ASSEMBLEA COSTITUENTE
CLXXII.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 4 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedo:
Presidente
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio (Seguito della discussione):
De Mercurio
Bonomi Paolo
Vicentini
Presidente
Pella, Ministro delle finanze
La seduta comincia alle 10.
SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pera.
(È concesso).
Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
È iscritto a parlare l’onorevole De Mercurio. Ne ha facoltà.
DE MERCURIO. Onorevoli colleghi, ho presentato un ordine del giorno del seguente tenore:
«L’Assemblea Costituente, interpretando le particolari necessità delle popolazioni dell’Italia meridionale, le quali risentiranno il maggior onere fiscale, che loro deriverà dal decreto istitutivo dell’imposta progressiva e proporzionale sul patrimonio, in rapporto specialmente ai criteri di valutazione in esso contenuti, che incide notevolmente sulla piccola e media proprietà, di cui è caratterizzata l’economia del Mezzogiorno, ritiene opportuno apportarvi quegli emendamenti che valgano a mitigarne gli effetti deleteri».
Ho proposto inoltre degli emendamenti ad alcuni articoli.
La Gazzetta Ufficiale del 29 marzo ha pubblicato il decreto legislativo n. 143 sotto il titolo: «Istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio».
Lo stesso decreto contempla anche l’istituzione di una «imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio».
Sarebbe stato perciò opportuno richiamare l’attenzione dei contribuenti anche su questo tributo straordinario, che dovrà essere assolto interamente entro il 1948, mentre sarà in riscossione anche l’imposta straordinaria progressiva.
Tutti noi ricordiamo che per la discussione in sede plenaria di tale decreto si volevano trascorrere in quest’Aula perfino le ferie pasquali.
Poi sono trascorsi tre mesi e solo da pochi giorni questo disgraziato decreto viene «per convalida» all’esame dell’Assemblea Costituente.
Altri oratori certamente con argomentazioni migliori e con forma più brillante hanno finora rilevato i suoi non lievi difetti, ed anche io, deputato meridionale, di quel Mezzogiorno che sarà il più duramente colpito da questa imposta, non intendo sottrarmi al dovere di porre in evidenza sia pure in modo sommario e sintetico quelle pecche che a mio giudizio sono particolarmente degne di rilievo e di emendamenti.
Non esito anzitutto a rilevare che una imposta patrimoniale progressiva o proporzionale che sia, nelle attuali condizioni del Paese, non uncinata al cambio della moneta, rappresenta una imposta immorale, che servirà solamente a buttare sul lastrico i piccoli e medi proprietari detentori di minima ricchezza, mentre darà il brevetto e le palme accademiche col riconoscimento tangibile di negative benemerenze a tutti coloro che nell’immediato periodo pre-bellico, durante la guerra e dopo, hanno accumulato sul sangue e sulle disgrazie del popolo italiano decine se non centinaia di milioni, e che oggi si godono in barba al fisco e alla legge in esame i loro non sudati risparmi, e in un prossimo domani, gavazzeranno in quelle modeste casette e in quei piccoli poderi che impiegati, artigiani, agricoltori, pensionati, ecc., dovranno alienare per far fronte alle richieste dell’agente delle imposte e dell’esattore.
Vedremo allora, a meno che lo Stato non voglia diventare l’amministratore quasi totalitario di questi beni, tutti i più esosi borsari neri lanciarsi all’acquisto di quegli immobili che onesti cittadini saranno costretti a vendere per pagare l’imposta.
Non ripeterò quanto già è stato detto da altri, specialmente in materia di cambio della moneta.
Ancora oggi, nonostante critiche più o meno interessate all’attuazione di questo provvedimento di giustizia sociale e perequazione tributaria, esso è ritenuto ancora attuabile, perfino da un ex Ministro delle finanze e del tesoro, l’onorevole Bertone che tutti conosciamo quale un tecnico di valore e soprattutto un galantuomo.
Per mio conto, rifacendomi a quanto in proposito venne da me già sostenuto fin dal 1943, confermo che il cambio della moneta è necessario e pienamente attuabile, sempre che il Governo abbia la buona volontà e la ferma decisione di attuarlo.
Passo quindi ad esaminare con la massima obiettività il decreto legislativo in parola.
Le cause che giustificano il provvedimento suenunciato nella sua integrità sono ovvie, e possono così riassumersi:
- a) mancata revisione e moderazione delle spese e tempestivo, rigido controllo delle medesime;
- b) omesso cambio della moneta, più volte preannunciato con conseguenze speculative, economiche, gravissime;
- c) indugio nell’adozione del provvedimento riflettente l’imposta progressiva sul patrimonio, per la cui attuazione integrale, equa e perequata, gli Uffici finanziari esecutivi, né hanno mezzi adeguati, né i funzionari addetti si trovano nella condizione di tranquillità economica che possa spronarli ad intenso lavoro;
- d) conseguenti indilazionabili necessità di Tesoreria.
Nell’impossibilità di intrattenerci in modo particolare sull’argomento, ci limitiamo a richiamare l’attenzione su quanto riteniamo meritevole di particolare esame.
Come è noto, l’imposta ordinaria sul patrimonio è applicata per «cespiti» e quindi prescinde dalle persone fisiche individualmente considerate, che abbiano la comproprietà del «cespite».
Ne consegue che lo straordinario tributo sarà dovuto anche da chi si trovi nella più ristretta condizione economica, cosicché, mentre per l’imposta straordinaria progressiva di cui al titolo primo del decreto è previsto il minimo di tre milioni di lire, per ogni persona fisica, che abbia anche poche migliaia di lire di patrimonio, non sfuggirà all’imposta straordinaria nella misura del 4 per cento oltre gli aggi, e ciò nella stessa misura proporzionalmente di chi abbia larghe possibilità.
Per le piccole proprietà, vediamo nel provvedimento l’applicazione di un cinico salasso tributario di cui il Governo avrebbe dovuto rendersi debito conto.
Per citare un caso, quello dei modesti impiegati e lavoratori a reddito fisso, in genere, che attraverso anni di sacrificio si procurarono una modesta abitazione.
Questi contribuenti, privi di risorse, nel volgere di pochi mesi dovranno soddisfare il debito d’imposta se non vogliono consentire all’esattore di far tesoro delle poche e sole masserizie di casa, essendo utopistici, irreali, ed iniqui i presupposti depositi in banca, nonché la proprietà di titoli e di gioielli.
Ove si pensi, poi, al modo con cui praticamente si è proceduto all’applicazione dell’imposta ordinaria sul patrimonio ed a quello col quale si stanno ora effettuando dagli uffici la rivalutazione dei fabbricati, tutto induce ad affermare che se lo straordinario tributo potrà giovare alla Tesoreria, esso sarà assolutamente sperequativo nei rapporti fra contribuenti ed anche vessatorio per i piccoli proprietari.
Sarebbe veramente illogico e contrario ai principî che debbono regolare l’applicazione dei tributi, la pretesa di applicare lo straordinario tributo di cui al titolo secondo su di una base che risaputamente non è perequata fra tutti i cittadini che vi sono tenuti.
Non è poi il caso di attenuare ai contribuenti, intendiamo piccoli e medi, che costituiscono il bersaglio del fisco di tutte le occasioni, la cognizione di quelli che saranno i loro effettivi oneri tributari, dovendosi considerare la coordinata applicazione degli articoli 29 e 68 del decreto-legge.
Infatti, per i patrimoni che non raggiungono i tre milioni di lire, si verificherà, non importa sotto quale titolo, l’applicazione dell’aliquota del 4 per cento stabilita dall’articolo 68 sui valori assoggettati all’imposta ordinaria, e poi per quelli da lire 3 milioni, oltre all’aliquota di cui all’articolo 29, si dovrà quella corrispondente all’imposta straordinaria di cui all’articolo 68. Per impedire le evasioni, per correggere le sperequazioni e gli indebiti gravami della ordinaria patrimoniale, il tributo del 4 per cento dovrebbe essere considerato in acconto della patrimoniale personale progressiva, diminuendo l’imponibile esente, onde pervenire ad una maggiore estensione nell’applicazione del tributo con corrispondente moderazione di aliquota se fosse possibile.
Un eventuale maggiore lavoro degli uffici non sussisterebbe, dato che le dichiarazioni sono obbligatorie da lire un milione e mezzo, e poi d’altra parte si moralizzerebbe la legge che, così com’è, costituisce una offesa al diritto del cittadino, nello stesso tempo che agevola i profittatori e gli evasori.
Cade qui a proposito rilevare che nutriamo fondati dubbi sulla attrezzatura da parte degli Uffici a esperire questo lavoro di mole ponderosa, il quale data la sua natura dovrà essere svolto con scrupolosità e meticolosa pazienza.
Tali dubbi sono, a nostro avviso, legittimamente fondati, se si consideri la dizione dell’articolo 75 del decreto. Ricordiamo che nel settembre 1944 si faceva presente al Ministro delle finanze la necessità di provvedere alla immediata riorganizzazione del personale degli Uffici esecutivi dell’Amministrazione finanziaria (non soltanto delle imposte dirette) ed alle provvidenze tutte relative a cominciare da quella per il suo stato economico. Ora, soltanto all’atto di promulgare il decreto 29 marzo 1947, viene richiamata dai Ministeri economici l’autorizzazione a tale fine, così che è dato di domandarsi:
Quale preparazione ha potuto fare l’Amministrazione finanziaria per essere in grado di assolvere il suo grave compito nell’applicazione del decreto sull’imposta patrimoniale? Come è mai possibile che un organo da formare, elementi da istruire ed addestrare in questo breve lasso di tempo possano corrispondere alle esigenze di una sana amministrazione, che vuole la massima sagacia ed avvedutezza, mentre ha anche il dovere di amministrare la giustizia dei tributi con consapevole equità ed equanimità?
In tali condizioni non sembra opportuno, considerato che il progetto di legge mentre disciplina l’azione delle Commissioni giudicanti, non prevede in alcun modo due altri generi di Commissioni, di istituire appunto quella dei tecnici, e quella di liberi cittadini che spronino e coadiuvino il fisco?
Se la legge agli articoli 75 e 76 prevede provvedimenti per l’organizzazione del personale, ciò significa che il personale fiscale non è preparato. Studiare, dunque, come gli uffici stessi e le Commissioni provinciali possano essere affiancate da elementi tecnici, consulenti legali (ragionieri e commercialisti) nominati da collegi di cittadini, commissioni che dovrebbero affiancare l’opera degli uffici.
Approfondendo lo studio del decreto 29 marzo 1947, relativo alla imposta progressiva sul patrimonio, il capo quarto – valutazione dei cespiti patrimoniali – ha richiamato particolarmente la nostra attenzione.
La legge deve contenere disposizioni tali che consentano di giungere alla determinazione di valori omogenei dei cespiti patrimoniali più diversi, onde perequare, quanto più possibile, l’onere tributario:
- a) valutando in base ai valori nudi dell’anno 1946, i terreni, le scorte relative, i fabbricati, le aziende industriali e commerciali ed i cespiti non specificati nel suddetto Capo IV;
- b) in base alla media dei prezzi di compenso del semestre 1° ottobre 1946 al 31 marzo 1947 le azioni, obbligazioni, cartelle del prestito ecc. quotate in borsa;
- c) in base alla valutazione, giusta la quale è stata effettuata la liquidazione dell’imposta di negoziazione per i titoli sopra indicati non quotati in borsa, nonché per le partecipazioni delle società assoggettate alla suddetta imposta.
Il temuto cambio della moneta, troppo frequentemente preannunciato, il diminuito valore di acquisto della lira, il timore di un eventuale inflazione e – d’altro canto – la necessità di trovare l’impiego alle ingenti somme accumulate nell’esercizio di attività industriali e commerciali, e nei traffici di ogni specie, determinarono, nell’anno 1946, una corsa agli investimenti in beni immobili, che è da ritenere non possano costituire elemento valido nella valutazione dei valori da prendere a base nella applicazione della imposta.
Per i terreni, specialmente in alcune zone particolarmente fertili e coltivate, i prezzi hanno potuto assumere proporzioni iperboliche, per le rendite addirittura fantastiche, conseguite da frutteti, vigneti, ecc., e per la mancanza di offerte di vendita sul mercato.
Se – quindi – non si vuole, o non si deve colpire la proprietà fondiaria oltre il suo valore effettivo, ragguagliato al momento in cui il mercato dei prodotti agricoli sarà normalizzato, i criteri di valutazione da adottare, non potranno non tenere conto di tali circostanze.
Per i fabbricati e porzioni di essi – particolarmente nei grandi centri urbani – i prezzi di mercato subirono nel 1946 influenze varie delle quali si dovrebbe tenere debito conto.
E proprio per tale motivo sarà più equo riferirsi alla media dei valori di un determinato periodo prebellico, rivalutati alla data corrente.
Inoltre, sia per i terreni che per i fabbricati, ma specialmente per questi ultimi, nella determinazione dei valori non dovrebbe essere estraneo il riferimento alle rendite rispettivamente realizzate nella presente situazione vincolistica.
Per la valutazione delle scorte, dei terreni agrari, se – come è dato ritenere – sotto questa voce si considerano le vive, le morte, i macchinari agricoli, ecc., non si comprende come vi si potrà giungere in modo razionale, dato che essa si effettuerà sulla base dei redditi imponibili agrari, quindi forfetariamente e presuntivamente, ponendosi su uno stesso piano le grandi, le medie, e le piccole proprietà terriere che non hanno, né possono avere dotazioni di macchinari, di attrezzi e di scorte in genere, le quali invece sussistono per ingenti valori, in molte delle medie, ma soprattutto nelle grandi proprietà. Non solo, ma deve rilevarsi che non poche delle piccole proprietà terriere ed anche delle medie si trovano in condizione di non disporre di scorta alcuna per la loro stessa natura e destinazione.
Sarebbe quindi opportuno che la dichiarazione di cui all’articolo 33 della legge contenesse la indicazione della composizione e dei valori delle scorte (bestiami, macchinari, attrezzi di qualunque natura, ecc.).
Lasciando la legge come è, si avrà un aggravio, per i valori che non esistono, per i piccoli e medi proprietari ed una ingiustificabile agevolazione a beneficio dei grandi proprietari, ma, nel complesso, a tutto danno dello Stato, che non colpirà chi più possiede.
È poi da notare che, a causa degli eventi bellici, procedendo forfetariamente, si incorrerebbe in errori anche gravi.
Ad evitare tutto ciò basterebbe inserire nella legge l’obbligo di descrivere nella dichiarazione i suddetti cespiti, mentre un eventuale ragguaglio ai redditi agrari potrebbe servire alla finanza come elemento di apprezzamento delle dichiarazioni. Per quanto poi concerne i fabbricati non si dovrebbe dimenticare un criterio di moderazione imposto della gravissima condizione in cui si trova la proprietà edilizia, a causa delle mancate manutenzioni e del regime vincolistico, e dalla considerazione che si è andato progressivamente compromettendo per tal fatto anche l’interesse della collettività, con una politica che ha anche allontanato i capitali privati dalla costruzione di nuovi fabbricati per abitazioni.
La valutazione delle azioni in base alle quotazioni di borsa del semestre 1° ottobre 1946 al 31 marzo 1947, non sembra affatto omogenea alla valutazione dei terreni e dei fabbricati, fino a che non siano state operate le rivalutazioni e siano in corso aumenti di capitali, che importano distribuzione di azioni gratuite, o semigratuite.
Finalmente, la valutazione delle azioni non quotate in borsa sulla stessa base accertata agli effetti della imposta di negoziazione per l’anno 1947, costituisce un’altra grave deficienza della legge, ai compilatori della quale è sfuggito il carattere personale e talvolta familiare di società costituite a soli fini fiscali, e la superficialità e sommarietà, con le quali si procede nella liquidazione della imposta di negoziazione.
Sempre soffermandoci sul Capo IV, il capitolo «valutazioni» offre ed impone largo campo di esame, perché è dalla valutazione idonea e perequata dei cespiti nella loro diversa specie, natura ed ubicazione (questa per quanto attiene i fabbricati), che dipende la equa distribuzione dell’onere patrimoniale tributario a cui i cittadini saranno sottoposti, e dei quali taluni (i proprietari terrieri, i commercianti, gli industriali) potranno riaversi con incremento di fecondo lavoro, mentre altri (i proprietari dei fabbricati) non avranno mezzo alcuno di ripresa economica, e dovranno affannosamente cercare i mezzi per fronteggiare l’imposta.
Secondo l’articolo 9 e seguenti, la valutazione è affidata alla Commissione Censuaria Centrale, la quale dovrà determinare i coefficienti relativi, tenendo presenti le zone economico-agricole per i terreni e scorte, e i Comuni, per i fabbricati. Tali coefficienti predisposti dall’Amministrazione, del catasto e dei servizi tecnici, saranno comunicati alle Commissioni Censuarie comunali e da queste a quelle provinciali con facoltà di far note rispettivamente le proprie osservazioni entro 30 e 90 giorni, così che è da prevedere che per sapere quali saranno i coefficienti definitivamente adottati dalla Amministrazione, non basteranno parecchi mesi.
La Commissione Censuaria Centrale stabilirà i coefficienti definitivi, ma non sarebbe inopportuno che tutte le Commissioni Censuarie Comunali e Provinciali conoscessero i coefficienti di tutte le zone, affinché esse fossero messe in grado di poter fare gli opportuni confronti.
Il concetto di riferire il valore dei terreni e fabbricati all’anno 1946 potrà anche essere accettato, ma a condizione che i coefficienti siano determinati sulla base di razionali considerazioni di estimazioni e non su arbitrari elementi, basati sulle poche contrattazioni verificatisi nell’anno a scopo speculativo, o di investimento, per evitare le conseguenze del cambio della moneta, o non subire l’alea del diminuire del suo potere di acquisto.
La valutazione dei terreni fatta sulla base di coefficienti, trova la sua giustificazione nella necessità di adottare un criterio di massima, ma poiché i coefficienti stessi si applicheranno ad elementi catastali base non aggiornati né determinati contemporaneamente, le più impensate sorprese si verificheranno per l’esistenza di diverse zone economico-agrarie anche nella stessa Provincia.
Secondo l’articolo 12, gli Uffici delle imposte procederanno alla valutazione dei terreni con i coefficienti indicati dagli articoli 9 e 11 applicati alle risultanze catastali, rimanendo così al contribuente come alla finanza il diritto di ricorrere tutte le volte che non sussista la corrispondenza fra risultanze catastali e situazioni di fatto.
Il contribuente potrà rapidamente esercitare il diritto di rettifica, ma dubbi e questioni possono sorgere nei confronti della finanza, non essendo ammesso che gli Uffici distrettuali possano rivedere gli accertamenti una volta modificati, essendo tale facoltà riservata soltanto alle Commissioni amministrative. Occorrerebbe, quindi, che gli Uffici procedessero alla valutazione secondo le risultanze catastali, ma con facoltà di revisione per non conformità allo stato di fatto ed anche per eventuali errori materiali di calcolo.
L’articolo 12, per quanto riflette la valutazione dei terreni, dovrebbe perciò essere modificato come appresso: «Contro la valutazione dei terreni eseguita dagli Uffici in base alle risultanze catastali ed ai coefficienti indicati negli articoli precedenti, i contribuenti possono ricorrere alle Commissioni amministrative per la non corrispondenza alle qualità di coltura risultanti dal catasto. D’altra parte gli Uffici potranno rettificare la valutazione dei terreni da essi effettuata, nel termine di un anno dall’eseguita notifica dell’accertamento, tutte le volte che le risultanze catastali non corrispondano allo stato di fatto e che si siano verificati errori di calcolo».
Un’altra osservazione: procedendosi nelle valutazioni – per quanto riguarda i terreni – per zone economico-agrarie, si cadrà facilmente in errore, se non si terranno presenti anche le particolari situazioni di fatto che, nelle singole zone, possono verificarsi e perciò è da prevedere una tale possibilità per le opportune provvidenze.
Inoltre, dalla valutazione dei terreni dovrebbero essere escluse tutte le costruzioni non destinate ai lavoratori o al ricovero di bestiame, per essere comprese specificamente nella dichiarazione di cui all’articolo 33.
Per quanto riflette i fabbricati il problema è non meno grave. Secondo gli articoli 9 e 10, si dovrebbero determinare i valori 1946 applicando alla «consistenza» dei fabbricati, coefficienti determinati dalla Commissione Censuaria Centrale in relazione alle categorie ed alle classi istituite per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano ai sensi del decreto 14 aprile 1939, n. 652, convertito in legge l’11 agosto 1939, n. 1249. Più considerazioni si impongono a questo riguardo.
Le categorie e classi di fabbricati determinati nel 1939 quali variazioni possono presentare od avranno potuto subire nel frattempo? Come potranno fare gli Uffici delle imposte, se non incorrendo in errori fantastici, ad applicare a tavolino coefficienti sulla base dei particolari del catasto urbano non aggiornati, né precisi, né provvisti dagli elementi tutti occorrenti per addivenire ad una ponderata determinazione di diversi valori attribuibili alle diverse parti di uno stesso fabbricato? In questi anni si sono fatte revisioni parziali dei redditi dei fabbricati, ma la incompletezza dei dati catastali, la non uniformità negli apprezzamenti, determinarono difficoltà assai gravi, dovendosi anche tener presente che la situazione di fatto può notevolmente essere modificata per cause le più diverse.
Occorre poi riflettere che la divisione dei fabbricati in categorie e classi, senza distinzioni nelle singole parti che li costituiscono e, cioè ad abitazioni di lusso e anche economiche, anche nello stesso fabbricato, ad uso industriale, o commerciale, senza poter fare poi i rispettivi apprezzamenti in base alle situazioni di fatto, sarebbe cosa del tutto errata e causa di sperequazione pregiudizievole.
Sarebbe quindi necessario che il penultimo capoverso dell’articolo 9 fosse così modificato:
«I fabbricati si valutano in base ai valori medi dell’anno 1946, mediante applicazione della loro consistenza di coefficienti determinati dalla Commissione censuaria, per le diverse destinazioni, o diverso adattamento delle singole sue parti».
Stabilisce l’articolo 10 come sopra detto che i coefficienti per la valutazione di fabbricati sono stabiliti con riguardo alle categorie ed alle classi istituite per la formazione del nuovo catasto edilizio urbano.
Specialmente nei grandi centri – ad esempio Roma – si possono commettere gli errori più impensati. Possono esserci casupole nell’interno di Roma aventi valore assai maggiore di un ricco appartamento in località anche centrale, potendo essere il maggior valore rappresentato dall’area. In uno stesso palazzo – specialmente con la generalizzazione del condominio – possono esistere appartamenti che, per esposizione e rifiniture interne differiscono sensibilmente con altri dello stesso palazzo.
Occorre pertanto che non manchino tutte le possibilità di discriminazione e gli Uffici, allo stesso modo che i contributi possano, in sede di accertamento, correggere le applicazioni di coefficienti standardizzati.
Le aree fabbricabili saranno valutate caso per caso, ma non sarebbe inutile che, fossero adeguatamente valutate anche tutte le aree destinate ad uso di giardini, cortili esterni, ecc.
Infine, non va taciuto che per quanto riguarda i fabbricati le leggi vincolistiche hanno messo la proprietà nelle più dure e tristi condizioni, e mentre da tutte le parti si predica di ricostruire non vi è chi rifletta che fra qualche anno la proprietà urbana, oggi esistente, diventerà un mito, e non rimarranno che case inabitabili, poiché senza le manutenzioni, i fabbricati non possono resistere all’azione demolitrice del tempo.
Da tutto quanto abbiamo esposto e data la impreparazione degli uffici e la assoluta insufficienza dei mezzi di cui essi dispongono oggi e potranno disporre domani – così gli Uffici esecutivi delle imposte e più specialmente quelli degli Uffici tecnici erariali ai quali debbono essere affidati compiti vastissimi e di grande difficoltà in uno spazio di tempo ristretto – non è da sperare che la legge potrà trovare un’applicazione che soddisfi le esigenze dell’Erario e purtroppo quelle di una sana perequazione tributaria.
Si avranno vittime numerose fra i proprietari immobiliari, mentre si avvantaggeranno quelli che avranno proprietà prevalentemente mobiliari. E saranno proprio questi che vedranno la possibilità di entrare in possesso in breve tempo, delle proprietà piccole, medie e grandi, impreparate ed impossibilitate a sostenere il gravissimo onere tributario reso più grave dalla ristrettezza del tempo durante il quale l’imposta dovrà essere sodisfatta, e dalla mancanza di provvidenze, che mettano in grado di tentare, occorrendo, non demolitrici operazioni finanziarie.
Passiamo ora da esaminare alcuni altri articoli che meritano a nostro giudizio particolare attenzione e precisamente gli articoli 17, 18, 19 e 31, 44, 45, 75 e 76.
Articolo 17: «Le aziende industriali e commerciali, comprese in esse quelle esercenti industrie agrarie di qualsiasi genere, si valutano nel loro complesso, tenendo conto dei vari elementi che le compongono, sulla base dei valori medi dell’anno 1946».
Articolo 18, secondo comma: «Le azioni, obbligazioni, cartelle di prestito ed ogni altro titolo di credito quotato in borsa sono valutati in base alla media dei prezzi di compenso del semestre 1° ottobre 1946 – 31 marzo 1947».
Articolo 19, primo comma: «Per i titoli indicati nell’articolo precedente, non quotati in borsa, nonché per le quote delle società assoggettate all’imposta di negoziazione, si adotta la valutazione in base alla quale è stata liquidata l’imposta di negoziazione per l’anno 1947».
All’articolo 31, primo comma, si stabilisce poi che le società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice, a garanzia limitata, di fatto, le associazioni ed enti, in quanto non siano soggetti ad imposta di negoziazione, debbono dichiarare il loro patrimonio, con l’indicazione delle quote spettanti ai singoli soci.
Questi articoli dimostrano come differentemente si proceda per i cespiti patrimoniali in diversi casi, per cui è da ritenere certo:
1°) che tutti coloro che non hanno partecipazioni in società, o pacchetti azionari si troveranno esposti in modo molto più gravoso di quelli che non siano i possessori di titoli azionari, in quanto essi si vedranno valutato il loro patrimonio e le doro aziende analiticamente, mentre ciò non avverrà per coloro che non siano possessori di titoli o partecipi a società;
2°) che, non essendo consentito ai funzionari delle imposte di svolgere indagini presso le banche e gli istituti di credito in genere, per le società azionarie aventi carattere familiare, per quelle a responsabilità limitata, ecc., sarà facile presentare situazioni patrimoniali in cui figurino partite di credito suffragate dal relativo estratto-conto di banca, mentre contemporaneamente possono sussistere, ed in molti casi effettivamente sussisteranno altrettante partite di credito dei soci, per somme anche superiori.
Per le società anonime, siamo del parere che l’indagine fiscale assolutamente non possa limitarsi a quello che risulta dalle valutazioni di borsa, che vengono fatte annualmente agli effetti dell’applicazione della tassa di circolazione delle azioni.
Ci sono società che hanno un piccolo capitale sociale, dietro il quale si nascondono aziende importantissime. Ci sono società che hanno un’apparenza modesta per le cifre che rappresentano le attività (macchine, attrezzi, materie prime, mobili), che invece costituiscono complessi industriali importantissimi e di reddito imponente.
Senza presentare specifici emendamenti, raccomandiamo il riesame oculato degli articoli relativi. Vi sono due articoli il 44 e il 45 che non possono essere da noi accettati.
Il decreto dichiara espressamente che non vi è obbligo da parte delle banche di dare le denunce di tutti i depositi, crediti vari, ecc. Vi è anzi in proposito una dichiarazione in senso contrario: «La presente disposizione non si applica nei confronti delle Banche e delle Aziende di credito».
E per quale motivo?
Ma quanti valori e capitali verranno così sottratti all’imposta? Si vuol tentare anche in questo modo il salvataggio dei grossi capitali?
L’articolo 45 fa obbligo ai notai che abbiano valori in deposito di denunziarli; perché no le Banche? Non esitiamo a proporre i relativi emendamenti. E con poche altre considerazioni d’ordine essenzialmente pratico mi avvicino rapidamente alla fine.
Il grande contribuente italiano che generalmente conosce le manchevolezze e le deficienze dell’Amministrazione sorriderà di fronte alla possibilità di eludere la legge, o di limitarne l’applicazione, ma il piccolo contribuente, quello di tutti i giorni e di tutte le ore e, diciamolo pure, di tutte le occasioni, ingoierà in gran parte l’amaro calice che, per tradizione, è oramai per ogni contributo, ed anche in questo riservato ai piccoli. Si ricordi il motto: «Gli stracci vanno sempre per aria» e si stia certi fino da ora che saranno proprio i piccoli a sopportare il peso tributario nella misura che incide sul vivo e sul necessario è non sul superfluo. Di fronte alla urgente necessità di far cassa ed alla brevità del tempo per l’applicazione della legge, questa situazione non può lasciarci indifferenti, ma inquieti, anzi assolutamente turbati, perché attraverso sistemi e mezzi empirici, si turberanno, si dissesteranno tante piccole e medie economie, con tutte le ripercussioni inevitabili, materiali e morali.
Indubbiamente, l’applicazione della legge riverserà a preferenza e con precedenza, sui proprietari di terreni e di fabbricati: ora noi ci domandiamo come essi procederanno alla liquidazione della quota parte di patrimonio devoluto allo Stato. I proprietari di terreni tenteranno ogni mezzo per conseguire il conseguibile (dei prodotti della terra o del bestiame), con la certa ripercussione sui consumatori e i proprietari di fabbricati già abbandonati nelle manutenzioni, e perciò in stato di progressivo deperimento, con danno indiretto di tutta l’economia nazionale, non potranno far altro che tentare la vendita per coprire il fabbisogno.
È ben vero che la legge presume che ad ogni patrimonio corrisponda un quid in deposito presso le Banche, ma poiché di utopistiche previsioni non si vive, è d’uopo porsi il problema finanziario del contribuente, e vedere come risolverlo, laddove non si tratti di qualche incauto borsaro nero che abbia investito parte del suo non sudato tesoro in beni stabili.
Quindi, la legge è ormai già organizzata e perciò è quasi sempre impossibile emendarla, ma tuttavia quando non saranno presentati ed approvati emendamenti, chiediamo che tutte le osservazioni fatte siano tenute presenti nella emanazione precisa e completa delle istruzioni che tempestivamente precederanno l’applicazione della legge.
Bisogna anche pensare che il decreto ha considerato solamente il modo di battere cassa frettolosamente, ma non abbiamo rilevato nessun accenno, nemmeno il più lontano che si riferisca ai mezzi finanziari che saranno offerti ai contribuenti per sostenere il peso dell’imposta. Provvedere a questo significa avere la tranquillità di poter applicare l’imposta largamente senza il timore di distruggere il patrimonio, il che deve essere presente nella mente e nella preoccupazione del legislatore. Quando ad un patrimonio noi avremo fatto una falcidia della metà, noi avremo portato a questo patrimonio un colpo così forte che esso sarà messo in condizioni di infunzionalità o improduttività, e questo sarebbe un danno gravissimo, perché legiferando in materia fiscale, noi dobbiamo tener sempre presente la necessità di non inaridire le fonti del reddito.
Noi esortiamo il Governo a interpretare la necessità del popolo italiano, e particolarmente delle popolazioni meridionali perché gli effetti dell’imposta proporzionale straordinaria sul patrimonio che incide notevolmente sulla piccola e media proprietà, di cui è caratterizzata la economia del laborioso popolo del Mezzogiorno non raggiunga gli effetti deleteri, che vengono giustamente paventati, e auspichiamo invece che al risanamento dell’erario contribuiscano quasi totalmente quei pingui patrimoni, che il decreto in esame sembra quasi voler preservare dai tentacoli del fisco. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bonomi Paolo. Ne ha facoltà.
BONOMI PAOLO. Più che a considerazioni di carattere generale porterò le mie osservazioni sulle disposizioni che interessano il campo agricolo, ed in modo particolare gli agricoltori-coltivatori diretti, contro i quali, per essere – in molti casi – possessori di beni il cui valore si avvicina al minimo imponibile esente dall’applicazione dell’imposta, saranno puntate le migliori armi fiscali.
Che un’imposta sul patrimonio si dovesse applicare è fuori d’ogni discussione, poiché ragioni di carattere morale e imprescindibili necessità finanziarie impongono allo Stato di ricorrere a questo mezzo straordinario per realizzare entrate a sollievo dello stremato bilancio.
Non si deve dimenticare che a causa della guerra vaste categorie di cittadini (detentori dei titoli di Stato, risparmiatori, possessori di rendite fisse, salariati, impiegati) hanno praticamente, attraverso la svalutazione, pagato la più feroce delle imposte, e che, pertanto, anche i possessori di beni reali dovevano essere chiamati alla leva del sacrificio.
Vi sono, però, alcuni canoni dell’economia e della finanza che non si possono impunemente violare. Non si può, innanzi tutto, tagliare l’albero per raccogliere il frutto. Quando gli oneri fiscali non vengono mantenuti entro i limiti della sopportabilità viene appunto sradicata la pianta. Non vorremmo che questo si verificasse proprio per quelle piccole aziende che tutti dicono di voler tutelare e delle quali in realtà ben pochi si curano. La situazione delle piccole aziende agricole è assai diversa da quella delle aziende più consistenti. Mentre queste ultime possono facilmente ricorrere al credito e fare ampio assegnamento sui proventi monetari della vendita dei prodotti, i piccoli coltivatori, che non hanno generalmente facilità di ottenere credito, destinano gran parte della produzione al consumo diretto, ciò che impedisce loro di realizzare notevoli disponibilità monetarie. La loro posizione va, quindi, guardata con occhio vigile sotto l’aspetto fiscale.
La possibilità contributiva dei coltivatori diretti è già resa anemica dalla grandinata di aumenti delle imposte ordinarie che si è scatenata negli ultimi tempi (imposte fondiarie e sui redditi agrari aumentate di oltre venti volte, imposta di famiglia talvolta centuplicata, imposta sul bestiame portata alle stelle), cui si aggiungono imposte straordinarie, come la imposta sui profitti di guerra per i fittavoli, e la avocazione dei cosidetti profitti di speculazione.
Che cosa avverrà con la patrimoniale?
Il legislatore ha ritenuto di ovviare al pericolo di un collasso della piccola proprietà e della piccola affittanza disponendo l’esonero di due milioni per i patrimoni che superano detto limite. Ma la efficacia della disposizione dipende dal sistema e dal metro che verranno usati per la valutazione dei terreni e delle scorte vive e morte. La legge è alquanto elastica su questo punto e potrà essere bene o male usata secondo le direttive degli organi preposti all’applicazione, cioè dell’Amministrazione finanziaria e della Commissione censuaria centrale.
Anzitutto non si può non compiacersi col legislatore per il sistema che chiameremo automatico della valutazione; ma ove si consideri che i coefficienti (moltiplicatori dei redditi dominicale e agrario) verranno determinati in base ai valori correnti fra il 1° ottobre 1946 e il 31 marzo 1947 la questione diventa di una gravità impressionante, e tale da destare serie preoccupazioni non tanto nei confronti dei singoli contribuenti quanto invece per l’economia agricola, l’unica che sarebbe chiamata a sostenere un peso addirittura vessatorio.
Si tenga presente infatti che nel periodo considerato un mercato vero e proprio dei terreni e delle scorte da cui possono scaturire degli elementi indice-base di una certa attendibilità manca nel modo più assoluto e che i pochi casi che si sono verificati nei trapassi della proprietà fondiaria riguardano più che altro investimenti di moneta da parte di individui che vivono al di fuori della sfera dell’attività agricola. Sono costoro i grandi speculatori e borsari neri che avendo troppo facilmente accumulato delle vistosissime cifre, non si sono peritati d’investirle in terreni a prezzi iperbolici, operazione che per costoro non costituisce che scarsa importanza in quanto il miraggio altro non è stato che quello di accaparrare dei beni reali.
Orbene, se, al riguardo, non interverranno disposizioni chiarificative, moderative e prudenziali, sulla scorta di siffatti elementi del tutto capricciosi, verranno desunti i coefficienti per la valutazione dei terreni e delle scorte.
Poco importa se in una contrada, in un Comune od in una Provincia si sono verificati o meno trapassi di proprietà: basteranno pochi, se non pochissimi casi, per determinare in tutta la Nazione dei coefficienti per comparazione.
Anche per quanto riguarda la valutazione delle scorte (bestiame, attrezzi, capitali di anticipazione), la legge prevede un sistema di coefficienti moltiplicatori del reddito agrario. Ma anche qui la posizione delle piccole aziende coltivatrici presenta aspetti particolari da tre parti e cioè: a) il frutto del capitale investito in scorte vive e morte; b) il frutto del capitale investito in anticipazioni colturali; c) il compenso al lavoro direttivo. Le disposizioni sulla imposta patrimoniale stabiliscono che nel capitalizzare il reddito agrario si deve detrarre la parte rappresentata dal compenso al lavoro direttivo. Questa norma può essere giusta per i proprietari che conducono il fondo in economia: non può essere giusta, invece, per quelli che conducono a mezzadria (in quanto una parte delle scorte può appartenere al mezzadro) e meno ancora per coltivatori diretti, dato che essi, non pagando i salari, non anticipano che in piccola parte i capitali di esercizio, ma anticipano il proprio lavoro, il quale non deve essere certo capitalizzato per venire assoggettato all’imposta patrimoniale.
Purtroppo la nostra legislazione fiscale non ha riguardo alcuno per la piccola proprietà e la piccola azienda coltivatrice tende generalmente a creare – almeno di fatto – una progressività a rovescio a danno dei piccoli. Il frutto del lavoro viene generalmente confuso col frutto dei capitali e tassato come se fosse utile di impresa.
Speriamo che almeno non si giunga all’estremo di considerare come patrimonio imponibile la figurativa capitalizzazione del frutto del lavoro.
È da considerare, poi, che sia la quantità che la qualità di scorte inventariate e valutate colla revisione generale degli estimi dei terreni erano sostanzialmente diverse da quelle d’oggi, e non si è lontani dal vero se si afferma che attualmente dette scorte sono notevolmente ridotte rispetto al triennio 1937-39.
Sempre in tema di valutazione si potrà obiettare che l’articolo 11 stabilisce che i coefficienti predisposti dall’Amministrazione del catasto e dei servizi tecnici erariali vengono comunicati alle Commissioni censuarie comunali e a quelle provinciali, le quali hanno facoltà di formulare le proprie osservazioni sui coefficienti stessi rispettivamente entro 30 giorni ed entro 90 giorni dalla data di ricezione.
Tale procedura, se può ritenersi normale per quanto riflette le questioni catastali (valori assoluti, valori comparativi, qualità di colture e classe di produttività, esame dei reclami, ecc., ecc.), non altrettanto si può dire per un problema complesso, delicato ed urgentissimo quale è quello dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
Si potrà altresì obiettare che, a mente dell’articolo 12, i contribuenti possono ricorrere alle Commissioni amministrative contro le valutazioni dei terreni eseguite dagli Uffici distrettuali delle imposte con i coefficienti indicati dagli articoli 10 e 11.
Siffatto ragionamento però è privo di significato, ove si consideri che proprio all’ultimo capoverso dell’articolo 11 è detto che i predetti coefficienti vengono stabiliti in «via definitiva» per ciascuna zona economico-agraria, e per ciascun Comune, dalla Commissione censuaria centrale.
Una particolare osservazione merita la dizione contenuta nel secondo comma dell’articolo 26: «tenore di vita del contribuente», che si presta per tutti i casi (vita lussuosa, sperperatore, risparmiatore, egoista, ecc.).
Con tale dizione indubbiamente il legislatore ha inteso dare un’arma agli Uffici fiscali per colpire coloro che in breve volgere di tempo hanno accumulato delle vistosissime ricchezze e che per il tenore di vita che conducono, indipendentemente dai redditi conosciuti o dal patrimonio accertato o non accertato, vi siano fondati motivi per ritenere debbano essere o tassati nel caso che la valutazione analitica dei beni non raggiunga il minimo imponibile o tassati per x+y = z dato appunto il loro tenore di vita.
In proposito, ai galantuomini non rimane che manifestare un vivo plauso all’intenzione del legislatore, ma quando si presenterà il caso di un agricoltore coltivatore diretto il cui patrimonio non raggiunge il minimo imponibile, l’Ufficio fiscale, opponendo argomentazioni più o meno valide, quali ad esempio, risparmiatore, egoista, possessore di polli e maiali ed altro ben di Dio, avrà buon gioco per indurre l’agricoltore stesso, a scanso dell’applicazione di una soprattassa pari all’ammontare dell’imposta, oltre l’ammenda pari ad una metà della stessa imposta, ad accettare il concordato proposto.
Ho detto prima che non è improbabile che a fare le maggiori spese della nuova imposta patrimoniale saranno, ancora una volta, gli agricoltori, e la prova della nostra affermazione è fornita anche dal fatto che abbiamo ora brevemente illustrato.
Speciale osservazione ci sia consentito di fare, sia sul primo Capoverso dell’articolo 30 che su quanto è detto alla lettera a) dell’articolo 33.
Per quanto riguarda l’obbligatorietà di presentazione della dichiarazione per i patrimoni netti la cui consistenza alla data del 28 marzo raggiunge l’importo di lire 1.500.000, osservo che nel campo agricolo, non conoscendosi a priori i coefficienti che andrà a stabilire la Commissione censuaria comunale è assai problematico fissare pure a priori chi è soggetto o non è soggetto alla dichiarazione stessa. Poi, quando anche la consistenza di beni sia di entità tale da presumere superi in ogni caso il predetto importo, a parte il fastidio e la perdita di prezioso tempo, ben pochi sono gli agricoltori – specie gli agricoltori diretti – che si trovano nelle condizioni di adempiere ad una formalità burocratica di scarsa importanza.
Si è detto di scarsa importanza perché i cespiti patrimoniali nel campo agricolo sono – a tutti gli effetti – già inventariati anche ai fini del cumulo (vedi imposta complementare progressiva sul reddito).
In proposito si prega di prendere nota che in ogni contrada d’Italia stanno sorgendo degli uffici i cui titolari, più o meno specializzati in materia fiscale, prevedono di poter fare una lauta vendemmia a spese degli agricoltori (si parla di lire 3000 e oltre per ogni piccola dichiarazione).
Circa le indicazioni da fornire nella denuncia, nel caso non venga concesso l’esonero, è quanto mai opportuno semplificare il più possibile in guisa che gli agricoltori, ed in particolar modo i coltivatori diretti, possano fornire agevolmente i pochi elementi richiesti o direttamente o tramite le loro associazioni. Nella dichiarazione basterà indicare: il Comune e la località in cui sono situati i terreni; l’intestazione della partita catastale; i redditi dominicale e agrario; le generalità dell’affittuario nel caso di terreni dati in affitto.
Abbiamo detto semplificare e non complicare, anche perché i contribuenti agricoli hanno da essere incoraggiati a produrre di più con minore spesa e non avviliti da formalità burocratiche che male si adattano colla loro mentalità, sana e semplice, nonché intimoriti da sanzioni più o meno gravose e giustificate.
Con i poteri conferiti ai membri delle Commissioni di merito secondo il disposto dell’articolo 46, di eseguire cioè accertamenti non proposti dagli Uffici e di elevare le cifre di patrimonio fissate dagli Uffici, o concordate fra contribuente e Ufficio, anche se già iscritti a ruolo, a parte il fatto morale e la palese disistima nei confronti dei funzionari preposti alle operazioni di accertamento e perfezionamento dei concordati, si cade nell’arbitrio vero e proprio.
Non saranno infatti infrequenti i casi nei quali uno o più membri di dette Commissioni agiranno per vendetta.
Secondo il disposto dell’articolo 3, ai fini dell’imposta, si considerano nel patrimonio del marito i beni acquistati dalla moglie, a titolo oneroso, durante il matrimonio: ai medesimi fini si considerano nel patrimonio degli ascendenti i beni da essi ceduti ai discendenti dopo il 10 giugno 1940.
Sia nell’uno che nell’altro caso sono previste delle eccezioni, ed è proprio su queste che concentreremo tutta la nostra attenzione.
Le eccezioni che si fanno per la moglie, ai fini cioè di non far luogo al cumulo, concernono beni per i quali sia dimostrato che l’acquisto rappresenta trasformazioni di cespiti posseduti anteriormente al matrimonio o acquisiti successivamente a titolo gratuito, ovvero investimento di redditi propri, conseguiti durante il matrimonio, o di fondi provenienti da accensione di debiti.
Per i discendenti le eccezioni riguardano: la costituzione di dote in occasione di matrimonio o costituzione di patrimonio ecclesiastico; la trasformazione di beni posseduti dall’acquirente anteriormente alla data 10 giugno 1940 o acquisiti successivamente a titolo gratuito, ovvero investimento di redditi propri o di fondi provenienti da accensione di debiti.
L’intenzione del legislatore non poteva essere che quella di considerare come patrimonio unico quello di coloro che, prevedendo l’istituzione di imposte straordinarie progressive, hanno perfezionato trasferimenti, divisioni, assegnazioni, ecc. al fine o di sottrarsi al pagamento dei tributi (valori imponibili al disotto del minimo) o quanto meno per beneficiare di aliquote inferiori a quella afferente i beni patrimoniali considerati nel loro complesso.
In proposito ci sia consentito di affermare che di siffatte eccezioni andranno a beneficiare proprio coloro che intuitivamente hanno precorso le intenzioni del legislatore, mentre gli agricoltori – in particolar modo i coltivatori diretti – anche quando abbiano le carte in regola, o per ignoranza o per pressioni d’ordine vario a cui saranno sottoposti, ben difficilmente potranno evitare il cumulo di beni che, stando alla lettera e allo spirito delle disposizioni, dovrebbero considerarsi separati.
L’articolo 4 fa espresso richiamo a quanto disposto dall’articolo 1101 del Codice civile, che cioè i pesi della comunione sono in proporzione delle rispettive quote, ma – purtroppo – chi ha anticipato l’importo iscritto a ruolo, in caso di liti (e non saranno infrequenti) per esercitare la rivalsa nei confronti degli aventi causa dovrà promuovere azione legale.
Un ultimo punto del provvedimento merita considerazioni perché particolarmente pericoloso per le sorti della piccola proprietà ed è quello relativo all’applicazione per una volta tanto dell’imposta ordinaria proporzionale con aliquota decuplicata.
In aggiunta all’imposta straordinaria della quale abbiamo fin qui parlato, la legge prevede infatti l’applicazione del 4 per cento sull’imponibile già iscritto a ruolo per l’anno 1947 ai fini dell’imposta ordinaria sul patrimonio. Tale imponibile deriva, com’è noto, da quello ordinariamente accertato sulla base dei valori del periodo prebellico moltiplicato per 10. Praticamente, quindi, un ettaro di terreno che con riferimento al periodo prebellico fosse stato valutato in lire 15.000, risulterà inscritto nei ruoli 1947 per lire 150.000 e pagherà quindi al 4 per cento lire 6000.
Da molte parti d’Italia in queste ultime settimane si è alzata la protesta dei piccoli proprietari di terre e di case contro questa imposta.
Protesta pacifica senza manifestazioni inconsulte e ricattatorie di piazza.
I piccoli proprietari hanno protestato, ma hanno incominciato a pagare la prima rata, perché in loro è profondo il senso del dovere verso la patria, ma anche perché credono ancora nella giustizia e sono sicuri che il Governo e la Costituente accoglieranno la loro giusta richiesta di attenuare il sacrificio imposto dalla patrimoniale proporzionale.
Senza arrivare alla sospensione delle riscossioni, come vorrebbero alcuni, poiché ben conosciamo quali potrebbero essere le conseguenze per il bilancio dello Stato, e poiché si riconosce la difficoltà di far luogo a una vera e propria esenzione soggettiva, che implica l’accertamento preventivo dell’entità del patrimonio di ciascun soggetto, ritengo che si possa suggerire la concessione di uno sgravio parziale del 50 per cento collegato con l’imposta progressiva.
Si potrebbe cioè stabilire che i contribuenti che non risultassero assoggettabili all’imposta progressiva, perché il patrimonio non raggiunge il minimo di cui all’articolo 1, avranno diritto allo sgravio del 50 per cento dell’imposta patrimoniale gravante sul cespite immobiliare.
Dato poi che i contribuenti non potranno godere dello sgravio nelle prime rate, è necessario una maggior diluizione dei pagamenti.
Occorrerebbe stabilire che le partite di imposta inferiori a lire 30.000 verranno riscosse entro il 1950 e quelle comprese tra le 30.000 e le 60.000 entro il 1949.
Ciò ha particolare importanza per i piccoli proprietari e affittuari coltivatori diretti che non sono assolutamente in grado di pagare l’imposta entro il 1948 e sarebbero costretti ad alienare i fondi o quanto meno a privarsi dei mezzi finanziari occorrenti per la coltivazione, con gravissima iattura per la produzione agricola e per la stessa tranquillità sociale del Paese.
Lo Stato non verrebbe a perdere nulla con la dilazione richiesta trattandosi solo di questioni di cassa. D’altro canto, la rapida riscossione delle partite maggiori (che spesso vengono anche riscattate) renderebbe meno sensibile e facilmente tollerabile il ritardo nell’affluenza alle casse erariali delle partite minori.
E qui presento due emendamenti:
«All’articolo 68 aggiungere: I contribuenti che non risulteranno assoggettabili all’imposta progressiva di cui all’articolo 1 avranno diritto allo sgravio del 50 per cento dell’imposta proporzionale gravante sui cespiti immobiliari. Lo sgravio è accordato su domanda della parte».
«All’articolo 72 aggiungere: «Le partite di imposta inferiore a lire 30.000 verranno riscosse entro il 1950 e quelle comprese fra le lire 30.000 e lire 60.000 entro il 1949».
Le osservazioni e le richieste da me fatte hanno un solo scopo: tutelare quella piccola proprietà che tutti i partiti, dico tutti i partiti, nei loro programmi hanno detto di voler difendere e potenziare. Non dimentichiamo che questa piccola proprietà è quasi sempre frutto di lavoro, di sacrifici, di sudore. Non dimentichiamo che questa piccola proprietà è garanzia di ordine sociale. Non dimentichiamo ancora che questa piccola proprietà sarà per l’Italia baluardo per la difesa della libertà di tutti i cittadini. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vicentini. Ne ha facoltà.
VICENTINI. Onorevoli colleghi! Il progetto che stiamo esaminando deve essere considerato nel clima delle preoccupazioni di ordine finanziario che l’Assemblea Costituente, la Commissione di finanza ed il Paese hanno vissuto nei mesi scorsi. Prescindere da esso, come talvolta è accaduto nell’esposizione di qualche oratore, significa dimenticare lo stato di assoluta necessità che ha determinato il provvedimento ed il fine che con lo stesso si intende raggiungere.
Qualche mese fa tutti eravamo pensosi davanti al ritmo incalzante verso l’alto delle quotazioni dei titoli azionari e dei cambi, alla ascesa continua dei prezzi, in una parola di fronte a quelle manifestazioni palesi che potevano portare, con l’inflazione, il nostro Paese sulla via del disastro economico e del caos sociale. Allora si reclamava a gran voce, e da ogni settore dell’Assemblea, che si ponesse mano finalmente a quegli strumenti fiscali, ordinari e straordinari, ed a quella politica del credito, che, insieme, valessero ad infrenare la pericolosa discesa del residuo valore della nostra moneta.
Il progetto di legge che ci sta dinnanzi è uno dei provvedimenti reclamati e nell’esaminarlo non possiamo straniarci dalla considerazione delle condizioni della nostra finanza che lo hanno determinato ed imposto.
L’imposta straordinaria sul patrimonio rientra – e lo dice lo stesso aggettivo «straordinaria» – in quel complesso di provvedimenti che vanno sotto il nome di «Finanza straordinaria» volti a perseguire, in generale scopi di politica finanziaria antinflazionistica, ed in particolare ad offrire un importante contributo per rimarginare, almeno in parte, le falle paurose determinate dallo sforzo bellico nel bilancio dello Stato; a fornire all’Amministrazione pubblica i mezzi indispensabili per quella politica sociale che, se entra ormai in sempre maggior misura nell’azione di ogni Stato moderno, le vicende dell’immane conflitto hanno reso più urgente e più vasta.
Inoltre la «patrimoniale» rappresenta un necessario correttivo di giustizia distributiva del carico tributario. Durante il periodo nel quale si compie lo sforzo finanziario dovuto alle necessità belliche è molto difficile, per non dire impossibile, allo Stato di mantenere alle imposte dirette quella importanza nelle entrate che esse hanno nei tempi normali. E da ciò deriva quello squilibrio tra imposte dirette ed indirette che abbiamo constatato nel bilancio dell’Amministrazione pubblica. L’azione fiscale nel campo dell’imposizione diretta non può seguire il ritmo dello sviluppo della spesa e questa deficienza viene surrogata col ricorso all’imposizione indiretta che, come tutti sappiamo, è la più ingiusta. Il ricorso all’imposizione straordinaria sul patrimonio vuol essere considerato quindi anche come correttivo di questo squilibrio ed è per questa considerazione che mi pare di trovare nei varî aspetti delle motivazioni che giustificano il tributo al nostro esame, la dimostrazione della veridicità e dell’attualità della definizione che l’Hobbes dava dei tributi: partecipazione dei cittadini ai benefici della pace pubblica. Soltanto se lo Stato avrà i mezzi necessari per fronteggiare gli immani problemi della ricostruzione ed i gravi doveri sociali, il nostro Paese potrà infatti guardare con fiducia al proprio avvenire e vedere attuata quella pace pubblica che è e deve essere bene agognato da tutti.
Ciò premesso, in questo mio intervento mi limiterò a mettere in evidenza come il canone della giustizia distributiva del carico tributario anche in quest’imposta sia stato rispettato.
Consideriamo innanzi tutto l’imposta nei confronti dei soggetti chiamati a contributo. L’articolo 2 del disegno di legge dice: «Sono soggette all’imposta straordinaria le persone fisiche». Si tratta quindi di un’imposta personale che per il carattere progressivo delle aliquote non può confondersi con le imposte reali. Da alcuni si è voluto vedere in questo una limitazione del campo di applicazione e si è reclamata l’estensione del tributo sia pure con aliquote differenti e più attenuate, agli enti collettivi. Io sono uno di quelli che sin dall’inizio in seno alla Commissione finanze e tesoro ha messo la pregiudiziale della ingiustizia della doppia tassazione. Allo stato attuale della concezione dell’imposizione tributaria non è sostenibile la tesi che l’assoggettamento a tributo, per lo stesso titolo, del patrimonio posseduto dai partecipanti e di quello dell’ente dagli stessi costituito, non rappresenti una doppia imposizione. Giustizia vuole che il patrimonio venga colpito una volta sola e l’imposta straordinaria progressiva, pur limitata alle persone fisiche, mi sembra la più idonea e la più giusta.
Passiamo ora all’oggetto dell’imposta. Anche qui si è detto che il tributo grava di più la proprietà immobiliare di quella mobiliare. Mi permetto di far osservare che anche questa affermazione non risponde alla realtà delle cose. La proprietà immobiliare, lo sappiamo, è stata l’eroina della nostra finanza. Il pareggio del bilancio in tempi lontani ed i maggiori gravami sono sempre stati sopportati da essa. Però, dobbiamo anche dire che a quell’epoca era quasi sconosciuta nel nostro Paese la proprietà mobiliare.
Non è assolutamente vero che la proprietà immobiliare, agli effetti del disegno di legge sull’imposta straordinaria sul patrimonio, sia trattata in modo più drastico della proprietà mobiliare. E questo lo dico perché mentre il progetto prevede per la proprietà immobiliare una valutazione basata sulla media dei valori dell’anno 1946, per la valutazione della proprietà mobiliare, e primi tra essa la grande massa dei titoli azionari, la valutazione è ristretta ai valori correnti tra l’ultimo trimestre dell’anno 1946 ed il primo trimestre del 1947. Basta osservare le curve dell’andamento dei valori dei titoli quotati in Borsa, per rendersi conto come precisamente quel semestre corrisponda alle massime valutazioni dei titoli influenzate, non dimentichiamolo, anche dalla trista vicenda della sfiducia nella stabilità del potere di acquisto della nostra moneta.
Nella valutazione delle due categorie di beni patrimoniali vengono quindi considerati due periodi sostanzialmente diversi: nella valutazione dei beni mobiliari abbiamo una base che si avvicina alle punte massime, mentre per quanto riguarda la valutazione della proprietà immobiliare, stabilita sulla media dell’intero anno 1946, abbiamo indubbiamente una base molto più bassa. Non solo, ma mentre le quotazioni di Borsa rappresentano i valori quotidiani di mercato, la valutazione dei beni immobiliari è affidata alla Commissione centrale censuaria la quale, nei suoi criteri costitutivi ha quella prudenza che fa sì che la proprietà immobiliare non sia chiamata a rispondere per quelle valutazioni che possono essere state determinate da transitori periodi di emergenza. E quando dico proprietà immobiliare intendo naturalmente di riferirmi anche ai fabbricati, per i quali le valutazioni della predetta Commissione non possono prescindere dalla considerazione dei vincoli che su essi tuttora gravano.
Una dimostrazione del mio assunto la prendo da due indici i quali, se non si riferiscono direttamente e totalmente alla proprietà immobiliare, tuttavia, trattandosi di aziende agricole e aziende immobiliari che hanno i titoli quotati in Borsa, possono dare con sufficiente approssimazione la conferma della mia affermazione.
Fatti uguale a cento i valori del 1938 delle azioni quotate in Borsa delle aziende agricole, il numero indice degli stessi per il 1946 è di 927, mentre lo stesso indice per il mese di marzo 1947 si è elevato a 2493. Se, anziché prendere a base la media dei valori del 1946, la valutazione si fosse ristretta allo stesso limitato periodo stabilito per i titoli azionari, l’imposizione sarebbe stata indubbiamente più gravosa. E lo stesso sarebbe accaduto per le imprese immobiliari l’indice medio dei valori delle quali, per l’anno 1946, è di 936 in confronto di quello del marzo 1947 che è di lire 2605.
Sempre per quanto riguarda la proprietà mobiliare, vi è la grande incognita della tassazione dei titoli azionari non quotati in Borsa. Ma anche qui non bisogna dimenticare che il progetto prevede che la valutazione di tali titoli venga fatta sulla base dei valori che saranno stabiliti per l’imposta di negoziazione per l’anno 1947, dopo che si sarà proceduto alla riforma dei Comitati di borsa. A questo riguardo devo ricordare che, siccome ho accennato alla riforma di questi Comitati anche nell’intervento che ho fatto in sede di discussione generale relativa alla esposizione finanziaria fatta dal Presidente del Consiglio, e per questo fatto mi sono visto attaccare da un giornale finanziario che è sorto a difesa degli attuali Comitati di borsa, i quali, diceva il giornale, hanno sempre agito secondo obiettività, debbo dichiarare che non ho mai inteso mettere comunque in dubbio l’obiettività degli attuali Comitati di borsa, ma che ho inteso soltanto affermare la necessità che dato il preminente interesse della finanza statale in rapporto all’imposta straordinaria sul patrimonio, era opportuno che i membri rappresentanti l’Amministrazione fossero in numero preminente. Si è detto ancora che l’imposta straordinaria sul patrimonio incide specialmente sui patrimoni minori. Anche questo non risponde a verità. La Commissione di finanza, preoccupata di mantenere il rendimento dell’imposta sulla quale è principalmente fondato il risanamento della nostra pubblica finanza, ha inasprito le aliquote aumentandone la progressività tenendo ferma la base dei tre milioni, concedendo un abbattimento alla base di due milioni ed una detrazione per i carichi di famiglia che indubbiamente vanno a beneficio della grande massa dei piccoli e medi proprietari.
E Stato detto, e mi consenta l’onorevole Scoccimarro una cortese polemica, che con questo progetto è la piccola proprietà che ne va di mezzo. Non ricorda l’onorevole Scoccimarro che il progetto da lui predisposto e del quale dava notizia in una intervista concessa al giornale L’Unità il 17 dello scorso mese di gennaio, prevedeva la tassazione dei patrimoni a partire dai due milioni in luogo dei tre, con un’aliquota del 10 per cento in luogo del 6 per cento, senza alcun abbattimento alla base e senza alcuna detrazione per i carichi di famiglia?
SCOCCIMARRO. Perdoni, onorevole Vicentini, un chiarimento: il mio accenno si riferisce alla proporzionale.
VICENTINI. Della proporzionale parlerò dopo.
Se c’è stata una preoccupazione per i medi e piccoli patrimoni, questa preoccupazione è sintetizzata dal disegno di legge e dall’opera che ha svolto la Commissione finanze e tesoro, la quale ha dovuto però anche tener ferma la considerazione delle necessità del tributo straordinario.
Ancora per quanto riguarda la tassazione della ricchezza mobiliare si è accennato ai depositi bancari e qui ritorna alla ribalta il problema ormai famoso del cambio della moneta. Che non sia stato fatto è indubbiamente un male. Dobbiamo dire però che mentre nel 1946 eravamo tutti concordi sulla necessità del provvedimento, ad eccezione forse del solo Ministro del tesoro, per avere una base più sicura di perequazione dei carichi tributari che il Paese doveva imporre ai cittadini, nel 1947 le posizioni sono mutate. L’onorevole Scoccimarro nella intervista del 17 gennaio 1947 così si esprimeva: «Ormai il cambio della moneta non è più essenziale, esso sarebbe andato bene se fatto a suo tempo; mentre oggi non è forse più un argomento assolutamente necessario nei confronti di quello che è e deve essere il piano finanziario della nostra ricostruzione». Non è colpa nostra quindi se si è determinata la rottura di quel fronte politico sul quale poggiavano coloro che ritenevano assolutamente indispensabile il cambio della moneta ai fini di una maggiore giustizia distributiva del carico tributario.
SCOCCIMARRO. Io sono stato sempre favorevole, anche quando scrivevo ciò che lei ha ricordato. Si tratta di un problema di onestà. Vuol dire che alla fine del 1946 ritenevo giusto così. Lo farei anche oggi.
VICENTINI. Prendo atto della sua dichiarazione.
Con lo stesso senso realistico col quale si è voluto considerare nel tempo il problema del cambio della moneta, io prego oggi di voler guardare quello della tassazione dei depositi bancari. Colpire i depositi presso le banche, senza aver proceduto al cambio della moneta, sarebbe una grave ingiustizia verso coloro che, anziché tesaurizzare la valuta, l’hanno depositata alle banche ed hanno consentito alle stesse, attraverso il credito, di finanziare le iniziative volte alla ricostituzione della nostra attività economica. La tassazione dei depositi fiduciari potrebbe essere fatta in persona del proprietario, ma questo porterebbe necessariamente ad infrangere il principio del segreto bancario, oppure dovrebbe essere fatta indiscriminatamente su tutti i depositi con aliquota proporzionale.
In questo secondo caso si realizzerebbe una grave ingiustizia, perché è bene sapere che non siamo nel vero quando, considerando i depositi bancari, noi vediamo sempre dietro ai libretti di deposito bancario la figura del capitalista. Basta prendere il numero dei libretti in circolazione nei singoli Istituti e mettere in rapporto l’ammontare totale dei depositi per conoscere come la media delle somme inscritte in ciascun libretto non superi le 50.000 lire.
Permettetemi, onorevoli colleghi, di dare un altro elemento che giustifica e direi quasi qualifica la composizione dei depositi bancari. Essi si distinguono in due categorie: liberi e vincolati. Dalla nomenclatura noi potremmo ritenere che quelli vincolati sono stabili e sono quelli sui quali la banca può contare, mentre per gli altri essa può essere chiamata giornalmente a rifondere le somme inscritte. L’esame statistico della vita media di un libretto di risparmio libero e di risparmio vincolato dà questi risultati: la vita media di un libretto di risparmio libero si avvicina ai tre anni, mentre quella di risparmio vincolato non raggiunge l’anno. Quindi quel risparmio che noi in gran parte consideriamo come appartenente a classi capitalistiche è invece quello che rappresenta la modesta previdenza delle classi minori.
Procedendo alla tassazione in persona del proprietario si introdurrebbe invece la violazione di un principio che ha sin qui protetto tutta l’attività delle banche.
Violare oggi il segreto bancario equivarrebbe a togliere la fiducia dei depositanti nelle banche e determinerebbe indubbiamente una fuga di capitali depositati che potrebbe compromettere con la stabilità monetaria l’opera ricostruttiva in atto della nostra economia.
Per quelle stesse considerazioni per le quali ad un certo momento il cambio delle moneta non è stato più ritenuto essenziale, ritengo che oggi non si possa assolutamente parlare di tassazione dei depositi fiduciari. Le conseguenze di una tale determinazione non potrebbero non essere disastrose.
Passiamo all’imposta proporzionale.
L’imposta proporzionale non è altro che il riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio prevista a suo tempo, e ne fa fede l’intervista citata dello stesso onorevole Scoccimarro, il quale allora affermava che con l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio si poneva anche il problema del riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio.
Questo è il secondo provvedimento che è appunto al nostro esame. Anche qui le considerazioni che sono state fatte non rispecchiano le reali incidenze del tributo. Sappiamo tutti che i valori presi a base per l’imposta sono quelli corrispondenti alla media delle valutazioni del triennio 1937-39 ai quali è stato applicato il coefficiente dieci per i terreni e cinque per i fabbricati.
Mi pare di aver così dimostrato come il disegno di legge proposto dal Governo non abbia violato i criteri di giustizia distributiva che ogni imposta deve avere come base.
Siamo tutti d’accordo che il contribuente italiano è chiamato a duri sacrifici. Però è bene che questa necessità assoluta ed inderogabile sia vista nel clima delle gravi difficoltà che il Paese attraversa e che anche da qui si levi una voce per dire a tutti coloro che sono chiamati al contributo che se è grande il sacrificio, d’altra parte lo scopo per cui il sacrificio è richiesto non è meno importante. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Mazzei. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunziato.
La discussione generale è così chiusa. Spetta ora di parlare all’onorevole Relatore e al Governo.
PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PELLA, Ministro delle finanze. Penso che l’importanza dell’argomento e la figura personale del Relatore potrebbero forse suggerire di rinviare a domani la chiusura della discussione, in modo che il Relatore possa parlare con maggiore comodità che non in questo scorcio di seduta; e ciò anche per dar modo al Governo di parlare dopo il Relatore. Infatti, se oggi parlasse il Relatore, probabilmente il Governo non sarebbe in grado di prendere la parola.
PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, il Ministro delle finanze propone di rinviare il seguito della discussione ad altra seduta, in modo che il Relatore e il Governo possano esprimere il loro parere.
Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Ministro delle finanze.
(È approvata).
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
La seduta termina alle 11.45.