ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCCXLIX.
SEDUTA DI MARTEDÌ 13 GENNAIO 1948
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedo:
Presidente
Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):
Presidente
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Disposizioni sulla stampa (15).
Labriola
Calosso
Scoccimarro
Cevolotto, Relatore
Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio
Per una interpretazione autentica della XVII disposizione transitoria de la Costituzione:
Presidente
Sansone
Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio
Interrogazione (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Zotta.
(È concesso).
Risposte scritte ed interrogazioni.
PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte a interrogazioni presentate da onorevoli deputati.
Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.
Seguito della discussione del disegno di legge:
Disposizioni sulla stampa (15).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Disposizioni sulla stampa (15).
È iscritto a parlare l’onorevole Labriola. Ne ha facoltà.
LABRIOLA. Il mio intervento, onorevoli colleghi, non prenderà molto tempo: esso è quasi limitato ad una dichiarazione di voto in cui esporrò le ragioni in forza delle quali voterò contro la legge.
Da un pezzo non reputavo necessario prendere parte ai lavori dell’Assemblea, perché appunto pensavo che, purtroppo, oramai, le questioni essenziali sono risolute dai partiti, nelle loro stanze interne. Tuttavia alcune delle osservazioni le quali vennero fatte ieri in questa Assemblea da taluno dei nostri colleghi, mi hanno persuaso che, sia pure a titolo meramente dichiarativo, un intervento sia consigliabile.
Questa discussione, se mai, mi ha persuaso che la faccenda: destra o sinistra, è puramente accademica. Propositi di destra furono pronunziati a sinistra, ed a destra si esposero censure che dovevano essere dichiarate a sinistra.
Se la destra è autorità e la sinistra libertà; a sinistra c’è forse più autorità che a destra.
Il problema: conservatori o progressisti, sciaguratamente, non ha più senso nelle nostre Assemblee, dominate dai partiti e dai loro agglomerati parlamentari.
Prima di accennare alle osservazioni che il testo governativo della legge suggerisce, io desidero intrattenervi un semplice istante su una proposta la quale è stata affacciata dall’onorevole Giannini. Ha detto l’onorevole Giannini che sarebbe espediente non trattare la discussione di questa legge nella sede presente e rinviarla alla futura riunione del Parlamento ordinario.
A me pare che la proposta, come non è stata sufficientemente dimostrata dall’onorevole Giannini e non mi è parsa sostenuta da valevoli ragioni, non corrisponda alle condizioni di necessità dell’Assemblea. Abbiamo tutto il tempo possibile per poter discutere questa legge. In un certo senso è molto utile che questa legge si discuta. Nessuno ci urge ad affrettare il tempo della discussione e la questione è di interesse pubblico. La discussione degli emendamenti ci permetterà appunto di approntare un testo conforme alle esigenze del problema.
Aggiungo un’altra osservazione a proposito della proposta che l’onorevole Giannini ha fatto in questa Assemblea di rinviare la discussione ad un’altra Assemblea. La futura Camera, se lo crederà, potrà mutare il testo che noi le avremo trasmesso. Invece di rifiutarci di discutere il presente progetto, noi possiamo rimetterci al futuro Parlamento, per un testo nuovo, per una modificazione di quello che avremo approvato, o per la sua conservazione. Il rinvio della discussione è una superfluità, o uno schivare le responsabilità.
Il senso della presente discussione così dirò per entrare in materia è tutto dato da un contrasto che si è creduto di porre in rilievo: libertà contro licenza, e le parti più sgradevoli dell’attuale progetto sono state poste sul conto di una difesa che s’intendeva compiere della libertà contro la licenza.
Si è detto: noi vogliamo tutelare la libertà di stampa, ma non possiamo consentire a una licenza la quale si chiami libertà di stampa. Ho voluto richiamare questo punto perché i soli tre uomini politici e pensatori i quali dell’argomento si sono occupati in sedi e momenti differenti, dico successivamente, Robespierre, Humboldt e lo Stuart Mill, l’artificio di questa distinzione hanno voluto notare.
Licenza, libertà. Tutte le volte in cui alla libertà si è voluto fare oltraggio si è detto che questo si faceva per impedire la licenza, ma che sia licenza, nella sua differenza dalla libertà, ho pensato vedere e non ci sono riuscito.
In un discorso dell’11 maggio 1791, Massimiliano Robespierre si occupava della questione della libertà di stampa e proponeva all’Assemblea di adottare un disegno che corrispondesse alla sentenza della Dichiarazione d’indipendenza americana; sostanzialmente, nemmeno lui sapeva operare questa differenza fra libertà e licenza.
Egli andava tanto oltre, da dire che neanche in materia di diffamazione, la questione della licenza può proporsi. La diffamazione non trova un argine, un limite se non nell’opinione. Se c’è diffamazione contro la giustizia, contro la saggezza, essa sarà colpita dalla opinione pubblica e la repressione del fatto è dovuta dall’opinione pubblica. Naturalmente, qui si parla della diffamazione a mezzo della stampa. Ma la legge punisce in genere la diffamazione perché delittuosa, ed oltre la legge generale non si deve andare.
Ricordo per me stesso che le tesi di Robespierre sulla libertà di stampa, son poi la traccia delle più minute ed estese trattazioni sul tema della libertà tanto di Wilhelm von Humboldt, quanto dello Stuart Mill. Ad esse non vi è nulla da aggiungere, sebbene adesso la partitocrazia, fra le tante sue deviazioni, della libertà non parli più se non come uno strumento della parte. E quindi accade che mentre della libertà rintronino le nostre orecchie tutti, poi, son pronti ad immolarla. È chiaro, infatti, che se la libertà deve servire a me, perché essa mi serva, io la debba negare al mio avversario, ad ogni modo alle parti diverse dalla mia o ad essa opposte.
La libertà è un edificio, al sommo del quale io pongo la libertà di stampa. Persino quella di riunione è ad essa minore, e se dovessi scegliere, per elezione impostami, fra l’una, l’altra, appunto quella di stampa eleggerei. La conclusione è che nulla contro la libertà di stampa deve praticarsi. Soltanto per mezzo suo, noi siamo quello che siamo. Rispettiamola con senso religioso della sua essenza.
Il testo che ci è stato offerto, come tutti gli altri testi su questo argomento, comincia col concedere che alla libertà di stampa non si abbia da fare nessun ostacolo. Ma quando poi andate ad esaminare cotesto progetto di legge e particolarmente i vari articoli che lo formano, quando questo esame voi farete, allora vi accorgete che la proclamazione generica non risponde al fatto concreto.
Perciò appunto ho risolto il problema che essa pone: non voterò questo disegno di legge, darò un voto contrario ad esso. Vorrei però esprimere soltanto la mia turbata meraviglia che alcuni dei dispositivi di questo disegno di legge abbiano potuto trovare l’approvazione di uomini che seggono sui banchi alla mia destra, che son poi quelli dell’estrema sinistra. Non scorgo relazioni di minoranza di nessun genere e ne concludo che la solidarietà della Commissione è totale intorno a tutti i punti del disegno presentatoci, anche se alcuni di questi punti sono manifestamente da condannare e da eliminare. Ritorno al mio principio. Destra o Sinistra? Fole e baie. Tutti pensano al partito, ed al partito son pronti tutto a sacrificare. Povera libertà! Quando troverai devoti puri al tuo idolo?
Il disegno di legge, in sostanza, può richiamare la nostra attenzione su tre punti essenziali: quello che riguarda la registrazione, quello che riguarda la pubblicità, interessante la finanza delle pubblicazioni ed infine la questione del sequestro. Ma da questa parte dell’Assemblea, come da altre parti, è stato accennato, talvolta a titolo di lode, più spesso a titolo di deplorazione, alla mancanza nel testo di un accenno all’albo giornalistico. Vedo che alcuni dei miei colleghi in giornalismo si dichiarano appunto favorevoli all’introduzione di quest’albo. Per conto mio sono contrario ad esso. Il collega Manzini ieri notava che nessuno ha trovato a ridire che per gli avvocati si costituisse un albo, che per i medici o per altre professioni, e persino per la farmaceutica, e così via si formasse un albo. E perché dunque, si domandava l’oratore, perché dunque togliere la delizia di un albo ai giornalisti? Alcuni giornalisti hanno fatto propria questa rivendicazione e per poco non hanno proclamato che quell’albo dovesse essere la salute della professione, dicono: per risanarla e purificarla, a fine di evitare che gli elementi dubbi possano entrarvi o permanervi.
Io credo che ci sia un equivoco che vale la pena venga chiarito. Gli albi professionali attestano unicamente il possesso di titoli legali e tecnici, dichiarati nei diplomi, per esservi iscritti. Un albo degli avvocati serve per i giudici e per le parti contendenti allo scopo di conoscere se la persona interessata ha diritto di esercitare la professione, cioè se possegga i titoli per esercitarla. L’albo è una semplice indicazione del possesso di un diploma, altrimenti conseguito, e si forma automaticamente, cioè a nessuno che possegga il diploma si può negare l’iscrizione.
Ciò per gli avvocati, ciò per i medici, ciò per gl’ingegneri, e per i farmacisti. Esso è garanzia di servizi privati, è attestazione di facoltà: l’albo non è un esame; è un catalogo di esaminati.
L’utilità di questi albi è indiscutibile; appunto perché l’iscrizione in essi è automatica e legale.
Ma qui non si tratta di fare un albo il quale attesti che le persone comprese nell’albo hanno determinate facoltà legali e vi stanno in forza di un diritto proprio. Si tratta, invece, di un documento che attesta una selezione tra individui, praticata da altri individui del mestiere, però sprovvisti anch’essi di facoltà legale. Può essere utile un albo dei giornalisti – mi si perdoni la parola – per i beati possidentes, che possono in varia guisa ostacolare l’iscrizione in esso di altre persone. Ma che cosa può attestare un albo giornalistico? L’onestà delle persone? Le loro attitudini? La loro integrità? Questo si attesta con altre manifestazioni della parte. Non è l’iscrizione nell’albo che può aggiungere qualche cosa in simile materia od affermarla.
Il giornalista è colui che esercita la più libera di tutte le professioni e, nello stesso tempo, la più pericolosa: la più libera, perché chiunque può essere giornalista; la più pericolosa, perché deve esercitarla in condizioni di estrema incertezza soggettiva. Pericolosa professione indiscutibilmente, che non potrà mai essere esercitata se non da coloro che sappiano guadagnare i loro galloni. Professione pericolosa per definizione, ripeterò, ma libera come nessun’altra al mondo. Perciò ho detto che della libertà di stampa bisogna occuparsi nel senso in cui veramente ci si deve occupare di essa, cioè nel non creare ostacoli e porre limiti. La libertà è condizione negativa; e questa condizione negativa bisogna rispettarla. Allorché create un albo, avete creato l’esclusione; quando create l’esclusione avete creato un principio, in nome del quale voi escludete, e quindi fate opera di parte. All’infuori dei casi di mancanza di rettitudine e di probità, non vi sono ragioni per escludere chicchessia dall’esercizio di questa, come di qualsiasi altra professione. Ma se c’è una professione nella quale la mancanza di probità e di correttezza può subito essere intravista e identificata, indiscutibilmente è la professione del giornalista; la quale si esercita alla luce del sole, ed è esposta ad un esame permanente da parte del pubblico. Il cattivo avvocato, il cattivo medico possono celarsi, e vi son mille espedienti perché si camuffino. Purtroppo il cattivo giornalista si scorge a prima vista. Se v’è in lui scorrettezza o disonestà, ciò si scorge immediatamente. E qui l’albo non ci fa nulla, o invece offre un mezzo in una malintesa solidarietà per nascondersi.
L’opinione pubblica, onorevoli colleghi, sia che vi interessiate o no della professione giornalistica, non tollera che colui il quale non ha mani nette e cuore sano, che può rimproverarsi qualche cosa ammaestri gli altri intorno a qualche cosa. Materialmente può accadere che egli scriva, che egli enunci delle proposizioni, che egli si proponga di influire in qualche maniera sul pensiero dei suoi vicini e concittadini, ma ognuno sa quale valore si debba attribuire a questa pensiero ed a questa opinione. L’uomo non sorretto dall’opinione della probità pubblica non potrà influire seriamente sull’opinione pubblica. Ci vuole ben poco a poter ricondurre chi non abbia gli attributi della probità e correttezza nei suoi limiti naturali; perché, appunto a causa della libertà di stampa, egli potrà essere facilmente denunciato e messo nella condizione che la sua parola diventi indifferente e nulla per l’opinione pubblica.
Il mio sentimento personale è che l’albo non risolverebbe nulla. Può certamente accogliersi l’albo, se ne può proporre l’introduzione, si può anche consigliare che l’albo sia a sua volta proposto agli altri giornalisti come qualcosa, la quale sia utile che venga da essi in via libera e volontaria utilizzata. Si può, nelle condizioni puramente personali, pretendere e desiderare che il pubblicista, come qualsiasi altra persona che eserciti determinata funzione nella società, sia iscritto all’albo, ma non rendere ciò obbligatorio.
Ho sentito esporre non dirò querele, ma deplorazioni per la mancanza nel progetto di un rilievo dell’albo.
Per conto mio, trovo che una delle circostanze, la quale renderebbe almeno in parte accetto il disegno di legge e più degno di essere consigliato all’approvazione dei nostri colleghi, sia appunto la mancanza del rilievo della istituzione dell’albo.
Ripeto ancora una volta che se i giornalisti desiderano che un albo dei giornalisti si formi e che esso sia di regola comune per tutti i giornalisti e per coloro che del giornalismo intendono servirsi, tutto ciò sta bene; il desiderio è legittimo. Coloro i quali chiedono il parere dei loro colleghi per essere accolti nell’albo faranno bene; si può consigliare che ciò si faccia, ma non obbligatoriamente.
Non si deve creare una corrente di opinione, la quale suggerisca come obbligatoria la formazione dell’albo. L’albo è una necessità sociale per certe professioni, non può esserlo per i giornalisti. E vorrei appunto che i miei colleghi dell’Assemblea mettessero al di sopra di tutto la persuasione che, al di fuori delle qualità personali e delle attitudini di chi professa lo scrivere per ragion pubblica e del riconoscimento di queste qualità non v’è nulla; non c’è più niente da riconoscere e da ammettere.
I pubblicisti credano nelle loro qualità ed il pubblico sappia pregiarle. In questa materia non c’è altro da dire. L’albo o è un inganno o è una superfluità. Il giornalista sta oltre e al disopra dell’albo. E se no, facciamo persino un albo dei deputati! Gli elettori scelgano liberamente il deputato; i lettori eleggano liberamente il giornalista degno di essere letto!
Abbiamo in questa maniera esaurito la questione essenziale riguardante la libertà di stampa. Passiamo, per rapidi cenni, alla legge che ci è proposta. Quali sono gli elementi essenziali che la formano? Io dico che le particolarità essenziali, specifiche di essa, rispetto alle altre leggi del genere sono tre: quella che riguarda la registrazione; quella che concerne il render pubblica la finanza del giornale e poi la grossa questione del sequestro. Esse consentono una questione introduttiva ed io sono sincerissimamente meravigliato come abbia potuto sfuggire ai relatori, se non a tutti, almeno a quelli delle parti democratiche dell’Assemblea. Non so se i colleghi abbiano gettato uno sguardo sull’articolo 15 di questo disegno di legge, il quale contiene, di per sé, una vera enormità. Può darsi che io non conosca tutte le leggi sulla stampa dei vari paesi e che pertanto qualcosa di somigliante sia contenuto in leggi del genere, ma almeno, per quanto si riferisce al nostro Paese, questa mi appare la più evidente e malefica di tutte le novità che potevano mai proporsi. Mi pare che da sola qualifichi tutta la legge. Del resto, è proprio di ogni fatto intellettuale che esso si manifesti in un qualche elemento della totalità. Cotesto articolo 15 è la verità rivelata dell’attuale disegno di legge.
Vi è un articolo 15, sul quale realmente desidero che si porti l’attenzione dell’Assemblea e soprattutto l’attenzione di questi colleghi. (Indica l’estrema sinistra).
Dice l’articolo 15:
«Il direttore responsabile è obbligato a fare inserire integralmente, a pagamento, nel periodico da lui diretto gli scritti che nel pubblico interesse, gli siano dall’autorità inviati per la pubblicazione».
Sicché, oggi, l’onorevole De Gasperi potrebbe inviare all’Unità, per fare un esempio, un articolo, un esposto qualsiasi, un’apologia del proprio Governo, che, debitamente pagato dal Governo, cioè dai contribuenti, dovrebbe essere dall’Unità pubblicato nelle sue colonne. Qualunque Governo si pone così nella condizione di servirsi di tutta la stampa, compresa la stampa la più avversa al Governo. Tutta la stampa così diverrebbe officiosa. Ma in cotesto articolo 15 non si parla soltanto del Governo, sì bene di «tutte» le autorità; dunque, qualsiasi autorità può inviare ad un giornale qualsiasi un proprio scritto, che il giornale sarebbe tenuto a pubblicare e non può non pubblicare senza esporsi alle punizioni che la legge commina al riguardo. Ora, io capisco un po’ come vanno le cose in questo mondo. Oggi non sono al potere i comunisti, ma i cattolici. Domani vi potranno essere i comunisti ed essi potrebbero costringere i giornali cattolici a pubblicare una propria apologia… pagata. I comunisti, anzi tutti gli estremisti, oggi, al servizio dei cattolici, domani tutti i cattolici al servizio dei comunisti. E par serio tutto questo? Effetti della partitocrazia, a senso mio, ed il silenzio degli uni e degli altri su questo punto, si spiega con la speranza degli uni e degli altri di potersi servire dei propri avversari e delle loro gazzette.
Io non capisco da quali fonti saranno attinti i mezzi per pagare queste pubblicazioni; io non capisco nemmeno secondo quali tariffe queste pubblicazioni saranno pagate. I giornali che hanno la tariffa per la pubblicità di un preservativo contro le malattie veneree, ne dovranno avere un’altra per gli articoli spediti dal Governo. Un governo è dunque un articolo di pubblicità giornalistica. (Interruzione del deputato Tomba).
Il collega che m’interrompe, mi fa osservare che l’articolo 15 parla di richieste di inserzione per causa d’interesse pubblico. Sa egli spiegarmi che cosa è l’interesse pubblico nella sua differenza dall’interesse politico del governo? Ogni governo penserà naturalmente che l’interesse pubblico è la sua permanenza al potere. Oggi l’interesse pubblico sono i democristiani al governo, domani saranno i comunisti al posto dei democristiani.
La difficoltà consisterà sempre nella stabilire in che maniera l’interesse pubblico è distinto dall’interesse del governo di rimanere al potere. In forza dell’articolo 15 di cotesto progetto, tutti i giornali, principalmente quelli di opposizione, saranno a disposizione del partito al governo, mercé il pagamento di una retta da stabilire per l’inserzione.
Permettetemi di dire che resto strabiliato, e non posso comprendere in che maniera si possa ammettere che un Governo abbia il diritto, pagando, di far pubblicare quello che a lui fa comodo, nei giornali che lo combattono.
Questa è la maniera più totale di negare la sostanza della libertà di stampa. La libertà è contrasto, la libertà è contradizione, ed un paese non è libero se non quando sono liberi gli avversari della parte che sta al Governo e che spera di dominare l’opinione pubblica. Così operando, ritorniamo al periodo più fosco del dispotismo e dell’assolutismo.
C’è inoltre un particolare su cui richiamo l’attenzione dei colleghi. Nell’articolo 15 si dice: «le autorità». Insomma tutte le autorità potranno chiedere la inserzione, non una semplice rettifica, delle loro tesi, qualunque esse siano, nelle gazzette del paese, a loro scelta. Chi sono queste «autorità»? Ma persino un ispettore di pubblica sicurezza o un agente del fisco, e così via, dunque quali? L’ufficiale doganale, il rappresentante del fisco, il questore, l’ispettore di pubblica sicurezza, il magistrato?
Voi potrete dirmi che io mi dilungo troppo su una disposizione che potrebbe cadere nella votazione e nella discussione. Tuttavia qui nessuno ha fatto una controrelazione ed esiste il pericolo che anche per un colpo di maggioranza questa assurda disposizione sia accettata dall’Assemblea come un testo di legge. Ecco perché insisto sull’assurdo dell’articolo 15, e vi potremo ritornare appresso. Nel mio giornale, dovete lasciar fare a me. Voi avete i vostri giornali, ed in essi scrivete le vostre ragioni, se ne avete. Non c’è interesse pubblico che tenga. L’interesse pubblico è il mio diritto di persuadere io, con i miei mezzi, i miei lettori.
E accenno solo di sfuggita alla questione del gerente. Non facciamo tante storie per sapere quali devono essere le responsabilità del direttore o quali quelle del gerente. Del gerente responsabile si è parlato con soverchia leggerezza ieri; del resto io non ne proporrei mai il ritorno a questa istituzione. Essa ha avuto la sua ragione storica di essere: si trattava di impedire che persone invise alle autorità, per il fatto dell’esposizione del loro pensiero, dovessero pagare quella persona per essere messe in grado di poter continuare a farlo. Era una finzione legale, siamo d’accordo, che ha avuto tante e tante deplorevoli conseguenze; ma nell’ordine storico questa finzione legale ha reso importanti servizi. Ora io non so come risolveremo questa questione; la soluzione proposta nel progetto di legge non mi persuade.
Ho detto che gli altri punti che possono interessarci sono quelli che riguardano la registrazione dei giornali e la pubblicazione della loro situazione economica.
Il collega Manzini ieri ha interloquito a questo proposito. Per me la registrazione o è un’ipocrisia, o un agguato: è un’ipocrisia se incitate a non darvi le esatte notizie, è un agguato, se per effetto della registrazione voi vi riservate di respingere un giornale e di accettarne un altro, di rendere impossibile la pubblicazione d’un periodico inviso. Non leggo, perché le condizioni della mia vista non mi permettono d’avere sotto gli occhi un testo, e debbo citare a memoria. Scusate qualche inesattezza.
Per quanto ricordo nel progetto si parla della registrazione, ma non si è detto in quale spazio di tempo tale registrazione dovrà essere fatta. Una autorità quindi che sia avversa ad una pubblicazione potrà anche ritardare questa registrazione, così che essa praticamente non avvenga. A mio avviso, quando il direttore di una progettata pubblicazione avrà fatto sapere che egli il tal giorno si propone di uscire con una sua stampa, questo è, onorevoli colleghi, tutto quanto si può pretendere. Non si deve domandare altro, a fine di evitare che la registrazione diventi un mezzo per procrastinare o impedire una pubblicazione.
Io non voglio fare della retorica; posso però semplicemente deplorare che le stesse persone che si sono servite, in periodi di urto civile e di lotta contro lo straniero, di pubblicazioni clandestine, sottoponendosi per tal fatto, alle vendette del potere, ora condannino con tanta severità le pubblicazioni clandestine. Ma, nei tempi più foschi, nei tempi nei quali il dispotismo imperava incontrastato, chi è, chi è mai che ha aperto una qualche finestra, anche un solo spiraglio di luce sulle tenebre che ne circondavano per ogni dove? I giornali clandestini. Lo stesso Voltaire, il genio più alto che i tempi moderni abbiano avuto, dovette ricorrervi.
E passo all’articolo 28 del progetto per dire una sola parola sulla questione del sequestro. È veramente penoso per uno spirito libero doversi occupare ancora di un simile argomento. Prima accennerò a quello della pubblicità finanziaria delle fonti dei giornali.
Con le regole che voi imponete, si creano nuove difficoltà alla pubblicazione dei periodici, salvo che voi non imponiate la menzogna e il falso.
Stampare un giornale, diceva ieri appunto l’onorevole Giannini, non è cosa facile; i mezzi per stampare un giornale non son facili a riunire e coloro i quali sono disposti a spendere del proprio affinché una pubblicazione abbia luce sono pochissimi. Non metteteli in condizione di non poter svolgere un’attività in questo senso.
Non si tratta di mecenatismo, ma anche un plutocrate – pronunziamo pure la terribile parola – può avere le sue idee, e desiderare diffonderle. La difesa dell’interesse pubblico affidatela alla coscienza del pubblicista. Le vostre leggi non servono a niente. Se mai son la maschera d’un interesse di parte.
Credetelo: fuori la coscienza del pubblicista non ci son mezzi per difendere il paese.
E vengo molto rapidamente all’ultimo punto sul quale mi ero proposto di parlare, quello dell’articolo 28 dello stesso progetto di legge che riguarda il sequestro. Qui riappaiono in blocco tutti i mezzi di coercizione dei quali si servivano i governi che chiamavamo monarchici, dispotici, tirannici e così via. Voi indicate una serie d’infrazioni legali che, già colpite dal Codice penale, non solo ricevono aggravamento di pena per il fatto della stampa, ma possono dar luogo al sequestro della pubblicazione.
Per quanto riguarda poi l’offesa all’onore o al prestigio del Capo di uno Stato estero, voglio aprire una piccola parentesi. Voi considerate questo come qualche cosa che possa autorizzare il magistrato a sequestrare la pubblicazione. Non so se i vostri ricordi giungano fino a Wilson, genero del Presidente Grévy. La stampa poté stabilire che Wilson mercanteggiava le onorificenze dello Stato avvalendosi della sua qualità di congiunto del Presidente della Repubblica. Se l’autorità giudiziaria o l’autorità di pubblica sicurezza lo avesse voluto, tutti i giornali che denunziarono il fatto sarebbero stati sequestrati, e forse il fatto ignorato.
Non allarmatevi troppo di queste cose. Col pretesto di salvaguardare il «prestigio» del capo dello Stato, voi potreste giungere a farne ignorare le tare o le colpe. Ad ogni modo voi aggravate l’istituto del sequestro rendendo possibile il ricorso ad esso per mezzo della semplice autorità di polizia. Vi era una volta il sequestro dichiarato dalle autorità giudiziarie. Adesso abbiamo non solo il sequestro dichiarato dalle autorità giudiziarie, ma altresì il sequestro operato dalle autorità di pubblica sicurezza. Esse dovranno informare il giudice del ramo, ma anche prima si faceva così. Una volta l’autorità giudiziaria – non so se qui vi siano persone che hanno sofferto di questo passato – quando poteva sequestrare le nostre pubblicazioni, all’uscita della tipografia faceva trovare gli agenti pronti per il sequestro e non mancavano i procuratori della Repubblica a cui si chiedevano le ragioni per le quali si operava il sequestro. E voi avete peggiorato le condizioni dell’antico regime liberale monarchico, disponendo che il sequestro dei giornali possa farsi anche per opera della polizia.
Chiamate questo un progresso? Pretendete che ciò salvaguardi la libertà di stampa? Volete in questa maniera rassicurare i cittadini di una buona democrazia i quali hanno pigliato sul serio tutte le parole di libertà, di rispetto umano, di sovranità popolare che sono state dette? Io non lo credo. L’attuale progetto di legge è in sostanza un’atroce ironia, un sarcasmo dei più feroci sul conto della democrazia e sul conto della libertà popolare.
Io non penso che questo disegno di legge debba essere accolto. Noi lo dobbiamo respingere e poiché noi siamo dinanzi alle elezioni noi potremo appunto sperare che la futura Camera potrà adottare un nuovo e diverso disegno di legge il quale rassicuri meglio i cittadini e dia ad essi la tranquillità necessaria per svolgere la loro attività intellettuale. La libertà di stampa dovrebbe consistere puramente e semplicemente nel fatto che chiunque il quale si crede in grado e ne ha la possibilità di stampare possa farlo. La legge non può chiedere se non l’adempimento di alcune formalità tecniche. Qualunque cosa che in qualche misura, o per via diretta o per via indiretta, attenti a questa suprema libertà è un oltraggio che si fa alla sovranità popolare ed ai supremi diritti della ragione.
Per mio conto ho preso il giuramento dato alla Repubblica ed il voto dato alla Costituzione come una cosa seria. Coloro che saranno stati dello stesso sentimento non approveranno questa legge.
Noi voteremo contro il disegno di legge che ci è stato proposto. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.
CALOSSO. Ritengo, avendo preso parte ai lavori della Commissione, che il progetto rappresenti notevole progresso rispetto alla regolamentazione della stampa fatta in periodo fascista, ma penso che avrebbe dovuto concentrarsi di più sui punti che storicamente il fascismo ha messo in luce come difettosi: sarebbe stato necessario creare una legge generale in cui alcuni punti essenziali fossero chiariti, almeno per il profano, per coloro che, come me, non sono giuristi.
In fondo, i punti essenziali di questa legge quali sono? Quali sono le libertà che noi abbiamo raggiunto? Libertà, si intende, limitate, perché le libertà reali sono limitate: prima di tutte la libertà dallo Stato. Ed a questo, mi pare che il progetto provveda avendo messo la stampa solo in rapporto con l’autorità giudiziaria.
Seconda libertà che la pratica più evidente di tutti i giorni esige come necessaria, è la libertà dal capitale; oggi sappiamo tutti che la libertà in questo campo consiste nel fatto che solo chi ha molto danaro può fare un giornale. Indubbiamente l’ideale dell’onorevole Schiavetti, è un ideale meraviglioso quello che lo ha mosso a proporre che si dia un giornale ad ogni grande ente. Però, effettivamente, bisogna tener presente anche un altro punto: nella legislazione non si possono fare dei salti. Ora noi sappiamo che questa libertà del capitale non c’è e dove c’è, non esiste la libertà dallo Stato. Queste due libertà, dallo Stato e dal capitale, non sono mai insieme, ed è difficile che si trovi un esempio di coesistenza di queste due libertà. Trovare un Paese in cui tutte e due queste libertà esistano, che io sappia, è impossibile. Non so chi possa con facilità opporre qualche cosa a questa constatazione.
Su questo punto è necessario accettare la situazione quale è.
Certo la pubblicità delle fonti finanziarie di un giornale è un primo passo avanti, ma è certamente insufficiente. Il problema non è risolto e a dire il vero non sarà risolto se non nelle società socialiste democratiche le quali alla libertà dallo Stato congiungono la libertà dal capitale.
La terza libertà è quella dalla diffamazione. Pare che il cittadino italiano sia libero di calunniare. Lo vediamo tutti i giorni. C’è certa stampa, specialmente settimanale, che dice quello che vuole ed alcuni giornalisti pensano che la libertà di stampa consista nel poter sputare dalla finestra su chi si vuole. Invece, il cittadino italiano deve sapere che l’insultare costa fatica. La legge non dia ausilio in questo senso a coloro i quali pensano, invece, di poter insultare con l’aiuto dello Stato. Sappiamo che tutti i giorni vi è chi insulta, e conosciamo la difficoltà di rispondere all’insulto. So di giornali che insultano e, quando si manda loro una rettifica, non la pubblicano. Su questo punto bisogna essere particolarmente decisi. Nella Commissione io vi avevo insistito perché occorre proprio una legge speciale, contrariamente a quanto è detto nella relazione.
L’uomo italiano non ha la possibilità di difendersi; inoltre ci sono dei tipi di difesa vergognosa: il solo fatto di discuterne rendono l’uomo ridicolo. Ci vorrebbe, quindi, una legge particolareggiata e si dovrebbe mettere un limite alla sentenza. Mi pare che il giudice debba presupporre che colui che insulta, prima di fare una cosa così grave come l’insultare, dovrebbe aver preparato tutte le prove e tener pronti gli incartamenti.
Per l’ultima libertà delle quattro, la libertà dalla pornografia, sono perfettamente d’accordo con lo spirito di quanto ha proposto l’onorevole Moro.
È nel campo politico dove bisogna badare a porre tutte le garanzie fino al millimetro: nel campo della pornografia, è diverso. Il caso della pornografia è speciale. Una figura oscena, vista da un ragazzo, produce un’offesa irrimediabile, è chiaro. Quindi, non esiterei ad essere duro, anche col pericolo che, per esempio, Madame Bovary sia dal giudice tolta dal commercio. Questo rischio c’è, ma dobbiamo correrlo.
Sono contrario a collegare con una certa liberalità il fatto di permettere la pornografia. Non sono mai riuscito a capire quale rapporto ci sia tra la pornografia e lo spirito moderno.
Queste, a volo d’uccello, le mie impressioni sul progetto di legge.
Mi pare buono, in quanto difende la stampa dagli abusi dello Stato, affidando ogni potere alla Magistratura; non così per quando riguarda la libertà dal capitale; ma ho fatto presente le difficoltà di una legislazione su questo punto.
Riguardo alle Corti d’onore ritengo che la questione debba essere chiarita.
Avrei poi mantenuto un accenno all’albo dei giornalisti. Il fatto che fu creato dal fascismo non credo sia un motivo per non conservarlo.
Non conosco quale sia l’orientamento preciso dell’Assemblea, ma penso che quando vi sono dei dubbi, sia meglio aspettare; non è un errore attendere.
Quindi, se si rinviasse il disegno di legge al nuovo Parlamento, si permetterebbe un più oculato studio dei problemi ad esso inerenti (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Farò una breve dichiarazione. È stato proposto per il progetto di legge sottoposto al nostro giudizio il rinvio alla futura Assemblea legislativa, poiché i problemi che esso investe sono di tale delicatezza e complessità da esigere maggiore e più approfondito esame. D’altra parte vi sono delle esigenze legate alla prossima campagna elettorale, per cui sarebbe opportuno che alcune disposizioni di questo progetto di legge entrassero al più presto in vigore. Il Gruppo comunista non è contrario al rinvio, però con la proposta di stralciare alcuni articoli e su quelli discutere e votare subito. Dirò brevemente i motivi di questo nostro atteggiamento che non coincidono con quelli dati ieri dall’onorevole Giannini,
Questo progetto di legge vuole tutelare e disciplinare la libertà di stampa, ma riesce esso veramente a tutelare l’esercizio di questa libertà? Orbene, basta tener presenti le critiche dell’onorevole Schiavetti e quelle prospettate dall’onorevole Giannini, per rispondere che questo progetto non è sufficiente a tutelare la libertà di stampa in Italia. Per tutelare la libertà di stampa occorre creare le condizioni affinché questa libertà possa esercitarsi. Queste condizioni non esistono e il progetto di legge non si preoccupa affatto di crearle.
L’onorevole Giannini ha fatto un’affermazione giusta, dicendo che la situazione finanziaria per i giornali quotidiani oggi è tale per cui sarebbe un inganno parlare di libertà di stampa: nelle attuali condizioni non esiste né può esistere libertà di stampa. In questa affermazione c’è molto di vero, ma noi riteniamo che non ci si debba fermare alla posizione negativa dell’onorevole Giannini e occorra affrontare il problema e risolverlo per lo meno nei limiti e con le possibilità che la situazione attuale consente.
Se noi osserviamo quanto è avvenuto negli ultimi due anni in materia di stampa possiamo cogliere alcuni fenomeni abbastanza interessanti. Si sono visti complessi tipografici che per ragioni diverse erano divenuti proprietà dello Stato, ritornare in proprietà di gruppi particolari, ben forniti di mezzi finanziari e notoriamente legati ad uomini e partiti politici. Le conseguenze non hanno tardato e manifestarsi: si sono visti sorgere giornali di determinate tendenze politiche, mentre scomparivano altri di tendenze opposte. Quelli che scomparivano erano, di solito, giornali democratici di sinistra. È chiaro che quando le condizioni per la stampa di un giornale sono soggette a pressioni e influenze politiche, parlare di libertà di stampa è un inganno. Ed allora si pone il problema di garantire a tutti parità di condizioni e possibilità di stampare, parità di condizioni e possibilità tipografiche. Questo non risolve interamente la questione, ma per lo meno ci avvicina alla soluzione. È un problema che, dopo votata la nuova Costituzione, può e deve essere affrontato e risolto: è il problema della nazionalizzazione dei grandi complessi tipografici, che deve garantire a tutti parità di condizioni di stampa, parità di condizioni nel campo tipografico. (Commenti al centro e a destra).
Perché poniamo ed insistiamo oggi in modo particolare su questo problema? Perché in questi due anni di così detto regime democratico sono avvenute cose sulle quali il Paese ignora la verità e che sarebbe tempo di porre in chiara luce. Io cito un solo episodio: ad Udine, una tipografia già di proprietà del partito fascista divenne proprietà dello Stato, sotto la gestione dell’Ente autonomo stampa dipendente dalla Presidenza del Consiglio. Questa tipografia, ad un certo momento, viene venduta a trattativa privata ad un gruppo finanziario per 10 milioni, mentre per il suo acquisto contemporaneamente si offrivano 14 milioni. Non si seguì la via della gara pubblica né quella della licitazione privata. Si trattò in segreto, in segreto si venne a Roma, in segreto funzionari andarono a Udine. Tutto si risolse e si concluse con una rapidità sorprendente. Dopo qualche mese, il giornale democratico di sinistra al quale collaboravano repubblicani, socialisti e comunisti deve cessare le pubblicazioni ed un giornale monarchico sorge…
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. In che periodo, per favore?
SCOCCIMARRO. Nel 1946, Presidente De Gasperi, Sottosegretario Arpesani.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Eravate al Governo anche voi!
SCOCCIMARRO. Onorevole Andreotti, le dirò che sarebbe bene non provocare dichiarazioni che non volevo fare oggi.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. No, dica tutto.
SCOCCIMARRO. Le dirò che avuto sentore della cosa, prima del 2 giugno 1946, avvertii il Sottosegretario Arpesani affinché vedesse un po’ che cosa c’era di vero in tutto questo. L’onorevole Arpesani mi diede la parola d’onore che nulla si sarebbe fatto sino alle elezioni. Dopo pochi giorni, il contratto era firmato. Forse, non lo sapeva nemmeno lui…
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Col Governo democristiano non è accaduto mai niente di tutto questo.
SCOCCIMARRO. Ma questo è avvenuto sotto la presidenza De Gasperi. Comunque la conclusione alla quale arriverò le darà soddisfazione.
UBERTI. Dipendeva dal Ministero delle finanze ed allora c’era proprio l’onorevole Scoccimarro al Ministero delle finanze!
SCOCCIMARRO. Non dipendeva dal Ministero delle finanze, ma dall’Ente autonomo stampa alla dipendenza della Presidenza del Consiglio.
Ora, io mi domando se, oltre al fatto politico in sé, la procedura non costituisce violazione di legge. E se questo ha potuto avvenire, io mi domando che cosa è avvenuto in tanti altri casi del genere. E mi domando pure che cosa sta avvenendo del grande complesso tipografico dell’ex Resto del Carlino, e di quello dell’ex Popolo d’Italia. In questi due anni c’è stato in Italia un vero e proprio arrembaggio a tipografie e giornali ed è un inganno parlare di libertà di stampa quando si permette che tutto questo avvenga nel Paese.
Noi crediamo che per la moralità della nostra vita pubblica, per il rispetto che dobbiamo alla Costituzione che abbiamo votato solo poche settimane or sono, si imponga una inchiesta parlamentare. Bisogna far luce, chiarire tutte le responsabilità, di uomini e di partiti. Ma si può chiedere un’inchiesta parlamentare a questa Assemblea che è al limite della propria esistenza’? Evidentemente no. E tuttavia un’inchiesta parlamentare è necessaria quando si pone il problema della nazionalizzazione dei grandi complessi tipografici, condizione essenziale per realizzare il massimo di libertà di stampa nella attuale situazione italiana.
Per questi motivi noi saremmo d’accordo di rinviare la legge sulla stampa, perché una legge di questo genere non può prescindere dal problema della nazionalizzazione delle tipografie, ma la soluzione di questo problema presuppone l’accertamento di ciò che è avvenuto in questo campo in Italia, specialmente negli ultimi due anni. Quanto è avvenuto a Udine ed altrove giustifica i più gravi dubbi e sospetti, che non consentono tacite sanatorie in omaggio al fatto compiuto.
Noi contesteremo la legittimità e legalità di certi contratti.
Una inchiesta parlamentare si impone perché sarebbe inconcepibile che domani l’indennizzo, per causa di nazionalizzazione, si risolvesse in un premio per coloro che sono riusciti ad accaparrarsi, più o meno illecitamente, delle tipografie, anche sotto costo. Così si premierebbe la frode, l’inganno, il favoritismo e la corruzione.
Per le ragioni esposte noi consentiamo al rinvio, tuttavia, nella imminenza della campagna elettorale, vi sono esigenze urgenti come il problema dei sequestri ed altri, che conviene affrontare e risolvere. Bisogna perciò fare uno stralcio di soli articoli, rinviando la legge sulla stampa alla futura Assemblea. Nella Repubblica italiana, non può essere questa la legge sulla stampa. (Approvazioni all’estrema sinistra).
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale. Ha facoltà di parlare l’onorevole Cevolotto, Relatore.
CEVOLOTTO, Relatore. Onorevoli colleghi, poiché da parte dell’onorevole Schiavetti, dell’onorevole Giannini, ed anche, sebbene sotto altro aspetto, da parte dell’onorevole Scoccimarro, si è in sostanza chiesto che a questa legge, cioè alla struttura di questa legge, sia sostituita una legge di altra struttura fondamentale e non semplicemente che se ne modifichi, attraverso emendamenti o attraverso correzioni, il testo è opportuno ricordare come il progetto di legge è nato.
Il primo progetto è stato compilato da una Commissione nominata dal Governo, della quale facevano parte pubblicisti, giornalisti ed editori di giornali, esperti insomma della materia, fra i quali anche alcuni nostri colleghi, come l’onorevole Ambrosini, l’onorevole Calosso, l’onorevole Vernocchi; e giornalisti come il dottore Azzarita, l’avvocato Berlinguer, il professore Tosato ed altri. Questa Commissione compilò un primo progetto, nella struttura, nelle linee generali, se non nei particolari, è diventato poi il testo che il Governo ha sottoposto all’Assemblea. Il Governo ha rivisto lo schema proposto dalla Commissione, lo ha modificato in alcune parti, ma ne ha mantenuto i lineamenti essenziali. La Commissione parlamentare che è stata nominata e che ha dovuto subire vari mutamenti anche nella Presidenza perché l’onorevole Grassi ha dovuto lasciare la Presidenza stessa quando ha assunto il Ministero di grazia e giustizia e allora il lavoro era già in buona parte compiuto la Commissione, dicevo, che è naturalmente rimasta, anche attraverso questi mutamenti solidale e, direi, eguale nella sua composizione, non ha creduto di dovere o di poter sostituire una nuova legge a quella che le era sottoposta.
Essa si è limitata ad esaminare il testo governativo ed a proporre quelle modificazioni che ha ritenuto del caso, articolo per articolo; in modo particolare quelle soppressioni e quelle semplificazioni che, a suo parere, sembravano opportune, sembravano rappresentare un miglioramento. Insomma, non ha proposto un nuovo testo legislativo, né poteva proporlo, perché non aveva facoltà di fare una legge nuova e diversa, ma non poteva se non portare il proprio esame sul testo proposto dal Governo.
Chi propone di modificare sostanzialmente il progetto, di creare una legge di una struttura diversa, su una base diversa, è logico che arrivi a quella conseguenza cui è pervenuto l’onorevole Giannini, e a cui è pervenuto l’onorevole Scoccimarro: che chieda cioè il rinvio, salvo lo stralcio, di cui lo stesso onorevole Scoccimarro ci ha parlato e di cui potremo discutere, se sarà il caso.
Le ragioni però per le quali l’onorevole Schiavetti e l’onorevole Giannini domandano il rinvio e la modificazione…
SCHIAVETTI. Io non ho domandato il rinvio.
CEVOLOTTO, Relatore. L’onorevole Giannini, quanto meno, sì, e poi anche l’onorevole Scoccimarro, sotto altro aspetto, lo ha domandato.
Quando dunque, dicevo, l’onorevole Giannini fa le sue considerazioni in base alle quali l’onorevole Schiavetti non domanda il rinvio, e osserva che bisognerebbe dare alla legge una struttura diversa, che cosa intende dire? Intende dire che la legge non attua una riforma profonda della legislazione sulla stampa, attraverso la quale sia garantita quella che l’onorevole Giannini chiama la libertà di stampare, la possibilità cioè, per gruppi, per i partiti, per le associazioni culturali come assumeva l’onorevole Schiavetti di avere un proprio organo.
Le possibilità di finanziamento potranno, sì, venire da qualche grande partito, ma in genere provengono da altre fonti: da fonti di industriali, da fonti di finanziatori che, come diceva l’onorevole Giannini, impongono anche un determinato indirizzo e molte volte anzi un cambiamento di indirizzo al giornale. È evidente allora che il giornalista o si piega, o uccide il giornale. E così – dice l’onorevole Giannini – la libertà di stampa non esiste, se un giornale dipende da un partito – e si comprende bene che da qualcuno deve pur sempre dipendere – rappresenta, di fronte a tutti, le idee di quel partito che ha la libertà di esprimere il proprio credo e di fare la propria propaganda.
Se dipende, invece, da altre fonti, non sarebbe illegittimo che un complesso finanziario qualsiasi, una grande industria avesse un proprio giornale per difendere proprie idee, quando si sapesse che quel giornale o quella pubblicazione è ai servizi e porta la voce di quel determinato gruppo finanziario o industriale. Ma quando si vuol fare apparire come organo indipendente un giornale che invece dipende da una potenza finanziaria, la quale lo domina e, attraverso il giornale, cerca di dominare l’opinione pubblica, la situazione non è altrettanto legittima.
L’onorevole Schiavetti propone dei rimedi drastici e cioè, rifacendosi al progetto di legge francese Ramadier-Bourdan e al regime attuato in Cecoslovacchia, propone tra l’altro il frazionamento della proprietà dei giornali, in maniera che nessuno possa possedere più di un decimo delle azioni. Sarebbe questo un sistema che potrebbe essere facilmente eluso, perché molti decimi possono essere posseduti apparentemente da persone diverse e, invece, far capo alla stessa fonte. Propone poi, che nessun magnate della finanza, nessun grande complesso finanziario, possa essere proprietario di giornali; che la proprietà dei giornali sia addirittura preclusa ai privati e lasciata solo ai grandi partiti politici e alle grandi organizzazioni e associazioni culturali. Sarebbe una bellissima cosa (parlo a titolo individuale, senza impegnare affatto la Commissione), se tutti i partiti potessero avere un foglio col quale esprimere il proprio pensiero e se tutte le grandi organizzazioni e le grandi associazioni culturali potessero avere un proprio organo di stampa libero, indipendente da soggezioni finanziarie più o meno nefaste. Sarebbe l’ideale.
Ma è possibile? Nell’attuale struttura della nostra società, nelle attuali condizioni nostre del diritto privato, nell’attuale sistemazione della nostra stampa, così com’è, una riforma di tanta profondità è attuabile? Badate che la legge, in sostanza, difficilmente modifica le situazioni che esistono obiettivamente: la legge è più uno specchio delle situazioni che un mezzo per cambiarle. Bisogna che prima si modifichino le situazioni di fatto e poi si può modificare la legge.
Diceva un giurista che la legge, in sostanza, non è altro che la fotografia di un determinato momento dei rapporti della vita comune, che vengono regolati dal diritto così come sono; tanto che siccome questi rapporti mutano la legge diventa vecchia nel momento stesso in cui viene promulgata. Ma bisogna per poter fare una nuova legge, che siano cambiate le fondamentali e sostanziali relazioni sulle quali la legge incide.
Bisogna che prima noi creiamo le condizioni per poter arrivare alle riforme cui aspira l’onorevole Schiavetti e che, per conto mio, reputo un bellissimo ideale. Oggi, fare una legge come egli spera, non credo che in Italia sarebbe possibile.
E questo è anche (sebbene sotto un altro aspetto) il pensiero dell’onorevole Scoccimarro.
L’onorevole Giannini, però, non si ferma a questo punto e dice: libertà di stampare. E questo in parte, salvo naturalmente un orientamento diverso – anzi, arrivo a dire, un punto di partenza diverso – coincide in realtà con quello che diceva l’onorevole Schiavetti. Ma, dice anche, non basta la libertà di stampare, ci vuole anche la libertà di sapere. E la libertà di sapere è, per l’onorevole Giannini, questa: la legge deve provvedere acché il pubblico non sia ingannato da notizie giornalistiche false. Egli proponeva alcuni esempi, che non ho bisogno di ricordare, perché tutti lo avete ascoltato. La indagine sulle fonti delle notizie, di cui abbiamo parlato anche in sede di discussione della Costituzione, è la cosa più difficile che si possa pensare e la più pericolosa. La più pericolosa, perché, se si pretendesse in qualunque maniera di disciplinare legislativamente questa materia, in modo da tentar di riuscire ad ottenere che i giornali pubblichino soltanto notizie vere, si arriverebbe ad un controllo che sopprimerebbe la libertà stessa della stampa. Sarebbe facilissimo, attraverso il controllo sulle fonti delle notizie, attraverso l’indagine sulle fonti delle notizie, impedire non soltanto la pubblicazione delle notizie false, ma anche la pubblicazione delle notizie che non fanno comodo.
Tutti i regimi che hanno preteso che i giornali dicessero soltanto la verità, hanno voluto che i giornali dicessero soltanto la loro verità, che quasi sempre era una menzogna. E il fatto che ha citato l’onorevole Giannini è proprio un esempio calzante per la mia tesi; perché egli ha ricordato che tutti gli organi, anche i più seri, della stampa ci hanno dato ad intendere che l’America era senza gomma, e quando gli Alleati sono arrivati al Po hanno costruito attraverso il nostro maggior fiume un magnifico ponte tutto di gomma – a Piacenza – sul quale passavano i camion, attraverso il Po. Ma quando noi abbiamo subito questa menzogna eravamo appunto sottoposti ad un regime che imponeva alla stampa di dire la verità, cioè quella menzogna che il regime fascista pretendeva si accettasse come verità.
Il desiderio dell’onorevole Giannini che si arrivi alla libertà del sapere, cioè alla garanzia della verità delle notizie giornalistiche, è – e non vorrei che questa parola potesse suonare irriverente – una utopia. La verità il pubblico la conosce soltanto se si permette ai giornali di pubblicare tutto quello che vogliono; perché allora, poco per volta, finirà per distinguere i giornali che dicono la verità dai giornali che dicono le menzogne, e avrà la percezione della verità attraverso le smentite di altri giornali rispetto a quelli che pubblicano cose non vere, che lanciano notizie fantastiche, e che, un po’ alla volta, vengono conosciuti ed apprezzati dal pubblico per quello che valgono, vengono identificati per giornali che approfittano delle notizie sensazionali e false per aumentare di qualche poco la loro tiratura. Ciò che riesce sì e no per poco tempo, perché poi il pubblico apprende qual è il giornale serio dalla stessa pratica quotidiana dell’acquisto del foglio preferito.
Se però non si chiede il rinvio per arrivare ad un cambiamento della legge nella sua essenza, se non si può pensare che neanche fra un anno la nuova Camera sarà in grado di proporre una legge sulla stampa che in qualche modo si avvicini agli ideali espressi dall’onorevole Schiavetti o dall’onorevole Giannini io domando a me stesso: ma la nuova legge che il nuovo Parlamento dovrà elaborare sarà poi profondamente diversa da questa che ci è oggi proposta? Sarà poi molto differente dal testo che è stato studiato dalla Commissione dei giornalisti, che è stato rivisto dal Governo, che è stato emendato dalla Sottocommissione, che è stato infine riesaminato dalla Commissione dei Settantacinque, che ha avuto, insomma, una elaborazione abbastanza ampia e probabilmente sufficiente, se non altro, ad indicare alla Costituente quali sono i problemi che si devono oggi approfondire? Resta l’altra obiezione, l’obiezione dell’onorevole Scoccimarro e resta anche un’altra obiezione che farò io poi, che è, forse, sostanziale dal punto di vista pratico.
L’obiezione dell’onorevole Scoccimarro è questa: noi dobbiamo arrivare necessaria mente, per avvicinarci a quella libertà di stampare di cui ha trattato l’onorevole Schiavetti, e cioè per mettere tutti nelle stesse condizioni rispetto alla possibilità di stampare un giornale e di sfuggire alla tirannia delle imprese tipografiche che sono in poche mani, di grossi complessi industriali, o finanziari, o bancari, noi dobbiamo arrivare alla nazionalizzazione delle tipografie e quindi alla possibilità di distribuire equamente la stampa fra tutti coloro che ne hanno bisogno. Per questo è necessario prima fare un’inchiesta; e deve essere un’inchiesta parlamentare su ciò che è successo delle tipografie di giornali negli anni che sono passati dalla liberazione a oggi.
Se si accede a questo ordine di idee, se si tiene conto specialmente della opportunità o della necessità di una inchiesta sulla situazione delle tipografie, allora il rinvio della legge si impone. Oltre a questa ragione che il Partito comunista prospetta, vi è anche un’altra ragione, sulla quale richiamo l’attenzione dell’Assemblea, molto più umile, ma molto più pratica.
Effettivamente questa legge è una legge delicata; è una legge che impone la discussione senza limiti di tempo di alcuni punti sui quali non vi è evidentemente il consenso di tutta l’Assemblea. Sono stati già presentati numerosissimi emendamenti.
Abbiamo noi il tempo per discutere a fondo, come va discussa, la legge? Questo è il problema che io pongo.
Se il nostro Presidente, se l’Assemblea riterrà che il tempo ci sia, potremo addentrarci nell’esame dei singoli punti della legge, ma se invece abbiamo la sensazione che il tempo non è sufficiente, allora bisogna provvedere differentemente. Però, per conto mio e per conto della Commissione, in questo secondo caso ricorderò che la Commissione nella sua relazione ha già esposto il problema e ha rilevato che anche nel caso che non si potesse per qualsiasi ragione o per la ragione politica prospettata dall’onorevole Scoccimarro, o per la ragione di tempo alla quale io ho accennato procedere alla discussione dell’intera legge, bisognerebbe provvedere sempre a quello stralcio che la relazione propone; perché vi sono alcune situazioni che vanno modificate prima della campagna elettorale, vi sono alcune questioni che vanno risolte prima che la campagna elettorale sia cominciata, al fine vi sia, almeno in questo periodo, una relativa libertà di stampa che ora non è affatto assicurata.
Le questioni che si sollevano, a proposito del progetto, anche da parte della Federazione della stampa, che ha mandato un appello all’Assemblea Costituente, sono in realtà poche, ma due almeno sono questioni grosse. Il Consiglio direttivo della Federazione nazionale della stampa italiana ha rivolto al Presidente della nostra Assemblea un indirizzo che io leggo, perché è opportuno tenerne conto.
«Chiamandosi alle intese intercorse a suo tempo colla Presidenza del Consiglio dei Ministri – onorevole Cappi – e con la Sottocommissione parlamentare – onorevole Grassi – per quanto riguarda il requisito professionale, articolo 7, la registrazione affidata al cancelliere, articolo 7, la pubblicità delle fonti finanziarie fatta attraverso il bollettino della Federazione della stampa anziché il foglio degli annunci legali della Prefettura, la istituzione delle Corti d’onore, ne domanda l’attuazione… Il Consiglio rivolge all’Assemblea un vivo appello affinché accolga nelle sue imminenti decisioni l’unanime aspirazione della classe giornalistica italiana espressa dal voto del Congresso nazionale della stampa di Palermo (ottobre 1946) per il mantenimento del requisito professionale giornalistico che costituisce la garanzia prima e fondamentale delle organizzazioni di stampa e del buon costume giornalistico senza di che il giornalismo sarebbe avviato a diventare una professione di avventura».
Qui, le questioni che si propongono sono di varia importanza. La questione della pubblicità dei mezzi di finanziamento attraverso il bollettino della Federazione della stampa anziché il foglio degli annunci legali, è questione sulla quale facilmente ci si mette d’accordo. La questione della registrazione affidata al cancelliere invece che al giudice è anche una questione sulla quale si può discutere senza che la soluzione implichi poi un problema di gravità eccezionale. L’istituzione delle Corti d’onore è questione sulla quale esporrò le nostre considerazioni, le considerazioni della Commissione, e credo che anche su questo non sarà difficile trovare il punto di consenso. Ma invece la questione dell’iscrizione nell’albo dei giornalisti è assai grave, assai delicata, e merita attenzione e discussione approfondita.
La necessità dello stralcio si determina innanzi tutto per due punti fondamentali sui quali è necessario richiamare l’attenzione dell’Assemblea. Il primo punto è che attualmente è ancora in vigore il decreto-legge luogotenenziale del 14 gennaio 1944, n. 13 che disciplina la stampa «durante l’attuale stato di guerra». È il decreto che sottopone la pubblicazione del giornale all’autorizzazione del Prefetto. Ancora siamo in questo regime. Notate che questo decreto è stato fatto in tempo di guerra più che altro, diciamolo apertamente, per suggestione degli alleati; e rappresenta la negazione della libertà di stampa, ed ha avuto ripercussioni ed applicazioni che tutti ricordiamo, senza bisogno che io vi richiami la vostra attenzione.
È necessario sostituire a questo regime un regime di libertà; ed è ciò che la Commissione dei giornalisti ha proposto di fare attraverso la semplice registrazione, che non è autorizzazione. La registrazione del giornale non vuol essere altro – dice la Commissione dei giornalisti – che un’anagrafe. Io dico che forse è meglio parlare di «stato civile». Non è altro che l’indicazione in un registro, che viene tenuto al tribunale, della nascita e della vita del giornale. Perché è necessario questo? Si potrebbe anche farne a meno; ma poiché si è domandato (e anche nella Costituzione se ne è fatto cenno, sebbene in forma di possibilità e non di obbligo) che si possa e che anzi si debba secondo lo spirito della Costituzione istituire un’indagine sulle fonti di finanziamento dei giornali, evidentemente l’indagine sulle fonti di finanziamento non è possibile se non vi è un registro dei giornali. Ecco il perché di questa registrazione, la quale vuole essere una registrazione assolutamente automatica, cioè: chi vuole stampare un giornale, deve presentare determinati documenti che sono richiesti dall’articolo 7 del progetto di legge. Presentati questi documenti l’autorità giudiziaria non può negare la registrazione del giornale: deve soltanto constatare se i documenti ci sono e se sono regolari; e in questo caso deve registrare il giornale. A questo proposito la Federazione della Stampa domanda che la registrazione sia fatta dal cancelliere e non dal giudice, appunto perché vuole accentuare il carattere di meccanicità della operazione e vuol togliere anche l’apparenza della possibilità di una indagine di merito. È abbastanza ovvio, sebbene le ragioni addotte dall’onorevole Schiavetti (me lo perdoni) non mi abbiano del tutto persuaso. La Commissione in fondo aveva pensato che, affidando al giudice il controllo dei documenti – sempre come controllo puramente di forma, di legittimità e non di merito – si desse una maggiore, non già una minore, garanzia. E quando l’onorevole Schiavetti dice che attraverso il giudice, l’esecutivo potrebbe anche eventualmente arrivare a negare un’autorizzazione che deve essere data, io gli rispondo di stare attento, perché forse l’esecutivo arriva più facilmente ad un cancelliere che ad un giudice; e semmai si ha una garanzia maggiore nel fatto che la registrazione sia controllata dal magistrato. Comunque, come dicevo prima, questa non è questione sulla quale non ci si possa mettere d’accordo e sulla quale (la Commissione eventualmente deciderà) non si possa accedere alla proposta che viene fatta dalla Federazione dei giornalisti.
Questione più grave è quella che attiene al problema dell’albo professionale. Le questioni più gravi sono sostanzialmente due, quella dell’albo professionale (che anche in caso di stralcio si dovrà probabilmente discutere), e quella del sequestro, che pure è necessario risolvere, perché implica una questione di interpretazione della Costituzione, che, se non fosse risolta subito da noi, potrebbe essere risolta in tempo di elezioni dall’esecutivo.
La questione della iscrizione nell’albo professionale è stata posta sin da principio dal progetto della Commissione dei giornalisti, il quale veramente aveva adottato una formula diversa da quella proposta dall’onorevole Schiavetti e sulla quale ora insiste la federazione della stampa.
Il testo della Commissione dei giornalisti diceva infatti che, «per la registrazione dei periodici deve essere prodotto ogni altro documento, che venga richiesto da successive leggi relative alla professione giornalistica».
Quando l’onorevole Schiavetti chiede, come egli oggi chiede, che si provveda senza altro a che il direttore di un giornale sia iscritto nell’albo professionale, egli non tiene conto, a mio avviso, della situazione giuridica esistente.
Infatti, egli si richiama a quel decreto del 26 febbraio 1928, che reca le norme per la istituzione dell’albo professionale dei giornalisti. Importa poco che questa sia una legge fatta dal fascismo o no; se fosse una legge buona, non avremmo alcun motivo per non conservarla, come si sono conservate tante altre leggi fatte durante il fascismo. Io direi durante il fascismo, anziché dal fascismo, perché molte leggi fatte durante il fascismo non hanno impronta fascista. Senonché, questa legge ha impronta fascista, non per quanto si riferisce alla istituzione dell’albo professionale, ma per le sue statuizioni concrete; tanto vero che oggi praticamente questa legge non si applica, non è in esecuzione, non vive più.
MANZINI. Vive.
CEVOLOTTO, Relatore. Vive per quanto si riferisce alla esistenza dell’albo, ma non si applica nel resto, perché è in relazione ad una organizzazione sindacale che non c’è più. C’è ancora il sindacato dei cronisti.
MANZINI. C’è l’Associazione.
CEVOLOTTO, Relatore. Non è sindacato. Questa legge è connessa col sistema sindacale e quindi a me pare oggi inapplicabile…
MANZINI. Una cosa è l’albo, altra cosa è il sindacato.
CEVOLOTTO, Relatore. D’accordo. Ma la legge si riferisce ai sindacati, perché dice che in ogni sindacato regionale fascista dei giornalisti è istituito l’albo professionale.
Il fatto che oggi l’albo sia tenuto dall’Associazione dei giornalisti è un adattamento della legge, che conferma in sostanza l’inapplicabilità di molte delle disposizioni di essa.
MANZINI. Si è ricostituito l’albo.
CEVOLOTTO, Relatore. Non è più basato su questa legge; ed è bene che non lo sia.
L’albo è stato ricostituito sulla base del decreto luogotenenziale 23 ottobre 1944, n. 302, che forse, più che modificare, ha sostituito la legge del 1928. Ad esempio, questa legge all’articolo 5 dice: «in nessun caso possono essere iscritti, e qualora vi si trovino iscritti devono essere cancellati, coloro che abbiano svolto pubblica attività in contraddizione con gl’interessi della nazione».
Se si volesse ritenere che una simile disposizione sia ancora in vita, dove si arriverebbe? Di questa norma si sono serviti i fascisti per estromettere tutti quei giornalisti che non erano graditi. Potrebbe servire oggi ad una maggioranza non liberale, per cacciare ad esempio quei giornalisti che facessero propaganda per la monarchia; potrebbe servire domani ad un governo reazionario per cacciare dei giornalisti che facessero propaganda comunista. La legge evidentemente non si deve applicare in quella parte, che è in contrasto con i principî democratici, in quella parte – ed è la quasi totalità di essa – che è tipicamente fascista. Il decreto del 1944, costituendo la Commissione unica presso la federazione della stampa, non ha certo inteso di attribuire a questa Commissione il potere di applicare le norme illiberali, fasciste, della legge del 1928.
Resta un albo che, per quel che riguarda le garanzie per lo stesso giornalista, le garanzie per i casi di cancellazione o di ammissione, è affidato a una Commissione unica, senza possibilità di appello. Ecco perché bisogna aspettare la futura legge sull’albo che si sta preparando. So infatti che il Ministro Grassi lavora attorno a questa legge, che darà tutte le garanzie. Se la legge del 1928 si reputasse ancora operante, non ci sarebbe bisogno di mettere nulla nel nostro progetto, perché la legge del 1928 dice all’articolo 19: «Il direttore e il redattore responsabile di un giornale quotidiano debbono essere iscritti nell’elenco dei professionisti». Meglio aspettare la nuova legge, che disciplini organicamente l’albo. Infatti mi pare che l’onorevole Manzini, nel suo eccellente discorso, non chiedesse altro se non la menzione nella nuova legge dell’albo dei giornalisti; non chiedesse, come l’onorevole Schiavetti, la condizione che il direttore deve essere iscritto fin da adesso nell’albo attuale. Non devo nascondere che la prima Commissione dei giornalisti, di cui ho fatto cenno, non era stata molto favorevole alla condizione dell’iscrizione dei direttori di giornali nell’albo dei giornalisti. Nella relazione del Presidente, professore Zottoli, leggo quanto segue: «Credo anche opportuno ricordare le discussioni che si sono avute e sono state lunghe e vive relativamente all’obbligo, per chi voglia dirigere un periodico, di iscriversi od essere iscritto nell’albo dei giornalisti; ricordarle però unicamente per far noto che tutti i commissari, salvo forse uno, sono stati contrarî a sancire l’obbligatorietà». Si noti che questa relazione è del 14 dicembre 1946, quindi posteriore al congresso di Palermo.
SCHIAVETTI. Vi furono molti assenti in quella riunione!
CEVOLOTTO. «…sono stati contrarî a sancire l’obbligatorietà e furono, nel sostenere la loro opinione, mossi da considerazioni scevre da ogni avversità al principio dell’albo. Queste considerazioni sono di due ordini; il primo riguarda tutti i periodici. È chiaro che, ammesso l’obbligo della iscrizione, la radiazione dall’albo importerebbe «ipso facto» la decadenza del radiato dalla gerenza, cioè dal diritto di restare alla direzione del periodico. Ora tutti coloro che ricordano la nefasta efficacia esercitata sulla stampa dal governo fascista, con la minaccia di ritirare la gerenza, sono molto guardinghi quando si tratti di accordare ad altri enti quella facoltà che giustamente si nega al potere esecutivo.
Probabilmente, se una nuova legge sull’albo fosse stata già sancita e offrisse, per quanto riguarda i procedimenti di radiazione dall’albo, sicure garanzie di imparzialità, di natura evidentemente anche giurisdizionale, la maggioranza della Commissione per questa parte non avrebbe insistito nella sua opinione» Poi, la relazione così prosegue: «L’altro ordine di considerazioni riguarda la stampa non politica, specialmente le pubblicazioni periodiche di studi scientifici ed atti accademici». Questa seconda considerazione ritengo che non abbia lo stesso valore della prima, perché anche nella legge del 1928 è previsto, per i direttori di pubblicazioni di carattere scientifico, culturale, un elenco a parte. È evidente che non può la stampa scientifica essere soggetta alla stessa disciplina, alla quale vengono sottoposti i giornalisti che esercitano la professione nella stampa quotidiana politica o di informazione.
Il Governo, modificando l’articolo proposto dalla Commissione giornalistica, ha tolto l’inciso: «ogni altro documento che venga richiesto da successive leggi relative alla professione giornalistica».
E lo ha tolto per la considerazione che leggo: «Non è stato poi riprodotto il riferimento ai requisiti eventualmente richiesti da leggi riguardanti l’esercizio giornalistico, introdotto dalla Commissione non senza contrasto, come risulta dalle osservazioni che il Presidente della Commissione stessa ha fatto nella sua relazione. Questa omissione si deve ad un duplice ordine di ragioni: la prima è di merito, come è detto nella ricordata relazione; la seconda è di carattere tecnico, che consiste nella inutilità di una disposizione che non abbia un concreto contenuto positivo, ma si riferisca soltanto ad un eventuale intervento legislativo». Su questa seconda considerazione la Commissione deciderà e, quando si discuterà l’articolo, dirà le sue conclusioni. Io, personalmente, osservo che molte volte, anche nella Costituzione, abbiamo fatto riferimento a leggi future. Non vedo difficoltà in questo senso. D’altra parte la formula non è impegnativa; la formula si riferisce ai requisiti che verranno richiesti, qualunque essi siano, dalla futura legge. Lascia semplicemente aperta la porta, ma viene incontro in sostanza al desiderio della federazione della stampa, che cioè del problema ci sia cenno nella legge, perché non si abbia l’impressione che l’aver tolto l’inciso proposto dalla Commissione giornalistica significhi aver voluto escludere la possibilità della richiesta del requisito professionale anche nella futura legge speciale.
Penso – ma non so ciò che la Commissione deciderà – che il ritornare al testo della Commissione giornalistica non sia cosa impossibile.
Mi riferisco a quello che ha detto così bene l’onorevole Manzini. Il problema è anche un problema di responsabilità, di elevazione del giornalismo, è un problema tecnico che implica un problema morale. Non è soltanto col sancire la obbligatorietà dell’iscrizione nell’albo o col negarla, che si può provvedere nel senso desiderato da tutti; ma principalmente col creare le condizioni per quella elevazione del costume e delle condizioni morali dei giornalisti, che sarà data soprattutto se si potrà trovare il modo di stabilire, attraverso ad un contratto collettivo ben fatto, una reale autonomia al direttore.
C’è poi la questione del sequestro, cioè la seconda delle grosse questioni a cui andiamo incontro, e sulla quale devo richiamare l’attenzione dell’Assemblea. Quale è la situazione attuale? Domando quale è la situazione attuale, perché ho l’impressione che, non certo la maggior parte, ma forse qualcuno della stessa nostra Assemblea non ne conosca i termini precisi.
I termini rapidissimamente riassunti, sono questi: nel 1906 la democrazia in Italia conquistò una grande vittoria. Con la legge Sacchi, che abolì il sequestro dei giornali, si ottenne questa vittoria. Fu una battaglia che durò molti anni e che fu vinta appunto nel 1906.
La legge Sacchi stabiliva che il giornale non può essere sequestrato che dall’autorità giudiziaria, e che non può essere sequestrato se non in determinate circostanze, cioè per pubblicazioni offensive del buon costume o del pudore. In tutti gli altri casi non è ammesso il sequestro se non per sentenza definitiva del magistrato. Fu questa una grande conquista della democrazia, conquista che fu però annullata dal fascismo.
Quando venne il fascismo si susseguirono, a cominciare dalla legge di pubblica sicurezza, le varie leggi particolari, che autorizzavano il sequestro dei giornali ad libitum da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.
Riacquistammo la libertà e le cose andarono diversamente: è stato provveduto, fin dal 31 maggio 1946, con il decreto n. 561, a regolare la materia ritornando alla legge Sacchi. È questo appunto che si deve tener presente: prima della nostra Costituzione, in Italia, su questo punto si era già riacquistata la piena libertà in un regime di vera democrazia. Oggi ancora vige il decreto del 1946, e non succede niente di diverso, non è accaduto niente di male, nemmeno durante la battaglia elettorale del 2 giugno, e nemmeno dopo.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. C’è la legge Togliatti.
CEVOLOTTO, Relatore, Sì, quella di cui parlo è la legge De Gasperi-Togliatti, che dice tra l’altro: «Non si può procedere al sequestro della edizione dei giornali… se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell’autorità giudiziaria. È tuttavia consentito all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro di non oltre tre esemplari di stampati che comportino violazione ecc.». Si stabiliscono, in deroga, i casi di sequestro – da parte dell’autorità giudiziaria, evidentemente – che sono esclusivamente quelli di pubblicazioni oscene o indecenti, e di divulgazione di mezzi antifecondativi o abortivi; in questi casi si deve procedere per giudizio direttissimo. Questa è una legge abbastanza liberale.
SCHIAVETTI. Io ho citato due casi assolutamente preoccupanti.
CEVOLOTTO. Siamo perfettamente di accordo; non creda, onorevole Schiavetti, che vi sia un dissenso fra me e lei su questo punto. Ma se anche la legge più liberale dà luogo a qualche inconveniente, non è chi non vede il pericolo di una legge illiberale in questa materia.
Ora, la Costituzione, all’articolo 21, ha sancito delle norme che apparentemente e, secondo me, non sostanzialmente vanno contro il regime di libertà che noi abbiamo instaurato. Questo il punto: perché se all’articolo 21 non diamo una interpretazione che consenta di restare nel regime di libertà che abbiamo conquistato, rischiamo di tornare agli arbitri dei sequestri da parte della polizia. La legge Togliatti ammette il sequestro della stampa oscena, ma da parte dell’autorità giudiziaria. È implicito nella stessa dipendenza dell’articolo 2 dall’articolo 1.
L’articolo 21 della Costituzione dice che si può procedere al sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme, che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.
Non occorre più la sentenza irrevocabile, basta l’atto dell’autorità giudiziaria. Però la Costituzione dice: «nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi»; quindi vi deve essere una disposizione che precisi in quali casi l’autorità giudiziaria può procedere al sequestro del giornale. Affermo subito che se il capoverso successivo si interpretasse come io credo non si deve interpretare, non resterebbe altro che limitare al minimo, nella legge sulla stampa, i casi nei quali si autorizza l’autorità giudiziaria a procedere al sequestro di giornali. Il capoverso successivo così si esprime:
«In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria etc».
Se questa fosse una norma cogente di immediata attuazione, noi torneremmo indietro, a prima del 1906, torneremmo indietro anche rispetto al regime attualmente in vigore, perché non è chi non veda che, quando si dà modo alla polizia giudiziaria di sequestrare in via di urgenza i giornali – sia pure per i casi di oscenità o per i casi di quei reati per cui sia concesso il sequestro all’autorità giudiziaria – è facilissimo, è inevitabile che la polizia vada oltre i confini che le sono assegnati, e si dà all’esecutivo un’arma, della quale può servirsi per violare la libertà della stampa.
Noi interpretiamo il capoverso collegandolo a ciò che precede. Il «può» non implica un obbligo della legge sulla stampa di inserire una norma autorizzativa del sequestro da parte della polizia giudiziaria, ma semplicemente autorizza in casi eccezionali, ad inserire sulla legge speciale una norma del genere. Questo è un limite che non può essere considerato se non come un limite massimo. Altrimenti la norma che discutiamo sarebbe in contrasto con ciò che precede: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Se non si vuole creare una contraddizione irriducibile tra questa solenne affermazione e ciò che segue, si deve ammettere che si tratta qui di una norma permissiva, che autorizza la legge a mettere in casi particolari l’autorizzazione al sequestro da parte della polizia, ma non la obbliga a mettere in ogni caso questa norma.
Noi diciamo: la legge sulla stampa potrebbe anche, in casi di emergenza, autorizzare il sequestro da parte dell’autorità di polizia, ma non è obbligata ad inserire questa regola nel contesto della legge; e se non la inserisce, non va contro la Costituzione.
Questo è un punto che deve essere risolto. Altrimenti potremmo trovarci nel periodo elettorale di fronte ai sequestri dell’autorità di polizia. Il problema è grave e va approfondito ed affrontato con serena coscienza. Non vogliamo modificare in niente il contenuto normativo della Costituzione (non è attraverso una legge sulla stampa che si può modificare la Costituzione), ma vogliamo interpretarla in quel senso liberale che promana da tutta la Carta. È assurdo pensare che la Costituzione abbia voluto lasciare in ogni caso – abbia anzi voluto prescrivere che sia permesso – il sequestro della stampa da parte dell’autorità di polizia. Sarebbe andare contro i principî fondamentali storicamente acquisiti in questa materia.
Vi sono nella legge norme che potranno venire in discussione sotto vari aspetti e in molti casi potranno essere migliorate e modificate. Per esempio, è evidente che è stata una svista – intendiamoci bene, da parte della Commissione dei giornalisti prima, poi da parte del Governo, poi da parte della Sottocommissione, poi da parte della Commissione dei Settantacinque – quella di avere ammesso che il giornalista possa essere obbligato, quando nomina alcuno, a pubblicare una rettifica della persona nominata, lunga fino al doppio della notizia.
Una voce al centro. Non la pubblicano mai!
CEVOLOTTO, Relatore. La disposizione, come è stata formulata nel testo della legge, è inapplicabile. Una signora nominata da un cronista, il quale abbia scritto che ad un ricevimento portava un abito verde, potrebbe pretendere la pubblicazione della rettifica che il suo abito non era verde, ma rosso. Questo non è il senso della disposizione. Il senso della disposizione è che sia obbligatoria, e severamente obbligatoria, la pubblicazione della rettifica di chi è stato diffamato od offeso.
Così pure la disposizione che è stata tanto criticata dall’onorevole Labriola, relativa alla facoltà, da parte dell’autorità, di veder pubblicati a pagamento i suoi scritti; deriva anch’essa dall’editto sulla stampa, ed è stata poi trasportata in un testo, che è stato integralmente approvato dal Governo, così come era sfuggito all’attenzione della Commissione dei giornalisti. Anche questa disposizione va chiarita. Vi possono essere dichiarazioni, avvisi, ordini dell’autorità pubblica, che è interesse e diritto del Governo di inserire a pagamento nei giornali. Ma il limite dell’interesse pubblico va precisato.
Del resto, la relazione del Governo accenna a questi limiti: «Si tratta di due norme che sono state oggetto di critica. La prima, che vige nella consuetudine giornalistica dei più progrediti paesi, costituisce una salvaguardia opportuna, anzi necessaria, a tutela dei singoli. La seconda non deve essere interpretata nel senso di una illimitata facoltà alle pubbliche autorità, ponendo la norma stessa alla sua pubblicazione il limite del pubblico interesse, limite che potrà essere valutato dal magistrato, qualora dalla inosservanza di essa si faccia derivare la responsabilità del direttore». Il limite del pubblico interesse non è abbastanza preciso ed abbastanza chiaro. Bisogna trovare una formula che precisi meglio.
L’onorevole Bettiol nel suo discorso ha parlato (e ne ha parlato anche incidentalmente, sotto altro aspetto, l’onorevole Schiavetti) della responsabilità penale del direttore di giornale. E qui sorge, di riflesso, la questione del gerente.
La responsabilità penale oggettiva del direttore è già nella nostra legislazione penale, nel nostro Codice penale. Il Codice penale, infatti, agli articoli 57-58 precisa questa forma di responsabilità del direttore o del redattore responsabile del giornale: «Per i reati commessi col mezzo della stampa si osservano le disposizioni seguenti: 1° qualora si tratti di stampa periodica, chi riveste la qualità di direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso, salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione».
Questa norma si ricollega all’articolo 42 del Codice penale. Nel sistema della nostra legge c’è anche il principio della responsabilità oggettiva, del quale gli esempi più frequenti si hanno in tema di contravvenzioni.
Altra volta (quando avevo il tempo di occuparmi di queste cose) ho scritto un lungo articolo per dimostrare che, nella maggior parte dei casi in cui si parlava di responsabilità oggettiva, anche nelle contravvenzioni, non si trattava in realtà di responsabilità oggettiva se non apparentemente, e che la responsabilità oggettiva era un non senso. Poi è venuto il nuovo Codice che l’ha sancita. Ad ogni modo, un caso di responsabilità oggettiva c’è sempre stato, ed è quello del gerente, il quale risponde penalmente di ciò che non poteva impedire, di ciò per cui non è imputabile né a titolo di dolo, né per colpa. Rispondeva perché era gerente; e questa è una assurdità. Ha ragione l’onorevole Bettiol di dire che si tratta di un istituto arcaico. Ma questa assurdità è anche, in materia di stampa, una necessità. Quando il Codice penale dice, all’articolo 57, che il «direttore o redattore responsabile risponde, per ciò solo, del reato commesso», dice una cosa che a tutta prima ripugna, ma che praticamente è necessaria, perché altrimenti, nella maggior parte dei casi la diffamazione non risulterebbe perseguibile. Tutte le volte che non si riesce a identificare l’autore dello scritto non si potrebbe imputare, secondo le normali regole dell’imputabile, il direttore, perché egli non sarebbe responsabile che a titolo di colpa e la diffamazione non è un reato colposo. Il direttore sfuggirebbe alla accusa, dimostrando che non era presente o che non ha visto lo scritto. Sarebbe facilissimo evitare la perseguibilità dei diffamatori abituali. Per questo si era istituito il gerente nella vecchia legislazione. L’onorevole Labriola ha detto che anche questa istituzione tanto malfamata ha avuto qualche lato buono, perché certe volte ha servito ad alcuno per esprimere liberamente la sua opinione, cosa che non avrebbero potuto fare in tempi di oppressione. Ma checché ne sia, oggi, per una ragione di moralità, si è sostituita alla figura del gerente, la figura del direttore. Responsabilità obiettiva anche in questo caso; ma in questo caso, la responsabilità oggettiva ha una qualche attenuazione nella sua configurazione. Si potrebbe dire che si tratta di un caso di responsabilità colposa, che viene perseguita come responsabilità dolosa, perché il direttore ha l’obbligo di vigilare, ha l’obbligo di seguire, la pubblicazione, anche se la affida ad altri, ha, quanto meno, la colpa della «mala electio». Comunque è colui che dispone del giornale, e quindi è più giusto che, se una responsabilità obiettiva si deve far risalire a qualcuno, la si faccia risalire a lui.
Ecco perché le critiche dell’amico Bettiol, fondate indubbiamente in teoria (egli è un giurista ed un penalista di grande valore, e quando dice cosa in questa materia, come del resto anche nelle altre, dice cosa esatta), praticamente non incontrano quella che è la situazione reale, la necessità della repressione dei reati di stampa.
Vi è la questione delle corti d’onore, sulla quale anche ha insistito la federazione della stampa ed hanno insistito vari degli oratori che ho ascoltato: l’onorevole Bettiol, mi pare l’onorevole Labriola, ed altri.
Bisogna riflettere alla situazione giuridica attuale, alla situazione di fatto della nostra legislazione. La Commissione ha cercato, nella semplificazione di questa legge (perché la legge proposta dal Governo è stata da noi semplificata e ridotta) di portare il meno possibile di modificazioni alle leggi penali o di procedura penale; in quanto ha ritenuto che in sede di legge sulla stampa non si debba procedere alla revisione del codice penale né della legge processuale penale.
Per esempio, di fronte alla necessità di un procedimento immediato per i reati di diffamazione a mezzo della stampa, di cui hanno parlato oratori anche poco fa, la Commissione si è limitata a prescrivere il giudizio direttissimo, mentre molti dei commissari, anzi forse la maggior parte, era propensa a tornare alla vecchia citazione di parte dei codici del 1913 e del 1865. Ma ha ritenuto che questa sia materia di modificazione del codice di procedura penale e non da inserire nella legge sulla stampa.
Ora qual è la situazione attuale? La situazione attuale è quella determinata dal codice penale Rocco. Non so perché questo codice penale, come tutti i codici del fascismo, sia ancora rimasto in piedi.
Lo dovrei chiamare codice Mussolini, e mi ripugna. È un codice profondamente reazionario; è un codice in camicia nera. Quando maneggio questo codice sento fastidio, come se discutessi con persona che vestisse la camicia nera. Questo codice ha tolto la facoltà della prova liberatrice per la diffamazione. Naturalmente, avendo tolto la facoltà della prova dei fatti (che è stata ora ripristinata con le modificazioni alla legislazione penale del decreto 14 settembre 1944, n. 288) l’ha sostituita con un istituto nuovo, quello del giurì d’onore. Chi querela alcuno per diffamazione non mira a fargli applicare diecimila lire di multa o anche un mese o dieci mesi di reclusione. Nella vecchia legislazione la pena era un anno di detenzione, come minimo, e superava il limite della condanna condizionale. Chi stampava il giornale ci pensava molto prima di diffamare, perché c’era la galera; e non sarebbe male ritornare a pene più severe di quelle, ridicole che oggi si danno per i reati di diffamazione. Anche questo però è forse un problema da risolvere in sede di revisione del codice penale.
Poiché non vi era la possibilità della prova liberatoria, si istituì il giurì d’onore per dar modo, a chi era diffamato con l’attribuzione di un atto specifico dimostrare che il fatto non sussisteva. Senonché, questo istituto, che era diretto a un giusto scopo, non è stato regolato nel codice di procedura: è stato regolato dagli articoli 9 a 12 delle norme di attuazione; ed è una regolamentazione pessima, infelicissima.
Una volta, dopo aver esperimentato nella mia pratica professionale l’istituto, scrissi in proposito una piccola monografia, concludendo che, dopo le mie esperienze non avrei mai suggerito a nessuno di ricorrere al giurì d’onore, che non portava a risultato, perché la procedura ne era male ordinata. Non si sapeva se era un organo giurisdizionale o non giurisdizionale. Ed i giuristi si sono affaticati a stabilire questo principio, che praticamente non aveva un’importanza decisiva, mentre invece le norme procedurali non offrivano alcuna garanzia.
Si vogliono istituire le corti d’onore. Ma le corti d’onore, che hanno altro ambito rispetto al giurì d’onore, porterebbero a questo: che vi sarebbe il procedimento normale per diffamazione; vi sarebbe il giurì d’onore; vi sarebbe la corte d’onore. Troppe cose. Per di più il progetto propone che le corti d’onore applichino per la procedura le disposizioni degli articoli 9 e 12 delle norme d’attuazione, cioè proprio le disposizioni tanto criticate relative al giurì d’onore, a causa delle quali, malgrado ci fosse la necessità di ricorrere al giurì d’onore per dimostrare la non verità dei fatti addebitati, l’istituto non ebbe se non scarsissime applicazioni. Non si ricorrerebbe ora neanche alle corti di onore; a meno che non si inserisse nella legge tutta una nuova regolamentazione procedurale, con norme chiare e precise. Queste norme di procedura, che non sarebbero poche, porterebbero all’inserimento di un vero testo processuale nella legge sulla stampa, che ne altererebbe le proporzioni e ne sviserebbe la natura.
Pure aderendo al principio della corte di onore, pensiamo che questa materia per forza di cose deve essere riservata alla revisione del codice penale e del codice di procedura penale; non alla riforma definitiva, ma a quei provvedimenti modificativi in corso di elaborazione, che potranno essere pronti fra poco tempo.
Molti altri particolari del progetto potranno essere vagliati in sede di discussione dei singoli articoli.
Io ho voluto enucleare le questioni principali: se l’Assemblea riterrà che non sia il caso oggi, per le ragioni dette dagli onorevoli Giannini e Scoccimarro, ma più specialmente per ragioni di tempo, di affrontare la discussione dell’intera legge, bisognerà provvedere allo stralcio; ma questo stralcio dovrà comprendere quei due o tre problemi fondamentali, che devono essere risolti.
Le questioni di dettaglio potremo esaminarle, se sarà il caso, nella discussione degli articoli. Questo disegno di legge, malgrado qualche resistenza, è accettato abbastanza favorevolmente anche dai giornalisti, nella sostanza se non nella forma; perché essi chiedono modificazioni sui seguenti punti: menzione dell’albo professionale, registrazione da parte del cancelliere, corti di onore, pubblicazione nel bollettino della stampa, invece che nel foglio degli annunci legali, dei bilanci dei giornali; ma una sola questione sostanziale essi fanno: la obbligatorietà dell’iscrizione del direttore nell’albo professionale.
Ho l’impressione che, anche aspettando, non si potrà fare una legge molto diversa da questo progetto. Del resto, non si tratta di una legge costituzionale; si tratta di una legge ordinaria, modificabile in qualunque momento, quando la mutata situazione lo comporti. Se ci fosse il tempo, non vedrei la ragione di rinviare la discussione se non per una modificazione sostanziale, di struttura, che probabilmente non potrà avvenire neppure fra un anno e più.
È necessario però ridare subito un clima di vera libertà alla stampa. Checché se ne dica, la Commissione – ed i nomi dei componenti ne sono garanzia – ha procurato, sulla base del testo redatto dai giornalisti, di garantire la nuova libertà. Questa è stata l’intenzione. Questa è la volontà. Quando comincerà la competizione elettorale, la stampa italiana dovrà essere libera, non dovrà avere vincoli di autorizzazioni o di sequestri, di nessun genere; dovrà trovare nella sua libertà i limiti della stessa libertà. Questo è ciò che esige il costume politico e ciò che esige il momento; questa l’aspirazione per cui noi – io meno degli altri, perché ho sostituito l’onorevole Grassi da poco tempo – noi tutti i componenti della Commissione, a cominciare dall’onorevole Grassi, il quale l’ha così autorevolmente presieduta, abbiamo lavorato con assiduità. Abbiamo lavorato – molto più gli altri che chi vi parla – con coscienza, per arrivare a un buon risultato. Auguriamo che attraverso il rinvio non si lasci ancora la stampa italiana nella condizione in cui si trova oggi. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio ha facoltà di parlare.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Nel momento attuale della discussione ci si può forse limitare a poche osservazioni, in quanto la gran parte delle cose che sono state dette nella discussione generale attiene a punti singoli di questo progetto di legge e quindi può essere meglio valutata e commentata se e quando noi discuteremo dei diversi articoli del disegno stesso.
Credo, comunque, necessario premettere una constatazione e cioè che questo disegno di legge non è stato formulato e presentato all’Assemblea Costituente dall’attuale Governo ma giace dal marzo 1947 presso la Commissione dei Settantacinque la quale, prima che ne fosse iniziata la discussione in questa Aula, lo trasmise all’esame di una apposita Sottocommissione; esso fu approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 13 marzo 1947 e quando al Governo erano Ministri appartenenti a partiti diversi da quelli oggi in esso rappresentati e precisamente dagli onorevoli Sereni, Gullo, Ferrari, Cacciatore, Morandi, Romita ed altri. Questo dico, non per declinare delle eventuali, ipotetiche responsabilità, o per allontanarmi da certi punti di vista che sono sanciti nel progetto, ma per rilevare che oggi il Governo mantiene quello stesso progetto che, anche se redatto alcuni mesi prima dell’approvazione dell’articolo 21 della Costituzione (che tratta della materia della stampa), è fedelmente aderente a quegli stessi principî che hanno trovato accoglimento nel detto articolo. E forse è significativo che nessuno, in questa discussione generale, abbia potuto portare qualche critica concreta al Governo, dopo che in più d’una occasione è stato accennato sia sulla stampa che in questa stessa Aula ad ipotetici abusi da parte del Governo delle disposizioni vigenti in questa materia. È vero che il regime delle autorizzazioni è un regime non certo desiderabile per la stampa. Siamo noi i primi ad auspicare il momento in cui, attraverso quel meccanismo più semplice della registrazione, sarà tolta al potere esecutivo la possibilità di interferire sulla pubblicazione di un periodico. Ma è pur vero che sia dal Governo attuale che da quelli passati è stato fatto l’uso più rigoroso della concessione delle autorizzazioni, nel senso che queste non sono state mai negate, senza che vi fosse un motivo fondato e riconosciuto. Basti pensare che sono state date, dalla liberazione ad oggi, in Italia 25.000 autorizzazioni per nuovi periodici, molti dei quali sono rimasti soltanto nell’intenzione di chi doveva forse profittarne per far commercio o per avere dei finanziamenti. 25.000 autorizzazioni testimoniano se non altro di una larghezza di indirizzo e nessuno può oggi sostenere che sia stata negata un’autorizzazione senza un motivo fondato e riconosciuto. Avrei gradito che qualcuna di quelle vaghe critiche che come accennavo poc’anzi sono state rivolte al Governo sulla stampa e in questa stessa sede avessero trovato concreta formulazione nella discussione attuale. Ciò vale anche per la materia dei sequestri, che, come è noto, è disciplinata dal decreto legislativo 31 maggio 1946, che porta la firma del Guardasigilli del tempo onorevole Togliatti. Ieri l’onorevole Schiavetti ha ricordato il sequestro del giornale Il Pollo del 28 novembre 1946, eseguito su ordine della procura della Repubblica e non della prefettura, ed il sequestro di quel foglio che si chiama, se non erro, Il matrimonio; il fatto che detti sequestri non hanno trovato conferma da parte della autorità giudiziaria costituisce la riprova dell’assoluta libertà in cui si svolge, nei confronti del potere esecutivo, l’azione dell’autorità giudiziaria.
SCHIAVETTI. Voi avete congelato le pratiche, cosicché questi due giornali, nonostante le pratiche fatte, non sono potuti uscire.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Del resto io, per un certo rispetto alla serietà dei nostri lavori, non ho portato qui i due fogli incriminati, altrimenti forse sarebbe stato facile vedere quanto sia, se non altro, singolare l’addebito fatto dall’onorevole Schiavetti secondo il quale il sequestro sia servito a mascherare, attraverso una asserita difesa del buon costume, la difesa di un determinato interesse politico. Non vedo come in questi casi e negli altri in cui, a tutela della pubblica decenza, è stato disposto il sequestro, sempre ad opera dell’autorità giudiziaria (e qui ho con me una busta che semmai potremo vedere insieme a seduta chiusa, onorevole Schiavetti) non vedo proprio che vi sia una difesa di un particolare ideale politico e di un particolare interesse di gruppo governativo. Mi pare che si tratti effettivamente di casi in cui il sequestro sia stato disposto a tutela di quanto è stato esplicitamente riconosciuto anche in sede di formulazione dell’articolo 21 della Costituzione.
Comunque, è notevole anche questo e cioè che i due casi ricordati dall’onorevole Schiavetti si stano verificati nel momento in cui maggiori le responsabilità politiche non ricadevano su uomini della democrazia cristiana. Dal giugno, da quando cioè si è formato il Governo attuale, prima del rimpasto e dopo il rimpasto, non si è mai dato un solo caso in cui sia stato possibile sospettare, se non accusare, un attentato volontario o involontario alla libertà di stampa. Questo il Governo credo abbia non soltanto il diritto ma il dovere di ricordare qui, oggi, mentre si discute di libertà di stampa. Il disegno di legge attuale, così com’era stato elaborato attraverso una eccezionale ed auspicabile, anche in altri settori, collaborazione tra gli organismi rappresentativi della stampa, dei giornalisti, degli editori ecc., non risolve certo tutti i problemi che sono stati accennati nella discussione generale.
Ieri l’onorevole Schiavetti ha, attraverso delle perifrasi, auspicato l’avvento di concezioni più moderne nel regime della stampa, attraverso la realizzazione di legislazioni simili a quella vigente in Cecoslovacchia o a quella proposta ma non ancora approvata in Francia; egli, peraltro, pare aver dimenticato che quelle leggi sono, non il punto di partenza di una determinata situazione politica e sociale, ma il punto di arrivo.
Ora io credo che, per quanto viva possa essere l’esigenza di criteri liberali nella attuale formulazione della legge sulla stampa, nessuno possa pretendere che sia il Governo stesso a proporre delle leggi che diano già per scontato l’avvento di certe situazioni e di certe cosiddette evoluzioni – non so se sono evoluzioni –; ritengo anzi che il Governo abbia il solo dovere di impedire che esse si realizzino.
Oggi infatti quello che l’onorevole Scoccimarro ha chiamato col vero nome, e che si intuiva nelle parole dell’onorevole Schiavetti, e cioè la nazionalizzazione delle imprese tipografiche, può essere un punto di arrivo che non mi pare si possa porre oggi in sede di legislazione sulla stampa. Esso dovrà, se mai, essere esaminato quando verranno trattati concetti più generali di libertà di proprietà.
In questo senso è giusto ed è comprensibile quanto l’onorevole Scoccimarro ha detto nei confronti del rinvio di questo progetto. È necessario anzi dire una parola di chiarimento a questo riguardo, cioè per quanto si è detto dall’onorevole Scoccimarro relativamente a quei complessi tipografici già appartenenti al partito fascista e che sono stati posti dalle circostanze della guerra in un regime particolare. Certamente, anche se avesse avuto un’altra soluzione, la destinazione di questi complessi tipografici non avrebbe risolto tutto il problema della stampa in Italia, perché si tratta di piccole imprese, che, se possono avere localmente un certo peso, nel quadro della editoria nazionale non hanno una rilevanza notevole. Io non conosco a fondo la cosa perché non ero al Ministero nel momento in cui è avvenuta la vendita della tipografia di Udine, ma mi riservo di accertare i fatti nella presunzione che, secondo quanto dice lo stesso onorevole Scoccimarro a questo riguardo, che un uomo serio come l’onorevole Arpesani non spenda la parola d’onore per ingannare, non un estraneo, ma addirittura un Ministro del proprio Governo.
SCOCCIMARRO. I dati che sono stati citati furono pubblicati anche da qualche giornale.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Ma l’onorevole Arpesani è attualmente in Argentina…
SCOCCIMARRO. Io non ho detto una parola di più di quanto non sia stato già pubblicato.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Si può prospettare anche la probabile considerazione che, trattandosi di Udine, gli organi dello Stato che volevano addivenire alla vendita del complesso tipografico si preoccupassero non soltanto del quantum, ma anche delle persone che prendevano questo complesso tipografico; perché è vero che lei dice che sono caduti in mani di monarchici, ma potevano anche cadere in mani di prestanome… (Interruzione del deputato Russo Perez).
SCOCCIMARRO. Il Comitato di liberazione nazionale aveva offerto quattordici milioni.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Ma il Comitato di liberazione nazionale non ha personalità. D’altro canto potrebbe darsi l’ipotesi che particolari ragioni politiche favorissero ad Udine il passaggio dell’impresa tipografica in mano a dei prestanome che non facessero gli interessi dell’Italia e ciò a prescindere dal dubbio sulla effettiva disponibilità dei detti quattordici milioni da parte del Comitato dì liberazione nazionale.
Una voce all’estrema sinistra. Come vuole che il Comitato di liberazione nazionale non provveda agli interessi dell’Italia? (Commenti).
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Dicevo che il Comitato di liberazione, non possedendo, non poteva acquistare.
Comunque, anche su questo punto, nei confronti del Governo attuale, sono in grado nel modo più assoluto di dire che per quanto riguarda questa materia di regolamentazione definitiva o provvisoria dei compiessi tipografici che appartenevano al partito fascista tutto si svolge nella forma più pubblica e più rigorosa possibile, tanto che io sarò lietissimo se si addiverrà, con la nuova Camera, ad una inchiesta parlamentare, o a qualsiasi altra forma di indagine pubblica.
SCOCCIMARRO. Nella forma più pubblica, e non come si è proceduto per il Resto del Carlino e per Il Popolo d’Italia! (Commenti – Interruzioni).
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Per il Resto del Carlino è stata applicata la legge sull’avocazione dei profitti di regime, che credo sia stata fatta da lei…
SCOCCIMARRO. Non mi induca a dire qualche cosa di più!
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Io vorrei indurre in tentazione per far dire cose serie e per poterle contestare.
SCOCCIMARRO. Per esempio, la vendita per 240 milioni di un complesso che oggi vale 900 milioni! (Commenti).
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Lei sa benissimo, per essere stato Ministro delle finanze, che l’accertamento base non può essere aumentato.
SCOCCIMARRO. Non è vero!
MICHELI. Ma questi sono fatti speciali! (Commenti).
PRESIDENTE. La prego, onorevole Micheli.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Comunque, non credo che questo punto della proprietà delle tipografie possa essere risolto nel senso accennato dall’onorevole Scoccimarro, cioè decidendone la nazionalizzazione, oppure nel senso meno perfettamente accennato dall’onorevole Schiavetti.
L’unica traccia precisa da seguire nel disciplinare questa materia è quella indicata nel progetto governativo che ha trovato una fedele riproduzione nell’articolo 21 della Costituzione.
Il punto cui ha accennato l’onorevole Cevolotto e che ha determinato un agitarsi legittimo e comprensibile di critiche e di proposte da parte della classe giornalistica, cioè la sanzione in questa legge dell’obbligatorietà dell’appartenenza all’albo dei giornalisti per poter ottenere la direzione responsabile e la registrazione di un periodico, è un punto su cui si potrebbe discutere molto.
Certo, i giornalisti oggi sono legittimamente preoccupati, non soltanto per un interesse ristretto di categoria, ma proprio perché tale obbligatorietà è una forma indiretta di controllo della serietà delle imprese giornalistiche; sono preoccupati che, in mancanza di ogni accenno ad una regolamentazione del genere, si possa domani, forse con degli artifizi, contestare la legge e renderne più difficile l’esecuzione.
Certamente la pura e semplice menzione dell’obbligo dell’iscrizione all’albo è una menzione al tempo stesso pleonastica ed insufficiente perché da un lato oggi gli albi già esistono, ma dall’altro la loro attuale disciplina non può considerarsi come una disciplina giuridica vera e propria. Non nego che l’accoglimento della dizione dell’articolo 6 del progetto possa anche rappresentare un pericolo in avvenire, perché un gruppo, un partito che riuscisse a dominare la classe giornalistica all’interno dell’albo, potrebbe, in qualche maniera, imporre l’esclusione di singoli giornalisti dall’albo o comunque rendere difficile l’appartenenza all’albo stesso. A tal fine basterebbe che la legge accennata richiedesse un certificato di buona condotta o qualche cosa del genere, per poter dar modo al potere esecutivo di rendere difficile l’appartenenza all’albo a chi sia nemico della maggioranza governativa.
Però credo che, mettendo sulla bilancia questo ipotetico pericolo e la necessità che si deve salvaguardare e che è richiesta dalla Federazione della stampa si possa accedere a questa seconda tesi. Quindi il Governo non è contrario a che si metta tra i requisiti anche quello contemplato dalla lettera c) del progetto primitivo dei giornalisti.
Per quanto riguarda il sequestro – riservandomi di parlarne a suo tempo, quando si discuterà l’articolo del progetto – debbo osservare che è gratuita una certa accusa di medioevalismo, di reazionarismo, di fascismo, che abbiamo sentito ripetere da qualcuno degli oratori che hanno parlato ieri e oggi, perché la possibilità del sequestro è esplicitamente ammessa dall’articolo 21 della Costituzione ed anzi, in un caso non soltanto è ammessa, ma è tassativamente richiesta. L’articolo 21 infatti, che nel terzo comma parla della possibilità di procedere al sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, nell’ultimo comma (votato qui dalla Costituente all’unanimità, con precise motivazioni, che si richiamano alla tutela particolare, ed al rispetto che meritano l’infanzia e l’adolescenza, ecc.) dice espressamente: «Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Viene così impegnato il legislatore a stabilire queste misure preventive.
Certamente questo può rappresentare un «erto pericolo, e dipenderà dal senso di responsabilità e dalla correttezza civile dei Governo di non abusare mai di una facoltà del genere; in ogni caso una remora ad ogni eventuale abuso è stabilita nello stesso articolo attraverso l’obbligo della trasmissione immediata dell’ordine di sequestro all’autorità giudiziaria, che entro un brevissimo termine, stabilito anche esso tassativamente dal disegno di legge, deve pronunciarsi, anche nel senso di rendere nulli gli effetti del provvedimento. Si profila così un’ipotesi di risarcimento, da fissarsi nei casi in cui fosse stato abusato di una tale facoltà.
SCHIAVETTI. Riguarda la stampa in generale, non quella periodica. Si riferisce ai capoversi precedenti.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Onorevole Schiavetti, se lei riguarda i resoconti stenografici di quella seduta si accorgerà che la questione è pacifica. Comunque, a prescindere dalla considerazione che la sua osservazione, a mio giudizio, doveva essere fatta in quel momento e non oggi che la Costituzione è già stata approvata, penso che di questo si potrà parlare più diffusamente nel momento in cui tratteremo dell’articolo sul sequestro.
Alle proposte di rinvio della discussione generale fatte ieri dall’onorevole Giannini, il quale si augura che questi mesi di vacanza parlamentare valgano ad illuminare quelli che torneranno nel Parlamento, per proporre delle formule legislative atte ad assicurare che l’uomo qualunque, l’uomo della strada, la folla, possano essere tutelati da eventuali inganni, rispondo che, benché possa avere una grandissima fiducia nella intelligenza di tutti gli appartenenti al primo Parlamento della Repubblica, credo che nessuno di essi sarà in grado di potere assicurare, attraverso una formula legislativa, un principio del genere. Di fronte a questa proposta di rinvio, motivata diversamente, ma proveniente da parti più diverse, il Governo osserva innanzi tutto che è pronto a discutere in tutto o in parte, secondo quanto voglia l’Assemblea, questo progetto. Nessuno domani sarà autorizzato a dire o a continuare a dire che il Governo voglia servirsi di certi strumenti provvisori attuali e faccia in modo che non si discuta e non si fissi in una forma più concreta e stabile quella che è la minima regolamentazione della stampa. Questo credo sia necessario dire ed è necessario che l’Assemblea di questo prenda atto. Il Governo stesso aveva fatto a un certo momento una proposta di stralcio.
Qualcuno ricorderà certo l’increscioso episodio del Corriere di Milano, in cui l’autorità prefettizia incorse in una errata valutazione dei propri poteri; e contro di essa si scagliarono alcuni che poi ne divennero ferventi sostenitori (si trattava infatti del prefetto di Milano). In quel momento il Governo, preoccupato che si continuasse a ripetere la diceria, la leggenda di tenebrosi poteri di un regime quasi nascosto, poliziesco, di stampa dichiarò che, se non fosse stato possibile prima del 31 dicembre (perché allora non si pensava alla prorogatio) approvare tutta la legge sulla stampa, si dovesse almeno approvarne subito pochi articoli, e soprattutto quelli relativi alla registrazione.
Ora, se l’Assemblea ritenesse di dover riprendere adesso, in questa nuova circostanza, la proposta di stralcio, il Governo sarebbe pienamente a disposizione dell’Assemblea stessa. Certamente non credo che si possa da alcuno immaginare che tutti i problemi della libertà di stampa siano esauriti, diventino ricordi, con l’approvazione dello stralcio o anche dell’intero disegno di legge. Molti altri problemi restano, ma credo che si debba affermare, per non creare confusioni specialmente per chi è fuori di questa Assemblea, che quasi mai lo Stato deve direttamente intervenire nella disciplina della stampa; deve intervenire il più possibile in modo indiretto; deve intervenire – io esprimerò al momento opportuno avviso concorde con quanti di voi hanno proposto di aggravare le pene per i reati di diffamazione commessi a mezzo della stampa – in quella forma indiretta che prima ricordavo, disciplinando e tutelando la posizione dei giornalisti, quindi dando anche, con una certa stabilità, una garanzia più generale a questo settore, favorendo il sorgere di forme consorziali e cooperativistiche per associare forze della mente, forze del braccio e forze del capitale in imprese giornalistiche, ove tutto ciò sia possibile fare seriamente e con la garanzia di fare qualcosa che contribuisca a consolidare la libertà di stampa.
E credo che il Governo debba assicurare la libertà di stampa anche sotto un altro profilo. La libertà di stampa deve essere assicurata a chiunque abbia da esprimere il proprio pensiero: ma non soltanto con una formula utopistica per la quale chiunque abbia un’idea, e formi un certo gruppo, possa esigere dallo Stato di esser messo in condizioni di stampare. Non bisogna dimenticare infatti che il miglior giudice di un giornale è sempre il lettore e che non possiamo pensare che si formino delle specie di gazzette ufficiali con le idee di determinati gruppi, o che si formi una specie di I.R.I. di giornali in cui tutti possano esprimere le proprie idee. Ma io credo che si debba tutelare da parte dello Stato la libertà di stampa sotto un altro profilo, garantendo cioè che nessuno possa o per ordini cellulari o per imposizione statale politica sostituirsi alla libera espressione di chi scrive un giornale e fare una specie di censura. Se in questi ultimi tempi in Italia non c’è stata nessuna censura da parte dell’autorità statale non si può dire altrettanto per quanto riguarda le commissioni interne delle aziende giornalistiche.
Credo inoltre che lo Stato abbia il sacrosanto dovere di proteggere la libertà di stampa anche contro quei volgari attentatori che sono rappresentati dagli incendiari delle edicole in cui si vendono giornali esponenti di gruppi che non la pensano come questi pompieri a rovescio. (Interruzione del deputato Scoccimarro).
La definizione di stampa diffamatoria è un po’ difficile a stabilirsi, onorevole Scoccimarro. (Interruzione del deputato Scoccimarro).
Mi sono domandato diverse volte, onorevole Scoccimarro, di fronte alla ripugnanza ispirata da certe critiche in blocco a tutta la classe democratica, con che coscienza noi possiamo dire a un neo-fascista o a un reazionario che non deve dir male di noi, quando negli stessi nostri giornali sono contenuti…
SCOCCIMARRO. Io non le consento neanche di fare un paragone. (Commenti al centro).
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Noi dobbiamo riconoscere la libertà uguale per tutti. Non vedo come si possa impedire ad un Tizio qualsiasi di chiamare, ad esempio, voi venduti alla Russia e noi all’America, se voi stessi nei vostri giornali dite che noi siamo venduti all’America.
Voi avete un concetto molto relativo di libertà, un concetto che fa comodo. (Applausi al centro – Interruzione del deputato Scoccimarro).
Se vi leggessi tutti i titoli dei giornali per i quali si sono avuti i pochi casi di sequestro disposti dall’autorità giudiziaria in questi anni voi apprendereste che, accanto all’Adriana dal bel corpo e all’Abisso del piacere figurano L’anticomunismo, L’antimoscovita, L’antibolscevico, L’avanguardia nazionale, ciò che evidentemente testimonia almeno una certa obiettività in chi ha disposto i sequestri stessi.
Certamente il problema della libertà di stampa bisogna affrontarlo in pieno. Comprendo i discorsi pronunziati nel corso di questa discussione, come quello dell’onorevole Schiavetti, nei quali sono state esposte concezioni moderne, nuove; e mi auguro che esse si realizzino; ma queste espressioni si sono ripetute in tutti i periodi; ed anche nella «dottrina del fascismo», contenuta nell’Enciclopedia Treccani, che, a quanto pare, è stata scritta dallo stesso Mussolini, v’è il concetto, che io con molta preoccupazione ho sentito ieri enunciare dall’onorevole Scoccimarro, che la libertà individuale (neppure l’interesse individuale) può essere soffocata, repressa, subordinata, quando si tratta di un interesse comune. Chi è arbitro di questo interesse comune? È difficile dirlo. Se noi sapessimo con precisione in che cosa consiste veramente l’interesse nazionale, se ne avessimo una definizione accettata da tutti, capirei l’esigenza prospettata dall’onorevole Scoccimarro; ma forse noi dobbiamo ancora ricostruire parecchi pezzi della nostra patria perché si possa parlare uno stesso linguaggio in questo campo. Questa è la vera difficoltà per cui noi oggi non possiamo fare una legge solida, completa, definitiva in materia di libertà di stampa. Concordando in parte, discordando in altre parti dalle osservazioni specifiche fatte dal relatore, e riservandomi di esprimere l’avviso del Governo sui singoli punti, al momento in cui passeremo, se passeremo, alla discussione dei rispettivi articoli del disegno di legge, ripeto che il Governo è pronto a discuterli, in tutto o in parte, secondo quello che stabilirà l’Assemblea. (Vivi applausi al centro).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta di domani.
Per una interpretazione autentica della XVII disposizione finale e transitoria della Costituzione.
PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Sansone mi ha fatto pervenire la seguente lettera in data odierna:
«In relazione alla richiesta verbale avanzata da me nella seduta di ieri avente per oggetto la interpretazione della XVII Disposizione finale e transitoria della Costituzione, la prego di voler disporre affinché la questione sia portata con inserzione nell’ordine del giorno a cognizione dell’Assemblea per essere discussa e decisa.
«A sostegno della richiesta mi permetto farle osservare che trattasi di norma transitoria creata proprio pel funzionamento dell’Assemblea per il periodo che va dal gennaio 1948 fino alle prossime elezioni e che pertanto può l’Assemblea essere chiamata a decidere sul modo della sua applicazione interpretandola così in modo autentico.
«Né penso vi possa essere ostacolo di natura costituzionale, perché la richiesta da me avanzata investe una norma transitoria e non uno degli articoli della Carta costituzionale».
L’onorevole Sansone ha ritenuto di dar corso all’invito, che gli avevo rivolto ieri sera, di proporre in una forma organica e precisa la questione che egli aveva ieri sera formulato soltanto nelle sue linee generali. Penso tuttavia che questa sua richiesta debba trovare un ulteriore mezzo procedurale per giungere innanzi all’Assemblea; e ritengo che il mezzo più indicato sia quello di trasmetterla alla Giunta del regolamento, la quale ne riferirà all’Assemblea.
La Giunta potrà così impostare dinanzi all’Assemblea la discussione che l’onorevole Sansone propone. Ogni proposta deve essere prima elaborata attraverso la Commissione competente. Nel caso specifico, trattandosi di interpretare una norma relativa al funzionamento dell’Assemblea, la Giunta del regolamento, ripeto, mi pare la più indicata fra le varie Commissioni esistenti.
SANSONE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SANSONE. Ringrazio l’onorevole Presidente. Data la brevità del tempo, pregherei la Giunta del regolamento di presentare con cortese sollecitudine la sua relazione all’Assemblea; altrimenti il tempo passerà e non avrà più importanza l’interpretazione della norma transitoria della Costituzione.
PRESIDENTE. In attesa che la questione sia risolta, per dare alle interrogazioni la pubblicità desiderata, farò dare lettura alla fine di ogni seduta delle interrogazioni presentate, alle quali tutte, anche quando sollecitano risposta orale, il Governo darà risposta scritta.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Concordo e confermo che, per intanto, il Governo darà risposta scritta anche alle interrogazioni con richiesta di urgenza.
PRESIDENTE. Raccomando che sia rispettato il Regolamento per quanto riguarda il termine entro cui deve essere trasmessa la risposta scritta.
ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio. Ne assumo impegno.
Interrogazione.
PRESIDENTE. Si dia lettura di una interrogazione pervenuta alla Presidenza.
SCHIRATTI, Segretario, legge:
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della difesa, per conoscere quali provvedimenti urgenti intenda prendere il Governo per impedire che cittadini, con azione diretta, e partiti politici, a mezzo stampa, sobillino impunemente alla rivolta militari delle Forze armate, come recentemente si è verificato in molte città d’Italia, in occasione del ritardato congedamento di un’aliquota della classe 1925. (Gli interroganti chiedono la risposta urgente).
«Tumminelli, Lagravinese Pasquale, Lagravinese Nicola, Perugi».
PRESIDENTE. L’interrogazione testé letta sarà trasmessa ai Ministri competenti, per la risposta scritta.
La seduta termina alle 19.45.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 16;
Seguito della discussione del disegna di legge:
Disposizioni sulla stampa. (15).