliamo lavorare, affinché questa repubblica prenda vita, si affermi, si consolidi e sia amata.

La composizione del Governo non ci interessa. Non ci interessa affatto. Che ci importano gli uomini? De Gasperi, Cingolani, Nenni, uno per uno li potremmo valutare tutti quanti, confessare le nostre simpatie, le nostre preferenze, i nostri giudizi. Ma i giudizi sugli uomini, a che servono? Perché dovremmo combattere De Gasperi, se soprattutto non abbiamo un altro De Gasperi da mettere al posto suo? Perché ci dobbiamo occupare dell’ammiraglio Micheli (Si ride), perché dobbiamo far gran caso che il nostro amico Micheli così versato in studi giuridici, così geniale amatore di folklorismo, di letteratura, sia oggi Ministro della marina? Perché dovremmo deplorare che altri posti siano coperti da uomini di maggiore o minore competenza? Oggi, in questo periodo di transizione, non sono questi i problemi che dobbiamo risolvere. Non facciamo, dunque, questione di uomini, ma questione di idee. Per questo noi collaboriamo con il Governo, sperando di far valere alcune nostro idee le quali valgano – se si apriranno la via – a dare un indirizzo diverso all’andamento del Governo. Fin dal momento nel quale noi entrammo a farne parte, affermammo idee che ci sembravano fondamentali. Non furono ricordate in tre mesi di vita di questo Ministero.

Quando avvengono gli incontri per stabilire lo basi di un Governo, quando si fissano i termini, i desiderata dei singoli partiti, le esigenze, le istanze per l’azione comune, in quel momento si scrive tutto quel che si vuole. Noi avemmo una piccola illusione. Credemmo che alcune nostre richieste avessero avuto buona accoglienza. E le nostre richieste erano fondamentali in questo momento della vita italiana. Pensavamo che, se il Ministero avesse accolto l’indirizzo che noi suggerivamo, il Governo, avrebbe determinato risultati che purtroppo sono mancati quasi totalmente. Alle altre disgrazie si è aggiunta quella della Conferenza di Parigi. A un certo momento, il Governo si è trasferito a Parigi. L’Italia non ha avuto più un Governo, perché l’onorevole De Gasperi, che riassumeva in sé una buona parte dei poteri ministeriali, era a Parigi.

Voci. C’era Nenni.

CONTI. Poiché le preoccupazioni erano tutte lassù, qui non si pensava più alle cose italiane. Ma questa, Conferenza a parte, è la tragedia di tutti i giorni, onorevoli colleghi, e deriva da questo errore fondamentale, sul quale non si insisterà mai abbastanza: dall’errore che da Roma si possa governare la penisola, il popolo italiano, 45 milioni di abitanti sparsi in 16 regioni, popoli diversi, interessi diversi.

Che cosa dicemmo noi nei primi momenti nei quali aderimmo al Governo? Cominciamo, dicemmo, a dare all’Italia la possibilità di vivere, se non indipendentemente dalla direzione del Governo centrale, che in questo momento deve essere quello che abbiamo trovato e che deve operare, in questo periodo transitorio, in attesa che la Costituzione organizzi la vita italiana in un altro modo, cominciamo a dare all’Italia la possibilità di vivere almeno nei suoi comuni, nelle provincie, nelle regioni. Bisogna far vivere il comune. Anche in questo periodo transitorio, prima che sorga l’ente regione, i comuni e le regioni assumano una parte della direzione del Paese. Il Governo deve finalmente sentire che l’Italia non vive a Roma, non è qui dentro, anche se qui sono i rappresentanti di tutta Italia. L’Italia vive nelle sue province, nei suoi comuni, nelle sue regioni, là dove si lavora, si produce, dove sono interessi vivi che il Governo in Roma non può neppur considerare. Movetevi da Roma, visitate le nostre città, le nostre campagne, i nostri paesi, indagate sulla vita degli italiani fuori di Roma, e voi conoscerete e ammirerete lo sforzo magnifico di una grande quantità di comuni i quali, indipendentemente e a malgrado dell’opera del Governo, a malgrado degli ostacoli che da Roma si oppongono, fanno ottima amministrazione e superano le difficoltà più gravi di questo momento. (Commenti).

Vi posso portare molti esempi. Comuni quasi abbandonati dal Governo cominciano a risorgere per iniziativa locale, per l’attivazione della capacità di amministratori, per buona volontà di cittadini.

Abbiamo inutilmente parlato di questa esigenza fondamentale.

Che cosa dicevamo? Pretendevamo che il Governo proclamasse, oggi, l’autonomia comunale che sarà riconosciuta dalla Costituzione? Nessuno di noi ha pensato a questa estensione del provvedimento. Noi pensavamo che ai comuni, in questo momento, potessero essere attribuite alcune funzioni e i mezzi finanziari per poter risolvere i propri problemi, che ai comuni fosse soprattutto attribuita quella grande facoltà di dirigere secondo i propri interessi, a seconda delle aspirazioni delle popolazioni, le opere di ricostruzione, quando si tratta di comuni distrutti dalla guerra. Non siamo stati intesi. Si è continuato a vivere come prima, non solo, ma per alcuni aspetti abbiamo avuto dal Governo manifestazioni che vogliamo credere involontarie o non considerate, di violazione dell’autonomia comunale. Cito, ad esempio, il servizio dei segretari comunali. Il Ministero dell’interno ha continuato a riservare a sé di decidere intorno alla scelta dei segretari comunali. Sul fatto della nomina, della conferma o dell’esclusione di un segretario, è il Ministero degli interni che vuole dire e dice l’ultima parola. Ebbene, il Ministero dell’interno menoma l’autorità delle amministrazioni comunali, le quali hanno il diritto di scegliersi il proprio segretario. Il Ministero dell’interno potrà provvedere a sistemare e a rimediare alle conseguenze che derivano da trasferimenti o da assunzioni; il Ministero dell’interno dovrà fare sforzi per superare le difficoltà che derivano dalla legge fascista che ha imposto i segretari comunali ai comuni, ma è principio assoluto che i comuni debbono avere la possibilità di scegliersi il proprio segretario comunale e devono avere la possibilità di amministrare con impiegati che abbiano la loro fiducia. Il Ministero dell’interno non deve quindi assolutamente intromettersi nella scelta che i comuni fanno. La libertà comunale è una esigenza sulla quale l’occhio del Governo non si è soffermato un solo istante.

Noi lavoriamo per la nuova organizzazione del Paese. Siamo a buon punto, perché io credo che ormai siano pochi coloro che restano chiusi nella vecchia mentalità e coloro che osteggiano ancora questa grande conquista della libertà, verso l’organizzazione autonomistica delle nostre regioni. Noi dicevamo: cominciamo a fare qualche cosa; sarà anche un avviamento alla costituzione dell’Ente-regione; saranno buone prove in questo periodo transitorio nelle singole regioni; date la possibilità ai capoluoghi di regione di costituire dei centri di attività. Noi precisando, dicevamo: attribuite a centri regionali, a consigli regionali provvisori eletti dai consigli comunali, eletti in via transitoria da altri organi ed enti della regione, attribuite a questi centri regionali alcune facoltà ed alcuni incarichi. I lavori pubblici potranno essere diretti da queste forze, le quali potranno provvedere agli interessi della regione con competenza. Attribuite alle regioni la cura di questi interessi e la soluzione dei problemi connessi.

Nulla invece è stato fatto. Il Governo ha continuato a camminare come prima e ha provveduto come sempre. La burocrazia mette le mani dappertutto. Si rovescia tutto, si impasticcia, si imbroglia, si stanca questo popolo italiano e si fa perdere la fiducia. Crisi di pessimismo possono trascinare il popolo italiano alla disperazione. Ci sono forze che si provano e, direi, si dilettano a sobillare ed a sommuovere. Ci sono forze residue della monarchia che non sono state eliminate, le quali cospirano contro la Repubblica e contro l’Italia. Noi siamo di fronte a fenomeni gravissimi. Ho letto sui giornali – taluno ha sorriso, altri ha deplorato come se si violasse non so quali arche sante – ho letto nei giornali e ho udito: perché la rimozione degli emblemi, dei simboli, di iscrizioni, l’accantonamento di elementi che possiamo chiamare pericolosi nella amministrazione dello Stato? Che cosa sono queste cose? Si è detto: questa è una nuova epurazione, si è gridato.

Onorevoli colleghi dell’altra parte, ai quali cavallerescamente io rivolgo il mio saluto, a che giuoco giochiamo? Ci vogliamo dire una parola schietta, senza convenzionalismo parlamentaristico? Parliamoci francamente. Ammettete voi che vi sia un certo agente delle imposte, il quale, chiamato il contribuente per un fiero giro di vite fiscale, di fronte alle proteste della vittima, dice ferocemente: avete voluto la Repubblica? Ecco qui il risultato. Ammettete che vi siano marescialli dei carabinieri, e questi sono un numero rilevante; (naturalmente vi sono anche i marescialli ormai repubblicani; sono, naturalmente, i più intelligenti) (Applausi a sinistra) i quali sentono ormai che la Repubblica è la loro casa, dirò meglio, anche la loro casa come è la casa di tutti gli italiani, senza quelle tali intromissioni e senza quel girare di topi e di «blatte» che insozzavano la casa in altri periodi della vita italiana; capiscono che la casa si va ripulendo, che vanno cadendo le mura vecchie e gli ambienti non puliti; dunque ammettete che vi siano marescialli, tenenti, sottotenenti, capitani, colonnelli, i quali al cittadino che protesta dicono: perché protesti? Questa è la Repubblica! L’hai voluta? Eccola! Si fa, ad esempio, una perquisizione ad un carro sospetto (cito questi episodi che ho dinnanzi agli occhi; ne potrei citare centinaia) perché il guidatore è un noto repubblicano? Costui protesta per la lunga attesa del non gradito controllo feroce. Eh! Figlio mio, si risponde: questa è la Repubblica! E via di questo passo. Ammettete queste cose, colleghi dell’altra sponda? E le ammettete, pur professandovi ormai leali osservatori della legge repubblicana? Dunque è proprio uno sproposito, un delitto o qualche cosa di orribile, che da questa parte della Camera, da vecchi cultori dell’idea repubblicana, da coloro che hanno voluto questa Repubblica, non per sé, ma per il nostro Paese si reclami la fine di tale scandalo? Pensate voi, col vostro lealismo repubblicano, di tollerare questi atti, di ammetterli?

Io vi dirò la mia opinione, chiarissima sulle repressioni. Per esempio, su quelle riguardanti la stampa. Non interpretate male l’espressione, che può essere scritta anche sui giornali o che può essere pronunziata nelle discussioni: repressione della stampa. Io sono di questo avviso: i giornali monarchici scrivano quello che vogliono. Ritengo che noi non dobbiamo commettere l’errore di repressioni. La Repubblica non ammette repressioni, spalanca la bocca a tutti. Parlate. Noi vogliamo essere in condizione di opporre all’errore quello che ci sembra verità, di opporre ai detrattori della libertà, la libertà, di opporre a coloro che hanno infranto la libertà in Italia una libertà vera, in atto; ma bisogna che questi signori oppositori sentano di avere contro di sé il disprezzo della Repubblica. Questi signori devono sentirsi abbassati al livello di sobillatori, di uomini che in questo momento sabotano la povera Italia nostra, la uccidono, o tentano di ucciderla.

Tornando al Governo ripeto: dal Governo non abbiamo avuto la più piccola soddisfazione. Io so benissimo che l’onorevole De Gasperi è autonomista convinto, un amante sincero delle autonomie comunali, dell’Ente Regione. Ma, cominciamo, onorevole De Gasperi, a fare per le autonomie qualche cosa. Non mi dica di sì soltanto con la fronte. Io la guardo sempre con molta ammirazione, perché è la fronte di un galantuomo, il quale, se dice di sì, non pensa al no. Insomma, mettiamoci d’accordo sul serio.

Vedete che razza di oppositori siamo noi. A me ripugna questa parola «opposizione». Noi non facciamo opposizione. Noi diciamo il fatto nostro; vogliamo dire il nostro parere: se si è d’accordo, tanto meglio; se non si è d’accordo, chiamate pure opposizione questo nostro atteggiamento, ma questo non è opposizione dispettosa, maligna; è uno stato d’animo, che si manifesta francamente per il bene del Paese. La nostra permanenza nel Governo significa che abbiamo della gran buona volontà. Siamo disposti a far dire tanto male per questo atteggiamento, da coloro che ci osservano. Si dice: «Sono rimasti nel Governo; sono corresponsabili della sua azione». Siamo corresponsabili? Non lo siamo? Non ci importa niente di sapere se lo siamo o no. Siamo uomini che vogliamo agire, che vogliamo conseguire risultati. Quali sono questi risultati? Non vogliamo oggi grande cose: esse seguiranno le piccole cose.

Quando il nostro gruppo repubblicano si è radunato la prima volta ha ragionato sui nostri doveri e sui nostri diritti di rappresentanti del Paese. Ha detto: «facciamo un programma».

Tutti concordemente, ci siamo incontrati su questo punto. Non diamo fondo all’universo. Non strombazziamo parole. Il popolo ci conosce e sa che non vogliamo illudere.

Facciamo un programmino per sei mesi: in sei mesi si sarà concluso qualche cosa.

Dicevamo: smobilitazione dell’organismo e si aggiungeva «fascista». È ormai abitudine dire: monarchia-fascista. Ma è un errore. Basta dire organismo monarchico. Il fascismo non c’entra proprio per nulla: abbiamo perduto tempo a buttare sulle spalle del fascismo la responsabilità della monarchia. Tutto ciò che ci opprime è un residuo della monarchia. La monarchia prese al suo servizio il fascismo per schiacciare l’Italia.

Diciamo, oggi, smobilitazione dell’organismo monarchico. Da dove si comincia?

Non vedo l’onorevole Bencivenga, che poco fa ha difeso l’esercito, i generali, e ha detto cose alte, sentite, da vecchio soldato valoroso come egli è. Ma vorrei che fosse presente e vorrei dirgli subito che uno dei primi nodi da sciogliere, da tagliare, è quello del militarismo. Distinguete, signori, esercito da militarismo, soldati valorosi da soldati codardi, generali consapevoli da generali ribaldi. Non facciamo di ogni erba un fascio. Non facciamo sobillazione. L’onorevole Bencivenga si è assunto una grossa responsabilità ammonendo il Governo di andar cauto. Perché, signori, cautela? Preparate un’insurrezione di generali? Speriamo di no. Io credo al vostro patriottismo. Volete la guerra civile, la Spagna? Intendiamoci con chiarezza su questo punto, o signori. Noi dobbiamo riconoscere una verità sacrosanta. L’Italia è stata rovinata dalla monarchia militaresca: il militarismo ha rovinato l’Italia. Rispetto assoluto per gli uomini, considerazione religiosa per il nostro esercito di popolo, ma giustizia inesorabile nei confronti di coloro che hanno mancato. Non si possono riabilitare e rimettere sugli altari coloro che sono caduti. Non possiamo essere falsi e bugiardi. Occorre giustizia. Grande serenità, ma si deve togliere questo nodo dalla vita italiana.

Bisogna evitare le conseguenze tragiche che può generare questa forza che vive in Italia in atto di permanente cospirazione. Io so di molti generali che hanno sentito il dovere di proporsi il problema dell’accettare o rigettare la Repubblica; e so che molti generali hanno risolto il problema nella loro coscienza. Giorni fa parlavo con un generale degnissimo il quale mi diceva che, fin da ragazzo, da quando era all’Accademia militare coi compagni di corso, meditando sulla formula del giuramento, domandava: se si rompesse il nesso tra il bene inseparabile del re e della Patria, per chi saremmo noi, per il re o per la Patria? Fin da allora, da quando cioè era nel collegio militare, egli aveva risolto il problema: se il rapporto si dovesse rompere io sarei per la Patria. Oggi la Patria è repubblicana e il re è quello che è stato. (Applausi a sinistra).

Ora si comincia a chiarire questa situazione. Non saranno fatte persecuzioni di sorta. Per l’esercito si farà quello che si potrà in conseguenza del trattato di pace. In questo momento si dovranno allontanare ufficiali dall’esercito. Queste esclusioni sono volute da noi o sono imposte dagli alleati? Se entro pochi giorni andranno fuori di servizio gli ufficiali di cui parlava giorni or sono l’onorevole De Gasperi nel suo discorso, essi andranno perché espulsi dalla inesorabile ferocia di quel terribile uomo che è Cipriano Facchinetti, o da un obbligo impostoci dagli alleati? Indipendentemente da obblighi è necessario, onorevoli colleghi, che si cominci a sfrondare il grosso albero e a tagliare i rami. Poi si dovrà fare di più, si dovrà andare avanti. La fisonomia dell’esercito italiano, se un esercito dovrà vivere nel nostro Paese, dovrà essere la fisonomia di un esercito repubblicano, democratico, non più un residuo medioevale del militarismo: non essere più un esercito che ricordi i servizi resi a tutti i guerrieri della casa regnante, che se ne è finalmente andata per la salvezza e la fortuna d’Italia.

Ieri ponevamo un altro interrogativo e parlavamo dei problemi economici. Noi non siamo dei romantici, degli idealisti ostinati, siamo un partito di uomini pratici che vogliono lavorare sul sodo terreno dei fatti. Ci sono naturalmente tra noi i retori, rappresentanti di quella trista malattia che produsse la rovina d’Italia, ma ci sono anche uomini nemici di quella genìa. Io, per esempio, sono il peggior nemico della retorica.

Oggi, non è presente l’onorevole Nitti, ma avrei voluto rivolgergli un omaggio dopo tante punzecchiature che ho a lui diretto durante i suoi discorsi. Come dicevo stamattina nella Commissione costituzionale, Nitti è un uomo il quale, se fosse rimasto professore per tutta la sua vita, sarebbe stato un grande promotore della cultura e dell’educazione dei giovani, autore di una seria e soda formazione di tutta la nostra gioventù. Quando il capriccio politico sui suoi 42-43 anni – ed io ricordo quel tempo – lo sorprese, i giovani perdettero un maestro. Io devo a Nitti una grande, una immensa gratitudine per avermi acciuffato ai miei 18 anni e avermi trasferito dalle fantasticherie ideologiche su un terreno nuovo, reale. Io ero allora alle prese con le dottrine mazziniane e con quelle socialiste. I miei compagni di scuola socialisti costruivano con la fantasia il collettivismo, io costruivo sognando e difendevo l’associazionismo mazziniano, e il litigio era permanente, quanto inutile. Ebbene, allora io fui strappato dalla mia posizione mitologica proprio da Nitti, il quale coi suoi libri mi trasportò sul terreno dei fatti; e da allora ho odiato la retorica, che è una delle produzioni più maligne della nostra vita politica e sociale. (Commenti a destra).

Dunque noi abbiamo detto: problemi economici, signori! Due problemi nell’Italia d’oggi bisogna affrontare e non risolvere radicalmente con le riforme di struttura e organiche, che faremo e che verranno: il problema della terra e il problema della scuola. Il problema della distribuzione delle terre ai contadini è un grande problema. Bisogna distribuire tempestivamente terre ai contadini; terre per il pane. Si tratta di dare ai contadini la terra perché essi possano, oggi, seminare affinché in luglio possano raccogliere grano, e altri cereali. L’onorevole De Gasperi e il collega Segni diranno: «Sì, sì, abbiamo fatto; abbiamo fatto molto». Sì, qualche cosa è stata fatta, ma poco bene, confusamente; si è perduta di vista una necessità fondamentale. Sia pure questo attuale un provvedimento transitorio, bisogna portarlo sul terreno realistico. Da Roma non si fanno i decreti.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Almeno per il Lazio, si potrà farli da Roma. (ilarità).

CONTI. No, onorevole De Gasperi. Lei è imprudente in questo momento. Nemmeno per il Lazio può il Governo legiferare. Quando si parla del Lazio, onorevole De Gasperi, si parla proprio di una regione il cui trattamento dal punto di vista agricolo è uno dei più difficili. Quindi proprio il Lazio non è un esempio che possa calzare.

Il decreto che è stato promulgato è un decreto sbagliato. (Commenti).

FUSCHINI. Qual è lo sbaglio?

CONTI. Se avete pazienza, ve lo dico subito: bisognava lasciare alle regioni l’applicazione del principio generale di dare la terra ai contadini. Bisognava costituire degli organismi regionali che avrebbero dovuto procedere ad una razionale distribuzione.

Bisognava affidare a centri regionali la applicazione del principio generale: «terre ai contadini», la terra per le semine o per più ampio uso, e ciò per evitare il disordine che si sta verificando.

A parte queste osservazioni e tornando alla questione, io dico che noi abbiamo dai contadini una prova mirabile della loro volontà di lavorare; mentre abbiamo resistenze fierissime da parte di molti proprietari, i quali non vogliono ancora persuadersi che bisogna dare la terra ai contadini per farla lavorare e per produrre quello che è necessario al Paese. Che cosa è mancato in tutta questa applicazione del principio che il Governo ha voluto affermare? È mancato soprattutto un piano regolatore delle distribuzioni. Questo piano regolatore non poteva essere previsto dal Governo di Roma, che non conosce le singole regioni, l’aspetto agrario di ogni singola regione. Questo provvedimento poteva esser dato da elementi competenti dei singoli luoghi. Se fosso stato reso possibile, si sarebbero avute distribuzioni veramente utili, efficaci e provvidenziali in tutte le regioni.

Non è stato fatto. Credo clic su questo punto si potrà fare pochissimo per rimediare; ma almeno il Governo provveda a far accelerare la distribuzione, perché è necessario che i contadini preparino i lavori ed è necessario che le semine siano fatte; è necessario che l’agricoltura possa procedere con una certa regolarità.

Ma si poteva fare di più: non si dà la terra ai contadini senza mezzi, e senza aiuti.

Una voce a destra. Bisogna far piovere!

CONTI. Evidentemente non ci siamo intesi, signori dell’altra sponda. Io ho parlato di concessioni provvisorie; le trasformazioni strutturali verranno poi e, con le trasformazioni strutturali, si dovrà risolvere il problema delle abitazioni per i contadini, si dovrà risolvere il problema delle acque, il problema delle strade, si dovranno risolvere tutti gli altri problemi relativi alla vera riforma agraria, indipendentemente dalle soluzioni ispirate alle varie ideologie.

Dunque, dicevo, il Governo doveva provvedere almeno a questa altra necessità: dare al contadino i mezzi per coltivare la terra con una certa razionalità. Data la terra, bisognava provvedere alla distribuzione attivissima di macchine agrarie, bisognava provvedere a tutto quello che era necessario, perché la coltivazione fosse veramente utile. (Commenti). Quando al contadino si dà poca terra, bisogna insegnargli che la poca terra può diventare molta con intensa coltura. Non solo alla distribuzione di mezzi meccanici non si è provveduto, ma nemmeno a vasta e regolare distribuzione di concimi chimici.

C’è un altro problema che abbiamo segnato tra le nostre esigenze. Non vedo il Ministro della pubblica istruzione; vedo soltanto il mio amico Sottosegretario di Stato onorevole Bellusci. Noi abbiamo detto – e qui faccio eco alla parola autorevole del nostro venerando collega onorevole Einaudi – abbiamo detto: ci sono problemi economici, ma per quanto i problemi economici abbiano un valore grandissimo, essi l’hanno in senso non assoluto. C’è un altro problema: quello della istruzione, dell’educazione e della salvezza dei nostri ragazzi, della nostra gioventù. Il problema più importante è quello della scuola e noi abbiamo detto al Governo: bisogna non pensare, oggi, alla grande riforma scolastica che verrà a suo tempo, non bisogna pensare alle grandi cose, che si dovranno fare nel prossimo avvenire. Anche su, questo terreno, mettiamoci su un piano di modestia: bisogna istituire in Italia, nel giro di pochi mesi, 20 mila scuole, bisogna dare alle regioni più massacrate dalla guerra, più tormentate dall’analfabetismo il grande aiuto della scuola. Non so quello che si è fatto; mi si è parlato di progetti che si stanno elaborando e che saranno messi in attuazione. Lo spero. Ma dico all’onorevole De Gasperi: questa nostra presenza vi deve ricordare l’impegno di tre mesi or sono. Vi deve ricordare che al Consiglio dei Ministri dovete deliberare l’istituzione di tante migliaia di scuole per i nostri fanciulli.

Ci siamo battuti per affermare il programma e per ottenere l’attuazione. Ad un certo punto il malcontento ci ha spinto ad alzare un po’ la testa, ed abbiamo fatto quella modesta levata di scudi che voi conoscete. Abbiamo suscitato qualche preoccupazione, ma la preoccupazione è servita, perché ha dato luogo ad un agitarsi di tanti nostalgici di quel banco (Indica il banco del Governo) per creare una crisi più grande. Si è subito detto che bisognava fare una bella crisi, della quale ci sarebbe stato modo di approfittare.

Noi vi diciamo, onorevole De Gasperi, che siamo con voi, e volenterosamente; però stiamo nel Governo per tormentarvi (Si ride); lo faremo in tutte le maniere. Noi abbiamo considerato il nostro atteggiamento dei giorni passati come una spinta necessaria, consideriamo il nostro atteggiamento di oggi come un dovere, perché intendiamo che il Paese senta che qui si lavora per dare alla Repubblica una fisionomia, per dare all’Italia un avvenire. Noi abbiamo una grandissima speranza: che cessino le male lingue di sparlare, che azioni di sobillazione non derivino da quella parte. (Accenna a destra Interruzioni Commenti).

PATRISSI. Questa è la più grossa!

CONTI. Onorevole Patrissi, lei ha detto nel suo discorso, che ho ascoltato dal principio alla fine, delle parole simpatiche…

PATRISSI. Grazie.

CONTI. …ma potete, voi di quella parte, (Accenna a destra) credere che noi repubblicani qui, in questa Camera, dominante la monarchia avremmo detto le stesse vostre parole? Espressioni di lealismo verso la monarchia? No. Voi, invece, le avete dette: voi dite di accettare la Repubblica.

PATRISSI. Nell’interesse supremo del Paese noi accettiamo anche questa.

CONTI. Vi voglio anche credere. Ma permettetemi di dire che io spero che alle parole corrispondano i fatti.

PATRISSI. Nessuno ha il diritto di dubitarne.

CONTI. In questo momento si sta cospirando contro la Repubblica. (Rumori a destra).

Una voce. Non è vero.

PATRISSI. La monarchia è caduta, ma vi fa campare di rendita e sognate di congiure! Con la istituzione della Repubblica la vostra funzione è finita.

CONTI. Questo mi mette in sospetto ancora di più, perché…

PATRISSI. Allora faccia l’investigatore e non il parlamentare. (Rumori Commenti a sinistra).

CONTI., Quanto lei dice mi mette in sospetto, le ripeto. Si vede che lei ha in mano le fila (Interruzioni Rumori), se ci garantisce che queste fila per ora non si muoveranno. (Applausi a sinistra Interruzioni e commenti a destra).

PATRISSI. Non possiamo tollerare ciò.

CONTI. Noi preferiremmo avere di fronte avversari ostili apertamente alla Repubblica…

MAZZA. Oggi la Repubblica è l’Italia. (Approvazioni a destra).

CONTI. Noi preferiamo gli atteggiamenti espliciti. (Commenti Interruzioni).

CAPUA. Lei legge la notte i romanzi gialli! In questo momento lei ci offende come italiani. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Conti, non raccolga le interruzioni.

MICCOLIS. La Repubblica oggi è l’Italia, e basta. (Applausi a destra).

CONTI. Io spero che, ad onta di opposizioni sincere e di opposizioni dissimulate, qui si lavori per consolidare la Repubblica italiana.

MICCOLIS. Per salvare l’Italia!

CONTI. E la Repubblica salverà l’Italia, perché la Repubblica sarà davvero una espressione della civiltà nuova del popolo italiano. (Applausi a sinistra).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.

CORTESE. Onorevoli colleghi. Vi è un addebito che l’opposizione muove al Governo, ed è l’addebito di fondarsi su di un costante compromesso. Mi sia consentito di dichiarare subito che io ritengo questo addebito del tutto infondato. Siamo in crisi di alloggi ed in conseguente coabitazione forzata. Il Governo non può non essere formato da forze politiche diverse: è evidente che il Governo deve avere alla sua base un compromesso. D’altra parte siamo in attesa della Costituzione, e non è possibile attuare programmi di riforme sostanziali; anche perciò è indispensabile fondare l’azione di governo su di un compromesso.

Ma, onorevoli colleghi, la domanda dell’opposizione è un’altra, ed è questa: c’è il compromesso? C’è questo compromesso sul quale deve poggiare la sua base il Governo?

Si è parlato di crisi. Oggi si dice che tutto è finito. La crisi era soltanto un uomo. La crisi era Corbino: rimosso Corbino la crisi è finita. Noi ci abbandoniamo a dei semplicismi in omaggio a verità formali. La crisi era ed è la crisi del compromesso. Credete che ci sia un compromesso? Chi ci crede? Non la Democrazia Cristiana che nella mozione conclusiva dei suoi lavori ha dimostrato una così viva preoccupazione, una così grande sfiducia da formulare addirittura un ultimatum. Non ci crede il Partito Repubblicano il quale ritiene – come ora ha detto l’onorevole Conti – che per far funzionare questo Governo occorra un tormentatore di turno, ci sia cioè bisogno di un tormentatore che stia lì a richiamare il Governo all’attuazione di un programma, che non può essere altro che l’attuazione di un compromesso: il che rivela il sospetto dei repubblicani che al compromesso non si tenga fede. Chi crede dunque al compromesso? Chi ha fiducia nel compromesso? Il Partito Comunista?

Onorevoli colleghi, al centro della questione, – è inutile dissimularlo – c’è il Partito Comunista, perché se il Partito Comunista avesse davvero accettato un compromesso, il che significa rinuncia al proprio programma totale ed ai propri metodi, il che significa accettazione di un programma comune, frutto delle rinunzie particolari, onorevoli colleghi, la crisi non ci sarebbe stata, e non ci sarebbe nemmeno la preoccupazione che è nell’ultimatum col quale si conclude la mozione della Democrazia Cristiana, e non ci sarebbe nemmeno, onorevoli colleghi, questo stato di timore, di sfiducia, di allarme nel quale vive il popolo italiano. Tutto ciò perché il Partito Comunista il compromesso non l’ha accettato; non l’ha accettato né come programma né come metodo.

Una voce. Ma chi glielo ha detto?

PATRISSI. I fatti!

CORTESE. Se oggi si vuole parlare di crisi, identificando la crisi in Corbino, noi possiamo dire che quest’aria di crisi si è fatta minacciosa per avvenimenti che hanno scosso la pubblica opinione: e cioè l’atteggiamento dell’onorevole Togliatti a Parigi, l’atteggiamento dell’onorevole Di Vittorio a Milano che si è posto contro il Governo appellandosi alla piazza. (Commenti a sinistra).

È questo, Signori, il punto. Il Governo dà troppo spesso l’impressione che abbia bisogno proprio di quel tormentatore, e non di quel tormentatore dall’interno, ma abbia bisogno di sentire dal di fuori il fragore per risvegliarsi.

Io ho ascoltato le calde parole dell’onorevole Nenni, e mi sono domandato: ma l’onorevole Nenni sta qui a criticare un precedente Governo le cui responsabilità risalgano ad altri, o sta qui a dirci in modo stupefacente che se si è creato uno Stato psicologico e politico tale da destare allarmi, tale da poter far sì che i Partigiani, per tutelare i loro misconosciuti diritti abbiano dovuto ricorrere ad un’azione di forza, tutto ciò è avvenuto per l’inerzia del Governo, per il ritardo del Governo, per l’insensibilità del Governo del quale egli fa parie? Stupefacente dichiarazione di inettitudine di un governo che ha bisogno che qualcuno prenda il fucile per concedere quei provvedimenti, che poi si verrà qui a dire che erano dei provvedimenti giusti, che dovevano emettersi, ed il cui ritardo e diniego costituivano una offesa al buon diritto dei Partigiani ed un pericolo per la tranquillità del Paese.

Onorevoli colleghi, lo stesso avviene, per esempio, per le terre così dette incolte. Si dice che il decreto Segni è «provvido». E c’era bisogno per emetterlo questo decreto «provvido» che si verificassero delle manifestazioni di aperta illegalità e di rivoluzionaria violenza le quali non hanno certo incontrato l’aperta deplorazione vostra, onorevoli colleghi comunisti, che pure avete la responsabilità del Governo, né, tanto meno, quella dell’onorevole sottosegretario all’agricoltura. È questo il punto; non tutti siamo solidali nel deplorare certi metodi, talune manifestazioni: non tutti desideriamo che il Governo emetta tempestivamente gli opportuni provvedimenti. I comunisti, pur partecipando al Governo, perseguono il fine di fare delle manifestazioni agitatorie, le quali servono soltanto a tenere il Paese in una costante vigilia rivoluzionaria, in uno stato di incertezza e di sfiducia, che fatalmente travolge il prestigio del Governo di coalizione.

Del pari in sede di politica estera. L’onorevole De Gasperi potrà essere ben sicuro che se, per avventura, la linea della sua politica estera dovesse di un millimetro spostarsi dalla linea della politica estera russa, egli avrebbe contro gli uomini del Partito Comunista, siano o non siano al Governo. (Applausi a destra). Ed allora io mi domando: si dice che la crisi è superata, che si è arrivati ad un nuovo compromesso: gli altri partiti che siedono al Governo hanno accettato il compromesso sulle uniche basi realmente accettabili dai comunisti: una politica nel solco della Russia? Si dice che noi non dobbiamo essere in nessun blocco, in nessuno dei due mondi contrastanti ideologicamente. Ma è certo che se la stampa di destra, è una stampa che spesse volte assume atteggiamenti anche vivaci e violenti nei rapporti degli anglosassoni, è pur certo che la stampa del partito comunista è una stampa che non assume mai atteggiamenti di critica nei confronti di una determinata potenza straniera. Sappia il Governo che coi comunisti in politica estera non può esservi compromesso perché per i comunisti la linea italiana è destinata a coincidere costantemente al millimetro con l’interesse di un’altra nazione.

DE GASPERI, Presidente del Consigli o dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Il Governo è sulla linea italiana, non su quella russa o anglosassone.

CORTESE. Per l’appunto. Ma se questa linea italiana dovesse, in un certo momento – come può accadere – in linea di ipotesi, non coincidere, appunto perché italiana, con la linea seguita da altra nazione, allora, ripeto, si può essere certi, fin da questo momento, che un partito, che siede al Governo, non condividerebbe, onorevole De Gasperi, quella sua politica estera, dettata dall’interesse superiore del Paese, e quella forza politica sarebbe contro di lei, pure essendo nel patto di coalizione.

Una voce. L’ambasciatore Reale insegna. (Commenti).

CORTESE. Signori, si è parlato molto di una svalutazione della lira. Mi sia consentito – concludendo queste brevi battute, al termine di questo dibattito ed in ora cosi tarda – di dirvi che vi è un’altra svalutazione: vi è la svalutazione della vita umana. Perché? Perché si uccide con una straordinaria semplicità. Si ritiene che la lotta politica possa giungere fino alla violazione dell’integrità fisica dell’avversario.

Onorevole Presidente del Consiglio, noi avevamo presentato un’interpellanza sul disarmo. Ella ha creduto di risponderci nel suo discorso. Ma noi dobbiamo dirle che il problema del disarmo è un problema fondamentale. Se le armi sono nelle mani di cittadini o di organizzazioni, e non soltanto nelle mani dei tutori della legge, onorevole Presidente del Consiglio, noi non potremo parlare di democrazia. Ella ha dato delle cifre. Guardi! Si fa della demagogia di destra e di sinistra sui partigiani. E questa demagogia, che è spesso speculazione politica, offende la grandezza di quel sacrificio, la purità di quell’eroismo. Noi non vogliamo farlo. Noi vogliamo dire: «Riconoscete tutti i diritti a questi combattenti per la nostra liberazione». Ma non si dolga nessuno se in quest’Aula un deputato ponga questo piccolo quesito. Quindici giorni or sono abbiamo visto – non possiamo più negarlo – che ci sono delle armi in giro; delle armi, onorevole De Gasperi, perché abbiamo visto degli armati. Noi domandiamo: «In questi ultimi quindici giorni, quante armi sono state rastrellate?» Perché non si tratta qui di benemerenze. Il più eroico degli artiglieri, che ha tenuto ferma la sua volontà inchiodata al suo pezzo nella battaglia, non ho mai sentito dire che abbia il diritto di portarsi il cannone a casa. Non è mancanza di riguardo a nessuno. Non è svalutare dei sacrifici o partito preso. È una domanda che sgorga dal nostro senso di democratici convinti. Noi diciamo: «Se ci sono dei partigiani armati, depongano queste armi, perché nella Repubblica italiana, armate devono essere soltanto le forze regolari dell’esercito e della polizia».

Dunque, dicevo, è questa la crisi; è una crisi del compromesso, soprattutto perché un partito politico il quale costituzionalmente ha in sé taluni caratteri che gli rendono difficile la collaborazione sul terreno democratico, crea una atmosfera di equivoco, crea la possibilità di ritornanti agitazioni e di ritornanti aggressioni al Governo.

Noi lo diciamo con un senso di profonda amarezza, perché noi sappiamo che non è questione di crisi di rimaneggiamento. Non c’è nessuna ragione di sostituire un membro del Governo all’altro o di sceglierlo aprendo la gara tra gli esponenti più in vista dei partiti di massa.

Il problema vero è il problema del compromesso operante, perché senza questo compromesso operante vi è sempre più intensa questa sensazione di sfiducia. Onorevole De Gasperi, Lei non è certo in ansia per il voto di fiducia: lo avrà nel modo più sicuro domani, ma non si tratta di avere un voto di fiducia in quest’aula, si tratta di dare la fiducia al Paese. Non fate risorgere il fascismo. Lei, onorevole De Gasperi, forse in un momento di amarezza, sentendosi colpito dall’ombra del ’22 che incombe sulla Nazione, ha avvertito il bisogno di dire: «Io non sono un Facta». Non lo fate risorgere voi del partito comunista, creando questa atmosfera di sfiducia, di stanchezza, di eccitazione, di intolleranza…

Una voce a sinistra. Sono le masse che si agitano! (Commenti Rumori).

Una voce a destra. Ma che masse! Siete voi. (Rumori).

CORTESE. Voi che tenete il comando delle organizzazioni, che siete in grado di dominare le agitazioni, voi che sapete regolarle, graduarle, impedite queste agitazioni (Rumori a sinistra) sottoponendo tempestivamente al Governo le vostre richieste. Voi fate parte del Governo, e avete tutte le sedi opportune per far valere le vostre richieste.

Non fate risorgere il fascismo, perché il popolo non lo vuole. Il popolo chiede tranquillità e ricostruzione: il Paese vuole lavorare e risorgere. (Vivi applausi a destra e al centro Rumori a sinistra).

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se sia appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

BENEDETTI. Domando la verifica del numero legale!

PRESIDENTE. La chiusura è già stata approvata e la sua richiesta di verifica del numero legale è tardiva.

Dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la parola ai presentatori di ordini del giorno e al Governo.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha trasmesso il decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455, che approva lo Statuto della Regione siciliana.

In base al disposto del decreto stesso, egli ha chiesto che il provvedimento sia sottoposto alla Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione.

Poiché vi è una Commissione incaricata di redigere il progetto di Costituzione e una delle sue Sottocommissioni si occupa particolarmente del problema delle autonomie regionali, con particolare riguardo alle situazioni locali esistenti (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige), l’Assemblea deve decidere se il predetto Statuto debba essere inviato, appunto, alla Commissione per la Costituzione.

Se non vi sono osservazioni in contrario, così rimarrà stabilito.

(Così rimane stabilito).

Interpellanza e interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Caroleo ha presentato la seguente interpellanza, per la quale ha chiesto l’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, e ai Ministri di grazia e giustizia e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se il Governo abbia avuto piena notizia della preoccupante situazione determinatasi da qualche settimana in Calabria, e particolarmente nella provincia di Catanzaro, dove si sono invase e si vanno alla giornata invadendo estese zone di terre coltivate e avviatissime aziende, ad opera di numerosi gruppi di contadini, con minacce e violenze contro persone e cose, tra l’indifferenza o la impotenza delle autorità costituite.

«Si chiede altresì di sapere quali misure siano state adottate od intenda di attuare il Governo per il più rapido ristabilimento dell’ordine, non tanto in ossequio alla legge e al diritto privato, quanto in difesa del tranquillo lavoro e della pacifica convivenza di quelle pazienti e generose popolazioni, abbandonate a se stesse, e in difesa anche della continuità della produzione agricola, a cui è interessata, oggi più che mai, l’intera Nazione.

«Dovrebbe darsi preferenza a provvedimenti rivolti a superare o almeno ad attenuare i disagi e le sperequazioni nel campo economico, altra volta dall’interpellante segnalati in questa Assemblea e manifestatisi ora come la principale causa dei sopravvenuti disordini e dell’instaurato deprecabile sistema di «ragion fattasi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere a questa interpellanza.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, Ministro degli affari esteri. Risponderò domani, nelle mie dichiarazioni, a questa interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

BATTISTI, Segretario legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e del tesoro, per sapere se non ritengano necessario venire incontro alle disastrose condizioni dei pensionati delle Opere pie non iscritti alla Cassa nazionale di previdenza sociale, che ancora percepiscono gli emolumenti dell’ante-guerra, con un provvedimento legislativo che estenda alle Opere pie l’obbligo di concedere ai propri pensionati gli aumenti concessi dallo Stato, o con l’assumere lo Stato stesso l’onere dell’adeguamento delle pensioni.

«D’Amico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste, dell’interno, delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritengano opportuno provvedere con urgenza ad emanare una legge che preveda il finanziamento delle spese per il ripristino della funzionalità dei borghi rurali costruiti nel latifondo siciliano, considerato che la situazione venutasi a determinare è grave, essendo in atto in stato di abbandono senza nemmeno i più elementari servizi igienico-sanitari. Tale stato di fatto pregiudica la consistenza patrimoniale immobiliare e mobiliare di beni che sono beni dello Stato, ed essenzialmente la salute delle laboriose famiglie di contadini che vi dimorano, prive delle elementari condizioni di vita civile. Infine se non ravvisino la necessità di ricostituire la Commissione interministeriale, a suo tempo istituita, per lo studio dell’organizzazione dei borghi, integrandola molto opportunamente con qualche elemento politico, il quale possa portare la viva voce dei contadini siciliani.

«D’Amico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non stimi giusto e degno emanare un provvedimento legislativo che, correggendo irregolarità ed ingiustizie, immetta nei ruoli, riconoscendone il diritto alla pensione, quei maestri delle scuole elementari i quali, regolarmente diplomati, insegnano da molti anni – alcuni anche da venti – come provvisori; e se non stimi parimenti giusto ed onesto che a questa categoria di insegnanti, nelle assegnazioni delle sedi per l’anno scolastico 1946-47, siano valutati tutti gli anni di effettivo servizio prestato e non solo dieci, come si fa attualmente.

«D’Amico».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della guerra, per conoscere se non ritenga opportuno emettere i provvedimenti necessari perché, in analogia a quanto praticato per gli ufficiali di armi diverse da quelle cui sono comandati, gli ufficiali dei bersaglieri e carristi, in ossequio alle pagine di gloria e di eroismo scritte in tutti i tempi, in omaggio alla memoria dei fratelli d’arme immolatisi in ogni epoca per la grandezza della Patria, siano autorizzati, durante il periodo di vita dell’Esercito di transizione, a portare, unitamente alle mostrine dei reggimenti, i loro gloriosi fregi e distintivi.

«Castiglia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere a qual punto si trovino gli studi relativi alla riforma organica delle Camere di commercio, industria ed agricoltura, e se non ritenga opportuna – nelle more delle attese disposizioni definitive – l’emanazione immediata di un provvedimento transitorio, modificativo ed integrativo del decreto-legge luogotenenziale 21 settembre 1944, n. 315, per il quale Camere ed Uffici hanno avanzato specifiche proposte e schemi completi di norme, e dal quale in ispecie le categorie di dipendenti dalle Camere e dagli Uffici attendono maggiore sicurezza di lavoro e possibilità di rendimento.

«Recca».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se ritenga opportuno disporre con apposita circolare la esatta interpretazione dell’articolo del decreto legislativo luogotenenziale 11 gennaio 1946, n. 18, nel senso che la indennità debba essere corrisposta al personale in servizio nei centri sinistrati anche se dimorante fuori sede. L’interpretazione contraria data dall’Amministrazione delle ferrovie è in contrasto con lo spirito e la lettera del decreto e con l’interpretazione data da altre Amministrazioni statali, che giustamente hanno ritenuto che maggiore sia il disagio fisico ed economico di quegli statali che prestano servizio in città sinistrate e dimorano in località ad esse vicine. Particolarmente assurda è l’applicazione del decreto nel compartimento di Napoli, dove è stato escluso dalle indennità perfino il personale sinistrato costretto a stabilire la propria dimora nei centri viciniori.

«Cortese».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga indispensabile dare immediatamente inizio ai primi lavori per grande bonifica delle Valli di Comacchio, tenuto presente che fino ad oggi, a causa delle inesplicabili lentezze burocratiche, non è ancora stato pubblicato l’annunciato decreto di nomina del Commissario e tanto meno stanziati i primi fondi da lungo tempo promessi, mentre le popolazioni di Comacchio continuano a vivere in condizioni di estremo disagio, che non hanno alcun riscontro nell’Alta Italia, e riesce sempre più difficile mantenere l’ordine pubblico, dato lo stato di miseria e di disoccupazione endemica, aggravato e reso irreparabile dalla distruzione delle valli da pesca, avvenuta nel periodo della occupazione tedesca.

«Preti».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se non possa dare istruzioni al prefetto di Messina, perché valuti in rapporto alla situazione locale ed all’esito delle elezioni politiche la opportunità di procedere alla rinnovazione dell’amministrazione comunale, onde assecondare la legittima aspirazione della popolazione locale così come ha disposto per le città di Brindisi, Taranto, Lecce.

«Candela, Martino Gaetano, Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità), per sapere:

1°) se non ritenga opportuno disporre una severa inchiesta sul funzionamento del Sanatorio Chiaravalle (Catanzaro), dove i ricoverati sono maltrattati per deficienza di vitto e d’igiene;

2°) nell’esito positivo dell’inchiesta, se non ritenga necessario provvedere, con intervento risolutivo, ad eliminare le deficienze lamentate in modo da dare agli ammalati di tubercolosi una seria assistenza sanitaria.

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere perché è ancora in vita l’Ente bonifiche albanesi con relativi uffici, personale, ecc. e, nel caso in cui esso non abbia più ragione di essere, perché non si provvede alla sua soppressione, destinando i fondi di sua pertinenza ad utili iniziative nel territorio nazionale.

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se intende modificare l’articolo 20 del decreto legislativo luogotenenziale 21 agosto 1945, n. 508, con il quale viene fissata l’età di anni 30 per gli agenti di custodia e di 28 per i sottufficiali per l’autorizzazione al matrimonio, in considerazione che tale disposizione è eccessivamente limitatrice della libertà matrimoniale e non è richiesta dall’interesse collettivo.

«Il limite per l’autorizzazione dovrebbe essere di 25 anni, mentre dovrebbero essere ammessi al concorso anche gli ammogliati di età maggiore, inferiore ai 25 anni.

«Riccio Stefano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia, della marina e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se intendono, per reprimere la pesca di frodo con bombe – la quale va distruggendo il patrimonio ittico con la conseguente disoccupazione dei lavoratori del mare nei centri marinari e la elevazione del prezzo del pesce – emettere un provvedimento legislativo con pene severissime o quanto meno modificare le sanzioni contenute nel testo unico per la pesca. È opportuno tener presente che fatti gravissimi si vanno verificando nei centri marinari del Napoletano, mentre occorre ricordare che la sanzione prevista dal testo unico è di una ammenda massima di lire 2000.

«Riccio Stefano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se corrisponda a verità quanto è stato annunciato dalla stampa circa la prossima concessione agli insegnanti elementari dei ruoli aperti dal grado XII al IX, essendosi diffuso il dubbio fra interessati e in ambienti sindacali che la concessione progettata non garantisca, in armonia con lo sviluppo della carriera dei maestri, il loro inquadramento secondo l’ordinamento statale per gli impiegati provvisti di titolo di studio equivalente. L’interrogante chiede al Ministro se non creda opportuno assicurare gli interessati che il provvedimento in corso di approvazione rispetterà, a tutti gli effetti, le linee generali dell’inquadramento statale, sia nei gradi che nello sviluppo della carriera.

«Galati».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere a qual punto si trovino gli studi relativi alla riforma organica delle Camere di commercio, industria ed agricoltura, e se non ritenga opportuna – nelle more delle attese disposizioni definitive – l’emanazione immediata di un provvedimento transitorio modificativo ed integrativo del decreto legislativo luogotenenziale 21 settembre 1944, n. 315, per il quale Camere ed uffici hanno avanzato specifiche proposte e schemi completi di norme, e dal quale in ispecie le categorie di dipendenti dalle Camere e dagli Uffici attendono maggiore sicurezza di lavoro e possibilità di rendimenti.

«Recca».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per l’assistenza del gran numero di tubercolotici che vi sono in provincia di Agrigento, espressione questa delle condizioni di estrema miseria di quelle popolazioni e per la mancanza assoluta di sanatori antitubercolari, per cui non possono effettuarsi ricoveri in provincia; e per sapere inoltre se non intenda provvedere con la costruzione d’urgenza di qualche sanatorio o coll’adottare altri edifici, in condizioni di contingenza.

«Borsellino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, e i Ministri del tesoro e di grazia e giustizia, per conoscere se non ritengano doveroso apportare adeguati miglioramenti economici al clero congruato, soprattutto per le spese straordinarie di culto e di disagiata residenza, onde attuare la giustizia nei riguardi di una benemerita categoria di cittadini cui spetta il compito più importante nella ripresa morale della Patria.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga urgentissimo disporre che l’Ente acquedotti siciliani prontamente dia inizio ai lavori di derivazione di acqua delle sorgenti Mele – conforme concessione del Ministero dei lavori pubblici con decreto n. 7337 del 9 novembre 1938, al comune di Milazzo, e disciplinare del 29 maggio 1939, in conformità del progetto esecutivo del nuovo acquedotto presentato il 24 maggio 1941 – provvedendo alle opere di presa e dell’edificio di Misura che rappresentano la prima parte di esecuzione dei lavori, indispensabili per tranquillizzare quelle laboriose popolazioni costrette, d’inverno, a bere acque soggette alla costante clorurazione perché risultate permanentemente inquinate; e di estate razionate con due ore di erogazione di acqua salvo le interruzioni di energia elettrica, trattandosi di acque sollevate da pozzi con elettropompe, poiché la captazione dall’attuale galleria filtrante, di estate si riduce da 15 litri al secondo a zero.

«L’esecuzione di queste opere, utili, indispensabili ed improrogabili, servirà a ridurre anche l’attuale disoccupazione foriera di miserie e di disordini.

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga giusto consentire ai funzionari che esplicarono le funzioni di segretario comunale in base al disposto della legge 1° settembre 1940, n. 1488, e che si resero benemeriti per il servizio prestato durante il periodo bellico, di sostenere gli esami per il conseguimento dell’abilitazione a tali funzioni, anche se sforniti del titolo richiesto dall’articolo 175 della legge 27 giugno 1942, n. 851. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Quintieri Adolfo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni che ritardano la promessa attuazione di un servizio di automotrici sulla linea ferroviaria Cosenza-Paola. Trattasi di una linea con pendenza superiore al 75 per mille, su cui la trazione a vapore si è rivelata inefficiente e pericolosissima, tanto è vero che, in pochi anni di esercizio, si sono avuti parecchi disastri e quotidianamente si verificano incidenti. Senza contare che occorrono tre ore e mezzo per coprire un percorso di appena quaranta chilometri. Si impone perciò la immediata attuazione del servizio delle automotrici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Quintieri Adolfo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per essere informato se non ritenga necessario fronteggiare la fortissima disoccupazione a Cimolais (Udine) con lavori eminentemente utili, quali sono quelli di sistemazione montana del torrente Cimolaiana, preventivati in lire 8 milioni. Il torrente Cimolaiana è uno dei più sregolati del Friuli e i progetti della sua sistemazione sono stati apprestati dal Corpo forestale di Udine. (L’interrogante chiede la. risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga necessario ed urgente accogliere il voto unanime del Consiglio comunale di Milano che venga senz’altro prorogato il blocco degli affitti stabilito dal decreto legislativo 12 ottobre 1945, n. 669, affinché, in attesa di un provvedimento organico in materia, siano evitate incertezze sui rispettivi diritti dei locatori e dei conduttori, che dànno già luogo ad innumerevoli liti giudiziarie ed a gravi preoccupazioni nella parte meno abbiente della popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Targetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga di affrettare la revoca del regio decreto 17 marzo 1930, n. 394, e del successivo regio decreto-legge 13 febbraio 1939, n. 310, concernenti l’attività e il patrimonio dei Patronati scolastici, e la sua effettiva applicazione. Sciolte l’O.N.B. e la G.I.L. e costituitosi, a scopo puramente liquidatorio, il Commissario generale per la Gioventù italiana, i Patronati chiesero istantemente la restituzione dei loro patrimoni. Ma dalla data della liberazione essi ancora attendono l’invocato provvedimento di legge, che fu solo vagamente annunziato. Frattanto i Patronati stessi versano in stato di grave paralisi, mentre urgono le necessità dell’assistenza scolastica infantile. Si fa presente a tale riguardo che l’8 giugno 1946 i rappresentanti dei Patronati scolastici dell’Alta Italia, riunitisi a Milano, hanno espresso unanimemente i seguenti desiderata:

i°) l’immediata pubblicazione del decreto che disciplini la complessa materia dell’assistenza scolastica investendone il Patronato scolastico e la costituzione dei consorzi provinciali dei Patronati scolastici;

2°) l’improrogabile liquidazione della disciolta G.I.L. e conseguente scioglimento del Commissariato Gioventù italiana e di altri enti similari che inopportunamente interferiscono, intralciandoli, nei compiti dei Patronati scolastici;

3°) il trasferimento dei beni delle attività della disciolta G.I.L. ai Patronati stessi ed alle scuole. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Franceschini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non intenda andar incontro ai bisogni della popolazione disoccupata di una delle zone più diseredate e povere d’Italia colla pronta esecuzione dei lavori di sistemazione dei torrenti Chiablina, Chiudola e Settimana, in territorio di Claut (Udine), di un previsto importo complessivo di spesa di 17 milioni ed i cui progetti esecutivi sono già stati apprestati dal Corpo forestale di Udine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro degli affari esteri, per conoscere le ragioni per le quali, malgrado che una disposizione del trattato di commercio, stipulato fra la Francia e l’Italia il 9 febbraio 1946, stabilisca doversi applicare il cambio di lire 189 per ogni 100 franchi nei pagamenti dell’indennità di risarcimento di danni per infortunio sul lavoro e delle pensioni di invalidità e vecchiaia, ai lavoratori già residenti in Francia e rimpatriati, in molti casi si applichi ancora la precedente misura di cambio, con gravissimo nocumento per gli interessati; e per avere, inoltre, comunicazione delle misure prese per togliere tale inconveniente e per ottenere il pagamento delle differenze arretrate a partire dal settembre 1944. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se non ritenga indispensabile annullare il provvedimento di collocamento in pensione del ferroviere Beorchia Luigi, conduttore capo del deposito personale viaggiante di Udine, ed accogliere invece le sue domande di reintegrazione in servizio presentate il 22 maggio 1945 o il 31 agosto 1945 alla Direzione generale del compartimento di Trieste, posto che il Beorchia si era dimesso dal suo posto il 5 settembre 1944, per seguire i consigli impartiti dalla Radio Londra ai ferrovieri di abbandonare, con qualsiasi pretesto, il loro posto, per non collaborare coi nazi-fascisti, in seguito agli avvenimenti del settembre 1943. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere – premesso che dodici importanti dipinti dell’ex Collezione Gualino, trasportati dall’Inghilterra in Italia nel 1940, allo scoppiare della guerra, sono ora trattenuti a Roma in deposito provvisorio alla Galleria Borghese perché degni di figurare in una pubblica raccolta italiana – quali motivi si frappongono ad una pronta restituzione dei medesimi alla Galleria di Torino, dove sono raccolte ed esposte le rimanenti opere della stessa Collezione e dove essi figurarono fino al 1933, quando a richiesta dell’ambasciatore Grandi furono spediti arbitrariamente a Londra per arredamento di quella Ambasciata. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Chiaramello, Roveda, Villabruna, Colonnetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei trasporti e dei lavori pubblici, per sapere se è loro intendimento inserire nel programma dei lavori per il 1946-47 il completamento della ferrovia Lucca-Aulla. La Garfagnana, priva completamente di industrie e ricca di manovalanza (aumentata enormemente oggi dalla crisi quasi totale del commercio del marmo, per il quale la Garfagnana occupava il terzo posto dopo Massa Carrara e la Versilia) ha oggi circa duemila disoccupati, il cui numero sarà sicuramente raddoppiato durante l’inverno. Nell’Alta Garfagnana l’unico lavoro in atto è la riparazione del tronco ferroviario Camporgiano-Piazza al Serchio, con un appalto di 23 milioni di lire. È indispensabile, per venire incontro ai bisogni di una delle zone più sinistrate d’Italia, provvedere a finanziare, almeno un altro lotto, sulla costruenda Piazza al Serchio-Monzone, onde non condannare alla fame un numero notevole di operai. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Biagioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della guerra, se non ritenga opportuno che a mano a mano che le numerose caserme esistenti nella città di Caserta si vanno derequisendo, siano messe a disposizione del comune per essere adibite a scopi civili ed industriali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Buonocore».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’istruzione, per sapere se non ritenga necessario che i posti di ispettore centrale per le scuole medie ed elementari siano coperti per pubblico concorso, perché la delicata funzione sia esercitata col dovuto prestigio e se, quindi, non debbano essere restituiti alle loro sedi di origine coloro che furono assunti senza concorso e senza alti meriti scientifici o didattici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Buonocore».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere i motivi che hanno impedito a tutt’oggi le bitumazioni delle strade nazionali in Sicilia, ridotte in condizioni di impraticabilità, mentre si è già provveduto lodevolmente in confronto delle strade similari di altre regioni d’Italia, e per conoscere quali provvedimenti intenda emanare in merito alle bitumazioni reclamate e sempre più necessarie. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Volpe, D’Amico Diego, Salvatore, Trimarchi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.5.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.