Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CLXXXVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Nitti

De Vita

Bertone

Preti

Dugoni

Colitto

Zotta

Foa

Cartia

Micheli

Sullo

Pignatari

Nobile

Romano

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Targetti

Laconi

Corbino

Uberti

Carbonari

Tessitori

Gasparotto

Condorelli

Presentazione di relazioni:

Presidente

Gronchi

Nitti

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente

Bulloni

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Come l’Assemblea ricorda, nella precedente seduta il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, aveva chiarito e commentato il nuovo testo proposto per l’articolo 113 dal Comitato di coordinamento. Si tratta adesso di esaminare gli emendamenti presentati a questo testo della Commissione, che è così formulato:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni.

«Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali per provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni normali.

«Per provvedere ad altri scopi determinati lo Stato può assegnare a singole Regioni contributi speciali.

«La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.

«Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione, o di transito fra l’una e l’altra Regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose».

Un primo emendamento, presentato dall’onorevole Nitti, è del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Con legge della Repubblica sarà stabilito il regime tributario delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni».

L’onorevole Nitti ha facoltà di svolgerlo.

NITTI. È essenziale stabilire quali potranno essere le entrate delle Regioni, come degli altri enti locali. Finora gli enti locali erano la Provincia e il Comune, che si reggevano essenzialmente sul sistema dei centesimi addizionali delle grandi imposte dirette, soprattutto fondiarie. Ogni provincia, poiché vi era una imposta fondiaria sui terreni e sui fabbricati, metteva, come ogni Comune, dei centesimi addizionali. Era un regime facile. In fondo, la Provincia non aveva come base delle sue entrate che i centesimi addizionai i sulle imposte dirette, ed i Comuni avevano, insieme a questi, soprattutto i dazi di consumo. Queste erano le entrate fondamentali. Poi si sono aggiunte per i Comuni altre entrate, imposte e tasse differenti.

Quando nel 1862 fu fatta l’unificazione tributaria e fu stabilito il regime del nuovo regno, si andò sempre verso l’idea di mettere le Provincie ed i Comuni accanto allo Stato. Poi la Provincia è rimasta chiusa nelle sue funzioni economiche e sociali in limiti ristretti e non ha sviluppato i suoi servizi; il Comune li ha sviluppati e ha dovuto necessariamente ricorrere ad altre imposte: la Provincia si è sempre basata sui centesimi addizionali.

Il sistema del 1862 era in realtà molto pratico. Si basava su entrate sicure e definite. La Cassa depositi e prestiti forniva il credito agli enti locali, e perché il credito fosse sicuramente garantito, gli enti locali cedevano un certo numero di centesimi addizionali. Lo Stato fece operazioni di credito di tanti miliardi e non perdette mai in queste operazioni una sola lira. I Comuni potevano attingere e potevano chiedere credito allo Stato. Allora i Comuni erano molto parchi. Chiedevano alla Cassa depositi e prestiti. La Cassa aveva entrate che derivavano da una parte di alcuni servizi pubblici e dall’altra entrate che venivano dai depositi postali. Il sistema non era complicato e funzionava con regolarità.

Ora, dobbiamo stabilire le entrate di questi tre enti: regioni, province, comuni. L’onorevole Ruini ha detto, in generale, come può orientarsi la finanza locale. Ma sono lontane visioni e occorre invece uscire dall’indeterminato: prevedendo le spese bisogna stabilire quali, una per una, e stabilire dove i comuni, le provincie e le regioni potranno attingere le entrate.

Naturalmente la provincia si trova in parte esautorata, ma vive della sua vita; e la Regione di quali entrate deve vivere? Bisognerà pure definirlo e precisarlo fin da ora. Quindi, siccome non è materia che adesso possiamo improvvisare, sarà necessario fare fin da ora una legge speciale: o una legge speciale o il caos. Su questo non vedo che vi possa essere materia di controversia. Perciò ho presentato questo articolo aggiuntivo che non credo possa incontrare opposizione, a meno che non si continui nel sistema di annunziare come definite e sicure le cose che non sono né definite né sicure, com’è stato finora tante volte in questo schema di Costituzione in cui le aspirazioni si confondono con i propositi e i propositi sono irrealizzabili perché mancano i mezzi di esecuzione.

Si faranno Regioni che pretenderanno, esautorando lo Stato, vivere dello Stato, che ha esso stesso, per l’eccesso di spese e la mancanza di entrate corrispondenti, mancanza di mezzi per vivere vita sicura.

Ignotum per ignotius, questa sarà la finanza delle regioni e degli enti locali che si prepara o per dir meglio che non si prepara.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento presentato dall’onorevole De Vita, così formulato:

«Sostituirlo col seguente:

«La Regione provvede al proprio fabbisogno finanziario con i redditi patrimoniali e con i tributi deliberati dalla medesima nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali.

«Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione o di transito fra l’una e l’altra Regione.

«Le leggi dello Stato in materia economica, finanziaria e doganale sono ispirate al principio di evitare la creazione di qualsiasi privilegio in favore di una o più Regioni a danno di altre».

L’onorevole De Vita ha facoltà di svolgerlo.

DE VITA. In base al principio per cui l’imposta deve seguire l’economia, ciò che soprattutto si richiede ad un ordinamento tributario, che del sistema finanziario costituisce la parte più importante, è un grado massimo di elasticità, ben difficile a raggiungersi in un sistema rigidamente unitario ed in un Paese come il nostro che è variamente articolato nella sua struttura economica.

È dunque necessario adeguare l’imposizione alle condizioni economiche delle singole Regioni, tenendo in debito conto non solo il grado di evoluzione economica, ma anche etnica e psicologica delle singole popolazioni. Si dirà che così si introduce un elemento di disordine e di anarchia nel nostro sistema tributario. Io ritengo che si introduce un elemento di ordine, se è vero che l’ordine è l’armonia dei contrasti.

In Svizzera è stato possibile raggiungere un perfetto equilibrio fra la libera vita cantonale e l’unità federale. La legislazione tributaria in Svizzera è diversa da Cantone a Cantone; è diversa l’imposta sul patrimonio, e la stessa imposta sul reddito trova diversità di applicazione da Cantone a Cantone, per quanto riguarda le aliquote e per quanto concerne il minimo imponibile. Non risulta tuttavia che questa estrema varietà della legislazione svizzera abbia determinato nessun cataclisma in quel Paese. Per quanto riguarda l’ultimo comma del mio emendamento, debbo rilevare che potrebbe apparire paradossale se non fosse a tutti nota l’esperienza storica ormai secolare. L’esperienza dimostra che la politica economica e finanziaria dello Stato unitario ha operato un enorme spostamento di ricchezza da regione a regione.

Lo stesso onorevole Nitti, in una sua pubblicazione: «Principî di scienza delle finanze» si è chiesto dove era verso il 1860 la ricchezza in Italia, e pubblicava il seguente quadro, che non potrebbe essere più istruttivo: «La moneta degli antichi Stati italiani al momento della annessione era così ripartita: Regno delle Due Sicilie 443 milioni; Lombardia 8 milioni; Ducato di Modena 0,4 milioni; Parma e Piacenza 1,2 milioni; Roma 35,3 milioni; Romagna-Emilia 55 milioni; Piemonte e Liguria 27 milioni; Toscana 85 milioni; Veneto 12 milioni.

Il regno delle Due Sicilie aveva due volte più moneta di tutti gli altri paesi della penisola messi insieme. L’unità non fu, come si vede, magro affare finanziario per il settentrione.

Io, per omaggio alla memoria di un grande milanese, Carlo Cattaneo, non intendo porre il problema in termini stridenti. Faccio soltanto appello al sentimento di giustizia che anima tutti coloro che in questo momento sostengono la giusta battaglia per il regionalismo.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Bertone e Baracco hanno proposto il seguente emendamento:

«Sostituire i primi tre commi con i seguenti:

«Alle Regioni è assicurata autonomia finanziaria coi mezzi, nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni.

«Se ed in quanto necessario, lo Stato integrerà i bilanci delle Regioni per le spese straordinarie».

L’onorevole Bertone ha facoltà di svolgerlo.

BERTONE. Onorevoli colleghi, fissato il principio della costituzione della Regione, consegue naturalmente che la Regione debba avere l’autonomia finanziaria, in termini più semplici, il proprio bilancio, perché non sarebbe concepibile l’esistenza della Regione, se la Regione non avesse un suo bilancio.

Dire bilancio è dire una parola semplice; però, nel caso nostro, l’indagine che ci si impone è abbastanza complessa, perché le Regioni sono così profondamente diverse l’una dall’altra per economia, per tradizioni, per misura di tributi fiscali atti a consentire lo svolgimento delle proprie funzioni, che una indagine anche sommaria è indispensabile per rendersi esatto conto del problema.

Sabato scorso il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, ci ha fatto un quadro interessantissimo in proposito, ricordando e richiamando dati finanziari relativi alle varie Regioni fino al 1944 e 1945.

Chiedo all’Assemblea di consentirmi di aggiornare questi dati, riportandoli al 1946 e 1947, esaminando cioè dieci mesi dell’esercizio attuale, in rapporto alle singole Regioni.

Abbiamo Regioni deficitarie e Regioni non deficitarie. Rientrano fra le prime, in dieci mesi di esercizio (i dati sono tolti dall’ultimo conto della Tesoreria e quindi sono dati presumibilmente informati alla maggiore esattezza desiderabile, e riguardano la differenza tra gli incassi e i pagamenti di bilancio, riferiti ad ogni Ministero e riferiti ad ogni ramo di attività finanziaria): la Sicilia, in dieci mesi di esercizio ha un supero di spese in confronto agli incassi di 6 miliardi e 710 milioni; la Sardegna 2 miliardi e 639 milioni; la Calabria 2 miliardi e 384 milioni; le Puglie 8 miliardi e 570 milioni; la Lucania 924 milioni; la Campania 10 miliardi e 215 milioni; gli Abruzzi 2 miliardi e 616 milioni; le Marche 929 milioni; la Venezia Tridentina 448 milioni; la Venezia Giulia – e richiamo la benevola attenzione dell’Assemblea su questa cifra, che è la maggiore di tutte le Regioni d’Italia, come passivo – la Venezia Giulia, 11 miliardi e 304 milioni.

Vengono poi le Regioni in cui gli incassi sono superiori alle spese. Si incomincia dall’Umbria con 292 milioni in più; abbiamo poi la Toscana con un supero di 2 miliardi 942 milioni; l’Emilia con 3 miliardi 581 milioni; la Liguria con 4 miliardi 102 milioni; il Piemonte con 17 miliardi 242 milioni; il Veneto con 3 miliardi 395 milioni, la Lombardia con un supero di 54 miliardi 692 milioni.

Ora, questa differenza di incassi e di spese, così profonda fra Regione e Regione, non è una novità dell’oggi; essa fu sempre corretta e regolata dallo Stato unitario. Lo Stato ha sempre dato alle Regioni del Mezzogiorno deficitarie ciò che occorreva ad esse per completare i loro bilanci. E qui è bene chiarire un punto che ha dato luogo troppo spesso ad una voce non fondata, cioè che lo Stato unitario abbia soltanto sfruttato il Mezzogiorno e abbia dato la maggior parte delle sue risorse al Settentrione.

NITTI. Non è vero.

BERTONE. Lo so, onorevole Nitti, ma questo fu detto e ripetuto: fu detto e ripetuto che la maggior parte delle sue risorse lo Stato l’abbia devoluta a beneficio del Settentrione. Io chiedo all’Assemblea che mi sia consentito di esporre brevissimamente qualche dato di fatto al riguardo. Nel 1927, il Ministero delle finanze ha pubblicato uno studio interessantissimo, un grosso volume il quale analizza ed espone tutte indistintamente le spese per lavori pubblici, per bonifiche, per strade, per acquedotti, per ferrovie, che lo Stato ha fatto in tutte le singole regioni d’Italia, a partire dal 1870, per giungere sino al 1924, prendendo cioè in considerazione 54 anni di pubblica gestione.

Orbene, in questi 54 anni di gestione, risulta da queste statistiche ufficiali che l’onere complessivo a carico dei lavori pubblici è stato il seguente: per l’Italia settentrionale 5 miliardi 974 milioni; per l’Italia centrale 4 miliardi 718 milioni; per l’Italia meridionale e insulare 8 miliardi e 47 milioni, cioè una cifra superiore.

CORBINO. Ma sono lire che hanno un diverso potere d’acquisto.

BERTONE. Ma io le riferisco a tutte le regioni d’Italia ed evidentemente la moneta era uguale per tutte a parità di tempo.

Scendendo a particolari settori, per strade in Italia settentrionale si sono spesi 173 milioni 461 mila, in Italia centrale 148 milioni 689 mila, in Italia meridionale e insulare 752 milioni 915 mila. Sono milioni di allora questi, intendiamoci bene. Ciò significa che i 752 milioni di quell’epoca possono per lo meno essere moltiplicati per cento.

AMBROSINI. Ma dopo l’altra guerra, la moneta era già svalutata e bisogna tenere presente che le maggiori spese per il Meridione furono fatte specialmente dopo la prima guerra mondiale.

BERTONE. Ma io ho accennato a queste cifre unicamente per richiamarmi ad un concetto esposto qui da un oratore del Partito comunista, che ha pronunziato uno dei più eloquenti e appassionati discorsi, l’onorevole Gullo. Il resoconto sommario così riporta il suo discorso: «Egli è calabrese, ma onestamente deve dichiarare che è un falso luogo comune quello che le provincie meridionali siano state sfruttate più che aiutate dallo Stato unitario italiano. Così dicendo, si afferma una condanna ingiusta al centralismo italiano, giusta invece se diretta a colpire la sola classe dirigente del Mezzogiorno d’Italia. Non il centralismo, ma la complicità e la connivenza vergognosa delle classi dirigenti meridionali, gelose dei loro privilegi, con alcuni interessi altrettanto egoistici dell’Alta Italia, furono la causa della lentezza con cui il Meridione seguì lo sviluppo della civiltà del resto del Paese». E qui il resoconto sommario segna «applausi» di consenso.

Ora, io questo volevo dire: che lo Stato, evidentemente, dovrà sempre tener conto di questa differenza di posizione, di economia, di tradizioni tra Regione e Regione, e ciò che è stato fatto in passato, non solo dovrà ancora essere fatto per l’avvenire: dare più a chi ha maggiori bisogni, dare meno a chi bisogni non ha; ma la differenza starà in questo: che, se è vero che per il passato con questo sistema centralistico le spese dedicate al Mezzogiorno non hanno reso quello che dovevano rendere; se si sono spesi miliardi per le strade, e le strade non ci sono, vuol dire che i miliardi non sono stati spesi bene; e non furono spesi bene probabilmente perché mancava il controllo; il controllo delle autorità, delle popolazioni e dei centri locali.

Ora, a questo tende la costituzione della Regione. Io mi domando se, quando lo Stato darà somme per opere pubbliche, integrerà i bilanci delle Regioni che di integrazione hanno bisogno; quando in base al regime democratico oggi costituito le popolazioni locali creeranno le loro amministrazioni con maggiore indipendenza, con spirito di iniziativa, spesso con responsabilità maggiore di quella che non hanno avuto fino ad oggi, mi domando se allora non avremo una maggiore garanzia che le somme destinate alle Regioni che di integrazione hanno bisogno saranno meglio spese; e se non avremo fatto un passo avanti nel progresso generale.

Non ho altro da dire in proposito, se non osservare che, in fondo, vi è già stata un’anticipazione, per merito, credo, dello stesso onorevole Ruini, quando si sono costituiti i Provveditorati regionali per le opere pubbliche. Questi Provveditorati regionali hanno veramente dato la sensazione che qualche cosa di nuovo ormai sia avvenuto nelle amministrazioni regionali. Se si guardano le spese fatte dai Provveditorati, si ha la sensazione precisa che lo Stato non dimentica i suoi doveri da Regione a Regione, distinguendo quelle che hanno maggiori risorse da quelle che ne hanno meno. Ma queste spese sono state fatte con maggiore oculatezza, e i Provveditorati hanno assunto tale quantità di opere pubbliche che non so in quali anni precedenti possa dirsi essere stata ragguagliata all’attuale.

In dieci mesi di esercizio l’Italia settentrionale ha avuto spese di opere pubbliche assegnate per 8 miliardi 193 milioni; l’Italia centrale per 5 miliardi 586 milioni; l’Italia meridionale e insulare per 18 miliardi 12 milioni.

Ora, queste spese sono state controllate localmente, sono state elargite dai Provveditorati, ed i Provveditorati hanno vigilato come queste spese venivano fatte, per mezzo del genio civile, per mezzo dei propri uffici.

Ora, questo mi sembra sia già un’anticipazione in piccola misura di quello che può essere la costituzione e l’amministrazione regionale. E io da questo buon risultato dei Provveditorati traggo auspicio per l’avvenire della Regione in quanto riguarda le spese pubbliche e il modo in cui le spese pubbliche vengono erogate e controllate.

Non ho altro da aggiungere, se non avvertire che il passato insegna che quando lo Stato continuerà a fare tutto il suo dovere verso le Regioni, come sempre ha fatto, noi avremo una maggiore garanzia che le risorse dello Stato e locali saranno spese meglio che non in passato.

PRESIDENTE. L’onorevole Preti ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni».

Ha facoltà di svolgerlo.

PRETI. Ho presentato un emendamento inteso ad escludere che la finanza regionale sia regolata – come dice il 1° comma dell’articolo 113 – da leggi costituzionali.

Sostanzialmente mi sembra più che sufficiente che la finanza regionale sia regolata attraverso la normale procedura legislativa. Mi sembra che, facendo diversamente, si complicherebbero le cose inutilmente.

D’altra parte si tratta d’una disposizione che direi senza precedenti anche dal punto di vista – se non erro – del diritto comparato; e quindi voglio sperare che la Commissione vorrà accettare questo emendamento.

Ho presentato in seguito alcuni emendamenti soppressivi, in quanto modestamente – poiché non sono un tecnico della materia – io penso che sia piuttosto difficile, e forse anche inopportuno, regolare la materia dei tributi – dire cioè quali tributi siano assegnati e quali non siano assegnati alla Regione – in un articolo della Costituzione.

Del resto questo stesso pensiero hanno espresso deputati molto più autorevoli di me e non è quindi il caso che io stia a dare una dimostrazione di questo asserto.

PRESIDENTE. L’onorevole Dugoni ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sostituire le parole: da leggi costituzionali con le altre: dalle leggi dello Stato».

L’onorevole Dugoni ha facoltà di svolgerlo.

DUGONI. Mantengo l’emendamento e rinuncio per il momento a svolgerlo.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sopprimere le parole: nelle forme, e sostituire alle parole: che la coordinano le altre: che, nel precisarli, provvedano altresì a coordinarla».

L’onorevole Colitto ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

COLITTO. Queste mie brevissime modifiche attengono puramente alla forma. L’articolo 113 nel suo primo comma inizia con le parole: «Le regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti».

Ora a me sembra che la parola «limiti» accenni senz’altro a binari che non possono essere trapiantati anche nel campo delle forme. Le parole quindi «nelle forme» che si leggono in quella dizione mi sembrano superflue.

Non insisto invece nell’altra modifica. Potrà eventualmente tenersene conto quando si vorrà rivedere la forma degli articoli della Costituzione.

PRESIDENTE. L’onorevole Zotta ha presentato il seguente emendamento, firmato anche dagli onorevoli Bosco Lucarelli, Dominedò, Petrilli, Jacini, Gabriele, Perrone Capano, Caccuri, Chieffi, Lettieri, Abozzi, Franceschini, De Maria, Camposarcuno, Caiati, Recca, Coccia, Perlingieri, Angelucci, De Martino, Viale, Orlando Camillo, Broggio, Guerrieri e Monterisi:

«Sostituire il secondo e il terzo comma con i seguenti:

«Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali. Il gettito complessivo del tributo erariale è ripartito in modo che le Regioni meno fornite di mezzi possono provvedere alle loro funzioni e al loro sviluppo per il raggiungimento di un livello comune di benessere e di progresso in tutto il Paese.

«Allo stesso scopo, lo Stato può assegnare alle singole Regioni contributi speciali».

Ha facoltà di svolgerlo.

ZOTTA. Siamo così giunti al punto più delicato della vita delle Regioni: all’autonomia finanziaria, senza la quale vano è parlare di autonomia legislativa ed amministrativa. Per esercitare le funzioni loro assegnate, le Regioni hanno bisogno di mezzi finanziari, cioè di entrate.

Qui sorgono due problemi:

Quali entrate deve lo Stato assegnare alle Regioni? Vi sono Regioni che hanno bisogni, per cui le entrate normali non sono sufficienti?

Alla prima questione ha dato risposta esauriente nell’ultima seduta l’onorevole Ruini, con ricchezza e precisione di dati, mostrando infondate le preoccupazioni di coloro che temono non possa la Regione assolvere i suoi compiti senza turbare l’equilibrio del bilancio statale col sottrarre all’erario cospicue entrate o senza aggravare l’onere tributario dei cittadini.

Noi abbiamo visto come siano rimaste allo Stato le funzioni che mirano alla tutela giuridica dei consociati. Le altre funzioni, le quali possono definirsi di carattere sociale, in quanto mirano direttamente al miglioramento fisico, economico e spirituale della popolazione, sono esercitate dallo Stato o sono affidate alle Regioni, secondo che siano di carattere generale e interessino tutta la collettività o tocchino interessi esclusivamente o prevalentemente locali. Sicché, dal lato finanziario, per entità di spese, la sfera di attività propria delle Regioni, riguarda in prima linea le opere pubbliche e l’agricoltura, poi l’assistenza sanitaria ed ospedaliera, l’igiene e la sanità, ed infine, con lieve ripercussione sul bilancio regionale, le altre funzioni.

Di quale ammontare ha bisogno la Regione per vivere?

L’onorevole Ruini ha presentato un quadro, da cui risulta che nel bilancio dello Stato 1938-39 su una spesa di quaranta miliardi, un miliardo e mezzo sono assorbiti per lavori pubblici. È questa la spesa maggiore tra quelle in esame: tutti gli altri titoli di spesa sono destinati a gravare in misura relativamente tenue sul bilancio dello Stato.

Io mi sono fermato ad esaminare le spese dello Stato, negli anni finanziari 1931-32, 1932-33, 1933-34 ed ho constatato che l’ammontare percentuale delle spese per opere pubbliche si aggira sulla media di 7,5 per cento. Aggiungendo gli altri titoli, che ora passano alla Regione, si giunge ad un 10 per cento.

Bisogna, dunque, che lo Stato assegni alla Regione il 10 per cento delle sue entrate.

E qui, esattamente osservava l’onorevole Ruini, basta passare alle Regioni il gettito delle imposte immobiliari ed una quota delle imposte di ricchezza mobile. In materia di imposizione, le ricchezze che risentono vantaggio da determinati servizi, ne sostengono anche le spese. Delle varie ricchezze costituenti la materia imponibile, la proprietà immobiliare ha carattere di ricchezza prevalentemente locale, essendo dal punto di vista territoriale localizzata. Un sistema tributario razionale tende a riservare allo Stato le entrate derivanti da ricchezze di carattere nazionale e agli enti locali quelle provenienti da ricchezze di carattere locale.

Ora, assegnando alla Regione l’imposta fondiaria e fabbricati, nonché una quota della imposta di ricchezza mobile, si può raggiungere quel 10 per cento di entrate, occorrenti per sostenere le spese necessarie per le funzioni che lo Stato devolve alle Regioni.

Lo Stato perde di entrate di quanto si sgrava di spese.

Alla prima questione si risponde dunque esaurientemente: l’autonomia finanziaria delle Regioni non importa aggravio né per lo Stato né per i cittadini.

Ma vi è un’altra questione: vi sono Regioni, che hanno bisogni, per cui le entrate normali non sono sufficienti. Su questo punto vi è una lacuna nel Progetto, nella nuova formulazione della Commissione e nella Relazione dell’onorevole Ruini, il quale, in proposito, si è limitato a dire semplicemente che il nuovo testo prevede l’assegnazione di contributi speciali per determinati compiti.

È una triste realtà. In Italia vi sono Regioni che bastano a se stesse ed altre che, per povertà naturale, per ragioni storiche ed anche per incomprensione di governanti, sono oggi a tal punto da avere imprescindibile bisogno di integrazione e di aiuto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Per quanto si dia in sede di finanza, non potranno con ciò raggiungere il livello di benessere economico che è determinato da tante altre ragioni.

ZOTTA. Noi abbiamo affidato alla Regione una complessità di compiti di carattere amministrativo. Prendiamo ad esempio la viabilità, gli acquedotti, i lavori pubblici di interesse regionale, i servizi pubblici, l’assistenza, l’igiene e la sanità pubblica, parte della pubblica istruzione, l’agricoltura. Si sa che le maggiori deficienze in questo vasto campo si riscontrano nelle Regioni povere. In talune vi sono condizioni di vita addirittura primitive. Mentre si assiste con compiacimento al rinfittirsi della rete stradale in alcune zone d’Italia, intersecate in tutti i sensi da strade di ogni specie, noi vediamo per contro, con profondo rammarico, paesi che o per mancanza di vie carrozzabili o per deficienza di servizi pubblici, non sono affatto collegati col mondo civile o ne restano separati per tutta la stagione invernale (della mia Lucania, ad esempio: Brindisi di Montagna, Castelsaraceno, ecc.). Quivi le persone che avessero bisogno di un pronto intervento chirurgico sono dannate a morire come bestie. Mancano in molta parte dei Comuni lucani le fognature. I contadini vivono in casette rudimentali di un unico vano, che hanno del tugurio o della spelonca: ivi dormono promiscuamente uomini, donne, animali.

Cito la Lucania, perché è la Regione che conosco meglio. Non molto superiori sono le condizioni di vita delle altre terre dell’Italia meridionale, di alcune dell’Italia centrale e, qua e là, anche di qualcuna dell’Italia settentrionale, specie nelle zone alpine e carsiche. Ma il problema è fondamentalmente meridionale. Dal lato finanziario, esso si presenta così: vi sono Regioni, che in confronto delle altre, hanno un gettito di entrate più ridotto e nel contempo son quelle che hanno un maggior numero di bisogni. Sicché i bilanci regionali più grami debbono affrontare i compiti più gravosi.

Ora come si pone il problema dell’autonomia finanziaria di fronte a queste Regioni? Se noi attribuiamo loro le imposte immobiliari e una quota, uguale per tutte, di ricchezza mobile potranno esse vivere e prosperare?

Indubbiamente no.

Codeste Regioni hanno i bisogni delle altre agiate o ricche; e in più quelli che derivano dalla umana ed insopprimibile aspirazione di portarsi al livello di quelle o quanto meno di raggiungere condizioni possibili di vita civile. Esse debbono poter vivere; esse debbono poter prosperare. E invece con l’accennata ripartizione di tributi non hanno tutti i mezzi necessari per vivere; non ne hanno affatto per prosperare.

Questa è la storia dolorosa delle Regioni povere d’Italia, di cui occorre tener conto nella impostazione del capitolo sull’autonomia finanziaria, per stabilire, con aderenza alla realtà, i rapporti tra codesti enti che sorgono a vita autonoma e lo Stato.

Ecco la domanda: il regionalismo importa una politica di separatismo e di isolazionismo finanziario, ovvero si innesta sul tronco della solidarietà e dell’unità degli interessi nazionali? In altre parole, l’autonomia finanziaria è destinata a chiudere per sempre nei loro confini le miserie di alcune Regioni e le ricchezze di altre, perpetuando con codeste barriere l’inferiorità del Mezzogiorno di fronte al resto del Paese? Siamo cioè al punto di dire: ogni Regione ormai viva per conto proprio?

Io sono tra i fautori più ardenti del regionalismo, perché sono convinto che stimolando le energie e le iniziative locali, nel campo pubblico e privato, le nostre terre possono uscire dall’attuale fase di miseria, la quale è in parte dovuta anche al senso di avvilimento e di rinunzia, in cui il nostro popolo è caduto dinanzi alle tristi vicende della storia e all’ineluttabile avversità della natura. Ritengo pernicioso il sistema paternalistico, per cui si pretende di ottenere dallo Stato il rimedio contro tutti i mali. Ma intanto bisogna preparare il terreno per questa auspicata fioritura. E le condizioni attuali sono tristi e le risorse locali quanto mai impotenti ad eliminarle. Noi abbiamo problemi immensi: come quello della viabilità, del rimboschimento, della sistemazione dei bacini montani, del regolamento del corso dei fiumi, del latifondo, della bonifica dei terreni, della irrigazione, della malaria, della tubercolosi. Sono tutte operazioni, cui non sono in grado di attendere con possibilità di risultati concreti né i privati, né gli enti locali, ma solo lo Stato.

Il Progetto ha solo sfiorato il problema, che è di importanza costituzionale, e, nell’intento di superare la visione isolazionista, ha escogitato due rimedi.

Si preoccupa innanzi tutto che alle Regioni povere siano assicurati i mezzi per adempiere alle loro «funzioni essenziali».

Ha poi previsto la possibilità della creazione di una cassa nazionale di integrazione.

Il «fine» è quello di venire incontro alle Regioni povere per le spese necessarie alle loro «funzioni essenziali». Io domando: sono funzioni essenziali quelle che, a mo’ di esempio, ho citato dianzi: viabilità, acquedotti, lavori pubblici in genere? Mi sembra che quell’aggettivo sia posto lì in veste usuraria, con carattere restrittivo, a significare quelle funzioni primarie, senza di cui l’ente non vive: e che esuli tutto ciò che sa di conforto, di miglioramento, di progresso.

Ora l’onorevole Bertone propone un emendamento, per cui lo Stato integra i bilanci delle Regioni per le spese straordinarie, «se e in quanto necessario».

Vi è un miglioramento di fronte al Progetto. Dire «spese straordinarie» significa andare al di là delle «spese essenziali», le quali si svolgono nell’ambito delle spese ordinarie.

Ma la prima parte della proposizione mi sembra monca: «se e in quanto necessario». A che? L’idea della necessità sorge in rapporto ad un fine. E un concetto di relazione. Per non morire d’inedia noi diciamo che è necessaria una somma; per vivere agiatamente noi diciamo che è necessaria un’altra. La necessità muta secondo il tenore di vita che l’uomo si prefigge.

Si parla qui delle necessità ridotte di Regioni povere ed arretrate o di necessità di elevare codeste Regioni al livello di quelle ricche e progredite?

Questo occorre dire, perché sia completa, logicamente e sostanzialmente, la proposizione.

Tutti i partiti hanno assunto a loro principio programmatico la risoluzione del problema del Mezzogiorno: non solo ne hanno fatto oggetto di voti e di ordini del giorno nei rispettivi congressi, ma – quel che più conta – ne hanno fatto oggetto di discussioni nella campagna elettorale: sicché si è promesso al popolo che la rappresentanza legislativa in seno alla Costituente importava tra l’altro il dovere della impostazione del problema sul terreno costituzionale.

Vanamente ora si direbbe che la discussione vada rimessa alla legislazione ordinaria. Sarebbe questa l’ennesima delusione, la più solenne e la più amara, per il nostro povero popolo, il quale, anche questa volta, ci aveva creduto!

Il problema è costituzionale. Che altro è la Costituzione se non l’insieme dei principî che fissano i momenti fondamentali della vita di una collettività di persone? E non è fondamentale forse stabilire come una metà circa della popolazione debba vivere con l’altra metà, in quelle condizioni di unità sociale, civile, morale, senza delle quali non esiste l’unità politica? È costituzionale il problema, come i medici dicono sia costituzionale una malattia, anche se si manifesti in un punto solo dell’organismo umano. Qui l’organismo sociale italiano non è sano.

Qual è la ragione di questa Costituzione? Dare al Paese ordinamenti democratici; superare, nel contrasto tra il ricco e il povero, la distanza che li separa e che fa del primo il tiranno del secondo.

Noi avremo attuato solo in parte questi due fondamentali principî, se limiteremo la nostra visione ai rapporti tra il lavoratore e il datore di lavoro.

Il problema è più ampio. Esiste una Italia florida ed una Italia grama. Vi è dunque, nel campo geografico, una contrapposizione tra il ricco e il povero, con la tirannia del primo sul secondo, come nel campo sociale.

Abbiamo eliminato gli effetti di una tal contrapposizione sul terreno sociale, nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore. Dobbiamo ora eliminarla sul terreno nazionale, nei rapporti tra Regioni ricche e Regioni povere.

Oggi l’Italia presenta questo quadro: privilegi e differenze sociali, economiche e politiche esistono sotto due aspetti, l’uno di classe, l’altro geografico. Noi abbiamo il dovere di sforzarci per eliminare entrambi. Se la Costituzione ciò non facesse, mancherebbe al suo scopo e noi tradiremmo il popolo, che ci ha eletti.

Il problema del Mezzogiorno sta nel far convergere gli sforzi particolari delle Regioni interessate e quelli collettivi dello Stato verso la eliminazione di quella barriera, che divide profondamente il Nord dal Sud, nel campo economico e sociale, e nel rendere possibile il raggiungimento di un livello comune di benessere e di prosperità in tutto il Paese.

A fissare questo principio e questa esigenza mira il mio emendamento.

Faccio appello ai colleghi, al di sopra di ogni distinzione di partiti, che in questo caso non avrebbe senso: ai deputati meridionali, perché in questo punto della Costituzione, che è quello proprio, si sforzino di portare intera la voce del popolo, che li ha eletti; ai deputati settentrionali, perché si associno in quest’opera di solidarietà umana e nazionale. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Codignola ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La Regione provvede alle proprie necessità finanziarie mediante sovrimposte o quote di tributi erariali e comunali, o contributi erariali ad essa riservati dallo Stato, o con tributi propri, nei limiti e con le modalità previsti dalla legge. Per l’accertamento e l’esazione dei tributi, la Regione si avvale degli organi dello Stato a ciò designati».

L’onorevole Codignola non è presente.

FOA. Faccio mio l’emendamento Codignola.

PRESIDENTE. Ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Poche parole, onorevole Presidente, perché l’emendamento mi sembra tanto chiaro che non ha bisogno di un’esposizione dettagliata. La sua caratteristica principale consiste nel richiamo alla legislazione ordinaria per quanto riguarda la regolamentazione della finanza regionale. Questo, non solo per ragioni di principio, ma per ragioni pratiche, perché le riforme eventualmente necessarie non seguano una complicata procedura di revisione. La specificazione in sede costituzionale delle fonti finanziarie delle Regioni, risponde alla necessità, che è da noi acutamente avvertita, di evitare che, attraverso l’autonomia finanziaria, si possano compromettere, oggi o in avvenire, quelle che sono le caratteristiche fondamentali del sistema tributario nazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Cartia ha presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma, dopo le parole: e quote di tributi erariali, aggiungere: le quali saranno determinate secondo criterio di redistribuzione del reddito nazionale, allo scopo di attuare una perequazione interregionale».

«Sopprimere il resto del comma».

L’onorevole Cartia ha facoltà di svolgerlo.

CARTIA. Onorevoli colleghi, il problema dell’autonomia finanziaria non si può improvvisare con note sentimentali. Sono numeri ed i numeri non sono suscettibili di note sentimentali. Le previsioni in questo campo vanno fatte con un concreto esame di dati. Regionalisti o anti-regionalisti si ha il dovere, una volta istituito quest’ente, di collaborare perché quest’istituto sia vivo e vitale. Insieme dobbiamo vedere quale deve essere la forma da dare a questa autonomia finanziaria che si afferma nell’articolo del progetto, e quale il risultato pratico che si può raggiungere, di modo che l’autonomia in parola non resti una affermazione astratta. Il problema va posto in questi termini: autonomia finanziaria sì, ma in funzione di autosufficienza finanziaria delle Regioni. C’è questa autosufficienza delle Regioni? È qui il punto cruciale dell’indagine. Ieri l’altro, l’onorevole Ruini, Presidente della Commissione, ha fatto tutto un esame di dati e ci rimandò anche a pagina 191 della relazione della Commissione. Ho voluto controllare che cosa dice questa pagina. È una pagina che mette molta sete ma non dà nulla da bere, perché finisce col dirci che il 40 per cento delle entrate statali è suscettibile di essere ripartito regionalmente, per il 25 per cento si potrebbero far ricerche nei vari uffici dell’Amministrazione centrale, e del 35 per cento non è possibile sapere nulla. Ed allora, bisogna convenire che siamo su un terreno di dati incerti.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No.

CARTIA. Se abbiamo solo un 40 per cento suscettibile di essere statisticamente distribuito fra le Regioni, e questa distribuzione può farsi solo per un certo numero di anni, evidentemente non mi pare che abbiamo dati certi per affermare che ci siano elementi per conclusioni precise.

Comunque, ammetto anche il ragionamento dell’illustre Presidente della Commissione, il quale però deve darmi atto che ieri l’altro ci presentò un’autosufficienza in questi termini: le entrate tratte dal bilancio dello Stato e ripartite secondo gli incassi per Regioni, e poi le spese ripartite anch’esse per Regioni sempre secondo il bilancio generale delle passate esperienze, tenendo conto dei compiti passati ora alle Regioni: con questi incassi regionali, si dice, sarà possibile provvedere alle spese regionali.

Questo, in sintesi, il discorso che fu illustrato con cifre ineccepibili. Se noi limitiamo però nel campo finanziario l’autonomia regionale al fatto che le Regioni quello che incasseranno lo dedicheranno ai loro compiti nei limiti di spesa ricavati dal bilancio centrale dello Stato, come ci sono prospettati da una tradizione di circa ottant’anni, allora non facciamo altro che presentare un bilancio decentrato; cioè a dire decentriamo il bilancio e il conto torna. Ma non torna per le finalità che la Regione si propone, che sono finalità dirette ad aumentare il livello di vita della Regione stessa, sono finalità dirette a potenziare economicamente la Regione, dirette, insomma, a sollevare le Regioni più derelitte.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Io non ho mai detto questo.

CARTIA. Ed allora il conto non torna, perché allora dobbiamo tornare all’esame dell’autosufficienza con le cifre alla mano.

Infatti io dico: oltre ai dati statistici generali è proprio l’esperimento che si è fatto in Sicilia che non autorizza ad avere questa rosea visione della autonomia finanziaria. Si è detto: la Sicilia si è sovraccaricata di un eccesso di compiti e può darsi che si trovi in difficoltà finanziarie.

Io guardo con grande trepidazione l’autonomia finanziaria siciliana, perché non condivido l’ottimismo sulle possibilità finanziarie autonome. Ed a questo riguardo vi è un esperimento recente; l’impostazione del bilancio della Regione siciliana, pubblicato sette giorni fa. Vediamo come il Governo della Regione ha impostato il bilancio: 12 miliardi di bilancio, attivo e passivo. È vero che sono innumerevoli i compiti che la Regione ha, ma sono altrettanto cospicui i cespiti che la Regione siciliana si è riservati. Essa ha tutte le entrate, di qualsiasi natura, compresi i dazi di protezione, ed allo Stato sono riservate soltanto le imposte di fabbricazione ed i monopoli, che in Sicilia si riducono al lotto e ai tabacchi. Lo Stato non ha altro. Le entrate siciliane dovrebbero essere più che sufficienti, quindi, se calzasse il ragionamento che ha fatto il Presidente della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma la Sicilia ha molte spese che la Regione normale non ha.

CARTIA. Ha però tutti gli incassi, perché ho già spiegato che lo Stato incassa soltanto tabacchi, imposte di fabbricazione e lotto, che si aggirano soltanto sui tre o quattro miliardi. Quindi non calza il ragionamento che si è fatto a questo riguardo per dimostrare la pretesa autosufficienza di tutte le Ragioni.

Che cosa avviene nel bilancio siciliano? Come si fa tornare il conto? Gli incassi delle entrate ordinarie arrivano a 7-8 miliardi; bisogna arrivare a dodici, ce ne vogliono altri quattro o cinque per completare e si completa in questa maniera: si incamera, si mette nel preventivo il gettito della proporzionale che stiamo ancora discutendo, in questi giorni in questa Assemblea. Ma non basta: si aggiunge la progressiva, ed allora si arriva ai dodici miliardi. Quindi le entrate straordinarie vengono assorbite per il normale bilancio di esercizio. Ma questo non è un bilancio autosuffìciente!

Come la Sicilia raggiunge la sua autonomia in funzione degli scopi che questa si propone? La raggiunge quando a quei miliardi della patrimoniale che fanno tornare il conto dei dodici miliardi del bilancio (e si noti che allo Stato restano nei confronti della Sicilia degli oneri non indifferenti come quelli relativi agli affari esteri, all’interno, alla giustizia, ai ministeri delle forze armate, all’istruzione media superiore ecc.) si aggiungono i miliardi del fondo di solidarietà nazionale.

Questo è congegnato in modo (per l’articolo 36 dello Statuto siciliano) che si può avere un contributo statale rapportato alla media nazionale della popolazione attiva per cui il Governo regionale può contare su sedici o diciassette miliardi all’anno approssimativamente.

Con altro contributo statale annuo di tre miliardi e duecento milioni la Sicilia affronterà il problema dell’elettricità e della bonifica di 700 ettari di terra, ma non con fondi suoi, bensì con mezzi che darà la finanza nazionale.

Tutto questo ha un grande significato, e tengo a dirlo all’Assemblea, perché, come siciliano, desidero dimostrare che la Sicilia deve considerarsi inscindibile dal resto del territorio nazionale. E quindi le tendenze separatiste o filo-separatiste non trovano fondamento nella realtà dei fatti finanziari. La Sicilia non può che “aspirare all’unità con l’Italia ed alla solidarietà nazionale. Questa esigenza sorge dalle stesse cifre, che hanno appunto un chiaro significato. Questo esempio ci dice che, solamente attraverso un fondo di solidarietà nazionale, si può pensare di risolvere il problema delle Regioni più disagiate.

Del resto, il risultato di questo ragionamento fu segnalato in sede di seconda Sottocommissione, presieduta dall’onorevole Terracini, relatore l’onorevole Ambrosini. La seconda Sottocommissione non mise per nulla in forse, in nessun momento delle sue discussioni, che ci fosse la necessità di andare incontro alle Regioni più disagiate attraverso un fondo di solidarietà nazionale. La mancata autosufficienza di alcune Regioni fu da tutti i Commissari ammessa.

L’onorevole Bertone ha richiamato l’ultimo bollettino del Ministero del tesoro: questo mostra come ben dieci su diciotto Regioni non siano autosufficienti, stando alla ripartizione per Regioni delle entrate e delle spese dello Stato.

Quindi, che ci siano Regioni non autosufficienti mi pare che dovrebbe essere ammesso e la Costituzione deve anche prevedere, sia pure in via di ipotesi – tanto per andare incontro alla tesi dell’onorevole Ruini – deve prevedere ed ammettere che ci possano essere Regioni non autosufficienti.

Allora, si pone il problema della autonomia finanziaria: come risolverlo?

Ecco il mio emendamento. Col mio emendamento, non ho fatto altro che trarre dalle discussioni della seconda Sottocommissione quello che era, in sostanza, il punto di incontro di tutti i partiti in seno alla seconda Sottocommissione stessa, per trarre una formula equitativa che tenesse conto delle esigenze delle Regioni non autosufficienti. Perché, una volta ammesso che la finanza regionale non potrà per molti anni sopperire alle esigenze del miglioramento economico della Regione e del suo sviluppo, balza evidente un principio che non dobbiamo esitare ad affermare – un principio che nel campo finanziario si rivela in maniera matematica – cioè il principio della solidarietà nazionale. La finanza regionale deve quindi attingere alla finanza nazionale. Ma come attingere alla finanza nazionale? È qui il punto.

Si sono profilate nella discussione, in sede di Sottocommissione, tre forme, che si riproducono nei vari emendamenti che sono stati ora proposti: una, che sia lo Stato a dispensare e a ripartire un fondo di solidarietà; un’altra, che sia un Comitato di coordinamento interregionale; una terza, che ci sia un criterio automatico di ripartizione delle entrate tra le varie Regioni.

Questi sono stati i tre criteri.

Il primo criterio fu senz’altro scartato.

Perché la seconda Sottocommissione respinse subito il criterio che fosse lo Stato il ripartitore? Io sarei per lo Stato, perché la funzione dello Stato è appunto quella di essere il coordinatore e il distributore nel quadro degli interessi collettivi, e perché lo Stato è il più autentico rappresentante della collettività; starei per questa soluzione senza esitazioni e senza preoccupazioni: lo Stato siamo tutti.

Ma ci sono ragioni politiche che spesso attenuano la evidenza di tali argomenti: e si riferiscono appunto a quello stato di diffidenza che si è determinato in molte Regioni d’Italia, specialmente in quelle che per un lungo passato sono state trascurate, le quali nutrono una viva diffidenza nei riguardi della funzione regolatrice dello Stato.

E c’è in proposito il problema annoso ed angoscioso di Nord e Sud, che io non voglio affrontare per esaminare i torti del Nord, in quanto, come siciliano, riconosco che molte delle cause di inferiorità delle Regioni meridionali sono dovute anche alla vecchia classe dirigente locale, che ha la responsabilità storica di aver tenuto il sacco ad altre classi dirigenti di altre Regioni in un reciproco giuoco di interessi tutt’altro che collettivi.

Ora, questo stato di diffidenza non si può superare se non arrivando ad una ripartizione, fuori dall’intervento dello Stato e assolutamente indipendente da esso. E in qual modo? Si propose nei lavori preparatori un Comitato coordinatore interregionale: ma si profilò il pericolo di dissidî aspri fra le Regioni, di particolarismi, di egoismi regionalistici e si addivenne allora al criterio di una ripartizione automatica per legge.

A questo criterio fu possibile quasi unanimemente accedere dopo una discussione veramente ampia e generale che si fece in sede di Sottocommissione, sotto la presidenza dell’onorevole Terracini. Questi, a un determinato momento della discussione, mise il punto sui risultati del dibattito con queste testuali parole: «Il fondo di solidarietà non può essere un istituto destinato a sopperire ai bisogni delle regioni in seguito ad eventi eccezionali, nel qual caso sarebbe svuotato e privo di ogni portata pratica, bensì un istituto da utilizzare per i bisogni normali: l’importante è che i mezzi di cui il Paese dispone vengano equamente ripartiti e che questo scopo si ottenga nella maniera più dignitosa».

Anche l’onorevole Vanoni fu dello stesso avviso, affermando precisamente che il criterio migliore sarebbe appunto quello di seguire un sistema automatico.

E l’onorevole Mortati propose, in conseguenza, la formula, che ho fatto mia coll’emendamento proposto, della legge tributaria ispirata a criteri di redistribuzione del reddito nazionale, allo scopo di ottenere una perequazione interregionale, in modo così da sanzionare un principio di giustizia distributiva e da evitare controlli centrali, che farebbero uscire dalla finestra l’autonomia entrata dalla porta. Finiremmo infatti, nel caso di intervento di controlli statali, con l’aumentare la bardatura del centralismo, venendo a far sorgere una Commissione centrale di finanza per le Regioni.

PRESIDENTE. Onorevole Cartia, sono già venti minuti che parla. La prego di concludere.

CARTIA. Ho finito. Si tratta dunque di venire a questa conclusione cui già la seconda Sottocommissione era pervenuta e che io ho riproposto col mio emendamento. Ciò ha un significato non soltanto di equità finanziaria, ma anche di possibilismo finanziario nei limiti delle risorse nazionali, perché l’emendamento dell’onorevole Zotta, reclamando un intervento della finanza nazionale nella misura dei bisogni delle Regioni non tien conto delle limitate disponibilità del bilancio generale come se lo Stato fosse un pozzo di San Patrizio; egli diceva assai bene delle esigenze delle Regioni più bisognose, ma io gli faccio osservare che il rimedio non può essere se non quello di adottare un criterio di giustizia distributiva, secondo un sistema di perequazione interregionale.

Questo ha anche un grande significato politico, giacché è proprio attraverso tale sistema che, anziché saltare il problema, accantonando la necessaria soluzione del quesito se debba o meno la distribuzione del fondo integrativo essere affidata allo Stato o ad un Comitato interregionale o a una legge di perequazione automatica, si fissa costituzionalmente un criterio automatico sul quale dovrà più tardi impostarsi la riforma tributaria per andare incontro alle Regioni più abbandonate. Ed è con tale criterio che, mentre sorgono le Regioni con tanto entusiasmo e con tanti contrasti, si afferma in pari tempo un principio che tutti ci lega, il principio, animatore dell’unità, che è quello della solidarietà nazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Al secondo comma, sostituire il secondo periodo col seguente:

«Se il gettito di essi (tributi regionali) non è sufficiente alle spese strettamente necessarie, si provvederà con l’integrazione dello Stato».

MICHELI. Ho ascoltato con molto interesse quanto ha ora detto l’onorevole Cartia, perché l’emendamento che io ho avuto l’onore di proporre, se indirettamente per la questione di forma, può entrare anche direttamente nella sostanza della questione che egli ha sollevato. L’articolo 113, in fondo, salva la questione di forma. E nella forma si può sempre trovare il modo di andare d’accordo. Esso stabilisce come le Regioni scarse di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali.

In fondo questa è la base, in quanto il gettito dei tributi che sono assegnati alle Regioni è relativo alle loro funzioni essenziali. Ora, è chiaro che in una Regione, secondo le necessità di essa, si alzerà o si diminuirà la richiesta dei tributi. Come abbiamo le sovraimposte comunali e provinciali, le quali si alzano o si diminuiscono nelle province e nei comuni, nelle Regioni si opererà con analogia. Questo è il criterio.

Il dissenso può incominciare quando si venga ad esaminare quali possono essere le funzioni essenziali. Ed allora noi stessi ci possiamo trovare di fronte alle medesime preoccupazioni che ha avvertito l’onorevole Cartia nei riguardi della regione in Sicilia: essa ha assorbito molte delle funzioni dello Stato; essa le ha conglobate nel suo statuto, ed ora pare si trovi a disagio nella pratica attuazione, giacché la finanza non è ancora formata, ed essa deve vivere con espedienti contabili, assegnandosi, ad esempio, le imposte proporzionali e progressive sul patrimonio che non sono state ancora definitivamente votate dall’Assemblea, e che, comunque, pare debbano essere di competenza dello Stato.

Però, mi sembra indiscutibile che questa eccezione non si può fare all’organizzazione regionale come noi l’abbiamo approvata. Nella discussione vi è stata una grande tendenza a diminuire quelle che erano le funzioni essenziali, mentre un’altra parte dell’Assemblea era disposta ad aumentarle per dare alla Regione l’esplicazione completa di una grande nuova organizzazione. Non abbiamo voluto insistere troppo e ci siamo accontentati di un primo esperimento, anche più modesto di quello che fu il primo originario pensiero così magistralmente predisposto dall’onorevole Ambrosini. Poco per volta la tradizione regionale che dovrà sostituirsi ad altre tradizioni, si verrà formando, e la Regione si fortificherà.

Ma se altri concetti più larghi sono prevalsi nelle autonomie locali delle isole, e di questo noi siamo ben lieti, non possiamo accettare le osservazioni fatte a quelle. Noi qui accettiamo la discussione sulle funzioni più modeste della Regione così e come è stata finora approvata dalla Costituente.

Ecco, perché io ritengo che le spese necessarie per le funzioni essenziali della Regione siano meglio precisate nell’emendamento Bertone, il quale parla di spese straordinarie con intervento dello Stato. Le spese ordinarie essenziali sono quelle alle quali si fa fronte col tributo ordinario, che può ogni anno anche mutare se cambiano i bisogni. Le spese straordinarie, invece, sono senz’altro quelle che mancano di corrispettivo ordinario e per le quali lo Stato deve concorrere. Ecco che allora entra in giuoco il concetto del fondo della solidarietà nazionale, per il quale ha spezzato molto opportunamente una lancia il nostro collega Cartia.

Io in questo ho aggiunto poco di diverso: mi sono limitato a parlare invece di spese strettamente necessarie. Io non immaginavo quello che il collega avrebbe detto oggi quando una settimana fa ho stilato questo emendamento, che oggi riesce assai opportuno. Dalla discussione odierna ora, e domani nelle discussioni che si faranno nelle adunanze regionali, nelle quali si dovrà provvedere alla organizzazione finanziaria della Regione, risulteranno le spese strettamente necessarie al funzionamento e quelle straordinarie, secondo l’importanza e l’entità delle quali dovrà intervenire lo Stato.

Ecco come attraverso queste varie forme si possa giungere ad accettare anche il concetto espresso dall’onorevole Cartia, salvo le diversità determinate dalla differenza fra il modo con cui risulta congegnata l’autonomia della Regione siciliana e la nostra più modesta che speriamo, in questo primo esperimento, sia quale il popolo italiano aspetta ed attende da noi.

Questo è quanto volevo dire al collega Cartia, anche per dimostrare che dalla democrazia cristiana – alla quale egli ha accennato – non è vero che si siano abbandonati i concetti del fondo di solidarietà nazionale. Questo concetto espresso dall’onorevole Mortati è sempre nel sentimento di tutti noi ed anche l’onorevole Ambrosini nella sua magnifica esposizione non ha mancato di parlarne. Questo stesso concetto abbiamo raccolto nei nostri emendamenti, senza darvi forme solenni perché non sembrasse voler fare quasi affermazioni di parte in una discussione mantenuta al di sopra di ogni considerazione politica.

Ma entriamo nel più vivo dell’argomento. Io appartengo a quel numeroso reparto di regionalisti i quali credono, intendono e vogliono che la Regione sia strumento di rimedio del passato e di riparo pel futuro a quella che l’onorevole Francesco Saverio Nitti ha con frase caratteristica chiamato «elefantiasi burocratica», la quale effettivamente è uno dei maggiori travagli del nostro dopoguerra.

Per questo io vorrei che nell’articolo che si discute e che indica, sia pure a grandi linee, le possibilità della finanza regionale, vi fosse anche qualche parola che segnasse questo concetto. Io desidererei, parlando di spese, affermare appunto la stretta necessità di esse, in modo che questo potesse anche essere constatato attraverso il vaglio della integrazione statale. Criterio che si aggiunge anche per maggiore tranquillità di non pochi contraddittori i quali in buona fede potrebbero ritenere che chissà mai quale novello caos, nella gestione amministrativa dello Stato, possa venire a sostituirsi a quello attuale che ha indiscutibile bisogno di essere fermato nella paurosa china per la quale si è incamminato. Così per le Regioni meno fornite di mezzi vi sarà anche questa remora.

Ecco un altro concetto che si riattacca a quanto ha detto il nostro collega. L’integrazione dello Stato avrà modo di intervenire e sorvegliare la finanza delle Regioni. Se lo Stato deve aggiungere quattrini, deve avere anche la facoltà e il diritto di vedere come essi si spendono. Ma vi sarà un altro più efficace controllo. Quello che nasce dalla stessa forma della nuova organizzazione, più vicina a tutti, più aperta all’esame ed alla constatazione del popolo e delle sue organizzazioni.

E, fatte queste dichiarazioni, osservo, in via di cortese replica, quanto disse l’onorevole Bernini in una delle ultime sedute. Si discuteva della istruzione artigiana. L’onorevole Bernini, a cui riconosco la competenza superiore nella materia scolastica…

Una voce al centro. Ed artigiana.

MICHELI. …parlò a questo proposito. L’onorevole Bernini (egli era stato provveditore agli studi) osservava che vi erano sotto di Lui varie scuole che costavano allo Stato parecchi quattrini, le quali avevano solo due o tre alunni; e che da ogni parte si chiedeva il concorso e l’iniziativa dello Stato per aprirne delle nuove, per modo che la Regione dovrà andare incontro e consentire spese sempre maggiori. Qui sta l’errore di previsione. Nessuna amministrazione regionale consentirà mai, come fa lo Stato, che si aprano scuole con così scarso numero di alunni. Non avremo bisogno di inviare sopra luogo ispettori per riferimenti accomodanti, giacché, conoscendo le necessità dei luoghi, sapremo noi rispondere subito a coloro che ci chiedono indebitamente. Dirò di più: nella Regione che controlla localmente non si avrà il coraggio di venire a fare certe domande che non corrispondono a necessità reali e dimostrate.

Perché si chiedono ora scuole da tutte le parti dello Stato, anche quando non ce ne è bisogno? Per una ragione semplice: perché si sa che lo Stato paga; e dallo Stato si pretende tutto. C’è questa stranissima psicologia post-bellica attraverso la quale lo Stato, che pure non ha quattrini, deve trovarli per accontentare tutti. Sembrerà difficile a molti, ma il pubblico dovrà pur cercare di modificare quella strana mentalità per la quale allo Stato si può chiedere, domandare e pretendere ogni cosa. La Regione sarà una cosa più nostra, e quanto più sarà modesta e piccola – insisto vivamente su questo – il controllo sarà maggiore, più facile e più efficace. Essa diventerà una cosa più intima e, quasi direi, l’amministrazione di una grande famiglia. Cominceremo a persuaderci che paghiamo, noi, con i nostri denari, quelli che ci caviamo di tasca nostra, ed incominceremo la nostra vita più modesta, più sorvegliata, cercando d’impedire tutte le spese non necessarie e non indispensabili. In essa il sacrificio del tributo, anche il più elevato, sarà sopportato con maggiore persuasione per la effettiva conoscenza di esso e del suo impiego. Saranno consigli provinciali ampliati i nostri parlamenti regionali. Ci conosceremo tutti, ci controlleremo gli uni con gli altri, ci apprezzeremo di più e cominceremo a formare quelle minori unità spirituali, che si affinano nel quotidiano contrasto e che porteranno nel Parlamento di domani la voce locale più preparata e meglio predisposta. Da tutte le parti d’Italia verrà un afflato di vita nuova e di nuova solidarietà. Ho detto quasi familiare e lo ripeto; e ciascuno nella nuova famiglia incomincerà a limitarsi alle spese strettamente necessarie ed a fare economia. È proprio quanto affermo nel mio emendamento.

Se ne parla ora per lo Stato perché non si sa più come fare ad andare innanzi; e lo facciamo costretti, coartati a limitarci. Ci riusciremo? Io non lo so, perché scarse sono le possibilità di resistenza dello Stato che ha perduto prestigio ed autorità e che non può più dire di no ad alcuno. Nella Regione lo diremo alto e forte tutte le volte che sarà necessario, avviando una nuova consuetudine che domani gioverà anche allo Stato, che ne uscirà rinforzato dal nuovo costume che riusciremo ad iniziare.

Fra le spese strettamente necessarie, alle quali allude il mio emendamento, sono e saranno precipue quelle degli impiegati. Occorre sapere quali competenze saranno riservate alla regione, quali saranno invece in via di esperimento da eseguire attraverso le provincie ed i comuni e come efficacemente potrà organizzarsi tutta questa nuova amministrazione. È una responsabilità che i fautori della regione a ragion veduta si assumono, dopo aver meditato e studiato, con fede sicura nella sua riuscita. E questa fede profonda abbiamo perché dobbiamo riuscire a sminuire questo formidabile castello statale, che ci toglie il respiro, eliminando in esso tutte le spese non necessarie e sono tante. Tutti lo sanno, tutti lo dicono, ma nessuno si azzarda di iniziare il taglio, faticoso e difficile, ma non impossibile.

Organizzando i reparti impiegatizi, quotidianamente sotto i controlli locali, noi incominceremo a prendere di fronte il colossale problema della burocrazia centralizzata, con qualche speranza di riuscita. Chi si adatterà a lasciare gli uffici di Roma potrà trovare nuovi impieghi presso di noi. Li attendiamo a braccia aperte e la nostra ospitalità provincialmente larga e modesta farà dimenticare le attrattive della capitale.

Oggi per lo Stato è questione di vita o di morte il risolver questa questione. Così non si va più avanti. In pochi anni gli impiegati si sono raddoppiati. Con la svalutazione della moneta lo Stato, per forza di cose, deve aumentare l’aggravio che da essi ne deriva. Di più, tutti vogliono diventare impiegati e tutti vogliono laurearsi; noi abbiamo questa elefantiasi di impiegati e di laureati. Quando stamane sentivo la discussione per i professori, dicevo: peccato che ogni giorno questi professori ci mandino una quantità di persone che noi ogni giorno più non sappiamo dove mettere ed impiegare. Ci vuole la regione che dia ancora sviluppo all’iniziativa privata e sviluppi altri traffici e prepari per essi gli operai specializzati che ora mancano. Bisogna avere il coraggio di proclamarlo ed allora tutta questa gente, invece di studiare tutto quello che tanti sapienti professori espongono, sia pure in modo mirabile, dovranno prendere altre strade. Tutti i giorni, voi lo sapete, è un assalto per avere un impiego. I petenti sono infiniti. Io ricevo dieci-dodici richieste al giorno attraverso tutte le vie più strane, perché questa è la principale preoccupazione. Come facciamo, amici miei, ad andare avanti in questo modo? che cosa succederà? Succederà che presto noi vedremo dividersi tutti i cittadini in due qualità: coloro che pagano allo Stato e coloro che dallo Stato traggono lo stipendio in corrispettivo dell’opera propria. Tutte le altre categorie verranno a scomparire ed allora avremo un’altra lotta di classe, di ben altro genere, che noi deprechiamo e che speriamo di poter eliminare attraverso questa forma nuova di organizzazione dello Stato. Ma noi dobbiamo convincerci dell’opera necessaria facendo sì che la nuova organizzazione statale sia l’affermazione vigorosa di questo proposito.

Ho finito, onorevoli colleghi: la regione dobbiamo farla; è un grande esperimento che la Repubblica fa attraverso la nuova organizzazione del nuovo regime; dobbiamo concorrere tutti a formarla convenientemente, anche voi che eravate contrari. Permettete che affermi la mia certezza che anche col vostro concorso, la regione sorgerà istituto degno e fecondo della genialità latina, che dopo tanti secoli il nostro popolo ancora conserva nel suo spirito creatore. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo ha presentato il seguente emendamento firmato anche dagli onorevoli Monterisi, Codacci Pisanelli, Quintieri Adolfo, Rapelli, Cappugi, Cassiani, Caso, Aldisio, De Maria, Franceschini, Delli Castelli Filomena, Cotellessa, Pat, Titomanlio Vittoria, Adonnino, Arcaini:

«Sostituire il terzo comma col seguente: «Allo stesso scopo, e principalmente per la valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole, saranno istituiti fondi speciali, le cui modalità di gestione e di ripartizione saranno determinate dalla legge».

L’onorevole Sullo ha facoltà di svolgerlo.

SULLO. A nome anche di altri colleghi, avevo proposto, prima che fosse presentato il nuovo testo del Comitato di coordinamento, questo emendamento, che voleva correggere qualche manchevolezza del precedente testo.

L’emendamento aveva lo scopo di affermare la necessità e non la possibilità di fondi speciali che venissero incontro alle esigenze straordinarie della regione e di affermare anche che i fini speciali a cui il progetto di Costituzione alludeva sono o, meglio, possono essere, specificatamente e principalmente, quelli della valorizzazione del Mezzogiorno e delle isole. Comprendo certamente che il Mezzogiorno non si può aiutare includendo una proposizione in un articolo della Costituzione; comprendo anche che il problema del Mezzogiorno è un problema che si può risolvere quanto meno se ne parli; ma tuttavia, poiché la seconda Sottocommissione nella sua seduta del 9 dicembre 1946 aveva approvato, ed all’unanimità, un ordine del giorno in cui si affermava la necessità di provvedere alla formulazione di un piano (sono le parole testuali) per la trasformazione delle attuali condizioni economico-sociali delle regioni meridionali ed insulari da attuare dallo Stato con provvedimenti continuativi adeguati all’urgenza della trasformazione stessa, mi premeva allora che questo ordine del giorno non rimanesse lettera morta, ma che in realtà vi fosse un impegno specifico da parte dei costituenti di oggi e della Camera successiva perché qualche cosa di concreto si facesse.

A chi esamina infatti l’articolo 113 come era congegnato prima, balza immediatamente all’attenzione il fatto che qui si parla quasi di una possibilità della istituzione di un fondo per fini speciali come un’eccezione possibile nel futuro, quasi come se la norma per il futuro fosse che la regione potesse bastare a sé stessa con la divisione automatica dei tributi. Sono andato a rileggere il verbale della seconda Sottocommissione ed ho cercato di studiare a fondo principalmente quello che l’onorevole Vanoni diceva a proposito della possibilità di attuare automaticamente una ripartizione dei fondi ai fini di una perequazione regionale, ma mi sono convinto che questo automatismo di fatto non ci potrà essere. Basterebbe osservare che l’onorevole Vanoni parlava della possibilità di ripartire, a seconda della popolazione delle varie Regioni, determinate imposte. Orbene, anche se si dovessero ripartire automaticamente determinate imposte a seconda della popolazione, vi sarebbe di fatto una sperequazione dal punto di vista della valorizzazione del Mezzogiorno e delle isole. Basterebbe pensare, per esempio, che la superficie del Piemonte, della Liguria, della Lombardia, della Venezia Tridentina, del Veneto e dell’Emilia, complessivamente presa, è di 119.000 chilometri quadrati ed ha una popolazione di 19 milioni di abitanti, mentre la Campania, la Basilicata, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna, che hanno quasi la medesima superficie o poco meno, hanno 13 milioni e mezzo di abitanti. In realtà, dobbiamo convenire con quello che l’onorevole Cartia ha detto prima, che cioè, se si vuole dare alla Regione possibilità di vita e di vita autonoma, bisogna anche sin da questo momento mettersi bene in mente che si debba venire da parte dello Stato, in una forma o nell’altra, e in una forma di perequazione regionale, in soccorso delle Regioni più povere; non dico, più socialmente arretrate ma almeno più economicamente arretrate. L’ammettere che lo Stato possa dare dei contributi o che i fondi possano venire soltanto in casi eccezionali, significa dimenticare la realtà. Ed è precisamente questo lo scopo preciso per cui ho presentato, insieme con i colleghi, questo emendamento, anche se è mutata la forma tecnica con cui lo Stato verrebbe incontro ai bisogni delle Regioni più povere.

Nell’articolo 113 si diceva che alle spese essenziali bastava la distribuzione del gettito complessivo dei tributi erariali con una determinata ripartizione. Poi, allo stesso scopo, possono essere istituiti dei fondi. Anche qui si dice: per provvedere ad altri scopi determinati lo Stato può assegnare a singole Regioni contributi speciali. Mi pare che quindi rimanga fondamentale da parte dei presentatori dell’ordine del giorno, l’esigenza, il desiderio che viene formulato dal Comitato di coordinamento, che si cambi la dizione: al posto di un «potere», si dica che ci sarà questa assegnazione; si usi un termine preciso e positivo, il quale dia assicurazione che questo avverrà normalmente.

Devo dissentire da quello che ha detto l’onorevole Micheli, in quanto, se è vero, come è vero in fatto, che le Regioni meridionali hanno avuto bisogno di larghi aiuti statali per il passato; se è vero, come è vero, che la finanza dello Stato ha dovuto venire in soccorso di queste Regioni, parlare di spese necessarie, per giunta quando il contributo va dato dallo Stato, significa dare nelle mani della burocrazia statale, che, attraverso il Governo, presenterà i disegni di legge, la possibilità di limitare automaticamente la vita di queste Regioni.

Cosa può significare spesa essenziale, spesa necessaria per la Regione? Se cominciamo a dare la possibilità di restringere l’attività della Regioni, non daremo ad esse i mezzi per una vita veramente autonoma né daremo alle Regioni dell’Italia Meridionale la possibilità di ottenere un buon impiego dei fondi dello Stato per la loro resurrezione.

Nell’Italia Meridionale si sono spesi molti milioni. Sono d’accordo con l’onorevole Corbino che questi milioni sono stati ingenti, nell’ultimo periodo, rispetto ai milioni dati precedentemente. Ma sono stati spesi per le grandi strade statali, da servire per le grandi manovre, cioè per opere che potevano essere utili soltanto per essere viste dallo straniero, ma che non portavano nessun risultato effettivamente pratico e che non creavano le condizioni fondamentali per l’industrializzazione del Mezzogiorno.

Anche adesso, quando si è parlato di lavori pubblici, a parte l’osservazione che la maggior parte delle somme spese per lavori pubblici nell’Italia Meridionale sono state spese per danni di guerra, dobbiamo citare il caso dei Ministri, che si sono poco curati dei Provveditorati ed hanno fatto le assegnazioni da Roma, ascoltando uomini ed organizzazioni, cioè ascoltando voci di elettori sparuti o di masse, ma non in vista delle necessità geoeconomiche del Mezzogiorno.

Da parte dello Stato deve esserci un contributo, in una forma o nell’altra, che sia veramente continuo e non soltanto soggetto a possibilità, come nell’articolo della Costituzione che dobbiamo approvare.

Personalmente, io non comprendo perché il Comitato di coordinamento sia tornato sulla decisione della seconda Sottocommissione; a me pare più democratico lasciare il fondo come è stato concepito da parte della seconda Sottocommissione, non come contributo.

Il Presidente di questa Assemblea, onorevole Terracini, in sede di seconda Sottocommissione, ha osservato che è più dignitosa una ripartizione attraverso un fondo del contributo che viene dato, allorché si bussa alle porte dello Stato.

Non starò a citare i molti argomenti, che sono a favore del fondo. Non voglio qui dare una dimostrazione di avere approfondito, in certo senso, questo problema, anche dal punto di vista tecnico.

Prego dunque il Presidente del Comitato di coordinamento di tenere presente che noi vorremmo questa inclusione specifica: che il contributo, che lo Stato può dare, deve essere anche, e principalmente, per la valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole. E gli amici dell’Italia e del Mezzogiorno la finiscano di dire che noi ci debilitiamo, se mettiamo questo nella Costituzione.

Oggi il Mezzogiorno, storicamente parlando, rappresenta una parte d’Italia, economicamente poco evoluta. Quando, tra cento anni, il Mezzogiorno non sarà più in questo anacronismo, noi diremo che nel 1947 il Mezzogiorno era giù e che nel 2047 non è più giù. A quella medesima maniera, vi sono tanti anacronismi nella Costituzione inglese che permangono, e permangono dei titoli di merito di quelli che sono venuti dopo. Noi meridionali adesso non dobbiamo avere quindi un senso di sfiducia e di timore, che questo possa essere per noi un segno d’inferiorità. È un segno d’inferiorità se rimarrà questo e sarà disdoro di quanti siederanno, dopo di noi, in questo Parlamento, e dei Governi che verranno dopo, se tutto questo resterà lettera morta. Lasciamo a quelli che vengono dopo e che siederanno nel Parlamento, il compito di far sì che tutto questo non resti lettera morta, e dimostriamo che comunque ci proponiamo obiettivi ben determinati e che questa formulazione può essere accolta nell’articolo 113 della Costituzione. (Applausi al centro).

Presentazione di relazioni.

PRESIDENTE. Hanno chiesto di parlare gli onorevoli Gronchi e Nitti. Ne hanno facoltà.

GRONCHI. Mi onoro di presentare all’Assemblea la relazione di maggioranza sul disegno di legge: «Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947».

NITTI. Mi onoro di presentare all’Assemblea la relazione di minoranza sullo stesso disegno di legge.

PRESIDENTE. Do atto agli onorevoli Gronchi e Nitti della presentazione di queste relazioni. Saranno stampate e distribuite.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione. L’onorevole Pignatari, insieme agli onorevoli Marinaro, Porzio, Rescigno, Caporali, Salerno, De Mercurio, Lopardi, Paolucci, Morelli Renato, ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Allo stesso scopo lo Stato integrerà i bilanci delle Regioni per le spese straordinarie, dirette a favorire lo sviluppo di quelle più sfornite di mezzi e ad eliminare lo stato d’inferiorità nel quale si trovano le Regioni del mezzogiorno».

L’onorevole Pignatari ha facoltà di svolgerlo.

PIGNATARI. Onorevoli colleghi! L’emendamento presentato da me e da altri nove colleghi è sostanzialmente simile a quello presentato e testé discusso dall’onorevole Sullo, onde potrei limitarmi a richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla grave ed angosciosa situazione in cui si trova il Mezzogiorno della cui sorte tutti i partiti, durante la campagna elettorale, si sono mostrati pensosi, ma che è stato del tutto dimenticato nella formulazione del nostro nuovo Statuto. Il problema meridionale ha tale importanza ed ha tale rilevanza che il proposito di volerlo risolvere deve essere un impegno della nuova Carta costituzionale.

L’onorevole Bertone ci ha fornito dati molto interessanti, ma, a parte i rilievi che sono stati già fatti, essi avrebbero avuto bisogno di una maggiore specificazione, perché i miliardi che sono stati spesi dopo il 1919 indubbiamente non hanno il valore di quelli che sono stati spesi prima della grande guerra. Se pur è vero che nel Mezzogiorno d’Italia si è speso più che nel nord, nessuno potrà negare che ci troviamo in una situazione di paurosa inferiorità di fronte alle regioni più progredite d’Italia. Si è affermato che per le nostre strade si è speso più di quanto non sia stato speso per le strade dell’Italia settentrionale, ma è un fatto certo ed incontrovertibile che le vie di comunicazione tra comune e comune e tra provincia e provincia sono in pessime condizioni e ci sono paesi non ancora allacciati da strade rotabili. Viaggiare poi nelle nostre ferrovie è quanto di più penoso ed umiliante si possa immaginare. Carlo Levi ha scritto che Cristo si è fermato ad Eboli: avrebbe dovuto farlo fermare alla stazione precedente, cioè a Battipaglia. Oltre Battipaglia si arresta ogni forma di progresso e si viaggia ancora come si viaggiava subito dopo l’armistizio.

Ma non vi è bisogno di riandare al passato: le condizioni d’inferiorità nelle quali si trovano la Lucania, il Napoletano, la Calabria, le Puglie, gli Abruzzi, la Sardegna e la Sicilia sono una dolorosa realtà e non è possibile che il nuovo Statuto ad ordinamento regionale non tenga presente la necessità di un adeguamento fra le condizioni delle regioni più povere e quelle delle regioni più favorite. Vi è bisogno dì questo adeguamento e se l’Assemblea Costituente non prende oggi il solenne impegno di venire incontro ai bisogni delle povere regioni meridionali, sarà impossibile nel futuro risolvere quei problemi cui è condizionato il progresso e la stessa vita delle su popolazioni.

Se l’onorevole Rubilli avesse presentato il suo ordine del giorno alla fine della discussione sull’ordinamento regionale, dopo che nel suo corso tante difficoltà sono venute in luce, credo che ben diversa ne sarebbe stata la sorte.

I miei amici e colleghi onorevoli Zotta e Sullo, che con tanto entusiasmo avevano sostenuto l’ordinamento regionale durante la discussione generale, hanno dimostrato oggi la loro perplessità e nella loro perplessità si riverbera il timore delle popolazioni meridionali, perché nel nostro Mezzogiorno si guarda con un senso di diffidenza e di sconforto al nuovo ordinamento regionale, acuito dal fatto che nel progetto della nuova Carta costituzionale non vi è una sola parola che impegni il legislatore ad affrontare il problema meridionale.

Le regioni meridionali non hanno i mezzi per superare lo stato di marasma e di abbandono in cui si trovano. La nuova Carta costituzionale deve impegnare le future Assemblee legislative alla valorizzazione del Mezzogiorno, fornendo i mezzi che devono servire per gli impegni e le spese straordinarie come si propone nel mio emendamento ed in quello dell’onorevole Sullo.

L’onorevole Micheli vorrebbe limitare l’integrazione dello Stato alle spese strettamente necessarie, ma questa limitazione non può essere accolta, perché stroncherebbe l’avvenire dell’Italia meridionale che è strettamente legato alla sua industrializzazione. Il Mezzogiorno soffre di tutti i mali del sistema capitalistico senza averne i vantaggi ed una delle cause delle condizioni arretrate in cui si trova è costituita dalla esagerata pressione fiscale, imposta dopo l’unificazione. Queste condizioni oggi si aggravano. Il Mezzogiorno non può, con i suoi mezzi, affrontare e risolvere i suoi problemi. Una esigenza di giustizia sociale impone che lo Stato venga incontro al Mezzogiorno. Non dimentichiamo che l’egoismo è molte volte la molla delle azioni umane e degli aggregati sociali. Le regioni ricche non verranno spontaneamente incontro alle necessità dì vita e di sviluppo delle regioni povere del Mezzogiorno.

La seconda Sottocommissione aveva, col suo ordine del giorno, preso impegno per la risoluzione della questione meridionale; con l’emendamento Sullo e con il mio noi intendiamo che la Costituente impegni il futuro legislatore a voler considerare il problema meridionale come un problema nazionale, perché solo favorendo lo sviluppo ed eliminando lo stato d’inferiorità delle sue regioni, si potranno allontanare i pericoli cui va incontro il nostro Paese con l’adozione dell’ordinamento regionale.

PRESIDENTE. Segue un emendamento dell’onorevole Codignola:

«Fare del quinto comma un articolo a sé del seguente tenore:

«Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione o di transito fra l’una e l’altra Regione; né prendersi provvedimenti che mirino comunque alla creazione di privilegi in favore di una o più Regioni a danno di altre o della generalità dei cittadini. L’unità dell’economia nazionale ed internazionale e la libera circolazione delle persone, del lavoro e dei beni non troveranno ostacolo nell’ordinamento autonomistico dello Stato».

In assenza dell’onorevole Codignola, l’onorevole Foa dichiara di farlo proprio. Ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Posso dire soltanto, onorevole Presidente, che questa materia è già così istruita che bastano poche parole per illustrare questo emendamento. Noi riteniamo che sia opportuno di sottolineare con particolare rilievo e solennità il principio dell’unità economica nazionale e dell’avviamento verso la cooperazione e l’unità economica internazionale.

Per questa ragione l’emendamento propone che il quinto comma del testo formi un articolo a sé, e porta anche qualche elemento di variazione, in questo senso: che noi crediamo convenga di specificare maggiormente i limiti delle iniziative regionali in materia finanziaria. Non è sufficiente stabilire il divieto dei dazi di importazione, di esportazione e di transito ed il principio generale che vieta la limitazione della libertà di movimento delle persone e delle cose. L’inventività umana, in materia di interessi economici, è così grande, che indubbiamente possono ricorrere casi per cui, senza cadere nell’ipotesi dei dazi di importazione, esportazione e transito o di provvedimenti che formalmente pongano ostacoli al movimento delle persone e delle cose, occorra adottare provvedimenti che creino delle zone di interessi preferenziali.

Ora, noi crediamo che la Costituzione debba sancire il principio di salvaguardare l’unità economica statale e far decadere provvedimenti che possano rompere questo principio.

PRESIDENTE. Segue un emendamento degli onorevoli Nobile, Porzio, Di Gloria, Persico, Bernini, Veroni, Morelli Renato, Gasparotto, Lami Starnuti, Corsi, Finocchiaro Aprile, Giannini, Massini, così formulato:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«La Regione non può in alcun modo limitare il diritto dei cittadini ad esercitare, in qualunque parte del territorio nazionale paia ad essi conveniente, la loro arte, professione o mestiere».

L’onorevole Nobile ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. L’emendamento che abbiamo presentato stabilisce il principio che ogni cittadino della Repubblica ha il diritto di esercitare la propria professione, il proprio mestiere o la propria arte dovunque gli aggrada, in qualsiasi Regione. Un emendamento analogo fu già da me presentato quando si discusse l’articolo 31, e portava la firma di autorevoli colleghi, di vari settori dell’Assemblea, dall’onorevole Corbino all’onorevole Di Vittorio, ma esso allora fu per pochi voti respinto, nonostante che, in mia assenza, l’emendamento fosse stato fatto proprio dall’onorevole Einaudi.

L’emendamento viene ora riproposto in questa sede, appoggiato anche questa volta da autorevoli deputati di sinistra e di destra.

L’emendamento si ricollega all’ultimo comma del testo proposto dal Comitato, il quale suona così: «Non possono istituirsi dazi d’importazione, di esportazione o di transito tra l’una e l’altra regione, né prendere provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose».

È evidente, secondo me, che, se si è sentito il bisogno di prendere cautele contro la possibilità che una Regione stabilisca dazi di importazione e di esportazione o impedisca, perfino, la libera circolazione delle persone, a maggior ragione bisogna preoccuparsi del pericolo che una Regione possa in qualche modo limitare il diritto dei cittadini della Repubblica di esercitare la propria attività di lavoro dovunque ad essi piaccia.

Che questo pericolo non sia molto improbabile è dimostrato da quanto già oggi avviene. Già oggi, come ebbi occasione altra volta di accennare all’Assemblea, avviene che in qualche regione d’Italia – e mi riferisco in particolare al Trentino e all’Alto Adige – i professionisti del Mezzogiorno siano, in un modo e nell’altro, costretti ad allontanarsi, pur avendo essi per molti anni onorevolmente esercitato in quella regione la propria professione.

Con precedenti di questo genere, non vi sarebbe da meravigliarsi che altre Regioni possano essere tentate di seguire il deplorevole esempio. La tentazione sarebbe tanto più facile, a mio avviso, in quanto inevitabilmente con l’ordinamento regionale si riacutiranno gli egoismi delle varie regioni. Se non si stabilisce un principio chiaro e preciso che lo impedisca, non sarei sorpreso se un giorno dovessi apprendere che nel Veneto, ad esempio, si è votata una legge che vieta ad un calabrese di esercitare in quella regione la sua professione di medico; e che per ritorsione in Calabria si vieta ad un ingegnere veneto di esercitare la propria professione.

Contro questo pericolo grave bisogna premunirsi. Se non vogliamo che l’ordinamento regionale sia un incentivo alla disunione degli italiani, nel momento in cui essi dovrebbero più che mai essere uniti, dobbiamo stabilire nella Costituzione un principio che impedisca un’aberrazione di tal genere. Se la Commissione dei Settantacinque ha sentito il bisogno di sancire che nessuna Regione può istituire dazi di importazione e di esportazione e vincolare in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose, io – e con me i colleghi che han firmato l’emendamento – sentiamo il bisogno che sia esplicitamente affermato che altrettanto libero deve essere l’esercizio del proprio mestiere, della propria professione, della propria arte.

PRESIDENTE. L’onorevole Romano aveva presentato la seguente proposta di articolo aggiuntivo:

Art. 113-bis.

«Per portare su un piano di uguaglianza le Regioni del Mezzogiorno, della Sicilia e della Sardegna, lo Stato provvederà con i tributi erariali, nei modi e nel tempo che la legge stabilirà, alla costruzione in dette Regioni di opere pubbliche ed alla creazione di servizi di interesse pubblico, pur se compresi tra le materie di competenza della Regione, ed in concorso con l’attività regionale, fino ad eliminare lo stato di inferiorità nel quale oggi si trovano le Regioni meridionali».

Successivamente ha dichiarato di trasformarlo in emendamento aggiuntivo al terzo comma dell’articolo 113.

L’onorevole Romano ha facoltà di illustrare il suo emendamento.

ROMANO. L’articolo aggiuntivo da me proposto, e che sono stato costretto a ridurre in emendamento all’articolo 113, mira a impostare nella Carta costituzionale la questione del Mezzogiorno, che non è solo questione meridionale, ma è anche questione italiana.

Io avrei desiderato che questo argomenta avesse trovato il suo posto in un articolo a sé stante; e infatti depositai molto tempo addietro questo articolo aggiuntivo. Ma successivamente ho notato che la stessa oggettività di questo articolo aggiuntivo è stata compresa sotto i due emendamenti proposti dagli onorevoli Sullo e Pignatari; anzi l’emendamento dell’onorevole Pignatari termina proprio con le stesse parole con le quali termina il mio articolo aggiuntivo, anteriormente depositato.

Dico questo per giustificare il perché sono stato costretto a trasformare questo articolo aggiuntivo in emendamento ed anche per rivendicare la priorità dell’iniziativa.

Indubbiamente il Titolo quinto della Carta costituzionale presenta una lacuna, se non sarà approvato dall’Assemblea l’emendamento relativo all’obbligo dello Stato di riparare con il ricavato di tributi erariali le ingiustizie subite dal Mezzogiorno.

Il Titolo quinto del nuovo Statuto porterà ad una trasformazione dell’ordinamento dello Stato ed è giusto che in questa trasformazione si tenga conto della annosa e vessata questione meridionale; è giusto che una norma sia dedicata a questo argomento, altrimenti non potrebbe sperarsi di tranquillizzare il Mezzogiorno, la Sicilia e la Sardegna.

E penso che di questo mio emendamento non si possa fare a meno ripetendo ancora oggi le stesse argomentazioni che si sono ripetute negli 80 anni della nostra unità nazionale, considerando il Mezzogiorno come un peso morto. Si sono ripetute in quest’Aula, da parte di alcuni colleghi, cifre riguardanti gli incassi ed i pagamenti del Tesoro nelle diverse Regioni d’Italia che risalgono all’epoca che va dal 1° luglio 1945 al 31 marzo 1946. Si è detto che per la Sicilia gli incassi sono stati di 4 miliardi e 479 milioni, che i pagamenti sono stati invece di 10 miliardi e 493 milioni e che il supero dei pagamenti sugli incassi è stato di 6 miliardi circa.

Altri disavanzi sono stati messi in rilievo per altre Regioni, affermandosi che soltanto per la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, l’Emilia e la Liguria vi è stato un supero dei pagamenti sugli incassi. Ora, debbo innanzi tutto osservare che queste cifre si riferiscono ad un periodo eccezionale; ma se per l’ipotesi il supero dei pagamenti sugli incassi fosse stato un fatto costante anteriormente al 1943 e questo ancora perdurasse, ciò ammettendo, si riconoscerebbe la necessità della integrazione statale per i bilanci delle Regioni del Sud.

Non posso poi essere d’accordo con i colleghi onorevoli Gullo e Bertone, per i quali nel Mezzogiorno sarebbe stato speso male il danaro ricevuto. Prima di affermare ciò bisogna guardare l’economia del Mezzogiorno con un criterio realistico, prenderla in esame nel suo complesso, tenendo conto del suo sviluppo storico.

Per rendersi conto della economia del Mezzogiorno, bisogna tenere presenti tutti gli spostamenti di capitali che il Mezzogiorno ha subito negli 80 anni della nostra unità. Non dobbiamo mai dimenticare, quando si fanno discorsi di tal natura, che dal 1910 le forniture militari succhiano buona parte del bilancio del Paese; noi siamo passati attraverso una serie quasi ininterrotta di guerre: la guerra libica, la prima guerra mondiale, l’intervento nella Spagna, la spedizione in Albania, la guerra di Etiopia, la seconda guerra mondiale. Che cosa significano tutte queste guerre? Tutte queste guerre significano forniture militari; e tutte queste forniture militari venivano contrattate e stipulate nel Nord d’Italia, e venivano poi pagate anche dai contribuenti del Mezzogiorno.

Non deve quindi far meraviglia se il gettito della ricchezza mobile si appalesa maggiore nel Nord, perché la sperequazione è dovuta appunto a tali spostamenti di capitali ed ai conseguenti maggiori guadagni degli industriali del Nord. Ma gli spostamenti di capitale non sono dipesi soltanto da questo; altre cause vi hanno contribuito, come la permanenza di un esercito di più milioni di uomini per oltre quattro anni tra le Alpi e l’Appennino settentrionale.

Lo spostamento è dipeso anche dalla cosiddetta economia controllata solo in parte, perché questa economia parzialmente controllata è stata deleteria per il Mezzogiorno. L’agricoltore del Mezzogiorno ha dovuto portare agli ammassi il grano e l’olio ad un prezzo inferiore al costo, ed acquistare poi sul mercato libero i manufatti a prezzi arbitrariamente fissati dagli industriali del Nord.

Il Sud ha subìto tutto ciò silenziosamente, ma ha dato in tutti i tempi il suo valido contributo al bilancio nazionale, facendo affluire moneta pregiata con i prodotti agricoli esportati all’estero e con l’emigrazione. Prima del fascismo gli emigrati del Sud facevano affluire annualmente in Italia 600 milioni oro, ed anche quest’anno la sola Sicilia ha esportato dai trenta ai quaranta miliardi di agrumi andati in Francia, in Inghilterra, che ci hanno pagato in valuta pregiata, in Cecoslovacchia che ci ha dato il carbone, in Norvegia che ci ha mandato il baccalà.

Questo affluire di moneta pregiata è servito per l’acquisto all’estero della materia prima necessaria per le industrie del Nord.

L’onorevole Bertone ha detto che si è speso parecchio per il Mezzogiorno, ma che egli purtroppo non sa spiegarsi come poche opere si siano compiute. Egli ha portato al nostro esame dei dati statistici al riguardo: ebbene, ho anch’io dei dati statistici da portarvi e su di essi vorrò intrattenervi facendo brevi considerazioni. Stando ai dati statistici più attendibili, risulta che nell’Italia settentrionale, su ogni 100 mila abitanti, esistono 333 scuole elementari, mentre nell’Italia meridionale non ne esistono che 224. Ora, se le scuole non sono state istituite, non si può dire che il danaro sia stato speso male.

Ebbene, a questa situazione il Meridione ha reagito, tanto vero che, mentre nel Settentrione ogni scuola è popolata in media da 25 alunni, nel Mezzogiorno la popolazione scolastica si aggira in media sui trenta alunni per ogni scuola.

Una voce a sinistra. Teoricamente.

ROMANO. La media è questa; poi mi potrà contraddire. E la gravità dell’analfabetismo dipende appunto da questo; infatti nel Centro-Nord gli analfabeti non raggiungono il 20 per cento; in alcune regioni del Sud, purtroppo, abbiamo ancora il 40 per cento di analfabeti.

Altro dato statistico: dal 1928 al 1938 sono stati sussidiati 552 acquedotti, per un percorso di duemila chilometri; ebbene di questi 552 acquedotti, 505, per una lunghezza di 1900 chilometri sono stati fatti nel Centro-Nord e solo 52, per un percorso di un centinaio di chilometri in tutto il Mezzogiorno d’Italia; in Sicilia quasi nulla.

Deve poi considerarsi ancora che mentre nel Centro-Nord, su ogni cento comuni solo 18 non hanno telefono, nel Mezzogiorno d’Italia il cinquanta per cento dei Comuni sono senza telefono. Questo non significa denaro speso male; non si è fatto, quindi non è vero che il Mezzogiorno non ha saputo spendere il denaro ricevuto dallo Stato. Prima di fare queste gratuite affermazioni, bisogna consultare le statistiche e venire qua con dei dati rispondenti a verità.

Veniamo alle ferrovie: in Italia abbiamo 16.500 chilometri di ferrovie, ossia 375 chilometri per ogni milione di abitanti; ebbene, la distribuzione è la seguente: nel Centro-Nord 11.600 chilometri, nel Sud 4900. Se la dislocazione fosse stata fatta in base ai 29 milioni di abitanti del Centro-Nord ed ai 15 milioni del Mezzogiorno avremmo dovuto avere 10.875 chilometri di ferrovie al Centro-Nord e 5620 al Sud. Dunque in proporzione il Mezzogiorno ha 725 chilometri di strade ferrate in meno, vale a dire un percorso come da Roma a Messina.

Voci. È vero!

PRESIDENTE. Onorevole Romano, la prego di stare all’emendamento.

ROMANO. Ho cominciato appena: sono cinque minuti.

PRESIDENTE, Sono dieci minuti. Volevo dirle solo questo: volere svolgere la questione meridionale nell’ambito di un emendamento, significa soffocarla e sminuirla. Resti, la prego, alla questione del suo emendamento.

ROMANO. Ma esso tratta appunto della questione meridionale. Onorevole Presidente, la Carta costituzionale – diceva Gaetano Filangieri – è un contratto che un popolo stipula con se stesso. Ora se questo contratto si deve stipulare, è giusto che le parti contraenti si trovino su un piede di eguaglianza.

PRESIDENTE. Anche in un contratto, vi sono i singoli capitoli che si riferiscono alle diverse questioni. Le ricordo che lei deve svolgere un emendamento all’articolo 113 della Costituzione.

ROMANO. Onorevole Presidente, il mio emendamento…

PRESIDENTE. L’ho letto molto attentamente. Ma lei non può trattare la questione meridionale in sede di un emendamento.

ROMANO. È la questione meridionale che è inserita in questo emendamento. Abbiamo perduto questi pochi minuti… mentre avrei potuto continuare a parlare.

PRESIDENTE. Riprenda, onorevole Romano, e tenga presente che sono più di dieci minuti che lei sta parlando.

ROMANO. L’Italia del Sud ha appena un terzo delle ferrovie elettrificate del Nord ed appena un sesto delle ferrovie a doppio binario esistenti nel Nord. La Sicilia non ha nessun tronco ferroviario elettrificato.

Mentre nel Nord le ferrovie sono quasi tutte a scartamento ordinario, quelle del Sud a scartamento ridotto sono tre o quattro volte quelle del Nord.

Uguale disparità di trattamento è da notarsi per i sussidi erogati per opere di irrigazione dal 1922 al 1938.

Anche nell’applicazione della legge Serpieri solo poco di quello che è stato speso è stato destinato al Mezzogiorno, e la legge Serpieri mirava al rimboschimento del Mezzogiorno.

Tutte queste ingiustizie sono state causate dalla dittatura fiscale, che ha subito il Mezzogiorno. Così la Campania, la Calabria, la Sicilia, che prima rappresentavano la ricchezza maggiore della penisola, si sono ridotte le più povere d’Italia. E questo non è avvenuto nel corso di secoli, perché ancora al principio dell’unità d’Italia la sola parte d’Italia che rivaleggiasse col Lombardo-Veneto era il Regno delle due Sicilie.

Ora, andando in vigore la Carta costituzionale senza una norma che prenda in esame la questione meridionale, indubbiamente noi ci troveremo sempre in uno stato di inferiorità, che ci umilia e ci offende, giacché le Regioni dovrebbero incominciare a far affidamento esclusivamente sulle proprie risorse; in tal maniera, date le condizioni di povertà, le regioni del Mezzogiorno sarebbero costrette a camminare indietro di un secolo alle regioni del Nord. E questo non è giusto.

Così giammai si raggiungerebbe quella parità economica, che costituisce la migliore forza unitaria.

Il comma secondo dell’articolo 113 prevede la ripartizione del gettito complessivo dei tributi erariali in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali.

Questa disposizione non può sodisfare la legittima aspettativa del Mezzogiorno, che d’altra parte non chiede un trattamento di favore, ma solo delle riparazioni alle ingiustizie subite.

Non accettando l’emendamento proposto ed attuandosi l’autonomia regionale, cesserebbe sì la dittatura fiscale, le regioni del Mezzogiorno potrebbero cominciare a fare affidamento sulle proprie risorse senza la preoccupazione di disparità di trattamento, ma la questione meridionale rimarrebbe insoluta.

Ho sentito anche l’emendamento dell’onorevole Micheli, il quale ha parlato di «spese strettamente necessarie».

Quasi si sente l’egoismo, la Regione che si chiude in se stessa e guarda alle altre Regioni con diffidenza, come se le più abbienti dicessero alle Regioni meno abbienti: «Vi soccorreremo solo se dimostrerete di non poter vivere».

Ora questo non è umano! Se noi siamo in uno stato d’inferiorità per tutte le ingiustizie che abbiamo subite, abbiamo bisogno di fissare in questa Carta costituzionale una norma alla quale si dovranno attenere i legislatori futuri, alla quale si dovranno uniformare quelli che qui ci seguiranno.

E così, anche l’emendamento proposto dall’onorevole Zotta è troppo generico. Egli ha voluto manifestare la preoccupazione che nella Carta costituzionale si parli del Mezzogiorno.

A suo avviso bisognerebbe non parlarne per non umiliare il Mezzogiorno. Invece è giusto che se ne parli. Se è una questione che ancora esiste e che ancora tormenta il nostro Paese, perché non dobbiamo farne parola? Riconoscendo lo stato d’inferiorità, dobbiamo affermare in questa legge suprema che intendiamo riparare tutti gli errori del passato. La questione del Mezzogiorno non deve più servire come ritornello di tutti i programmi governativi, non deve più servire come propaganda elettorale dei vari partiti.

Onorevoli colleghi! La vera Costituzione si avrà solo quando noi dimostreremo di sapere consegnare ai nostri figli non più due Italie come esistono oggi, non più due Italie che si guardano quasi con certa diffidenza, ma un’Italia sola, unita su un piano di eguaglianza, un’Italia che marci costantemente sulle vie del progresso civile nel suo eterno divenire. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Dugoni, unitamente agli onorevoli Malagugini, De Michelis, Ghislandi, Merlin Lina, Pieri, Mariani, Costa e Stampacchia, ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire l’articolo 113 col seguente:

«Alle regioni sono assegnati per legge tributi propri e quote di tributi statali determinati in modo da garantire l’adempimento delle loro funzioni essenziali.

«Se ed in quanto necessario, lo Stato potrà attribuire a singole Regioni la facoltà di applicare tributi speciali ed inoltre potrà provvedere all’integrazione del loro bilancio.

«Non possono istituirsi dazi d’importazione, d’esportazione o di transito fra l’una e l’altra Regione, né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose».

Ha chiesto di parlare l’onorevole Targetti. Ne ha facoltà.

TARGETTI. A nome dei firmatari dell’emendamento, dichiaro di mantenerlo, rinunziando a svolgerlo.

PRESIDENTE. Vi è infine un emendamento dell’onorevole Mortati, il quale propone di sostituire, al terzo comma del testo della Commissione, le parole «lo Stato può assegnare» con le altre «le leggi della Repubblica possono assegnare».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Accettato.

NITTI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Le proposte che avevo fatto, credevo che non fossero materia di discussione perché rispondono ad evidente necessità. Avevo detto nell’emendamento che «con legge della Repubblica sarà stabilito il regime tributario delle Regioni, delle Province e dei Comuni».

Questa è cosa su cui dovrebbe esser facile mettersi d’accordo. Bisognerà pure assegnare alle Regioni, alle Province, ed ai Comuni le imposte di cui hanno bisogno e perché l’una non sia contro l’altra, avevo trovato questa formula semplice a cui pareva accedesse anche il relatore. Su questa questione è venuta una serie di discussioni che erano estranee alla mia proposta; e anzitutto l’onorevole Bertone ha creduto, insieme con altri, di fare una serie di dissertazioni sul nord ed il sud e sul contributo di ciascuna regione. Tutto ciò è estraneo all’argomento della regione e quanto è stato detto si basa su equivoci e anche su errori che intendo di respingere fin da ora. È un argomento che studio da cinquanta anni e sul quale ho scritto opera fondamentale e mi è capitato di ascoltare con sorpresa improvvisazioni senza fondamento del contributo attuale di ogni provincia alle entrate e alle spese dello Stato. Non rilevo le inesattezze dell’onorevole Bertone, ma la sua stessa tesi fondamentale non ha base.

L’onorevole Bertone invece di parlare del regime di finanza locale da adottare da ora in poi sulla base dei nuovi ordinamenti che si vogliono attuare, si è abbandonato a una serie di confronti fra spese e entrate di ogni provincia traendone motivo di conclusione errata. Tutto questo è un po’ aereo e non entra nella discussione. In questa materia vi è un equivoco e un volontario equivoco.

Con l’evidente intenzione di dimostrare che non solo il sud non è stato sacrificato nei suoi interessi, ma gode di un regime privilegiato, ha presentato per varie province una lista delle entrate e delle spese dello Stato. Risulterebbe dunque, che le spese superano notevolmente le entrate proprio in alcune province del Mezzogiorno. E da ciò vorrebbe andare alla conseguenza che è l’Italia meridionale che si è avvantaggiata del regime.

In una grossa opera sulla storia del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, cioè di un quarto di secolo, io feci questo calcolo solo per dimostrare che in conseguenza del regime unitario l’Italia meridionale e le isole perdettero gran parte delle loro risorse, che vi fu drenaggio di capitali dal sud al nord e che il regime doganale obbligò l’Italia meridionale dopo la caduta delle sue industrie principali a funzionare come colonia di consumo della Italia del nord. Queste cose non sono mai state smentite e né meno rettificate. Dimostrai allora che anche le spese dello Stato erano state in grandissima parte a vantaggio dell’Italia del Nord: dove tutte le grandi istituzioni dello Stato erano tutte concentrate.

Ardente unitario e convinto che l’Italia non può svilupparsi, né progredire se non soffocando ogni forma di particolarismo, vedo con terrore che purtroppo il particolarismo risorge con l’equivoco delle regioni, che è la negazione dell’opera di Cavour e del 1860, come è anche sotto altra forma la negazione del 1870.

Cavour, che fu uomo politico di genio, contribuì a diffondere pregiudizi che più nocquero al Mezzogiorno. Credeva che l’Italia meridionale fosse naturalmente molto fertile e che solo la incuria dei governi e la inattività degli uomini l’avessero ostacolata nei suoi progressi. Esagerava le idee dei patrioti italiani esuli a Torino, che per ragione di lotta volevano far cadere sul regime borbonico la responsabilità di tutte le sventure del loro paese.

Cavour non conosceva l’Italia, non l’aveva mai vista; non conosceva che due città italiane: Torino e Genova. Non aveva visto, io credo, altro. E quando nel 1861, compiuta l’unità, la base della unità italiana, egli accompagnò il re a Firenze, vide per la prima volta una città italiana fuori del regno sardo; non vide mai nella sua vita Roma, non vide Napoli: non vide mai veramente l’Italia. Egli fu l’uomo del genio: l’intuizione prima ancora dell’osservazione. Come Balzac descrive tutte le società che non aveva viste, così Cavour creò l’Italia che non vide mai. Questo uomo singolare capì tanti problemi dell’Italia; non poteva comprendere le cose che noi discutiamo ora: la diversa struttura delle varie parti d’Italia e da che cosa dipendesse la diversità delle situazioni economiche. L’Italia che egli non conobbe, era la maggior parte, essendo vissuto da prima in Isvizzera poi in Inghilterra; e non parlava nemmeno l’italiano sufficientemente e con precisione. (Nei primi tempi, quando tornò, i suoi discorsi furono sempre pronunciati in lingua francese, tanta poca pratica aveva dell’italiano). Ma si sbagliò sull’Italia meridionale, perché credette sulla testimonianza dei patrioti meridionali. Egli credette a tutte le accuse al regime borbonico, e siccome i combattenti per la libertà accusavano il Governo borbonico di aver depresso sempre l’Italia meridionale, egli ripetette le stesse cose. Parlò del disordine della finanza del regno delle due Sicilie e ripetette anche sulla Tesoreria e sul sistema di amministrazione delle due Sicilie tutti gli errori allora in voga. Deciso a mutare la tesoreria borbonica, mandò a Napoli, per rendersi conto del disordine napoletano e meridionale, un consigliere della Corte dei Conti che passava come una grande competenza, il cavaliere Sacchi, perché vedesse che cosa era il regime finanziario meridionale che gli avevano descritto. Quando il Sacchi arrivò, studiò il problema, fece una relazione che era il contrario di ciò che Cavour attendeva. Disse che la Tesoreria era semplice e ben ordinata; non solo non bisognava abolire il sistema tributario, ma bisogna imitarlo. Questa constatazione dette a Cavour la prima sensazione che vi era qualche cosa di diverso da ciò che gli avevano detto e da ciò che egli pensava.

Dopo il 1862 venne l’unificazione tributaria. Quali effetti ebbe? Io ho scritto lungamente di ciò e ho dimostrato che insieme alla caduta della economia industriale del Mezzogiorno, venne un lungo e continuo drenaggio di capitali dal sud al nord. L’Italia meridionale per gli ordinamenti adottati fu sottoposta per necessità, in gran parte, a un regime che la privò delle migliori sue risorse. L’Italia meridionale aveva fabbriche importanti: era stato il primo paese d’Italia che aveva introdotto le ferrovie; era stato il primo paese che aveva sviluppato l’industria del ferro. Ebbene, con l’ordinamento doganale, col fatto che l’Italia del nord era così vicina al confine e poteva valersi di capitali e di dirigenti francesi e svizzeri (e dopo anche tedeschi), si determinò una situazione per cui gran parte delle industrie meridionali caddero l’una dopo l’altra. Quindi, il sacrificio che fece l’Italia meridionale non fu soltanto finanziario: fu che tutto l’ordinamento dello Stato si orientò a danno del Mezzogiorno. E fu effetto di mala volontà.

Io ho ripetuto tante volte anche in «Nord e Sud», che sono ardente unitario, che non mi dolgo dei sacrifizi e del danno del mio paese e che sacrificherei tutto per un’Italia libera unita e solidale nell’azione economica. Ora, dunque, il male dell’Italia meridionale fu in questo speciale ordinamento: una dopo l’altra caddero tutte le forze dell’economia meridionale.

Ho avuto sempre, appunto perché ardente unitario, sentimenti e parole cordiali per l’Italia del nord. Sono convinto che negli anni terribili che seguiranno dobbiamo ora sopra tutto essere uniti e perciò detesto la politica delle regioni e il regionalismo che sono pericolo di rovina. Anche economicamente, l’Italia deve contare, sopra tutto, su se stessa. Essa deve essere il suo più grande e solido mercato. L’Italia del sud ha il suo migliore mercato nel nord; ed è sopra tutto l’Italia del nord che ama il mercato del sud.

L’industria del nord non potette formarsi in principio, alla origine, che col sacrifizio dell’Italia meridionale. È evidente che l’Italia settentrionale doveva produrre a costi elevati nelle sue industrie alla origine del loro primo sviluppo. L’industria cotoniera, sorta con capitali svizzeri e tedeschi, si sviluppò con il sacrificio dell’Italia meridionale. Essa dovette comperare sul mercato del nord. Il protezionismo industriale del nord fu a spese del sud che rese per parecchio tempo economica una produzione antieconomica.

L’industria del cotone italiana, che è stata ed è la più importante, non poteva sorgere senza il sacrificio dell’Italia meridionale. Noi siamo stati la grande colonia. L’Italia meridionale e le isole con i loro abitanti, più numerosi che due grandi dominions britannici, sono state per l’Italia del nord industriale una colonia sicura.

Il doppio di abitanti del Canadà, o il Canadà e l’Australia uniti assieme, non hanno avuto libertà di mercato: han dovuto comperare secondo le esigenze e, vorrei dire, le imposizioni del regime doganale. Non facciamo dunque piccoli calcoli e ridicoli. Non indaghiamo, in questo periodo di disordine, quanto lo Stato incassa e quanto spende in ciascuna provincia. Ho fatto calcoli in passato, ma per dimostrare soltanto quello che si diceva cinquant’anni fa. Si diceva cioè che l’Italia del nord desse le sue risorse per la vita economica ed industriale dell’Italia del sud. Io ho dimostrato che non era vero e che anche le entrate dello Stato andavano in gran parte a beneficio dell’Italia del nord. Anche per la distribuzione di tutti gli istituti pubblici, non solo politici, ma di tutti gli istituti economici e di cultura. Fu, come ho detto, risultato di condizioni storiche, effetto di necessità e non effetto di maggiori attitudini e né meno di malvolenza. L’Italia meridionale non deve dolersi di aver sacrificato le sue industrie che caddero l’una dopo l’altra a beneficio del nord, anche se questo fu causa di depressione. L’Italia meridionale compì un grande sacrificio ignorato e di cui essa stessa non si rese conto sufficientemente, perché fu risultato di adattamento che parve di necessità. La inferiorità economica del Mezzogiorno parve, a chi nulla conosceva dei termini del problema, inferiorità di situazione e per l’agricoltura difficoltà della natura.

Mi duole che non sia presente l’onorevole Bertone che dice che le cifre non hanno importanza. Permettete che io vi dica che mi dolgo quando in un momento come questo sento che si comincia a parlare di conti malinconici fra le varie province e della parte di ciascuna nel dare e nell’avere. Ma quando in una famiglia in completo disordine si cominciano a far conti, in generale anche erronei, vuol dire che si rompono i rapporti di solidarietà e che l’unità è minacciata.

Purtroppo l’Italia traversa anche e sopra tutto dal punto di vista economico situazione minacciosa. Dobbiamo ora tener conto nei limiti del possibile dei bisogni di ciascuno e anche delle difficoltà di appagarli. Dobbiamo tener conto della situazione reale. Vi prego dunque di considerare se in tutti in provvedimenti che dovremo prendere quando il Mezzogiorno non può bastare a sé stesso, l’azione di Stato (nei limiti di una situazione finanziaria minacciosa) si renda conto di questo e delle sofferenze e dei bisogni delle varie parti d’Italia. Questa è la fede e il desiderio dei nostri amici ed anche la mia; ma tutto questo deve avvenire in uno spirito di unità, senza diffidenze. Occorre spirito di unione: solo così l’Italia si salverà. I nostri partiti sono in gran parte scomparsi dinanzi ai pericoli che ci sovrastano. Sono effetto di fazioni ed è la fazione che soffoca la nazione e deve scomparire.

Io ho chiesto la parola per fatto personale, perché l’onorevole Bertone ha portato la discussione in campo estraneo, dove non doveva essere.

L’emendamento da me presentato aveva un fine preciso: indicare soltanto come devono essere regolati i rapporti finanziari degli enti, che sono al disotto dello Stato: cioè regioni, province e comuni; e come devono essere ordinate le loro finanze, perché l’uno non intervenga nel campo dell’altro, perché non ci sia continua lotta e sopra tutto continuo equivoco.

Io desidero anche che non solo le spese e le entrate siano regolate, ma che si cerchi all’inizio delle regioni di evitare grandi e inutili spese.

Io ho presentato un altro emendamento, con cui propongo che tutta la burocrazia, di cui la regione avrà bisogno, sia prelevata dallo Stato e dagli enti locali.

Noi abbiamo un milione e settecento mila impiegati, che rappresentano numero enorme rispetto ai bisogni reali del paese. Molti fanno poco o niente perché non vi è lavoro per essi.

Senza nuove spese per la collettività, la Regione può avere tutti gli impiegati che le occorrono.

Dunque io vi prego di votare il mio emendamento, il quale dice soltanto che la legge deve stabilire la finanza della Regione, della Provincia e dei Comuni, senza precisare nulla, perché questa non può essere materia di invenzione o di rapida improvvisazione: è cosa che si deve fare per legge, ponderatamente.

Quindi vi prego anche di non intervenire in tutto quello che riguarda i rapporti tra Provincia e Provincia, tra zona e zona.

Io vi prego, chiudendo le mie parole, di fare in guisa che onestamente si tenga conto della situazione grave dell’Italia meridionale e che vi sia in noi spirito di comprensione e che i bisogni e le necessità della Italia meridionale e delle isole siano tenuti in speciale considerazione. Data la nostra gravissima situazione finanziaria, poco si potrà fare per qualche tempo; ma ciò che si può deve’esser fatto.

In questo sentimento almeno potremo essere d’accordo e io confido nel vostro buon volere e nel vostro sentimento. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Ruini ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Constato di essere, in sostanza, perfettamente d’accordo con l’onorevole Nitti. Egli propone nel suo emendamento di rinviare alle leggi della Repubblica la determinazione del regime tributario delle regioni, delle provincie e dei comuni.

È chiaro che la Costituzione non può che prescrivere alcuni criteri direttivi. Occorre poi la grande legge finanziaria, che l’onorevole Nitti invoca, e si deve porre mano ad essa, senza ritardo, appena approvata questa parte della Costituzione. Non faccio una indiscrezione riferendo che l’onorevole Pella pensa già ad istituire una Commissione di studio per la riforma sistematica dei tributi di Stato e di quelli locali, che sono temi inscindibili fra loro.

Onorevole Nitti, nel mio intervento dell’altro giorno, col quale ho cercato dimostrare che i problemi delle finanza regionale non sono insolubili (e spero che ella concordi, perché non ha fatto osservazioni in contrario) avevo anch’io affermata la necessità della grande legge tributaria per il nostro paese. Non possiamo qui farne l’anticipazione; ma ho già pensato alle sue grandi linee, ed al posto che vi potrà trovare la finanza della Regione. Ad essa ed agli altri enti locali potranno assegnarsi le imposte dirette nelle tre forme della ricchezza mobile, della importa fabbricati e della imposta fondiaria. Su questa base delle tre cedolari, lo Stato eleverà quella imposta progressiva sul reddito che è una necessità dello Stato moderno, democratico-sociale. Se vi fosse già in Italia, avremmo potuto superare molte difficoltà di questo dopoguerra, evitando di ricorrere ad altri tributi improvvisati. Nei tributi diretti gli enti locali troveranno una adeguata piattaforma finanziaria. Non escludo ad ogni modo che si possa ricorrere anche alle imposte sui consumi (che sono più spesso di produzione) sulle quali si basano ora, come su principale pilone, le finanze comunali; e non escludo neppure che a tali imposte possa partecipare anche la Regione. Dico tutto ciò a titolo personale, come vecchio studioso della materia; per dimostrare ancora una volta che non esiste l’insolubilità paurosa, denunziata dall’onorevole Nitti, su questo problema,

Tornando al suo emendamento, l’onorevole Nitti vuol sostituire «leggi della Repubblica» a «leggi costituzionali». Il Comitato, come dichiarai nel mio intervento, aveva già accolto un emendamento Preti a cui si è aggiunto più tardi un altro dell’onorevole Dugoni. Ne ho dette le ragioni: non è ammissibile che tutte le volte che si sostituisca ad un’imposta A un’imposta B, si debba mettere in moto la procedura della legge costituzionale.

Debbo dichiarare che si è ottenuto il consenso di tutti i componenti del Comitato, ma i più accesi regionalisti hanno posto due condizioni: 1°) che si affermi l’autonomia della Regione (ed anche di queste ho già parlato); 2°) che si stabilisca nella Costituzione qualche criterio sulla finanza della Regione (come si è fatto appunto nel testo del Comitato ed anche di ciò ho parlato minutamente). Ora l’onorevole Nitti, volendo tutto rinviare, sopprime l’indicazione di questi criteri; sui quali, del resto, non ha espresso alcuna critica; e quindi dovrei ritenere che li ha accettati. Avrei desiderato da lei, onorevole Nitti, quel «determinato» che ella chiede ad altri; invece ella si è limitata a divagazioni generiche; ed ora, col rifiutare ogni inizio di «determinazione» e col proporre un assoluto rinvio, rimette tutto in questione. Una volta che la Costituente ha deliberato di istituire l’ente Regione, non si può lasciare addirittura in bianco il suo assetto tributario. Anche il nostro è un rinvio alle leggi dello Stato, ma dopo aver fissato i principî cui si dovranno attenere. Non possiamo andare al di là.

Come prima approssimazione – altro non è possibile ora – stabiliremo nella Costituzione che le Regioni avranno autonomia finanziaria, in quanto le leggi dovranno assegnare ad esse fonti tributarie tali da bastare alle loro funzioni normali; che sempre negli intenti dell’autonomia saranno date quote più alte di partecipazione ai tributi dello Stato per le Regioni ove ciò è necessario per provvedere appunto alle loro funzioni normali; che per determinati scopi eccedenti le funzioni normali, si accorderanno dallo Stato contributi speciali. Le leggi della Repubblica determinano questi punti. Non credo che si potrebbe trovare un sistema più adeguato. Comunque, avrei desiderato che l’onorevole Nitti facesse altre proposte, o almeno, critiche puntuali.

Risponderò ora a singoli emendamenti che sono stati presentati.

L’onorevole De Vita vorrebbe parlare di redditi patrimoniali. Evidentemente, i redditi patrimoniali sono compresi nel nostro articolo; che parla in un altro comma di un patrimonio e di un demanio della Regione. Non mi pare che la determinazione sia necessaria. L’emendamento De Vita ha poi il principale intento di stabilire che dev’essere la Regione a deliberare i tributi, nei limiti fissati dallo Stato. Ora, intendiamoci bene: il significato del testo del Comitato è che la legge della Repubblica assegna alla Regione la facoltà di emettere tributi in determinate materie; la Regione ne farà l’uso che crede. Se usassimo la formula De Vita, potrebbe sorgere l’equivoco che la Regione possa essa determinare tributi che non sono previsti dalla legge dello Stato. Poiché la materia imponibile è sempre la stessa, è necessario che sia lo Stato con le sue leggi a precisare i tributi, ai quali può attingere la Regione. Resta fermo che la Regione delibererà ed applicherà essa i tributi che la legge le attribuisce. Credo che, ponendo mente a ciò, l’onorevole De Vita potrà essere tranquillo.

L’ultima parte del suo emendamento dice che: «Le leggi dello Stato in materia economica, finanziaria e doganale sono inspirate al principio di evitare la creazione di qualsiasi privilegio di una o più Regioni a danno di altre».

La formulazione è anche più radicale di un’altra proposta dall’onorevole Codignola, su cui si è pronunciato il Comitato. È una dichiarazione troppo generica ed anche equivoca, perché si potrebbe vedere un privilegio in ogni differenza. Sta poi fermo che il divieto dei privilegi rientra nei principii di eguaglianza affermati nelle disposizioni generali della Carta costituzionale.

L’onorevole Bertone ha presentato un emendamento. Svolgendolo, ha ripreso il tema dei confronti tra Regione e Regione; ed io lo ringrazio di aver aggiornati anche per l’esercizio in corso i dati che avevo riferiti. Debbo tuttavia confermare che non si può trarre sicure conclusioni, tanto più in momenti di generale disavanzo. E debbo pur notare che non è più il caso di continuare in questi confronti di dare e di avere fra le varie Regioni ed il bilancio dello Stato; raffronti che vennero impostati per la prima volta dall’onorevole Nitti; ed anche poche settimane fa sembrava che li continuasse, rovesciandoli a vantaggio del sud; ma ha finito col riconoscere nel suo ultimo intervento che è meglio abbandonarli.

Quanto all’emendamento Bertone, non dice nulla di sostanzialmente diverso dal nostro testo; ma è più generico, e non contiene alcune di quelle indicazioni che gli amici di sua parte ritengono opportune sull’autonomia finanziaria delle Regioni.

Ho già detto che il Comitato accoglie gli emendamenti Preti e Dugoni, e sostituisce a «leggi costituzionali» «leggi ordinarie dello Stato»; ma non può accettare l’altra proposta Preti di sopprimere, tranne il primo, i rimanenti commi dell’articolo; la maggioranza del Comitato – ho avuto occasione di dire anche questo – consente a non richiedere leggi costituzionali; purché con le altre disposizioni si dia qualche indicazione a garanzia della finanza regionale.

L’onorevole Colitto vuole che si parli solo di «limite» non di «forme» stabilite dalle leggi; ma le forme bisogna pur determinarle; e non mi pare opportuna la soppressione che egli suggerisce.

L’onorevole Zotta e vari altri hanno fatto questione di perequazione del livello di benessere, e di distribuzione del reddito nazionale fra Regione e Regione. Ma partono da un presupposto inammissibile; che si possa, con soli provvedimenti finanziari, togliere quelle disuguaglianze economiche fra Regioni, che dipendono da tanti altri fattori. Si può cercare di attenuarle, non pretendere di distruggerle. Quanto al concetto di una redistribuzione del reddito nazionale fra le Regioni, è anch’esso inammissibile: le Regioni più ricche, debbono dare e daranno per le meno provviste di mezzi; ma come si fa a chiedere che rinuncino ai frutti delle loro attività e sopprimano lo stimolo di un maggior rendimento in loro vantaggio?

L’onorevole Codignola insiste sul punto relativo all’accertamento dei tributi, ma anche il Comitato insiste nel punto di vista che non è il caso di vietare in senso assoluto che possa aver luogo a cura degli enti locali; le leggi ne stabiliranno i casi e le cautele.

L’onorevole Cartia ha fatto alcune osservazioni sul mio intervento dell’altro giorno. Io non ho nulla da mutare circa quello che ho detto allora. Ho voluto dimostrare che il problema, per quanto grave, non si presenta così pauroso e non richiede una rivoluzione finanziaria come sembrava a prima vista per alcuni.

L’onorevole Cartia non si può discostare dal procedimento che ho seguito: vedere quali sono le attribuzioni amministrative che il nostro testo attribuisce alle Regioni e valutare nel modo più largo ciò che lo Stato spende ora per esse. Ho con cifre dimostrato che basterebbe spostare quanto del gettito delle due dirette immobiliari percepisce ancora lo Stato ed una quota della ricchezza mobile o di altro tributo erariale; le spese sarebbero coperte.

L’onorevole Cartia dice che le Regioni devono fare di più. Ma la Costituente ha stabilito che ad esse si attribuiscono date funzioni; e di esse bisogna tener conto. Se lo Stato ne accorderà con sue leggi delle altre, o se in seguito si amplierà l’elenco fissato dalla Costituzione, si penserà ai relativi mezzi; ma oggi non sorge il problema.

L’onorevole Cartia fa la questione della Sicilia; che non possiamo prendere come termine di paragone per le altre Regioni, perché ha un’autonomia speciale, e cerca di spingerla avanti anche nel campo tributario. Se ho ben capito, mi sembra che l’onorevole Cartia abbia detto che la Sicilia ha assunto molti compiti, ma non tutte le spese e si è presa tutte le entrate dello Stato (Interruzione dell’onorevole Cartia); lo Stato non riscuote nulla dalla Sicilia, ed anzi, deve dare esso qualche cosa.

Questo è un sistema che non possiamo considerare come normale, almeno per le altre Regioni. Noi dobbiamo partire dalle funzioni ben delimitate delle Regioni ordinarie, entro i limiti dai quali la nostra Assemblea ha deliberato di non uscire. Mi pare strano che coloro che nelle nostre discussioni furono meno favorevoli al regionalismo – e credo che fra essi sia l’onorevole Cartia – cerchino oggi di esagerare i compiti e le funzioni attribuiti dalla Costituzione, e sostengano che la Regione debba avere compiti così immani da sbalestrare tutta la finanza dello Stato.

CARTIA. È la coerenza dell’istituto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma quale coerenza? Si può benissimo, e si deve, almeno alle origini, contenere la Regione in limiti ben conterminati.

CARTIA. Allora, era inutile fare le Regioni!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Questa è un’altra cosa! Fra la tendenza di chi non voleva la Regione e l’altra, prevalente di numero, per un più acceso regionalismo, si è affermata la soluzione intermedia di far sorgere la Regione con poteri e funzioni delimitati in modo che non sconcertino la struttura dello Stato e si prestino ad una savia gradualità. Non arrivo a capire, onorevole Cartia, se ella è ancora antiregionalista, o è diventato spinto regionalista. Per mio conto, mi attengo alla soluzione che ho sostenuta e son lieto che sia stata adottata.

Inutile dire, onorevole Cartia, per le ragioni già da me ripetute, che non posso accettare la formula di «redistribuzione del reddito nazionale, allo scopo di attuare una perequazione interregionale», formula illogica e che sarebbe in ogni modo vana.

L’onorevole Micheli parla di integrazione del bilancio della Regione da parte dello Stato. Integrazione è una frase che a noi non piace, perché rievoca un sistema non molto lodevole, seguito fino ad ora, come stato di necessità, per i bilanci comunali e provinciali; ma appena è possibile, e ne fo lode al Governo, viene abbandonato. Meglio che di integrazione si deve parlare di contributi speciali a scopi determinati, tenendo anche conto di quelli che sono stati proposti dai colleghi.

L’onorevole Sullo propone di istituire fondi speciali per la valorizzazione del Mezzogiorno e delle Isole. Mi dispiace, ma – poiché ritornano sempre in molteplici emendamenti le stesse idee – debbo ripetermi. Il Comitato non è favorevole ai fondi speciali o di solidarietà, e preferisce i contributi speciali da parte dello Stato.

Al sistema dei contributi speciali per scopi determinati che eccedono l’attività normale della Regione, mi richiamo per non accettare l’emendamento Pignatari che riguarda l’integrazione dei bilanci delle Regioni per le spese straordinarie. Faccio osservare all’onorevole Pignatari che non è opportuno parlare di spese «straordinarie» che possono, come è nella contabilità e nei bilanci attuali, entrare nelle funzioni normali della Regione.

Debbo ripetermi ancora: non può essere accolta l’aggiunta dell’onorevole Codignola all’ultimo comma per condannare anche i privilegi, oltre ai dazi di importazione e di esportazione: disposizione che non mi parrebbe necessaria neppure per tali dazi…

Una voce a sinistra. Il fatto dei dazi sta succedendo anche adesso, onorevole Ruini.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Se è per la Val d’Aosta, vigono lassù norme particolari.

Una voce a sinistra. Ma è successo anche per la provincia di Mantova.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Va bene, il mio ritegno è personale; il Comitato ha mantenuto il comma pei dazi. Non ha invece creduto di arrivare, con l’onorevole Codignola, a parlare di unità dell’economia italiana e interregionale; che è principio finalistico, giustissimo, ma non ha nulla di concreto; e ripugna alla natura di una norma costituzionale.

L’onorevole Nobile è tornato alla sua proposta di stabilire che non si possa vietare ai cittadini il diritto di esercitare, in qualunque parte del territorio nazionale paia ad essi conveniente, la loro arte, professione o mestiere. Sul principio siamo d’accordo tutti. Ma è dubbio se sia necessario dedicargli una espressa disposizione, e se – nel caso che si ravvisi la necessità o l’opportunità di stabilirlo – sia da collocarlo proprio qui.

All’onorevole Romano ho già implicitamente risposto dicendo le ragioni per cui noi non possiamo stabilire fondi speciali.

Ed ora veniamo al testo che il Comitato propone di votare. Domando perdono al Presidente, ma vi è qualche altra variante da introdurre, oltre a quelle di cui ho reso conto. Sono varianti suggerite dagli emendamenti e dal corso della discussione.

Al terzo comma, per i contributi speciali, si sostituisce alla frase «lo Stato può assegnare» l’altra: «assegna»; e si aggiunge «con legge». Risalta così che è sempre lo Stato a valutare e decidere se sia il caso di assegnare i contributi speciali; ma questi costituiscono una fondata attesa della Regione, e la loro assegnazione non ha luogo arbitrariamente e capricciosamente come favore di governo o burocrazia, ma coi criteri stabiliti per legge.

Ho riservata per ultima, proprio per la sua importanza, la questione del Mezzogiorno che è stata qui prospettata dagli onorevoli Zotta, Sullo, Pignatari, Romano e da altri oratori. Spero che possa essere una questione transitoria e che la Costituzione che noi voteremo viva anche quando il Mezzogiorno non avrà bisogno più di aiuti speciali. Ad ogni modo la questione sollevata non può non aver eco anche in questa sede. Il Comitato non è perfettamente concorde. Una tendenza propone un ordine del giorno dell’Assemblea il quale stabilisca che si deve provvedere in modo particolare ai bisogni del Mezzogiorno e delle Isole ed allo sviluppo dei loro lavori; un’altra, che io condivido, va più in là ed è disposta ad accettare un’aggiunta nel terzo comma, così formulata: «Per provvedere ad altri scopi determinati, e più particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna con legge a singole Regioni ecc.» Un semplice inciso può bastare, ed essere più efficace di altre proclamazioni. Ritengo che i presentatori di emendamenti saranno soddisfatti (Approvazioni).

E mi auguro che, dopo le mie conclusioni, l’Assemblea possa trovare un punto d’incontro per deliberare questa sera l’intero articolo e avvicinarsi così alle desiderate vacanze. (Applausi).

Una sola parola ancora. Desidero aggiungere che l’onorevole Corbino aveva l’intenzione di presentare un emendamento, appunto nel senso dei contributi speciali per i bisogni del Mezzogiorno; ma, essendo all’ultimo momento, e non volendo prolungare la discussione, eravamo rimasti d’accordo che io ne avrei dato comunicazione all’Assemblea.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori degli emendamenti se vi insistono.

Faccio presente all’onorevole Preti che il suo emendamento è stato accolto nel testo della Commissione e quindi è assorbito. Lo stesso può dirsi per l’emendamento dell’onorevole Dugoni.

Gli onorevoli Nitti e De Vita insistono nei loro emendamenti?

NITTI. Insisto.

DE VITA. Mantengo integralmente il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Bertone?

BERTONE. Accetto il testo della Commissione e ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto insiste?

COLITTO. Non insisto.

PRESIDENTE. L’emendamento soppressivo dell’onorevole Preti verrà automaticamente in rilievo nel corso della votazione.

L’onorevole Zotta mantiene il suo emendamento?

ZOTTA. Non vi insisto, constatando che la Commissione ne ha integralmente accettata la sostanza.

PRESIDENTE. L’onorevole Foa insiste sugli emendamenti dell’onorevole Codignola che ha fatto suoi?

FOA. Sul primo emendamento non insisto.

PRESIDENTE. L’onorevole Cartia insiste?

CARTIA. Non insisto sul mio emendamento, se venisse accettata la formula «con leggi dello Stato».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È accettata.

CARTIA. Allora non insisto.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli mantiene il suo emendamento?

MICHELI. Aderendo ai concetti esposti dal Presidente della Commissione, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Sullo insiste?

SULLO. Poiché il Comitato ha fatto suo l’inciso «per la valorizzazione del Mezzogiorno» ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Pignatari insiste?

PIGNATARI. Per la stessa ragione, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Foa, insiste sul secondo emendamento Codignola?

FOA. Mantengo il secondo emendamento.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Nobile è stato accettato dalla Commissione.

Non essendo presente l’onorevole Romano, il suo emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Dugoni insiste?

DUGONI. Insisto nell’emendamento sostitutivo di tutto il testo.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Mortati è stato accettato dalla Commissione.

Si può quindi passare alla votazione.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Vorrei parlare sulla formula ultima che è stata accettata dalla Commissione dei Diciotto e parlerei per la minoranza della Commissione dei Diciotto, formulando alcune riserve su quanto ha ritenuto di accogliere la maggioranza della Commissione.

PRESIDENTE. Ma l’onorevole Ruini ha fatto una relazione. Le tesi contrapposte sono state sostenute in sede di Commissione. Qui, onorevole Laconi, non si tratta di presentare delle relazioni.

LACONI. Si tratta di una questione generale e non particolare. Quando la Commissione accetta un determinato emendamento al testo, evidentemente il testo originale della Commissione cessa di esistere e non è più oggetto di votazione da parte dell’Assemblea. La minoranza si trova allora o a ripresentare il testo della Commissione come emendamento, oppure a tacere. Io mi trovo in questo caso, in questa situazione, ma desidererei semplicemente che la mia preoccupazione trovasse degli argomenti in contrario.

Se questi argomenti sono per me chiari e sufficienti, io non ritengo affatto di dover presentare un emendamento. Quindi la prego di consentirmi questo chiarimento.

PRESIDENTE. Io voglio solo osservare che quando si lavora in un organismo collettivo – sia esso Commissione dei Settantacinque o Sottocommissione o Comitato di coordinamento – è chiaro che quest’organo collettivo ad un certo momento ha un’idea da presentare: quella della maggioranza. Coloro che restano in minoranza possono presentare emendamenti. E allora, in sede di emendamenti, coloro che non accettano la posizione prescelta dalla maggioranza possono parlare e chiedere d’intervenire. Lei dunque, onorevole Laconi, avrebbe dovuto farlo in quella sede. In questo momento gli emendamenti sono stati svolti, il Presidente della Commissione ha risposto, siamo giunti in sede di dichiarazione di voto, e lei onorevole Laconi ne può approfittare.

LACONI. Ma vi è un emendamento che è stato accolto in questo istante.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Quale?.

LACONI. Voglio esternare la mia preoccupazione. Voglio riferirmi all’emendamento accolto dalla maggioranza della Commissione dei Diciotto al secondo comma dell’articolo 113. Il presidente della Commissione ha dichiarato che avrebbe accolto l’emendamento secondo il quale si consente una determinata differenziazione tra Regione e Regione in ordine ai tributi propri ed alle quote erariali. La mia preoccupazione, già affacciata al Presidente della Commissione, è che, ammettendo una differenziazione in questa materia, si viene implicitamente a stabilire nella finanza dello Stato una differenziazione tra Regione e Regione e a portare il caos. Lo Stato, io credo, deve poter contare sopra tributi uniformi riguardo alle Regioni.

Io non nego che le Regioni abbiano differenti esigenze, ma si può stabilire una differenziazione in quelle provvidenze che lo Stato riterrà di emanare per venire incontro ai bisogni regionali; introdurre invece una differenziazione su questo punto relativo a tributi propri ed alle quote dei tributi erariali, porta conseguenze forse utili alle Regioni, ma costringe lo Stato a seguire norme particolari da Regione a Regione. (Commenti – Proteste al centro).

Non v’è ragione di eccitarsi fuor di luogo: è una preoccupazione che affaccio. (Commenti).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Presidente della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’onorevole Laconi non era presente, o per lo meno non ricorda quando questo comma è stato esaminato dal Comitato. Già nel testo originario era stato fissato il criterio che ora desta le sue preoccupazioni ed egli aveva tutto il tempo di esprimere tali preoccupazioni nelle successive elaborazioni. Non c’è pericolo di disordine e caos nella finanza del paese. Né col primo né con l’ultimo testo.

LACONI. Ma non è la stessa cosa!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È la stessa cosa; si tratta del riparto delle quote dei tributi dello Stato, che vengono attribuite alle Regioni, perché provvedano alle loro funzioni normali. A tutte le Regioni non spetta la stessa quota; ma viene determinata e graduata a seconda che i tributi propri bastino più o meno all’adempimento di quelle funzioni. Non è una graduazione, che si discuta volta per volta; ma che deve essere, in certo senso, automatica, come diceva l’onorevole Cartia, in base a criteri stabiliti una volta tanto per legge. Non so cosa vi sia di caotico in ciò. Vuole l’onorevole Laconi che le Regioni meno provviste di mezzi, ad esempio la Basilicata, siano trattate come le Regioni più ricche, e non abbiano altre risorse per provvedere ai loro bisogni?

GULLO FAUSTO. Che cosa significa: «ai bisogni»?

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi dispiace che lei non abbia capito: sono i bisogni, cui si provvede con le funzioni normali.

LACONI. Allora non è chiaro.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ma come! Sono attribuiti alla Regione tributi propri o quote di tributi erariali; tali quote saranno determinate e graduate per provvedere alle spese necessarie. Questo concetto è abbastanza chiaro. Potete discuterlo, rifiutarlo; ma non dire che non è chiaro e non proporre qualcosa di diverso. La critica deve essere costruttiva.

PRESIDENTE. Darò ora la parola per le dichiarazioni di voto.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Sono favorevole al testo presentato dalla Commissione in accoglimento più o meno parziale degli emendamenti che sono stati precedentemente presentati. Non sono favorevole all’Ente regione, ma una volta che lo abbiamo introdotto nella Costituzione, abbiamo il dovere di renderlo meno nocivo e più utile che sia possibile. Rispetto a questi due fini credo che il testo elaborato dal Comitato, come ultima espressione di accordi, sia accettabile da chi come me, meridionale e meridionalista siciliano, che ha dato la firma alla legge per l’autonomia della Sicilia, si renda perfettamente conto della importanza del problema meridionale come problema nazionale. Vi confesso che io ho ascoltato con vivo dolore le espressioni che da una parte o dall’altra sono venute per tentare di fare il bilancio di quello che il nord ha dato o avuto, o che il sud ha dato o avuto. Bilanci di questo genere non si possono fare sulla base di cifre. Se mettiamo insieme i dieci statistici più profondi che vi siano in Italia, essi non riusciranno mai a raggiungere soluzioni in cui tutti e dieci siano d’accordo: probabilmente non ce ne saranno neanche due. I rapporti fra una Regione e l’altra, in un paese unitario come il nostro, sono rapporti economici ma sono anche rapporti politici; e se il sud ha sacrificato qualche cosa sul terreno economico, non si può negare che esso abbia ricevuto dal nord influssi di progresso che in altre condizioni di ambiente avrebbero potuto dare frutti molto più cospicui. Tuttavia certi problemi, una volta posti, non possono non trovare un richiamo esplicito nella Carta costituzionale che noi andiamo ad approvare; ed il richiamo che la Commissione ha voluto inserire nel terzo capoverso dell’articolo 113 mi sembra più che sufficiente, perché coloro che questa Carta costituzionale dovranno applicare in avvenire ricordino che il problema meridionale in questa sede è stato affrontato non per delle contese vane fra sud e nord, ma con un solo desiderio che è nostro, e deve esserlo anche dei colleghi e delle popolazioni delle altre Regioni d’Italia: che si sia tutti concordi per assicurare le migliori fortune del nostro Paese. (Applausi al centro).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi dispiace, io credo che la disposizione sia abbastanza chiara; ad ogni modo nessuno ha proposto una dizione diversa per renderla più chiara.

DUGONI. Prego l’onorevole Ruini di leggere la formulazione definitivamente proposta dalla Commissione per il secondo comma.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. «Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali le quali sono determinate, in relaziona ai bisogni delle Regioni, in modo da poter provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni normali».

PRESIDENTE. Effettivamente questa formulazione modifica ancora quella letta in precedenza.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La discussione, malgrado gli sforzi del Presidente per mettervi ordine, avviene con la presentazione continua di nuovi emendamenti, non solo, ma col ritorno improvviso a formule già abbandonate. Inchiodato a questo posto, faccio di tutto per seguire l’Assemblea, ma non posso fare miracoli. Pel punto qui in esame non vedo grande differenza tra la formula di prima e la recente. Se l’Assemblea crede di rimanere al mio testo…

Voci. Sì, sì.

PRESIDENTE. Dovrò allora porre in votazione il testo dell’articolo.

NITTI. Onorevole Presidente, io ho presentato un articolo che credo abbia la precedenza…

PRESIDENTE. Non c’è dubbio, io non ho detto che per primo si sarebbe votato il testo della Commissione. Gli emendamenti sono stati svolti: numerosi sono stati ritirati. Dobbiamo votare sul testo attuale della Commissione. In relazione agli emendamenti che sono restati, il primo di questi emendamenti è quello dell’onorevole Nitti, primo non per ordine di presentazione, ma perché è l’emendamento che praticamente pone nel nulla tutti i commi successivi. Egli propone infatti di sostituire l’articolo con il seguente:

«Con legge della Repubblica sarà stabilito il regime tributario delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni». Questo emendamento – senza dubbio – è quello che più si allontana dal testo della Commissione, in quanto, rimettendo tutto alla legge dello Stato, cioè ai prossimi Parlamenti, esonera l’Assemblea dall’indicare qualunque elemento di orientamento.

NOBILE. Desidererei che l’onorevole Nitti chiarisse se intende con questo emendamento che venga abolito anche l’ultimo comma. (Commenti).

Voci al centro. È naturale.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, i due interventi molto precisi dell’onorevole Nitti hanno posto chiaramente la questione.

Ha chiesto la parola per dichiarazione di voto l’onorevole Uberti. Ne ha facoltà.

UBERTI. Per tutte le ragioni che abbiamo esposto, noi voteremo esclusivamente il testo della Commissione e voteremo contro tutti gli emendamenti.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento presentato dall’onorevole Nitti.

(Segue la votazione per alzata e seduta).

Poiché il risultato della votazione è incerto si procede alla votazione per divisione.

(L’emendamento dell’onorevole Nitti è respinto).

Passiamo alla votazione del primo comma del testo proposto dalla Commissione:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni».

In questo comma vi è un primo inciso, che fa richiamo espresso alla autonomia finanziaria: «Le Regioni hanno autonomia finanziaria».

Poiché nessuno degli emendamenti presentati considera questa prima parte del comma, la porrò in votazione.

Mi è pervenuta una domanda di appello nominale. Desidero che i firmatari specifichino a che cosa essa si riferisca. (Commenti).

L’articolo si compone di cinque commi, ciascuno dei quali dovrà essere votato in due o tre parti diverse. Desidero sapere se si domanda che tutte le votazioni abbiano luogo per appello nominale! (Commenti).

UBERTI. A nome dei firmatari della domanda di appello nominale, preciso che se si fosse votato l’articolo 113 unicamente, domandavamo l’appello nominale su tutto l’articolo; se invece si vota per divisione, domandiamo l’appello nominale sul secondo comma.

TONELLO. Noi ce ne andiamo! (Rumori al centro).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’onorevole Dugoni aveva presentato un emendamento al primo comma per sostituire a «leggi costituzionali» «leggi dello Stato». L’emendamento è stato accolto e l’onorevole Dugoni, logicamente, dovrebbe votare per il primo comma. Il voto contrario significherebbe che non vuol dar corso alle sue stesse idee.

PRESIDENTE. Onorevole Ruini, queste dichiarazioni non si possono fare ora.

Pongo pertanto in votazione le prime parole del comma, nel testo della Commissione: «Le Regioni hanno autonomia finanziaria».

(Sono approvate).

Pongo in votazione la seconda parte del testo proposto dalla Commissione: «nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica».

(È approvata).

Segue l’ultima parte del comma: «che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni». A questo punto vi è un emendamento dell’onorevole De Vita.

DE VITA. Ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione l’ultima parte del comma nel testo della Commissione.

(È approvata).

Passiamo al secondo comma che, nella formulazione proposta dalla Commissione, è del seguente tenore:

«Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali le quali sono determinate in relazione al bisogno delle Regioni, in modo da poter provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni normali».

A questo comma non vi è alcun emendamento, poiché tutti sono stati ritirati.

PRETI. Avevo presentato un emendamento soppressivo.

PRESIDENTE. Onorevole Preti, come già ho fatto più volte presente, l’emendamento soppressivo si esprime votando contro la formula positiva.

UBERTI. Ritiro la mia richiesta di appello nominale su questo comma.

PRESIDENTE. Sta bene.

Pongo allora in votazione il secondo comma, del quale ho dato testé lettura, nell’ultima redazione della Commissione.

(È approvato).

Passiamo al terzo comma, che è del seguente tenore:

«Per provvedere ad altri scopi determinati e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna con legge a singole Regioni contributi speciali».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. «Per legge», non «con legge».

PRESIDENTE. Sta bene. Modifichiamo: «per legge».

Voci. No, «con legge».

«PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non ci soffermiamo su questi piccoli particolari. In un secondo momento, si provvederà anche alla forma.

Pongo in votazione il terzo comma.

(È approvato).

Il quarto comma, è così formulato:

«La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

L’ultimo comma è del seguente tenore:

«Non possono istituirsi dazi di importazione ed esportazione, o di transito fra l’una e l’altra Regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose».

Su questo comma, vi è un emendamento a firma dell’onorevole Codignola, che l’onorevole Foa ha fatto suo e svolto. L’onorevole Foa non è presente e pertanto l’emendamento s’intende decaduto.

Pongo pertanto in votazione il quinto comma nella formulazione testé letta.

(È approvato).

Vi è ora un emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Nobile e da altri colleghi. La Commissione ha dichiarato di accettarlo, salvo a deliberare, dopo la eventuale approvazione, il posto nel quale inserire, se non la dizione, il concetto.

CARBONARI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARBONARI. L’onorevole Nobile domandava che la Regione non potesse limitare il diritto dei cittadini ad esercitare in qualunque parte del territorio nazionale la loro arte, professione o mestiere.

In via di principio io sono d’accordo con questa dizione; però debbo osservare – siccome l’onorevole Nobile ha nominato il Trentino ed Alto Adige in modo particolare – che, specialmente in Alto Adige, su oltre 3 mila impiegati statali e parastatali occupati, fino ad epoca recente, gli indigeni erano soltanto 243.

Quindi osservo che anzitutto la giustizia distributiva deve essere alla base di ogni reggimento statale e regionale. (Commenti a sinistra).

TESSITORI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TESSITORI. A nome del mio Gruppo dichiaro che voteremo contro l’emendamento proposto dall’onorevole Nobile per una considerazione che prescinde dal merito. La considerazione è questa: l’emendamento presentato in forma negativa non mi pare che sotto l’aspetto giuridico possa trovar posto nella Carta costituzionale; anche perché, quello che è l’aspetto positivo della norma, sottinteso nell’emendamento, è già compreso nella prima parte della Costituzione, dove sono indicati tutti i diritti dei cittadini italiani.

Mi pare che il collocamento e la forma di questo emendamento siano fuor di luogo e inutili. Perciò io vorrei pregare l’onorevole Nobile di ritirare il suo emendamento, e lo vorrei invitare ad una considerazione, che è questa: il collocare, onorevoli colleghi, nella Carta costituzionale una disposizione di questo genere sembra echeggiare rancori, differenze, campanilismi, che vorrei non avessero nessuna eco in questa Aula. Per queste considerazioni noi votiamo contro l’emendamento.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Appunto per le ragioni dette nobilmente dal collega Tessitori, io voterò a favore, perché temo il separatismo professionale. Ho già accennato in altra occasione ad un precedente, intorno al quale oggi posso presentare i documenti. E cioè: il Consiglio della Valle, il che è a dire il governo della Val d’Aosta, ha presentato al Governo nel mese di marzo scorso una proposta di decreto legislativo sull’ordinamento delle guide e dei maestri di sci, la quale diceva, all’articolo 2, testualmente così:

«L’esercizio saltuario della professione in Val d’Aosta da parte di guide e maestri autorizzati provenienti con i loro clienti da altre regioni italiane e straniere non è soggetto a restrizioni di sorta.

«L’esercizio stabile, anche se solo stagionale, l’apertura di corsi, scuole e analoghe iniziative, comunque presentate, sono invece subordinate, oltre che all’osservanza della disciplina del Consiglio della Valle alla stabile residenza in un comune della Valle e all’iscrizione nei ruoli di una società locale».

MICHELI. Ma si tratta di guide alpine!

FUSCHINI. Che c’entra questo? (Commenti).

GASPAROTTO. È bensì vero che il Governo con decreto legislativo del 1° aprile 1947 ha moderato queste disposizioni, in seguito di che è rimasto nel testo definitivo questo articolo 2, che dice: «Nella Valle d’Aosta l’esercizio saltuario della professione da parte di guide, portatori e maestri autorizzati provenienti con i loro clienti da altre regioni italiane e dall’estero non è soggetto all’autorizzazione degli organi della Valle»; ma a questo il Consiglio dei Ministri è dovuto addivenire, appunto per impedire che fosse sanzionato in uno statuto speciale il principio che il cittadino italiano era, nell’esercizio della sua professione, straniero in una regione d’Italia diversa dalla sua. (Applausi a sinistra).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. L’onorevole Gasparotto mi pare che abbia una particolare simpatia per quanto ha determinato la Valle d’Aosta e quel decreto l’ha già letto altre volte…

GASPAROTTO. Io ho l’antipatia per i separatismi!

MICHELI. …Capisco; è stato esaminato dal Consiglio dei Ministri di cui l’onorevole Gasparotto faceva parte.

Posso dichiarare che, effettivamente, in Valle d’Aosta c’era questa limitazione, a favore delle guide che dovevano essere del luogo, per una ragione molto semplice: perché quelli che vanno sul Monte Cervino e ad altre cime portano della gente, sono responsabili della loro vita e devono essere dei luoghi perché ne hanno la maggiore pratica.

Però avverto questo: che tutte le guide del Club Alpino del quale faccio parte, a qualunque provincia appartengano, possono andare liberamente in Val d’Aosta, ad esercitare nelle escursioni alpine la loro professione.

È un’altra la questione, onorevole Gasparotto; si tratta di cosa molto diversa. Io debbo ripetere al collega ed amico che le guide di qualunque parte d’Italia… (Rumori) sono ammesse anche nelle scuole accennate…

GASPAROTTO. Ma si tratta non solo di guide, ma di scuole!

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, la prego di concludere.

MICHELI. Onorevole Presidente, una volta che lei ha consentito che il collega leggesse un documento di questo genere in discussione all’Assemblea, io avevo tutto il diritto di contestarlo (Rumori) e l’ho fatto con due parole.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Io credo che, nonostante questo occasionale dissenso sulla questione delle guide, noi siamo, sul concetto espresso dall’onorevole Nobile, tutti d’accordo. Abbiamo però tutti delle riserve sulla collocazione e credo che anche l’onorevole Tessitori, che ha parlato poco fa, fosse mosso dalla stessa preoccupazione. Del resto, se così non è, sia per non detto.

Io comunque ho di queste riserve. Vorrei dunque pregare che si votasse soltanto sul contenuto dell’emendamento dell’onorevole Nobile, lasciando impregiudicata la questione della forma e della collocazione. (Rumori).

PRESIDENTE. Ma su questo siamo d’accordo, è stato già detto, onorevole Laconi.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Instaurando un ordinamento regionale, ci si dovrebbe anche preoccupare degli impieghi per evitare che una Regione potesse impedire l’accesso agli impieghi ai provenienti da altre Regioni, il che sarebbe deprecabile, perché creeremmo in tal modo dei compartimenti stagni, renderemmo cioè poco aerabile la Regione.

Prego pertanto l’onorevole Nobile di estendere il suo emendamento anche agli impieghi.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, ella ha inteso la proposta dell’onorevole Condorelli? La accetta?

NOBILE. Non ho alcuna difficoltà ad accettarla.

PRESIDENTE. Sta bene; passiamo dunque ai voti.

Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Nobili, che con la modifica proposta dall’onorevole Condorelli, e accettata dall’onorevole Nobile, risulta così formulato:

«La Regione non può in alcun modo limitare il diritto dei cittadini ad esercitare, in qualunque parte del territorio nazionale paia ad essi conveniente, la loro arte, professione, mestiere o impiego.

(Segue la votazione per alzata e seduta).

L’emendamento risulta approvato.

Voci al centro. No, non è approvato! (Rumori a sinistra).

MICHELI. Votiamo per divisione! (Proteste a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ho l’impressione che vi sia ancora questo presupposto, che le votazioni debbano avere tutte la stessa conclusione. Occorre però tener conto del momento in cui si vota, perché è evidente che le votazioni che si trascinano per un quarto d’ora o venti minuti, possono mutare di continuo la proporzione dei voti. (Commenti).

Confermo che l’emendamento dell’onorevole Nobile è stato, secondo la votazione ora effettuata, approvato dall’Assemblea.

Do lettura del testo completo dell’articolo 113 quale risulta dopo le varie votazioni di oggi:

«Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Provincie e dei Comuni.

«Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, le quali sono determinate in relazione ai bisogni delle Regioni, in modo da poter provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni normali.

«Per provvedere ad altri scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.

«La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.

«Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione, o di transito fra l’una e l’altra Regione, né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose.

«La Regione non può in alcun modo limitare il diritto dei cittadini ad esercitare in qualunque parte del territorio nazionale paia ad essi conveniente, la loro arte, professione mestiere o impiego.».

Resta inteso che la formulazione definitiva e il collocamento di quest’ultimo comma sono deferiti al Comitato di coordinamento.

Pongo ai voti l’articolo nel testo ora letto. (È approvato).

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Benedettini ha presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro della difesa, per sapere se non creda opportuno comunicare all’Assemblea i risultati dell’istruttoria testé terminata sulla fine del tesoro di Dongo». (Commenti a sinistra).

Interesserò il Ministro della difesa perché faccia sapere quando intende rispondere a questa interrogazione.

BULLONI. Vorrei sollecitare le risposte dei Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, a due mie interrogazioni urgenti loro dirette, riguardanti: la prima un’inchiesta per gravi infrazioni annonarie, la seconda la crisi dell’energia elettrica in Alta Italia.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Risponderò all’interrogazione che mi riguarda nella seduta antimeridiana di venerdì prossimo. Interesserò il Ministro dell’industria e commercio affinché risponda, se possibile, all’interrogazione a lui diretta nella stessa seduta.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere so non ritenga rispondente ai fini di giustizia estendere agli «sminatori marini» l’aumento di lire 300 sull’indennità «pericolo mine» recentemente concesso agli sminatori terrestri.

«Stampacchia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se, in relazione all’impegno del Governo italiano di indennizzare le persone fisiche e gli enti, i cui beni siano stati confiscati in conseguenza dell’applicazione delle disposizioni relative alle riparazioni (vedere articolo 74, lettera D, titolo 4 del Trattato di pace), ed in considerazione che fra le persone che hanno subito la totale confisca dei macchinari e delle attrezzature per costruzioni, figurano imprese che svolgevano la loro attività civile nei Balcani e particolarmente in Albania e Jugoslavia, dove potentemente le imprese predette contribuirono per migliorare le condizioni ed il tenore di vita civile di quei paesi, non ritenga equo, utile ed opportuno, per il nostro Paese, che gli enti, le persone e le imprese danneggiate con la confisca delle loro attrezzature e macchinari, vengano messi in condizioni di riprendere anche parzialmente la loro attività, risarcendo loro le perdite subìte, mediante cessione di attrezzature e macchinari, analoghi a quelli loro confiscati o perduti, da prelevare dalle disponibilità dell’A.R.A.R. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere in quale maniera intenda risolvere la tragica situazione economica di quegli ufficiali che, fatti prigionieri in Africa Orientale Italiana nel 1941, sono stati costretti ad abbandonare le famiglie nel territorio già occupato all’epoca predetta, le quali si sono trovate costrette a contrarre ingenti debiti per poter vivere.

«A questi ufficiali rientrati in Patria sono stati corrisposti i soli stipendi con i carovita dell’epoca, mentre il costo della vita in Africa Orientale Italiana si aggirava intorno ad una sterlina giornaliera (700 lire circa di valore medio per gli anni 1941-44) per un ammontare complessivo individuale di parecchie centinaia di migliaia di lire.

«Tali famiglie si trovano ora in Patria, senza casa, per aver perso tutto in territorio dell’Africa Orientale Italiana, con l’onere dei predetti debiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bencivenga».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per conoscere se e quale azione il Governo abbia svolto, o intenda svolgere per placare le ansie dei familiari delle molte migliaia di giuliani deportati in Jugoslavia, dei quali dopo due anni non si è riusciti, neppure per il tramite della Croce Rossa e del Vaticano, ad avere notizie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cappi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se, in relazione alle mutate e ridotte necessità delle forze armate ed alle ristrettezze del bilancio dello Stato, abbia già provveduto o, in caso negativo, se ritenga o meno opportuno:

1°) di provvedere d’urgenza alla soppressione dello Stato Maggiore generale; alla creazione di uno Stato Maggiore della difesa ed alla conseguente soppressione dei tre Stati Maggiori ora esistenti; all’unificazione dei servizi logistici ed amministrativi comuni alle tre forze armate, tanto degli organi centrali, quanto di quelli periferici; alla separazione dal Ministero della difesa degli organi incaricati della liquidazione del passato; al decentramento agli organi periferici di gran parte dei compiti e delle attribuzioni ora dannosamente accentrate negli organi centrali; alla trasformazione dei tre mastodontici ex Gabinetti ministeriali in più leggeri organismi dei tre Segretariati generali creati presso le Amministrazioni centrali delle tre forze armate; alla definizione delle pratiche di discriminazione di ufficiali e sottufficiali di carriera ed allo sfollamento di quelli giudicati immeritevoli di continuare nel servizio; all’industrializzazione degli arsenali e degli stabilimenti militari; alla soppressione od alla riduzione dei «centri rifornimento quadrupedi», dei campi d’aviazione e dei poligoni di tiro non necessari, concedendo la conduzione dei terreni ricuperati a cooperative agricole di ex partigiani, reduci e combattenti; alla cessione secondo un piano organico ad enti pubblici od a privati, o alla trasformazione in alloggi demaniali per ufficiali e sottufficiali di tutti gli immobili militari (caserme, depositi, magazzini, ecc.), che, risultando esuberanti alle esigenze militari, costituissero un inutile e notevole aggravio di spesa per la loro vigilanza e per la loro manutenzione;

2°) di provvedere d’urgenza all’eliminazione delle irregolarità amministrative, delle deficienze di governo disciplinare del personale; delle deficienze di conduzione delle aziende agricole a gestione diretta e delle irregolari concessioni di terreni demaniali a privati speculatori, che caratterizzano l’andamento disciplinare, amministrativo e agricolo di alcuni «centri rifornimento quadrupedi» e di poligoni di tiro, con particolare riferimento ai centri di Montemaggiore, di Persano e di Grosseto e del poligono d’artiglieria di Nettuno; irregolarità e deficienze che, essendo di dominio pubblico, poco favorevolmente depongono nei riguardi dell’interessamento del Ministero della difesa e della apposita Commissione che da dieci mesi si occupa dello studio e della soluzione del problema con risultati sinora non molto soddisfacenti;

3°) di provvedere d’urgenza a devolvere parte delle economie realizzabili con l’adozione dei provvedimenti di cui ai precedenti comma 1°) e 2°), all’aumento dell’indennità militare degli ufficiali e dei sottufficiali, oggi del tutto insufficiente ad attenuare il disagio economico derivante ai militari di carriera di ogni grado dai frequenti trasferimenti cui sono soggetti per necessità riorganizzative delle forze armate e dalla relativa frequente necessità di dividere in due le proprie famiglie, nonché dalle esigenze di un servizio che, in confronto con quello dei funzionari civili di tutte le Amministrazioni statali e parastatali, non ha limiti di orario, senza beneficiare, per altro, di un corrispondente ed equo compenso straordinario. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Azzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per le quali, a tre anni dalla liberazione, nella importante strada provinciale «marittima» che collega le provincie di Frosinone e di Latina non sono stati ancora ripagati i danni bellici che non consentono tutt’ora l’uso della strada stessa, con grave pregiudizio degli interessi delle due provincie.

«E per conoscere, altresì, perché, oltre a dare il massimo impulso alla ricostruzione delle opere d’arte, non si provvede anche all’inizio dei lavori di ripristino del piano viabile onde non prolungare ulteriormente, dopo la ultimazione delle opere di cui sopra, la inefficienza della vitale arteria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dell’interno, per conoscere la esatta storia, la attuale situazione e i provvedimenti disposti o da disporre per risolvere il grave problema dell’acquedotto di Sora (Frosinone), con particolare riferimento alle ragioni per le quali il Consiglio comunale ritenne addirittura di dover deliberare fin dal 21 marzo ultimo scorso la costituzione di una Commissione di inchiesta.

«L’interrogante chiede, in particolare, all’onorevole Ministro dell’interno di informarlo circa le ragioni per le quali detta Commissione non è stata ancora convocata e investita del mandato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere:

1°) se non ritenga opportuno accertare, a mezzo dell’Arma dei carabinieri, se e quali degli appartenenti ai ruoli militari e civili nell’aeronautica, da tempo in attesa di reimpiego, abbiano trovato altra occupazione, sufficientemente remunerativa, nella vita civile;

2°) se, in base ai risultati delle indagini suddette, non ritenga opportuno, dopo aver sentito gli interessati, effettivamente impiegarli, se non abbiano altra occupazione; oppure collocarli a riposo nel caso contrario; e ciò allo scopo di mettere fine allo sconcio per cui ufficiali e civili, effettivamente non impiegati dal tempo dell’armistizio, continuino a figurare m servizio, percependo gli interi assegni, anche quando essi abbiano trovato una lucrativa attività nella vita civile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nobile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere:

1°) per quali motivi non si sia dato ancora corso al decreto legislativo già esaminato dalla prima Commissione permanente dell’Assemblea Costituente concernente l’aumento dell’indennità di volo;

2°) se non ritiene che sia urgente emanare il decreto suddetto nella considerazione che il volo costituisce la parte essenziale delle attribuzioni degli ufficiali e sottufficiali dell’aeronautica e che le indennità stabilite dallo schema di decreto legislativo suddetto sono pur sempre assai modeste rispetto a quelle che venivano corrisposte prima della guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nobile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’interno, per sapere se non ritengano opportuno, anzi necessario ed urgente, in vista della esasperante deficienza di alloggi nella città di Roma, emanare un provvedimento che faccia obbligo all’INCIS ed all’Istituto delle case popolari di dare la precedenza assoluta, nell’assegnazione degli appartamenti liberi, ai funzionari di ruolo delle Amministrazioni statali, che per ragioni di ufficio siano obbligati a risiedere a Roma, e che di fatto già vi risiedono da anni, ma che si trovino ad essere sprovvisti di alloggio in seguito a sentenze di sfratto, promosse da proprietari che abbiano richiesto l’alloggio per proprio uso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nobile».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga opportuno prendere provvedimenti idonei ad esonerare dal pagamento del canone obbligatorio di abbonamento alle radio-audizioni, di cui all’articolo 6 del decreto legislativo luogotenenziale 1° dicembre 1945, n. 834, le sedi dei Partiti politici, dalle quali invece viene attualmente preteso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dugoni».

Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se e come intenda affrontare e risolvere il problema dei segretari degli Istituti medi, i quali da tempo hanno chiesto il passaggio dal gruppo C, in cui ingiustamente si trovano, al gruppo B.

«Si rammenta a tale proposito che nell’ultimo congresso dei segretari, tenutosi a Roma, si era data per certa ed imminente la pubblicazione del provvedimento, che avrebbe posto fine ad una condizione di inferiorità ingiustificata ed ingiustificabile, per la quale i segretari degli Istituti medi, pur essendo muniti di diploma di scuola media di secondo grado, hanno un trattamento inferiore non solo a quello degli impiegati del gruppo B, ma anche a quello degli impiegati del gruppo C. Difatti, mentre questi ultimi arrivano al grado VIII, i segretari, che iniziano la carriera col grado XII, la finiscono col grado XI. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere:

  1. a) se non ritenga opportuno e doveroso un maggiore e più severo controllo sulla vendita dei generi alimentari somministrati dai ristoranti di molte stazioni ferroviarie sia in rapporto alla loro qualità, che tende a peggiorare, che alla loro quantità unitaria, che tende a diminuire, e specialmente in rapporto ai loro prezzi, che tendono a salire, giorno per giorno, in modo vertiginoso e non giustificato, né da particolari esigenze, né da particolari situazioni di mercato, ma solo determinato da spirito di esosa speculazione, costringendo così i viaggiatori a sottostare, per necessità, ad un maggior aggravio di spese vieppiù dannoso per i meno abbienti;
  2. b) se del pari non ritenga necessario, per evidenti ragioni di giustizia e di rispetto ai regolamenti, eliminare lo sconveniente e deplorevole mercato nero dei biglietti ferroviari che si fa in alcune stazioni ed in modo massimamente impudente in quella di Roma, così da riservare solo ai viaggiatori che hanno larga disponibilità di danaro la possibilità di occupare, a loro piacimento ed in qualunque momento, i posti a sedere nelle vetture dei vari treni a lungo percorso e che dovrebbero invece restare liberi a tutti, secondo le normali regole di precedenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Guerrieri Filippo».

PRESIDENTE. Queste interrogazioni saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si richiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 21.20.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. Svolgimento della seguente interrogazione:

Benedetti. – Al Ministro dell’interno. – «Per conoscere le disposizioni che intenda impartire al fine di reprimere i giuochi d’azzardo».

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.