ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCCVIII.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 27 NOVEMBRE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedo:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Nobili Tito Oro
Mastino Gesumino
Mannironi
Targetti
Crispo
Bettiol
Leone Giovanni
Dominedò
Nobile
Gasparotto
Rossi Paolo
Colitto
Mastino Pietro
Fabbri
Scoca
Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione
Moro
La seduta comincia alle 11.
AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole De Vita.
(È concesso).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana
Iniziamo l’esame della Sezione II del Titolo IV: Norme sulla giurisdizione. Si dia lettura dell’articolo 101.
AMADEI, Segretario, legge:
«L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare.
«Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti.
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
PRESIDENTE. A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Leone Giovanni, già svolto:
«Sopprimere il primo comma».
Segue l’emendamento dell’onorevole Crispo, già svolto:
«Sostituire il primo comma col seguente:
«L’azione penale è pubblica, ed è esercitata di ufficio, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o l’istanza. L’esercizio dell’azione penale non può sospendersi, interrompersi o farsi cessare se non nei casi stabiliti dalla legge».
Seguono gli emendamenti dell’onorevole Colitto, già svolti:
«Al primo comma, sopprimere le parole: Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare».
«Al secondo comma, sopprimere le parole: per ragioni di ordine pubblico o di moralità».
Segue l’emendamento dell’onorevole Mastino Pietro, già svolto:
«Aggiungere il seguente comma:
«Il magistrato dovrà rimettere gli atti alla Corte di cassazione quando ritenga che le leggi che dovrebbe applicare siano contrarie alla Costituzione dello Stato».
NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILI TITO ORO. Io avevo presentato un emendamento inteso a sopprimere la distinzione in sezioni di questo Titolo.
PRESIDENTE. Onorevole Nobili Tito Oro, quando si è parlato, all’inizio dell’esame di questo Titolo, dei problemi attinenti alle intitolazioni, si era rimasti d’intesa che li si sarebbe decisi alla fine dell’esame di tutto il Titolo. Io non ho detto di porre adesso in votazione questa intitolazione. Il problema resta sospeso.
Segue l’emendamento dell’onorevole Mastino Gesumino:
«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:
«Entro otto mesi dalla data in cui venne arrestato deve essere disposto il rinvio a giudizio dell’imputato detenuto; o ne deve essere ordinatala scarcerazione».
Ha facoltà di svolgerlo.
MASTINO GESUMINO. Il mio emendamento è così formulato:
«Entro otto mesi dalla data in cui venne arrestato deve essere disposto il rinvio a giudizio dell’imputato detenuto; o ne deve essere ordinata la scarcerazione».
Io ritengo che con questa norma noi porremo giuridicamente una garanzia fondamentale non solo per la libertà, ma anche per la tutela della personalità del cittadino.
L’obiezione che prima sorge è la stessa che è sorta in molteplici discussioni in questa Aula, in merito a svariate norme costituzionali, ed è questa: che la norma che io intendo inserire nella Costituzione non avrebbe carattere costituzionale.
Ora, o signori, io ritengo che sulla costituzionalità o meno di una norma ci siano idee molto vaghe, perché la costituzionalità si afferma o si nega a seconda che la norma aderisca o meno a determinate ideologie o criteri. È mia ferma convinzione che tutto ciò che attiene alle fondamentali libertà del cittadino è di ordine strettamente costituzionale. Del resto questo principio noi l’abbiamo già attuato alle soglie del nostro lavoro costituzionale: perché, quando abbiamo fissato la norma secondo la quale la polizia giudiziaria o la pubblica sicurezza devono presentare al magistrato entro 48 ore l’arrestato, abbiamo stabilito un principio che era già in tutti i codici di procedura penale: variava il termine, ma la norma c’era; il che dimostra che non basta che una norma sia contenuta nei normali codici di procedura penale perché la si debba ritenere di carattere non costituzionale.
Il problema da risolvere è quindi un problema fondamentale, essenziale; e perciò io credo di affermare che, se si bada alla essenza della norma, quando ci troviamo di fronte alla necessità di garantire il diritto fondamentale di ogni cittadino di non essere trattenuto in arresto oltre le necessità dell’amministrazione della giustizia, quando ci troviamo di fronte ad una di queste norme, noi ci troviamo di fronte ad una norma essenzialmente costituzionale.
Quindi l’obiezione che si può opporre – che cioè la norma che fissa i termini al di là dei quali non è consentita la detenzione istruttoria dell’imputato è già contenuta in leggi normali ed anche in una legge speciale – secondo il mio modesto avviso non ha valore alcuno.
Io parlo qui ad un’Assemblea alla quale partecipano molti illustri avvocati, i quali sanno che se c’è una norma che è stata sempre violata, è proprio quella che riguarda i termini della istruttoria, scaduti i quali, l’imputato dovrebbe essere rinviato a giudizio. Il che dimostra che esiste la necessità di fissare costituzionalmente la norma, in modo che sia stabilito, nella forma più definitiva ed inviolabile, l’obbligo di non tenere il cittadino in carcere se non il tempo strettamente necessario per la istruttoria. Io, nel fissare il termine, ho stabilito otto mesi, perché l’esperienza mi dice che in otto mesi non c’è istruttoria che non possa essere compiuta. Le attuali lungaggini, che tutti noi deploriamo, sono dovute al fatto che l’autorità giudiziaria, data la scarsità del personale (mi rendo perfetto conto delle difficoltà in cui si dibatte l’amministrazione della giustizia) troppe volte indulge in minute indagini che non sono essenziali, e fa girare a vuoto i fascicoli processuali.
Ho constatato in un processo recentemente definito presso una Corte di assise, – processo che è durato in istruttoria due anni e mezzo e si è concluso dopo 3 anni con l’assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto – che gli atti hanno girato per tre mesi attraverso l’Italia alla ricerca di un carabiniere verbalizzante, che avrebbe dovuto solamente confermare la sua denunzia.
Ora, questo stato di cose pone una situazione che io non esito a definire vergognosa, per chi abbia amore della giustizia o meglio, direi, intuito della giustizia; e, soprattutto, dimostra che noi italiani, che ci vantiamo di essere i creatori del diritto, abbiamo smarrito quel completo concetto del diritto che impone assoluto rispetto della personalità umana; rispetto che era stato la gloria dei nostri avi e che noi abbiamo completamente dimenticato attraverso le tempeste che abbiamo dovuto attraversare.
Mi pare quindi, onorevoli colleghi, che la norma, che chiedo venga posta, sia la diretta conseguenza della prima parte dell’articolo che stiamo discutendo. Perché la prima parte dell’articolo contiene la fissazione di norme che ritengo fondamentali. L’articolo 101 dice:
«L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare».
Mi pare che sia consequenziale e di naturale evidenza, la necessità di porre qui la norma che l’esercizio dell’azione penale deve essere limitato al tempo strettamente indispensabile alle necessità istruttorie.
Non si può opporre che una volta che il cittadino è stato deferito al magistrato la garanzia sussiste già in questo fatto, cioè che la sua sorte sarà decisa da chi, per un concetto unanime dei cittadini, è degno, avendone la capacità morale e giuridica, di vegliare affinché la libertà non sia vincolata per un periodo di tempo superiore al necessario.
Ma io osservo – e l’osservazione mi pare decisiva – che il magistrato al quale è affidata in questa fase la libertà del cittadino non è il magistrato nella pienezza dei suoi poteri giurisdizionali: si tratta del magistrato inquirente, che ha limitati poteri e non del magistrato che, nell’esercizio della sua sovrana funzione, veramente rappresenta tutti i cittadini ed assomma la fiducia e la speranza della nazione.
Perciò, onorevoli colleghi (desidero essere brevissimo e, d’altra parte, il mio emendamento è molto chiaro) vi prego di volere accogliere questa norma; sono sicuro che così porremo un principio basilare, fondamentale, a garanzia della personalità umana, che è il centro etico e il motore di ogni giustizia e di ogni libertà.
PRESIDENTE. L’onorevole Mannironi ha presentato il seguente emendamento:
«Al terzo comma aggiungere, prima della parola: Tutti, le parole: Tutte le sentenze e».
L’onorevole Mannironi ha facoltà di svolgerlo.
MANNIRONI. La mia proposta tende ad ottenere un risultato pratico e concreto tendente a chiarificare la frase: «Tutti i provvedimenti ecc.».
Mi si dice da taluno dei membri della Commissione che nella dizione «Tutti i provvedimenti» dovrebbero essere comprese anche le sentenze, come, del resto, sarebbe ovvio. Se ciò fosse, se da quello che dichiarerà il Relatore, da quello che riconoscerà la Commissione, dovrà risultare, secondo quanto figurerà nel verbale, che la parola «provvedimenti» si deve intendere comprensiva anche delle sentenze, io non insisterò nel mio emendamento. (Commenti).
VERONI. La sentenza è il provvedimento dei provvedimenti.
PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha proposto di sopprimere l’ultimo comma.
Ha facoltà di svolgere l’emendamento.
TARGETTI. Questo ultimo comma è realmente così importante che io chiedo al nostro egregio Presidente di voler domandare a se stesso se si possa mettere in votazione questo terzo comma così com’è, o se non sia invece da riconoscersi che questo comma sarebbe, per alcune sue conseguenze, in contrasto, in contradizione, con una deliberazione già recentemente presa dalla nostra Assemblea.
È fuor di dubbio che, nell’espressione «tutti i provvedimenti», ha il suo primo posto qualsiasi sentenza. Fu adottata l’espressione «i provvedimenti giurisdizionali» per evitare, se ben ricordo, che questo obbligo della motivazione si estendesse anche ai decreti; ma la dizione «provvedimenti giurisdizionali» è proprio fatta apposta per indicare in primo luogo le sentenze e poi le ordinanze.
Le sentenze: evidentemente, se si approvasse questa norma, nessuna sentenza si potrebbe emanare che fosse priva di motivazione. Ora, noi sosteniamo che una simile deliberazione, una simile statuizione, l’Assemblea nostra si è posta nell’impossibilità di prenderla, dopo che essa ha approvato l’emendamento dell’onorevole Mastino all’articolo 96. Dice infatti l’emendamento dell’onorevole Mastino Pietro all’articolo 96: «La legge regolerà i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia». Mi sembra quindi che sarebbe fuori luogo voler mettere in chiaro ciò che dev’essere già chiarissimo alla mente di tutti, che cioè la portata di questa disposizione approvata dall’Assemblea Costituente è tale – io faccio anzi l’ipotesi meno favorevole a noi – da ammettere anche la resurrezione dell’istituto classico della giuria.
Ho detto che, esprimendomi così, dicendo cioè che questa formula ammette anche questa ipotesi, io ero remissivo, ero molto modesto, perché avrei anche potuto dire che, nelle forme di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia, l’istituto classico della giuria non è soltanto compreso, ma vi troneggia: e questo per parere di tutti, parere che non può quindi in nessun modo venir posto in discussione.
Non è quindi neppure, necessario richiamarsi all’illustrazione che della sua proposta ci ha dato l’onorevole Mastino e neppure ai precedenti del progetto della disposizione stessa. Io ricordo all’Assemblea che il testo della Costituzione prevedeva la partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia attraverso l’istituto della giuria. Proponemmo noi stessi un emendamento che toglieva l’espressione: «attraverso l’istituto della giuria» e diceva: «nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge». Ma nell’illustrazione di questa nostra nuova forma di dizione fummo chiari ed espliciti, dichiarando che noi intendevamo prevedere come prima ipotesi la resurrezione dell’istituto classico della giuria e adottavamo questa diversa forma per rendere possibile eventualmente anche qualche forma diversa di partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia.
Per concludere: non credo che da nessuno, sia pure di sottilissimo e sofistico ingegno, si potrebbe arrivare a sostenere che nella disposizione approvata dall’Assemblea non è anche contemplata la facoltà per il legislatore di domani di ricostituire la giuria classica.
Io non sono audace al punto di rientrare nella discussione della questione della giuria, mettendo a durissima prova la tolleranza dell’Assemblea, ma ricordo a tutti i colleghi che la mancanza di motivazione, che per alcuni è il difetto maggiore, è il difetto condannatorio dell’istituto della giuria, è al tempo stesso la caratteristica dell’istituto classico della giuria: la famosa giustizia monosillabica.
E se fosse possibile ricordare ancora una volta Francesco Carrara, ricorderei all’Assemblea che fu proprio Carrara che disse: «I giurati si vogliono o non si vogliono; i giurati si fanno o non si fanno». E noi possiamo aggiungere che qualsiasi sostanziale modificazione dell’istituto della giuria, e in special modo quella che sarebbe costituita dall’obbligo della motivazione, darebbe luogo a qualche cosa di ibrido. Parrebbe quasi che si volesse mettere sulla testa del giurato la parrucca del magistrato, col risultato di fare una caricatura al tempo stesso e del magistrato e del giudice.
La motivazione del verdetto dei giurati è la negazione del verdetto stesso. Prescrivere l’obbligo della motivazione, vuol dire rifiutarsi a quella forma di giudizio, che – ripeto – può essere osannata, esaltata o condannata, ma che è quella che la tradizione ci ha tramandato.
E allora, onorevoli colleghi, è inutile che mi appelli alla vostra onestà di discussione e di deliberazione. Potrei dirvi: mettetevi una mano sulla coscienza, e ditemi se vi può essere qualcuno fra di noi che, dinanzi alla approvazione della norma proposta dall’onorevole Mastino, non abbia ritenuto che con quella norma si intendesse lasciare ai legislatori di domani facoltà di far rivivere – con l’esultanza degli uni e la desolazione degli altri – la vecchia giuria.
Ora, onorevoli colleghi, se il Presidente mettesse in votazione questo terzo comma dell’articolo 101, che fa obbligo della motivazione per qualsiasi sentenza, esporrebbe l’Assemblea al rischio di scendere all’approvazione di un principio in pieno contrasto con un principio già approvato.
Non si tratta di evitare questo rischio; si tratta, per parte nostra, della improcedibilità, dell’improponibilità, dirò meglio, di questa questione; perché se fosse ammesso che, affermato un principio, potesse domani l’Assemblea, affermarne un altro in pieno contrasto col primo, non basterebbe il 1947, e non basterebbe neppure il 1948 per arrivare alla fine del nostro lavoro, giacché ogni giorno si potrebbe distruggere parte del lavoro già fatto.
PRESIDENTE. L’onorevole Crispo ha proposto di aggiungere all’emendamento Mastino Pietro queste parole:
«senza che possa successivamente, o con la sentenza di rinvio, emettersi altro mandato di cattura».
L’onorevole Crispo ha facoltà di svolgere l’emendamento.
CRISPO. Onorevoli Colleghi, se l’Assemblea riterrà di approvare l’emendamento del collega Mastino, cioè se riterrà che il contenuto di quell’emendamento sia materia che debba essere compresa e regolata dalla Costituzione, io ritengo indispensabile integrare l’emendamento stesso con le parole che mi sono permesso di proporre, per una ragione semplicissima.
Oggi, secondo il nostro Codice di diritto penale, e secondo le speciali norme, emesse soprattutto durante il periodo della guerra, è fuori discussione che debba essere comunque limitato entro un termine determinato il periodo della detenzione preventiva dell’imputato, durante il periodo della istruttoria. C’è anzi una norma che distingue i reati di competenza del tribunale e quelli di competenza della Corte d’assise, stabilendo un termine più breve per la escarcerazione nel caso di reati di competenza del tribunale, e un termine più lungo per quelli di competenza della Corte d’assise.
Ma la questione che sorge è un’altra, non nuova, perché fu dibattuta già durante la discussione del Codice di procedura del 1913, che prevedeva un istituto ad hoc. Tale questione è sorta anche adesso, se cioè il giudice, non avendo potuto espletare l’istruttoria e avendo perciò dovuto escarcerare l’imputato, possa, dopo l’escarcerazione, emettere un nuovo mandato di cattura, soprattutto all’atto dell’emissione della sentenza di rinvio a giudizio.
Si è giustificato l’istituto della cosiddetta perenzione, in quanto si è ritenuto non potersi prolungare indefinitivamente lo stato di detenzione, soprattutto quando il giudice non fosse stato sollecito a compiere l’istruttoria del processo, onde si disse che quando il giudice avesse completato l’istruttoria da cui risultasse la presunzione della colpevolezza dell’imputato avrebbe potuto di nuovo emettere un mandato di cattura.
Io penso che questo non dovrebbe accadere, perché altrimenti la escarcerazione sarebbe una lustra, potendosi verificare che pochi giorni dopo l’escarcerazione si emetta un nuovo mandato di cattura.
Ora a me sembra che si debba consacrare il principio, che, quando si è verificata la perenzione dell’arresto, quando il giudice ha lasciato trascorrere quel termine entro il quale avrebbe dovuto completare l’istruttoria, emettendo sentenza di rinvio a giudizio, non gli sia consentito di emettere un nuovo mandato di cattura durante l’istruttoria.
PRESIDENTE. L’onorevole Bettiol ha presentato il seguente emendamento:
«Al primo comma sopprimere le parole: e non la può mai sospendere o ritardare».
Ha facoltà di svolgerlo.
BETTIOL. Se non possiamo rinunziare, come sarebbe desiderio di molti, a tutte queste norme che hanno un carattere troppo particolare, è chiaro che almeno dobbiamo cercare di emendare le norme di tutto il superfluo. A me sembra che queste parole abbiano carattere di superfluità.
Di carattere veramente costituzionale è l’affermazione esplicita del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, perché è un principio che si adegua ad un ordine democratico nell’ambito di uno stato di diritto in contrasto a due principî: quello di discrezionalità, da un lato, per cui il pubblico ministero è arbitro di potere esercitare o non l’azione penale, e il principio di obbligatorietà o di legalità, per cui il pubblico ministero, quando ricorrano i presupposti di fatto e di diritto, deve esercitare l’azione penale stessa.
Abbiamo assistito, nella regolamentazione di ordinamenti politici antidemocratici stranieri, all’affermazione del principio di discrezionalità. Anche da noi, nel 1930, col Codice di procedura penale, quel principio aveva fatto capolino col permettere al pubblico ministero di archiviare gli atti del processo, quando il documento che conteneva la notizia fosse manifestamente infondato.
Oggi questo potere del pubblico ministero di archiviare gli atti del processo senza ottenere il benestare del giudice istruttore è eliminato, per cui siamo tutti orientati verso l’affermazione chiara e precisa che l’esercizio dell’azione penale ha carattere obbligatorio. E pertanto mi sembra che la frase: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla» sia chiara, breve e precisa, mentre il resto della formulazione: «e non la può mai sospendere o ritardare» può rappresentare eccezioni che possono essere previste in leggi particolari o nel Codice di procedura penale.
PRESIDENTE. L’onorevole Leone Giovanni, ritirando il suo emendamento soppressivo del primo comma, ha proposto di sostituire quel comma con l’espressione seguente:
«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale».
L’onorevole Leone ha facoltà di svolgere l’emendamento.
LEONE GIOVANNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, fui proprio io che nell’adunanza plenaria della Commissione dei Settantacinque, mi opposi ad una proposta di soppressione della formula, che è stata poi travasata nell’articolo 101. Ed in quella sede io tenni a riaffermare – il che è stato ripetuto oggi dall’onorevole Bettiol – il carattere costituzionale del principio della obbligatorietà dell’azione penale.
Il mio emendamento soppressivo, al quale ho poi sostituito un nuovo emendamento, tendeva soltanto ad eliminare il pericolo che era insito nella espressione «l’azione penale è pubblica».
I cultori di diritto penale sanno che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non è ben definito ancora.
Secondo alcuni esiste un principio di officialità da tener distinto dall’obbligatorietà dell’azione penale; secondo altri i due principî si identificano; secondo alcuni è più ampio il primo, secondo altri è più ampio il secondo principio. Basta questa esposizione sommaria dell’incertezza della dottrina nel definire il concetto di pubblicità dell’azione penale, perché si debba rinunciare, in una Carta costituzionale, ad adottare tale formula, che potrebbe creare gravissimi impacci per il legislatore comune.
Che cosa occorre stabilire, nella Carta costituzionale? Occorre che noi riaffermiamo nella Carta costituzionale questo che è un principio fondamentale dello Stato moderno: cioè, che il pubblico ministero non può esercitare un’attività discrezionale circa il proponimento dell’azione penale. Sono contento che l’onorevole Bettiol l’abbia ripetuto adesso.
Il pubblico ministero, in altri termini, quando viene a cognizione della notitia criminis, non ha un potere discrezionale, ma deve investire l’organo della giurisdizione dell’esame del contenuto dell’azione penale.
Questo lo vogliamo tutti perché corrisponde alle costituzioni attuali, ed è stato già rettificato in alcuni aspetti da una legge emanata successivamente alla caduta del fascismo; perché è noto che nell’articolo 74 del Codice di procedura penale si stabiliva un potere di archiviazione che era consegnato nelle mani del pubblico ministero e che è stato poi tolto per essere affidato all’organo della giurisdizione. Se noi vogliamo dire che il pubblico ministero non può declinare il dovere di promuovere l’azione penale, aboliamo l’espressione «l’azione penale è pubblica» e diciamo soltanto che «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale».
Sopprimiamo così, come ha chiesto l’onorevole Bettiol, l’aggiunta «e non la può mai sospendere o ritardare», perché qui ci si introduce in alcuni congegni processuali che sono delicati e che sono suscettibili di riforme o perfezionamento.
Sopprimiamo infine la denominazione «pubblicità», anche per un altro aspetto personale, che presenterò all’Assemblea.
Quando avremo detto soltanto che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, noi avremo sodisfatto l’ansia politica che in questa sede dobbiamo rispettare, cioè che il pubblico ministero non può non esercitare l’azione penale; ma non diciamo che il monopolio dell’azione penale è nelle mani del pubblico ministero.
Ricordo, presentando un concetto che nella scienza penale è molto discusso, che nel Congresso giuridico nazionale forense di Firenze, ho sostenuto per il legislatore futuro la necessità di introdurre accanto all’azione penale di spettanza del pubblico ministero (per la quale vige e deve vigere il principio della obbligatorietà) anche l’azione penale sussidiaria del privato. Non impediamo al legislatore di domani di poter risolvere questo problema nel quale indubbiamente vive e palpita una grande ansia democratica, cioè il non respingere del tutto dall’ambito del processo penale quelle che sono le istanze, i desideri, i legittimi interessi e diritti dei soggetti privati del rapporto giuridico penale.
Per queste ragioni, cioè per la possibilità di lasciare il varco all’azione penale sussidiaria per la imprecisione della espressione tecnica «pubblicità dell’azione penale», obbedendo alla aspirazione concreta di affermare soltanto che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale, io ritengo che, convogliandosi nel mio emendamento anche quelli di alcuni miei colleghi, come quello dell’onorevole Bettiol, si possa votare questa formula più breve e più chiara.
DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DOMINEDÒ. Signor Presidente, debbo spendere brevi parole sull’emendamento dell’onorevole Targetti, proposto con singolare eleganza agli effetti di fare apparire l’ultimo comma dell’articolo 101 – relativo all’obbligo di motivazione di tutte le sentenze – come una norma contrastante con la precedente votazione dell’Assemblea sul giudizio popolare.
Mi permetto, anzitutto, di considerare che, se la norma in esame contempla in modo generale l’obbligo della motivazione, appare chiaro che un istituto così genericamente configurato debba essere snodato e adattato alle singole specie, a seconda delle varie ipotesi cui sia riferibile, prima che su di esso possa esprimersi un giudizio.
Di conseguenza, nessuno può preliminarmente escludere che l’istituto della motivazione si renda applicabile anche in quella ipotesi di giudizio popolare, che noi teniamo ferma in conseguenza della votazione di questa Assemblea. E vogliamo spiegarci. Pur se domani si dovesse concepire la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia nella formula più rigida, in quella della originaria giuria precedente l’assessorato – taccio quindi delle ipotesi intermedie che potrebbero ben essere contemplate dalla legge futura, ove si consideri, quanto sia delicata la linea di demarcazione fra fatto e diritto e come il fatto interferisca nel diritto ed il diritto sia influenzato dal fatto – persino nella ipotesi estrema e più radicale di partecipazione popolare, dicevo, appare evidente che un elemento essenziale di motivazione sussisterebbe sempre. Il magistrato, infatti, dovrebbe comunque ricondurre le risultanze del verdetto di fatto ai suoi presupposti di diritto. Ed in questa opera di collegamento egli sarebbe in ogni caso tenuto a giudicare di quell’insieme di elementi che sono dalla legge a lui discrezionalmente affidati, e attengono alla valutazione stessa della personalità umana in genere e del giudicabile in specie. Senza di che inconcepibile sarebbe il potere di spaziare fra il minimo e il massimo della pena, vagliando i precedenti e il complesso degli elementi idonei a istituire il raccordo fra il giudizio di fatto e la statuizione di diritto. Come negare, pertanto, gli estremi, minimi se si vuole, ma tuttavia adeguati, del concetto di motivazione?
Sotto questi profili, io debbo ritenere che non sia sostenibile né la tesi della improponibilità formale del terzo comma dell’articolo 101, né quella della sua inopportunità sostanziale. Non la prima, perché nessuna incompatibilità preliminare sussiste fra il concetto della partecipazione popolare e l’obbligo di motivare la sentenza. Non la seconda, poiché, andando al fondo delle cose, l’istituto della motivazione rappresenta una conquista giuridica, cui non si potrebbe abdicare se non ricadendo in quei tempi oscuri di cui magistralmente ci parla Vico.
Si lasci dunque che l’adeguamento concreto del concetto sia fatto dalla legge, la quale aprirà così la via ad una più alta tutela delle libertà del cittadino, attraverso la possibilità di configurare sempre il doppio grado di giurisdizione in quanto sempre operi l’istituto della motivazione, garanzia di giustizia e segno di civiltà. (Applausi).
NOBILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILE. Non ho alcuna competenza in questo argomento, ma ho seguito la discussione avvenuta a proposito del terzo comma, e posso vedere le cose da un punto di vista che mi sembra ragionevole.
Gli argomenti addotti dall’onorevole Dominedò contro le preoccupazioni che a me sembrano molto fondate manifestate dall’onorevole Targetti non mi hanno convinto, perché ho l’impressione che se si lascia passare il comma così come è stato stilato dalla Commissione, realmente il legislatore di domani si potrebbe trovare in qualche modo imbarazzato nel proporre la istituzione della giuria. Pertanto, per venire incontro in qualche modo alle preoccupazioni dell’onorevole Targetti, e per togliere ogni ambiguità alla disposizione di questo comma, vorrei proporre che fosse emendato in questi termini: «Tutti i provvedimenti emessi dai magistrati, nell’esercizio delle loro funzioni, devono essere motivati.». In questo modo, mentre il dovere dei magistrati di motivare i loro provvedimenti giurisdizionali è sancito, non si esclude che quando fosse un giudice popolare a emettere il giudizio, questo potrebbe non essere motivato.
GASPAROTTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GASPAROTTO. In via principale, dichiaro di essere favorevole all’intera soppressione dell’articolo. In via subordinata accedo all’emendamento Targetti, al quale ho dato anche io la firma, perché si tratta di materia che non può essere che regolata dalla legge ordinaria. Se dovessimo entrare in dettagli, io dovrei proporre, per esempio, questa aggiunta: che le sentenze e i provvedimenti di magistrati debbano essere sufficientemente motivati, perché è ora di finirla con il malvezzo di trasformare le sentenze in veri trattati, allo scopo di farne costituire titoli di carriera.
Ricordo che la pratica francese, per quanto riguarda la materia commerciale, riduce la motivazione a termini brevissimi, anzi la sentenza è stesa su un foglietto azzurro che ha due facciate soltanto. Ed è rimasta celebre in Italia una sentenza della Corte d’appello di Milano che, in materia di delibazione di sentenza di divorzio, ha trasformato la motivazione in un vero trattato di storia e diritto costituzionale circa la costituzione dello Stato libero di Fiume, risalendo addirittura a Maria Teresa, sentenza che ha valso a portare l’allora direttore de La giurisprudenza italiana, il senatore Mortara, a dare una grande strigliata all’estensore, (il quale, notissimo magistrato, consigliere di Corte di appello salito poi ai più alti gradi) tutto acceso di spirito nazionalistico, ha voluto sfogare o meglio sfoggiare a spese delle parti il suo personale sentimento.
Per questi motivi, siccome è materia che deve trovare comunque in altra sede la sua definitiva regolamentazione, mi dichiaro favorevole alla soppressione dell’intero articolo e subordinatamente favorevole all’emendamento Targetti.
PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha proposto di sostituire il terzo comma col seguente:
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati salvo il disposto dell’articolo 96».
Si intende che egli rinunzia all’emendamento soppressivo dello stesso comma.
Ha facoltà di parlare l’onorevole Rossi Paolo, per esprimere il pensiero della Commissione.
ROSSI PAOLO. Premetto che in linea generale la Commissione sarebbe molto favorevole allo sfrondamento di alcune disposizioni non strettamente necessarie e non strettamente attinenti alla materia costituzionale. Quindi, tutte le proposte di soppressione e di riduzione trovano la simpatia della Commissione.
Vorrei cominciare a rispondere agli onorevoli Mastino Gesumino e Mannironi che le loro preoccupazioni – preoccupazioni di libertà che sono comuni a tutti noi – mi paiono assolutamente ingiustificate di fronte alla disposizione dell’articolo 8, già inserita in capo alla Costituzione: «La legge determina i limiti massimi della carcerazione preventiva». È una deposizione di carattere molto ampio. Non volendo trasformare la Costituzione in Codice di procedura penale mi pare che possiamo accontentarci delle affermazioni solenni dell’articolo 8: «Nessuno può esser privato della libertà personale; la libertà personale è inviolabile; la legge determina i limiti massimi della carcerazione preventiva».
All’onorevole Crispo vorrei osservare che l’emendamento che egli propone non mi pare di rilevanza costituzionale. E solleverebbe anche dubbi in un penalista. Vero è che non si può, per la inerzia del giudice, tenere un prevenuto indefinitamente in prigione; ma è altresì vero che questa colpevole pigrizia del giudice non deve tornare a danno e pericolo della società in determinati casi. Quando vi è la sentenza di rinvio a giudizio che riconosce sufficienti elementi di colpevolezza a carico dell’autore di un delitto gravissimo, forse è più opportuno che sia emesso un nuovo mandato di cattura, anche se vi è stata scarcerazione per decorrenza dei termini.
Per queste semplici ragioni mi pare che gli emendamenti degli onorevoli Mannironi, Mastino Gesumino e Crispo siano da respingersi, bastando largamente l’affermazione dell’ultima parte dell’articolo 8 della Costituzione.
Per il blocco degli emendamenti degli onorevoli Bettiol e Leone, le difficoltà di ordine scientifico sono numerose. Se l’Assemblea crede di dover risolvere la questione dell’obbligatorietà dell’azione penale superando l’antica tesi della discrezionalità e affermando il principio della legalità dell’azione penale, converrà introdurre un cenno nella Costituzione: perché, qui, lo riconosco, la materia è di rilevanza costituzionale.
Giustissimo è il rilievo dell’onorevole Leone: che bisognerà, cioè, affermare soltanto l’obbligatorietà e non anche la pubblicità dell’azione penale. L’azione penale sussidiaria del privato può essere in qualche caso utile. Personalmente, per esempio, ritengo che sarebbe opportuno ritornare, nei reati di diffamazione per mezzo della stampa, al sistema della citazione diretta. Evidentemente, questa riforma sarebbe preclusa o, per lo meno, messa in dubbio, se l’articolo 101 si aprisse con un’affermazione perentoria che l’azione penale è pubblica. Bisognerebbe ricorrere a qualche scappatoia per poter giungere a questa riforma che molti ritengono utile. Così è inutile indicare che il pubblico ministero non può sospendere l’azione penale o ritardarla. Adesso non possiamo tutto prevedere. Ci sono dei casi in cui la sospensione dell’azione penale può essere opportuna. Possiamo immaginare lo stato di guerra od altro, per cui la sospensione dell’azione penale sia inevitabile. Se facciamo un divieto nella Costituzione, possiamo legare le mani al futuro legislatore in circostanze difficili.
Così mi pare che si possa rinunciare con tutta tranquillità a stabilire nella Costituzione il principio della pubblicità delle udienze.
È un principio così comune, così universalmente accettato che non sembra il caso di parlarne; come non abbiamo introdotto nella Costituzione il principio che nessuno può porre prezzo all’aria che si respira, così non si deve porre il principio che i processi penali sono pubblici. Non c’è stato mai dubbio in proposito; in tutti i Paesi del mondo i processi penali sono pubblici.
E poi si introdurrebbe immediatamente dopo l’altra dichiarazione: «salvo che la legge, per ragioni di ordine pubblico o di moralità, non disponga altrimenti». Quindi, si spalancherebbe un solenne portone e si aprirebbe una porticina, per cui si potrebbero sempre tenere udienze penali non pubbliche!
Rimane la questione più grave, sollevata dall’emendamento Targetti e dalle osservazioni degli onorevoli Nobile e Dominedò. La questione della motivazione, a mio avviso, è piuttosto questione formale, di parole, che non questione di sostanza. Noi siamo in gran parte avvocati o magistrati o professori di diritto in questa Assemblea e sappiamo che questa esigenza della motivazione molte volte è superata con mezzi di forma. Ci sono motivazioni puramente formali, apparenti. Tutti ricordiamo le motivazioni apposte col timbro, per esempio, per concedere i sequestri: il cancelliere appone il timbro, con la formula: «visti gli articoli, ecc.» e il Presidente firma. Questa è motivazione formale, non sostanziale.
MURGIA. E in materia penale?
ROSSI PAOLO. Accade lo stesso, utilmente talora, se ella mi consente; perché tutti riconosciamo l’opportunità, per sveltire il lavoro delle grandi preture urbane, soverchiate da centinaia e migliaia di piccoli processi, del procedimento per decreto penale. Ebbene, nel procedimento per decreto penale, avviene la medesima cosa: si fa la stampigliatura, in cui è detto: «visto il verbale in data tale dell’agente; visto l’articolo tale, il pretore…».
MURGIA. Questo per pene pecuniarie.
ROSSI PAOLO. Ammende e multe, talora di qualche importanza. Rimane infine la questione teorica. Non entro in discussione, accenno. Il legislatore futuro potrebbe introdurre anche in Italia il sistema della dichiarazione guilty or not guilty, per cui non c’è motivazione: si legge di fronte all’imputato, puramente e semplicemente, il capo di imputazione e gli si domanda, prima di iniziare il processo se accetti o no l’imputazione. Talora l’imputato accetta l’imputazione; ed allora questa si trasforma in sentenza, senza obbligo di motivazione. Ricordo che nella fredda e tranquilla Inghilterra avviene – ne ho osservato in pochi anni tre o quattro casi – che persino in accusa implicante la pena di morte, l’imputato accetti la contestazione. Non credo che sia possibile, col nostro costume forense e con le abitudini del nostro popolo, introdurre un sistema simile. Ma perché creare impedimenti o qualche modificazione nel nostro sistema.
E poi c’è la grave questione della giuria. L’onorevole Dominedò, ingegno sottile, dice che la motivazione si fa sempre. Perché, signori, cosa dice il Presidente dalla Corte di assise, quando estende materialmente la sentenza? Dice: visto che non si può discutere che i fatti si siano svolti il tal modo, poiché i giurati hanno in punto di fatto ammesso A, B, C; visto che devono essere applicate le pene previste dalla legge; visto che il diritto si applica in questo modo; la sentenza è questa. Una motivazione c’è, dunque, anche in questo caso.
Nel consentire all’introduzione dell’obbligo della motivazione in tutti i provvedimenti giurisdizionali, si fa questa riserva da parte della Commissione: che con ciò non si vuole impedire per nulla l’accesso alla giuria, anzi si deve ammettere che anche le sentenze della Corte di assise sono sentenze motivate in fatto ed in diritto, con il semplice riferimento all’affermazione dei giurati i quali hanno ritenuta provata o meno la veridicità dei fatti.
La Commissione è disposta a sfrondare ed a guadagnare almeno un poco di tutto quel tempo che si è perduto durante i nostri lavori, e, pertanto, propone di votare l’articolo 101 in questi brevi termini:
«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» (quindi nulla è detto intorno alla pubblicità dell’azione penale e la strada rimane aperta all’azione penale sussidiaria).
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
Quindi nulla è detto sulla pubblicità delle udienze. Ripeto, infine, per la chiarezza, che l’accettazione del principio dell’obbligo della motivazione non vulnera in alcun modo l’acquisito diritto di partecipazione del popolo ai giudizi mediante l’istituzione della giuria.
MASTINO GESUMINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MASTINO GESUMINO. La Commissione si è limitata a dire che esiste l’articolo 8 delle norme costituzionali approvate, il quale rimanda al legislatore futuro i termini per la carcerazione preventiva. Orbene, il fatto che il legislatore futuro si debba occupare dei termini della carcerazione, i quali partono da un minimo e vanno fino ad un massimo, e debba dettare le disposizioni dirette a precisare le forme e le norme della carcerazione e della scarcerazione, non attiene affatto al problema puramente costituzionale da me posto. Perché, quindi, deve rimanere una simile lacuna fra le norme che garantiscono le libertà del cittadino? È possibile che si lasci indeterminato in ogni modo il massimo del termine che è concesso al futuro legislatore per la detenzione preventiva del cittadino? Questo è un problema di ordine strettamente costituzionale, in quanto attiene alle libertà fondamentali del cittadino.
Mi permetto, poi, di dissentire dall’opinione del Relatore per quanto concerne la soppressione della frase: «le udienze sono pubbliche». Egli ha detto che questo è ormai un principio unanimemente accettato ed acquisito in tutte le legislazioni. Non mi pare questa una ragione sufficiente: molti principî essenziali di libertà abbiamo visto crollare e l’esperienza deve pur servire a qualcosa. Il principio che le udienze sono pubbliche è un principio faticosamente acquisito attraverso le lotte per la libertà. Io credo che sia un po’ superficiale rinunciare senza discussione a questo principio, unicamente perché l’attuale unanime consenso di tutti i popoli lo ha affermato.
PRESIDENTE. Chiedo ai presentatori degli emendamenti se li conservano.
Onorevole Crispo, conserva i suoi due emendamenti?
CRISPO. Mantengo l’emendamento aggiuntivo all’emendamento dell’onorevole Mastino Gesumino, come ho già affermato, nel caso che si votasse favorevolmente all’emendamento dell’onorevole Mastino, mantengo anche l’emendamento al primo comma, nel caso che non passasse il testo così come è modificato dalla Commissione.
PRESIDENTE. E lei, onorevole Colitto?
COLITTO. Non insisto sul primo, ma mantengo il secondo emendamento.
PRESIDENTE. Faccio rilevare che il suo secondo emendamento è sodisfatto, direi al di là del suo desiderio, dalla nuova proposta della Commissione, la quale propone di sopprimere il secondo comma, del quale lei proponeva la soppressione parziale.
COLITTO. Non insisto; mi rimetto alle decisioni dell’Assemblea.
PRESIDENTE. Onorevole Mastino Gesumino, mantiene il suo emendamento?
MASTINO GESUMINO. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Mastino Pietro, mantiene il suo emendamento?
MASTINO PIETRO. Il mio emendamento era presentato all’articolo 101, ma l’argomento riguarda la materia contenuta nel 128. Quindi, desidererei mantenerlo per quando si discuterà dell’articolo 128.
PRESIDENTE. Sta bene. Sono molti i suoi emendamenti, che non hanno trovato la sede opportuna al momento della votazione.
Onorevole Targetti, mantiene, i suoi emendamenti?
TARGETTI. Modificando la mia precedente dichiarazione, mantengo in via principale l’emendamento soppressivo dell’ultimo comma e in via subordinata quello sostitutivo.
PRESIDENTE. Onorevole Bettiol, la sua proposta è stata accolta dalla Commissione.
BETTIOL. Io accetto l’emendamento Leone Giovanni, sebbene sia perplesso, in quanto si elimina il carattere dell’azione penale.
PRESIDENTE. Onorevole Nobile, mantiene il suo emendamento?
NOBILE. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Nobile, forse il suo emendamento dovrebbe essere completato con l’aggettivo «ordinari», e dire così: «tutti i provvedimenti emessi dai magistrati ordinari»; diversamente si possono intendere anche i giurati, che sono anche essi magistrati, benché non ordinari.
NOBILE. D’accordo. Penso però che i giurati non emanino un provvedimento; i giurati, per quello che so, emettono un verdetto, rispondendo se l’imputato è colpevole o no. Il provvedimento giurisdizionale lo emette il Presidente della Corte. Questo è il mio avviso.
PRESIDENTE. Ed allora, passiamo alla votazione.
Come hanno udito dalla risposta dell’onorevole Rossi Paolo a nome della Commissione, il testo proposto dalla Commissionò è il seguente:
«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
Pongo in votazione il primo comma:
«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale».
(È approvato).
Il secondo comma nel testo primitivo della Commissione suonava così:
«Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti».
La Commissione propone la soppressione completa di questo comma.
L’onorevole Colitto propone, invece, la soppressione delle parole: «per ragioni d’ordine pubblico o di moralità».
MASTINO GESUMINO. Faccio mia la formulazione originaria di questo comma.
PRESIDENTE. L’onorevole Rossi Paolo ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.
ROSSI PAOLO. È chiaro che senza la eccezione sarebbe pericoloso introdurre questa dizione, in quanto ci sono processi per i quali le porte chiuse rispondono ad una evidente esigenza morale.
COLITTO. Propongo che si voti per divisione, eliminando le parole: «per ragione d’ordine pubblico o di moralità».
PRESIDENTE. Pongo, dunque, in votazione la formulazione dell’onorevole Colitto:
«Le udienze sono pubbliche salvo che la legge disponga altrimenti».
(Dopo prova e controprova, non è approvata).
Onorevoli colleghi, penso che sia superfluo avvertire che con questa votazione non si è inteso deliberare che le udienze non devono essere pubbliche; ma che non si ritiene di inserire la norma nel testo costituzionale.
Pongo adesso in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Mastino Gesumino, che la Commissione ha dichiarato di non accettare: anche in questo caso non perché sia contraria al concetto, ma perché non ritiene che debba essere incluso nella Costituzione:
«Entro otto mesi dalla data in cui venne arrestato deve essere disposto il rinvio a giudizio dell’imputato detenuto, o ne deve essere ordinata la scarcerazione».
ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ROSSI PAOLO. Mi scusi, onorevole Mastino, perché questo termine di otto mesi? Noi siamo più solleciti della libertà dei detenuti, quando devono essere scarcerati, ed il termine di otto mesi può presentarsi soverchiamente lungo.
Credo che il principio secondo cui la legge deve determinare i limiti della carcerazione preventiva, già incluso nel testo costituzionale, costituisca una maggiore garanzia di quella rappresentata dall’emendamento Mastino. Perché, colleghi, cosa farà il legislatore? Si riferirà ai precedenti. Ora, i termini stabiliti dal codice del 1913 per la carcerazione preventiva erano molto più brevi degli otto mesi, arrivando fino ad un anno solo in alcuni casi.
Credo che, se stabiliamo il termine di otto mesi, invece di stimolare l’attività del futuro legislatore per creare un sistema ben organizzato, che distingua tra imputazioni di una certa gravità, e altre di minor gravità, i reati di competenza del pretore, del tribunale e della Corte d’assise, indulgiamo al suo ozio e alla sua inerzia, perché il legislatore si limiterà semplicemente ad accettare il termine di otto mesi, con danno degli interessi di libertà che l’onorevole Mastino intenderebbe proteggere.
Quindi, mi pare che sia meglio tutelato il desiderio legittimo e spiegabilissimo dell’onorevole Mastino col respingere il suo emendamento e col richiamare ancora una volta l’affermazione che la legge deve determinare il limite massimo della carcerazione.
PRESIDENTE. Onorevole Mastino, mantiene l’emendamento?
MASTINO GESUMINO. Mantengo l’emendamento ed osservo che queste norme sono state sempre violate.
PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Mastino Gesumino:
«Dopo il primo comma, aggiungere il seguente:
«Entro otto mesi dalla data in cui venne arrestato deve essere disposto il rinvio a giudizio dell’imputato detenuto; o ne deve essere ordinata la scarcerazione».
(Non è approvato).
Passiamo al secondo comma del testo della Commissione.
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
Vi e una proposta soppressiva dell’onorevole Targetti, non accolta dalla Commissione.
La pongo in votazione.
(Dopo prova e controprova, non è approvata).
Passano alla votazione della formula proposta dall’onorevole Nobile, sostitutiva di tutto il comma:
«Tutti i provvedimenti emessi dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni debbono essere motivati».
FABBRI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
FABBRI. Dichiaro che voterò a favore dell’emendamento Nobile, il quale mi pare chiaro nel senso di fare eccezione per il verdetto dei giurati, mentre invece la formulazione proposta dall’onorevole Targetti mi pare dubbia, specialmente se reca chiaramente la sostituzione del «fermo» al «salvo». Mi pare infatti che, in tal modo, il «fermo» non costituisca più un’eccezione.
Se noi pertanto vogliamo mantenere la giuria, occorre che la manteniamo con tutte le sue caratteristiche fondamentali di giustizia, di cui la principale è certamente che il verdetto non si appelli. È veredictum perché inappellabile.
Una voce al centro. Ma questo non è stato mai detto.
FABBRI. Lo dico io come dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Avverto che dagli onorevoli Leone Giovanni, Moro, e altri è stata chiesta la votazione per appello nominale sopra l’emendamento proposto dall’onorevole Nobile al terzo comma dell’articolo 101.
NOBILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILE. Mantengo il mio emendamento; ma da taluni colleghi giuristi mi viene suggerito – e probabilmente avranno ragione – di sopprimere le parole «nell’esercizio delle loro funzioni».
Se tali parole sono superflue, non ho nessuna difficoltà che siano soppresse.
PRESIDENTE. Allora il testo sarebbe il seguente:
«Tutti i provvedimenti emessi dai magistrati devono essere motivati».
SCOCA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCA. Qui si fa riferimento alla qualità di magistrati; ora, il magistrato esercita anche funzioni che molte volte non sono giurisdizionali: ha delle funzioni amministrative, per esempio. Quindi occorre che si chiarisca questo concetto. Mi pare che una dizione così lata non sia ammissibile.
ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ROSSI PAOLO. Credo ci sia qui una preoccupazione assolutamente infondata. L’onorevole Nobile, come l’onorevole Targetti, temono che, votando il testo della Commissione «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati», si venga in qualche modo a vulnerare il voto precedente dell’Assemblea circa la partecipazione diretta del popolo, attraverso l’istituzione della giuria, all’amministrazione della giustizia.
Ora, io mi permetto di dire all’onorevole Nobile che il suo emendamento non reca alcun conforto (oltre la dichiarazione formale, solenne ed esplicita della Commissione), alla sua tesi. Egli dice: «Tutti i provvedimenti emessi dai magistrati devono essere motivati». Con ciò l’onorevole Nobile vuol dire che i provvedimenti emessi dal popolo e non dai magistrati possono essere immotivati. Suppongo che questa sia l’intenzione del suo emendamento. Ma debbo dire all’onorevole Nobile che i giurati non emettono alcun provvedimento, perché il provvedimento non consiste nel verdetto dei giurati: il provvedimento consiste nella sentenza della Corte di assise redatta dal Presidente, che apporrà al verdetto le necessarie considerazioni di diritto, determinerà la pena, e quindi, in concreto, emanerà la sentenza. Si capisce che il verdetto dei giurati non è e non può essere motivato. Ma quando si dice che il provvedimento del magistrato, nell’esercizio delle sue funzioni, deve essere motivato, non si dice con ciò nulla che si riferisca ai giurati, perché i giurati – ripeto – non emettono alcun provvedimento, non emettono sentenze, fanno giustizia, ma non emettono alcun provvedimento. Quindi non credo che non possiamo derogare dal testo che risponde alle esigenze che la Commissione si propone, per tener conto di necessità che non sarebbero in alcun modo soddisfatte.
La Commissione insiste nel suo testo: «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».
NOBILE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILE. L’osservazione che ha fatto testé l’onorevole Rossi l’avevo già fatta io in precedenza, quando ho ricordato che la giuria emette un giudizio, un verdetto, non una sentenza. Ma, come già ho detto prima, ho proposto il mio emendamento per venire incontro alla preoccupazione dell’onorevole Targetti di avere un testo chiaro e preciso che non desse luogo ad equivoci. Per questa ragione la mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Nobile, io la pregherei di voler dare una risposta all’obiezione mossa dall’onorevole Scoca, il quale ha fatto presente che i magistrati, oltre ad emettere provvedimenti giurisdizionali, sono chiamati anche ad altre funzioni. È evidente che la motivazione deve richiedersi per i provvedimenti di carattere giurisdizionale e non per gli altri.
NOBILE. È giusto, aggiungiamo «giurisdizionali». (Commenti).
RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma allora rimane il testo della Commissione: è la stessa cosa. Chi può emettere provvedimenti giurisdizionali se non è un magistrato? (Commenti).
PRESIDENTE. Onorevole Nobile, mantiene l’emendamento?
NOBILE. Mantengo l’emendamento con l’aggiunta della parola «giurisdizionali». (Commenti).
PRESIDENTE. Osservo che il testo della Commissione è il seguente:
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».
L’onorevole Nobile in realtà propone soltanto questa aggiunta: «emessi dai magistrati», e pertanto si può votare il testo della Commissione e, poi, la formulazione dell’onorevole Nobile come formulazione aggiuntiva.
BETTIOL. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BETTIOL. Faccio una dichiarazione di voto a nome mio e di altri colleghi. Noi diciamo che voteremo il testo della Commissione perché ci sembra che sia un testo chiaro, preciso, lapidario, veramente in armonia con una fondamentale esigenza di libertà, perché noi ricordiamo come l’obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali sia sorto all’epoca della ragione spiegata contro il ricordo di un’epoca fosca, rude e barbara. Noi ricordiamo come questo provvedimento sia sorto anche nel momento in cui il popolo veniva chiamato a partecipare all’amministrazione della giustizia. Noi ci ribelliamo all’idea che non debbano essere motivati in un modo o nell’altro anche quelle sentenze di un organo nel quale il popolo è stato chiamato, con quei modi che la legge stabilisce, ad amministrare la giustizia.
Noi votiamo per il testo della Commissione perché vogliamo che questa Carta costituzionale sia veramente una Magna Charta di libertà per tutti i cittadini, e l’obbligo della motivazione garantisce questa libertà. Non vogliamo che questo testo possa trasformarsi in un pozzo nero per ogni iniquità! (Applausi al centro).
TARGETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TARGETTI. Il nostro Gruppo, mentre ha votato a favore della soppressione di quest’articolo, non per la ragione che l’onorevole Bettiol sembra abbia voluto attribuirci, cioè non perché si fosse contrari ai concetti che esprime, perché a tali principî nessuno può essere contrario oggi, nel 1947, ma perché si riteneva che tanto questo articolo che i successivi contenessero dei principî che potrebbero essere anche considerati sacrosanti, ma non per questo avrebbero dovuto trovare posto nella Carta costituzionale. Questo diciamo, non solo a scanso di equivoci, ma per spiegare come e perché, non già contradicendoci, ma anzi in relazione a questo nostro convincimento, votiamo ora a favore di questa prima parte dell’articolo proposto dalla Commissione.
PRESIDENTE. Pongo in votazione il comma nella formulazione della Commissione:
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
(È approvata).
Si tratta ora di votare l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Nobile, che è così formulato: «emessi dai magistrati».
SCOCA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCA. Vorrei raccomandare che si cerchi di dare un’altra formulazione.
Faccio una osservazione molto semplice: se si vuole esprimere un certo concetto lo si può esprimere. Si dia però in questo caso un’altra formulazione. Mi pare che, per la dignità dell’Assemblea, mettere in votazione un emendamento siffatto non abbia molto significato, perché non penso che ci sia un provvedimento giurisdizionale che sia emesso da chi non sia magistrato.
NOBILE. Dopo l’interpretazione data dal Relatore al testo della Commissione, non ho difficoltà a ritirare l’emendamento.
La dichiarazione fatta poco fa dall’onorevole Bettiol, dimostra la necessità di adoperare un testo più chiaro ed esplicito. L’onorevole Bettiol ha detto, infatti, che voterà la formula della Commissione, in quanto ritiene che essa implicitamente faccia obbligo anche alla giuria di mostrare il suo giudizio. Di qui la necessità di chiarire anche a costo di adoperare un’espressione pleonastica.
Ora, io avevo ritirato il mio emendamento per evitare un appello nominale, ma voterò l’emendamento Targetti, proponendo una lieve modificazione di forma per renderlo più chiaro. Io direi: «salvo nei casi di applicazione dell’articolo 96».
PRESIDENTE. Onorevole Targetti, mantiene il suo emendamento aggiuntivo delle parole: «salvo il disposto dell’articolo 96»?
TARGETTI. Lo mantengo.
MORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORO. Trasferiamo la richiesta di appello nominale dalla votazione sull’emendamento Nobile a quelli sull’emendamento dell’onorevole Targetti.
TARGETTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TARGETTI. Da alcuni colleghi mi viene riferito che a nome della Commissione l’onorevole Rossi avrebbe dato all’articolo proposto una interpretazione che renderebbe superflua la precauzione che noi intendevamo di prendere con questo emendamento aggiuntivo.
Confesso che, in quel momento (signor Presidente, ella sa meglio di noi che qualche volta l’Assemblea non è religiosamente silenziosa) io non devo aver prestato quell’attenzione che si dovrebbe sempre prestare, e quindi vorrei chiedere alla Commissione il tenore preciso della sua dichiarazione che equivale alla più autorevole interpretazione della norma. Ciò perché, se dovesse restare un dubbio che con l’approvazione di questa norma si venisse in qualche modo a restringere in qualsiasi misura il significato di un voto già emesso e che dovrebbe essere impegnativo anche per quei colleghi che hanno dissentito (se non si è disposti a rispettare la volontà della maggioranza è inutile parlare di democrazia!) se si volesse dare all’articolo, dicevo, questo significato di correzione di una deliberazione già presa da questa Assemblea, allora noi dovremmo insistere.
MURGIA. Questo è il significato. Bisogna avere il coraggio di dirlo!
ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ROSSI PAOLO. L’opinione dell’onorevole Murgia è strettamente personale, o comunque è un opinione che sarà condivisa da una parte dell’Assemblea. L’opinione della Commissione è questa, e la Commissione non ha alcuna difficoltà a ripeterla solennemente: la formulazione dell’ultima parte dell’articolo 101 non intende in alcun modo vulnerare l’affermazione contenuta nell’articolo 97 della Costituzione. Sarebbe addirittura inconcepibile che da parte della Commissione vi fosse un tentativo quasi subdolo, qualunque fosse stata l’opinione di alcuni dei membri della Commissione, di introdurre di straforo, attraverso una interpretazione inopportuna, una norma che ne annulla una precedente.
TARGETTI. Dopo questa precisazione ritiro il mio emendamento.
MORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORO. Io e i miei amici di Gruppo non siamo d’accordo con la Commissione in questa valutazione, sicché ci sembra preferibile votare. Per la chiarezza necessaria io pregherei perciò il collega Targetti di mantenere il suo emendamento! (Commenti).
PRESIDENTE. È necessario che io risponda a quanto ha detto l’onorevole Moro. È abbastanza strano che da parte, non dico di numerosi, ma fosse anche di un solo membro dell’Assemblea si voglia, diciamolo esplicitamente, inficiare anche in piccolissima parte una decisione già presa suggerendo una nuova votazione. Che i nostri successori o i giuristi dell’avvenire si accapiglino fra loro per cercare di mettere in armonia due articoli della Costituzione che loro sembrino in contrasto, è una cosa che possiamo rammaricare, e che ci auguriamo non si verifichi. Ma è evidente che l’Assemblea, man mano che vota, vota pensando che il nuovo voto non infirmi una votazione precedente. (Applausi a sinistra).
MORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORO. Vi è un equivoco su questo punto. Non ho che da richiamarmi alla dichiarazione di voto che ebbi a fare qualche giorno fa a proposito dell’emendamento Coppi, il quale affermava il principio della partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, lasciando potere discrezionale alla legge per attuare il principio stabilendone le modalità e le forme.
In quella sede io dissi che a nostro parere era opportuno votare quella formulazione anziché l’altra presentata da altri colleghi, proprio per permettere alla legge (sono, credo, le parole precise che si possono riscontrare nel resoconto) di sganciare l’istituto della partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia da alcune formule tradizionali. E mi pare di aver fatto un cenno esplicito a proposito della motivazione e della rivedibilità della decisione del giudice popolare, affermando che l’istituto della partecipazione popolare poteva essere congegnato dalla legge in modo da ovviare agli inconvenienti lamentati e da corrispondere insieme alle esigenze democratiche, affermate da una parte, ed alle esigenze di libertà e di giustizia rivendicate da un’altra parte dell’Assemblea.
Ora, qui non si tratta, a nostro parere, di contrastare il voto già dato. Ammesso che il popolo partecipi direttamente all’amministrazione della giustizia, non vedo nessuna ragione per cui sia inammissibile il controllo – nella forma che la legge stabilirà – sulle decisioni dei giudici popolari.
Le forme possono essere molte, la legge le studierà. In ogni modo mi rifiuto di credere che, solo perché il popolo entra a partecipare all’amministrazione della giustizia, non possa assolutamente sbagliarsi; così come mi rifiuto di credere che sia una garanzia della libertà l’affermata infallibilità del giudice popolare. (Interruzione – Commenti). La democrazia è fondata sulla possibilità di discussione e di correzione dell’errore. (Commenti). Così da parte nostra non vi è alcun tentativo di infirmare il voto precedente. (Interruzioni). Ma chiediamo la possibilità di congegnare l’istituto della partecipazione del popolo in modo che sia richiesta una giustificazione razionale e permessa una revisione di questi deliberati.
PRESIDENTE. Desidero ripetere all’onorevole Moro una sua frase, cioè che, con la votazione dell’articolo 96, si è rimessa alla legge la determinazione del modo con cui il popolo potrà o dovrà direttamente partecipare all’amministrazione della giustizia. Pertanto mi pare non si possa ora affidare all’Assemblea Costituente quel compito che con l’articolo 96 è stato deferito alla legge.
Questa è una precisazione necessaria; e poiché, non dirò da parte dell’onorevole Murgia, ma da parte sua, onorevole Moro, si è appunto detto essere invece necessario votare adesso questo emendamento aggiuntivo per fare un primo passo verso la soluzione di quel problema che l’articolo 96 ha rinviato completamente alla legge, ritengo che convenga attenersi a quell’impegno che l’Assemblea ha già assunto con una precedente votazione.
UBERTI. Ma anche senza impegni di altro genere.
PRESIDENTE. Vi è un articolo al quale è stato presentato un emendamento aggiuntivo. Il proponente, udite le dichiarazioni della Commissione, lo ha ritirato.
Vi sarebbe una sola via di uscita: qualcuno riprenda l’emendamento per proprio conto e lo presenti; ed allora lo porremo in votazione.
MORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORO. Se io ho inteso bene le sue ultime dichiarazioni, cioè che si intende rinviare tutta la materia alla legge, allora mi pare che la Commissione non possa dare all’articolo ora votato la interpretazione che ha dato. Se la Commissione dichiara che la questione resta impregiudicata, tanto che, stabilendosi secondo l’articolo 96 la struttura dell’istituto della partecipazione popolare, si decida allora liberamente anche su questo punto, noi possiamo accedere. Ma se la Commissione dice che l’articolo così come è stato votato implica la esclusione preconcetta e pregiudiziale dell’istituto della partecipazione popolare dal principio della motivazione, noi dobbiamo far nostro l’emendamento Targetti.
PRESIDENTE. L’onorevole Rossi Paolo ha detto questo: che la votazione di questo articolo non implica menomamente una modificazione del significato e del valore della votazione fatta sull’articolo 96. Più di questo non si può dire.
ROSSI PAOLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ROSSI PAOLO. Per tranquillizzare l’onorevole Moro, vorrei precisare che la Commissione non può, e non deve, fare altro che ripetere quanto ha già detto: che cioè l’articolo 96 è articolo 96, che l’articolo 101 è articolo 101. Non spetta a noi interpretare un articolo con l’altro. I giuristi del futuro decideranno sul significato complesso della Costituzione, in tutti i suoi articoli.
Ma, quando si tratta di materia regolamentare – è una domanda che rivolgo sommessamente al Presidente – vorrei sapere se sia lecito, su una proposta ritirata dai proponenti, chiedere la votazione da parte di coloro che intendono votare contro.
MORO. È accaduto tante volte.
PRESIDENTE. Onorevole Moro, intende far suo l’emendamento Targetti?
MORO. Non insisto.
PRESIDENTE. L’articolo 101, pertanto, rimane approvato nella seguente formulazione:
«Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.
«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».
Il seguito di questa discussione rinviato alle 16.
La seduta termina alle 13.5.