ASSEMBLEA COSTITUENTE
CLXIX.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 2 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Sul processo verbale:
Pella, Ministro delle finanze
Congedi:
Presidente
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio (Seguito della discussione):
Presidente
De Vita
Nitti
Micheli
Vigorelli
Scoccimarro
La seduta comincia alle 10.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
Sul processo verbale.
PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare sul processo verbale.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PELLA, Ministro delle finanze. Ho sentito, dal processo verbale, che io avrei affermato di aver dato disposizioni perché gli uffici competenti sospendessero la riscossione dell’imposta straordinaria sul patrimonio.
Desidero rilevare che l’affermazione non è esatta. Come ho detto ieri mattina, il Ministero ha comunicato agli uffici competenti di considerare tempestiva la presentazione della dichiarazione, se fatta entro il 31 luglio 1947. Quindi la concessione è stata accordata soltanto agli effetti della presentazione della dichiarazione. Nessun provvedimento è stato adottato in ordine alla riscossione dell’imposta, che ha avuto il suo corso normale.
PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni sul processo verbale, esso si intende approvato.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Baldassari e Costantini.
(Sono concessi).
Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio (14).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
Sono iscritti a parlare gli onorevoli Costa e De Mercurio. Poiché non sono presenti, si intende che abbiano rinunciato a parlare.
È iscritto a parlare l’onorevole De Vita. Ne ha facoltà.
DE VITA. Onorevoli colleghi, il Governo ha considerato atto di doveroso riguardo verso l’Assemblea il sottoporre ad essa, per la convalida, il decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’imposta straordinaria sul patrimonio.
In realtà il Governo, come esplicitamente è detto nella relazione del Ministro proponente, desidera avere il conforto dell’autorità dell’Assemblea nell’attuazione di un provvedimento finanziario che potrà non essere scevro di notevoli riflessi di ordine economico ed anche politico.
L’Assemblea è chiamata a convalidare un provvedimento già emanato nella forma di decreto legislativo a norma dell’articolo 4 del decreto legge 25 giugno 1944, n. 151. Si tratta di un istituto giuridico nuovo, creato dal Governo nella sua onnipotenza, e non previsto da alcuna delle leggi di carattere costituzionale che disciplinano i rapporti tra l’Assemblea e il Governo, oppure si tratta di una terminologia impropria con la quale si intende fare riferimento alla ratifica prevista dall’articolo 6 del decreto legislativo luogotenenziale 14 marzo 1946, n. 98? A mio giudizio, questa seconda ipotesi è da escludersi in quanto, a norma dell’articolo 6 del citato decreto, i provvedimenti legislativi adottati dal Governo debbono essere presentati, per la ratifica, al nuovo Parlamento entro un anno dalla sua costituzione.
Vero è, d’altra parte, che ai sensi del secondo comma dell’articolo 3 dello stesso decreto, il Governo può sottoporre all’esame dell’Assemblea qualsiasi provvedimento quando ne riconosca l’opportunità; ma, in questo caso, non può parlarsi né di ratifica, né di convalida. In questo caso, il Governo sarebbe tenuto a presentare lo schema di disegno di legge che intende promuovere.
Il Governo ha emanato il provvedimento in esame prescindendo, per motivi di massima urgenza, dalla preventiva deliberazione della seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge. Volendo poi compiere un atto di… doveroso riguardo verso l’Assemblea ha inventato l’istituto della convalida.
Ma la parola «convalidare», presa alla lettera, ha il significato di rendere valido ciò che non è valido.
È valido o non è valido il provvedimento adottato dal Governo?
Onorevoli colleghi, io vi risparmio i commenti piuttosto salaci del pubblico posto di fronte ad una procedura assolutamente nuova e che ha perfino ingenerato il dubbio che non si trattasse di un provvedimento perfetto. Purtroppo, in questo periodo di inizio della nuova vita costituzionale italiana, i confini delle sfere di competenza del Governo e dell’Assemblea sono stati delimitati a favore del primo il quale esercita, senza delega, il potere legislativo ordinario. L’Assemblea è chiamata oggi ad esprimere un giudizio su questo provvedimento, ma l’Assemblea è chiamata ad esprimere il suo giudizio soltanto quando si tratta di istituire nuove imposte o di inasprire le aliquote delle imposte esistenti. In altri termini, l’Assemblea è chiamata di preferenza in causa quando si tratta di affrontare l’opinione pubblica ormai sensibilissima al fenomeno dell’imposizione; il quale, se un tempo poteva considerarsi soltanto come un fatto puramente spiacevole, ha oggi raggiunto ed oltrepassato i limiti della comune sensibilità umana.
Non sembra però che il Governo abbia usato lo stesso riguardo verso l’Assemblea, quando si è trattato di approvare nuove spese. È assai graziosa la tendenza a ridurre il contenuto dei rapporti tra l’Assemblea e il Governo a pure e semplici regole di opportunità e di convenienza: si trattasse almeno di quelle regole di correttezza costituzionale in uso presso gli inglesi! Ma non si tratta nemmeno di questo. (Interruzione).
Onorevole collega, lei ha accennato alla Commissione: vi sono però precedenti che danno forza al mio ragionamento; ad esempio l’indennità di toga ai magistrati. La Commissione ha esaminato il provvedimento, ha fatto dei rilievi, ma il Governo non ha tenuto conto dei rilievi fatti dalla Commissione.
Diciamolo francamente: a questa Assemblea si riconosce il diritto di dire di sì alle proposte del Governo, ma non quello di rispondere di no.
Ed allora, perché sottoporci a quell’allenamento parlamentare, così caldamente raccomandato dallo Stein, e che consiste principalmente in un allenamento alla rassegnazione?
Comunque, prima di entrare nel merito del provvedimento sottoposto al nostro esame, stimo opportuno fare ancora qualche osservazione di carattere generale: si è il Governo finora preoccupato di stabilire una proporzione fra le spese pubbliche e le risorse economiche della collettività? Non basta muovere dall’ipotesi che una progettata attività dello Stato, considerata di per sé, debba essere riconosciuta come generalmente utile; si dovrà misurare anche l’utilità prevista contro il sacrificio richiesto. Ed il giudizio a questo riguardo, da parte delle varie classi dei cittadini, dipenderà soprattutto dalla progettata ripartizione del carico tributario. A me pare che la ripartizione del carico tributario sia stata finora determinata a priori e che l’attenzione del Governo non si sia fermata sul fatto che, sia in pratica che in teoria, non esiste necessariamente una ripartizione delle imposte indipendente dalla approvazione delle spese.
Questa breve premessa ha lo scopo di mostrare in qual senso può ritenersi opera vana l’esame frammentario di uno dei problemi della finanza di questo nostro dopoguerra, avulso dal quadro generale di tutti gli altri problemi.
In altri termini, ha lo scopo di dimostrare la necessaria connessione degli effetti dei singoli istituti tributari e finanziari con l’uso delle pubbliche entrate da parte dello Stato.
Non credo si possa seriamente sostenere che questa Assemblea sia in grado di dare un giudizio completo e coscienzioso sull’imposta sottoposta al suo esame, prescindendo dall’impiego delle somme con essa imposta prelevate e dall’influenza esercitata da tale impiego sugli effetti finali dell’imposta stessa.
Quando si studia un’imposta o un complesso di imposte, non si può astrarre dalle corrispondenti spese pubbliche e dall’influsso che per questa via lo Stato può esercitare sull’incidenza stessa dell’imposta. La connessione fra gli effetti diretti dell’imposta e l’impiego del ricavato della medesima sta a base di una giusta tassazione. Ciò è stato riconosciuto da insigni teorici della scienza delle finanze. Per necessità logiche si può prescindere dall’impiego della somma prelevata nello studio degli effetti di un’imposta astratta; ma quando si tratta – come nel caso in esame – di studiare una imposta concreta, allora diventa necessità logica l’opposto.
Qualsiasi imposta interviene a turbare un determinato equilibrio economico e può spesso avvenire che l’impiego di essa tocchi direttamente i prezzi e i rapporti economici alterati dal suo prelievo. Dopo J. Stuart Mill, lo stesso professor Einaudi, oggi Ministro del bilancio nel nuovo Governo, ha posto formalmente il problema in un suo scritto del 1912: «Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposta del reddito consumato» e successivamente lo ha posto sotto un aspetto più generale in un altro scritto intitolato: «Contributo alla ricerca dell’ottima imposta», dove afferma che «imposta» e «uso dell’imposta» sono due termini inseparabili l’uno dall’altro e che lo Stato non fa, quando istituisce tributi, «dell’arte per l’arte», ma crea tributi per spenderne il valsente. La nozione stessa di pressione fiscale non avrebbe alcun significato, se la contribuzione fosse il corrispettivo economico dei servizi economicamente utili resi dallo Stato ai privati, il compenso per il concorso che gli enti pubblici forniscono alla produzione del reddito nazionale. Ma la somma delle imposte non è funzione diretta e costante dei vantaggi economici che i servizi pubblici, di cui copre il costo, forniscono alla collettività. È necessaria la conoscenza della spesa, anche perché quando la spesa pubblica ed il rapporto fra tributi e reddito nazionale aumentano per servizi che corrispondono a fini pubblici in tutto o in parte fuori dell’economia, può verificarsi un inasprimento della pressione tributaria nel senso comune della parola; ed all’ora i concetti di prelievo, di sacrificio e di onere acquistano un significato preciso. Non sembra che il nesso logico fra l’approvazione delle spese da una parte e provvista di mezzi atti a coprirle dall’altra sia risultato palese al Governo. Non sembra che il Governo abbia conseguito la realizzazione pratica del principio il quale richiede che una spesa non venga mai votata, prima di avere contemporaneamente deciso intorno ai mezzi atti a coprirla. Ora, la seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge ritiene che sarebbe illusorio, nella situazione indubbiamente grave nella quale ci troviamo, considerare il provvedimento sottoposto all’esame dell’Assemblea come un provvedimento a sé stante, capace di risolvere da solo i moltissimi problemi che ci angustiano e ci preoccupano.
Continua la Commissione: «Si tratta di inaugurare una politica di reale freno delle spese e di serio ed approfondito controllo della necessità ed indispensabilità delle spese stesse».
Ma come si può inaugurare questa politica, senza un vero e proprio controllo costituzionale? La raccomandazione fatta dalla Commissione al Governo potrebbe essere tanto efficace quanto il raccomandare ad un uomo che sta per annegare di mantenersi asciutto.
Io ho fondati motivi per ritenere che, nonostante questa raccomandazione, il Governo continuerà a ripetere la preghiera di Sant’Agostino: «Rendimi puro, ma non per ora».
Prima di ogni altra cosa è oggi necessario rientrare subito negli ordini di un Governo regolare, cioè nella discussione e votazione dei bilanci.
Forse qualche esempio potrebbe convincervi, onorevoli colleghi, dell’urgente necessità di porre fine a questo assolutismo governativo.
Esaminate il conto del tesoro al 31 gennaio 1947: se si escludono le somministrazioni fatte agli alleati di circa 24 miliardi in base all’accordo monetario, non risulta che vi siano state anticipazioni della Banca d’Italia per conto del tesoro, non risulta cioè che si sia fatto ricorso all’emissione di nuova carta moneta.
Anche l’onorevole Presidente del Consiglio ha dato conferma di ciò, ma dal luglio 1946 ad oggi la circolazione monetaria è aumentata di circa 130 miliardi.
Come mai? Questa è la domanda che io vi pongo.
CAMPILLI. È per conto del commercio.
DE VITA. No, credo di poter dare un’altra spiegazione. Io credo che all’aumento della circolazione abbiano contribuito le anticipazioni agli enti finanziatori degli ammassi ed il finanziamento degli acquisti di valuta per conto dell’ufficio italiano dei cambi.
CAMPILLI. Questo è accennato nella relazione.
DE VITA. Se esaminiamo il conto del tesoro ed il bilancio, vediamo che queste due voci non figurano al debito fluttuante. Ciò non rispecchia la situazione reale, perché non si tratta soltanto di movimento di capitali, si tratta di operazioni che hanno determinato una forte emorragia di biglietti. Sembra incredibile, ma anche il Prestito della Ricostruzione ha dato luogo ad emissione di nuova carta moneta. In altri termini, un prestito che doveva avere funzione antinflazionistica, è stato inflazionistico.
E che dire dei sospesi di tesoreria, ossia di quei titoli pagati e non scaricati?
Dal luglio 1946 ad oggi detti sospesi sono aumentati di circa 50 miliardi. Che cosa vuol dire ciò? Vuol dire che lo Stato paga senza che vi sia lo stanziamento. È vero, onorevole Campilli?
CAMPILLI. Non è competenza mia. Non riguarda me.
DE VITA. Vuol dire che siamo arrivati al punto di pagare prima di averne l’autorizzazione!
CAMPILLI. Si rivolga a qualche altro gerente, non a me.
DE VITA. Siccome lei mi ha fatto l’osservazione, mi son fatto il dovere di rispondere.
LA MALFA, Relatore. I sospesi di tesoreria sono il contrario: sono spese non pagate.
DE VITA. No, si considerano sospesi di tesoreria i titoli pagati e non scaricati.
LA MALFA, Relatore. No. Figurano fra i debiti di tesoreria; si leggono al contrario.
PRESIDENTE. Chiarirà dopo, onorevole La Malfa. Onorevole De Vita, continui.
DE VITA. Comunque, non mi sembra che ciò possa ritenersi regolare. L’argomento è indubbiamente assai importante e mi duole di non potervi insistere, perché un esame approfondito di esso mi porterebbe assai lontano dal tema della discussione odierna.
E passiamo all’imposta straordinaria sul patrimonio. Il provvedimento in esame deve quindi considerarsi il primo di una serie di altri provvedimenti i quali dovrebbero energicamente risanare il bilancio dello Stato ed arrestare qualsiasi moto di slittamento della lira. Ora, questo fatto crea indubbiamente una preoccupazione, una preoccupazione grave per l’eventuale ripetersi dell’imposizione straordinaria e scoraggia, specie in un primo tempo, la formazione di risparmi aumentando i rischi di perdita e diminuendo l’ofelimità dei beni destinati a bisogni futuri.
Sebbene la relazione che accompagna il decreto non dica quali siano le finalità assegnate all’imposta, quale la destinazione del provento, credo che essa non possa essere destinata ad altro che alle spese effettive di bilancio.
Non intendo, onorevoli colleghi, muovere facili obiezioni al provvedimento, partendo da preconcetti critici. In una materia così complessa peccherei di presunzione se non tenessi costantemente presente l’aforisma: «Chiunque spera di vedere una imposta senza guai, spera quello che non fu, non è e non sarà mai». Ciò non vuol dire però che si deve rinunciare alla critica.
Si può anche essere d’accordo con la Commissione, la quale conclude la sua relazione affermando che in questa particolare materia tutte le argomentazioni sono possibili e che chiunque è in grado di farle. Ma qui non si tratta di esercitarsi nell’arte sottile di «spennacchiare l’oca facendola strillare il meno possibile» come ha fatto la seconda Commissione; si tratta soltanto di fare una critica serena ed obiettiva. È facile rilevare che l’imposta; così come è stata congegnata, ha un’area di applicazione assai ristretta, che i benefici che al bilancio ne possono derivare sono così tenui da farne apparire incerti gli effetti anti-inflazionistici. Ma la facilità dell’affermazione nulla toglie alla verità affermata. Vi è anche fondato motivo di ritenere che l’imposta in esame, nella sua pratica attuazione, da imposta personale progressiva si trasformi in una imposta reale progressiva sui terreni e sui fabbricati. È uno strumento idoneo a colpire i valori mobiliari? Certamente no. Sarà facile giuoco, per coloro che abbiano accresciuto a dismisura la propria ricchezza mobiliare mediante l’esercizio di attività speculative, sfuggire attraverso le maglie di questo provvedimento tributario e mettere al sicuro le fortune accumulate a spese della collettività. Nessuna imposta personale può essere applicata con sicurezza, facilità e giustizia, se non è estesa a tutta la collettività economica nazionale. Credo che sia difficile dissipare il dubbio che con questa imposta si sacrifichino i puri principî di imposizione, quali risultano da universale esperienza, ad altri non chiari motivi.
Essa conduce a lampanti assurdità ed ingiustizie che si sarebbero potute evitare facilmente e viene meno a gran parte degli scopi che una imposta straordinaria sul patrimonio deve prefiggersi. Da questo punto di vista assume un particolare rilievo il problema dei valori mobiliari (denaro, titoli, depositi bancari). Assume un particolare rilievo non soltanto di carattere tributario, ma anche di carattere politico e sociale. Il Governo mette da parte il cambio della moneta, si trincera dietro il segreto bancario per mettere da parte anche gli altri mezzi tecnici idonei a colpire la ricchezza mobiliare, idonei ad accertare la reale consistenza dei depositi bancari e dei titoli al portatore. Motivi di opportunità politica e psicologica avrebbero consigliato il Governo di non procedere ad accertamenti diretti presso gli istituti di credito.
Una voce a destra. Male!
DE VITA. Ma non ritiene il Governo che motivi più importanti, di equità, di giustizia e di perequazione del carico tributario impongano di colpire la ricchezza mobiliare, in gran parte frutto di speculazione?
Non si chiede al Governo di colpire col piombo o con il laccio, come è avvenuto in altri Paesi, coloro che hanno edificato e continuano ad edificare le loro fortune sulle sofferenze e privazioni altrui; si chiede al Governo soltanto di colpire questa gente con l’imposta. Non si deve permettere che questi speculatori sfuggano ancora attraverso le maglie del sistema tributario.
Ciò non contribuisce certamente a sedare il malcontento sociale, malcontento che può anzi essere aggravato dalla decisione del Governo di non derogare dal segreto bancario in quanto, come rileva anche la seconda Commissione, questa decisione mette fuori causa un valore che ammonta ad oltre 1600 miliardi, compreso quanto depositato o posseduto dagli enti collettivi esenti dall’imposta.
Assai importante è anche il problema dei soggetti passivi dell’imposta. A norma dell’articolo 2 del provvedimento, sono soggetti all’imposta le persone fisiche ed anche le società e gli enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato. Sono quindi esenti gli enti collettivi costituiti in Italia. Questa esenzione non mi convince. I motivi che hanno indotto il Governo a non applicare la nuova imposta agli enti collettivi mi sembrano veramente speciosi. Si legge nella relazione illustrativa che l’applicazione dell’imposta a carico delle fondazioni finirebbe con lo snaturare profondamente la natura personale dell’imposta stessa con conseguenze che non sono soltanto di pura e semplice armonia teorica ma anche di portata pratica in quanto – avuto riguardo ad un caso specifico di un genere più ampio, come quello degli istituti di credito – si sarebbe verificato che, in conseguenza di un semplice elemento formale della loro costituzione, sarebbero state colpite dal tributo le banche-fondazioni, rimanendone escluse le banche-società. Ancora più specioso appare il ricorso a ragioni di carattere strettamente giuridico, fatto anche dal Ministro nella sua relazione, dove si legge: «Da un punto di vista strettamente giuridico, va, poi, osservato che, nel nuovo Codice civile, le persone giuridiche private sono denominate, oltre che associazioni e fondazioni – secondo la classica distinzione – anche istituzioni in genere.
«L’introduzione nel Codice civile di questo terzo tipo di persone giuridiche, dovuta all’affievolirsi della distinzione tra associazioni e fondazioni ed alla insufficienza della distinzione stessa, a rappresentare la grande varietà dei tipi germogliata in relazione alle esigenze della vita e dell’economia moderna, poneva il problema della classificazione di dette istituzioni».
In altri termini il Governo dice che, stando al Codice civile, è difficile trovare un criterio di distinzione tra associazioni e fondazioni ed istituzioni. L’osservazione che nel nuovo Codice civile le persone giuridiche sono denominate, oltre che associazioni, fondazioni, non può ritenersi seria o quanto meno insuperabile. Invero il Governo, parte dal presupposto che l’esenzione delle società per azioni sia, sotto ogni aspetto, giustificata. Certamente, se si applicasse l’imposta soltanto alle fondazioni e non anche alle società per azioni, si stabilirebbe una disparità di trattamento tra enti collettivi, che presuppongono soci o partecipanti, ed enti che non li presuppongono. Il Governo si è giustamente preoccupato di questa sperequazione, ma non mi pare che si sia preoccupato dell’altra grave sperequazione tra imprese individuali e società per azioni. Il Governo avrebbe dovuto tener conto di questa sperequazione. Non starò qui a ripetere gli argomenti, per molti aspetti assai interessanti, svolti dalla Commissione; mi limiterò ad aggiungere soltanto qualche breve considerazione.
L’esenzione delle società anonime appare, in verità, ancora più ingiustificata, se si pone mente al fatto che, anche colpendo le imprese societarie, rimane sempre una sperequazione tra queste imprese e le imprese individuali.
I perturbamenti causati dalla imposta sarebbero più gravi per le imprese individuali che per le societarie e le grandi industrie gestite in questa forma, essendo l’imprenditore individuale personalmente soggetto al tributo; tanto più gravi quanto più alta è la percentuale che l’attivo netto dell’impresa rappresenta nel patrimonio personale dell’imprenditore e quanto minori sono le disponibilità per altre fonti.
Peraltro, col sistema di tassazione del capitale azionario presso i singoli soci, previsto dal provvedimento, non si colpiscono quei titoli che sono posseduti da persone che hanno un patrimonio il cui valore non raggiunge il minimo imponibile.
Ed ho terminato. Desidero soltanto fare alcune considerazioni sulla imposta straordinaria proporzionale.
In ordine a questa imposta si può dire che anch’essa è quasi interamente a carico della proprietà immobiliare, e quindi della ricchezza che alcuni hanno chiamato «ricchezza vecchia». Questa imposta non colpisce la ricchezza nuova. Ora, la nuova ricchezza che si è accumulata in Italia durante la guerra e in questi primi anni del dopoguerra è proprio la ricchezza mobiliare, dovuta a fenomeni speculativi. Trattandosi poi di una imposta proporzionale, essa attua, in relazione alla capacità contributiva dei singoli, la progressività al rovescio. Potrebbe anche essere vessatoria per i patrimoni minori. È vero bensì che delle partite iscritte per l’imposta sui terreni, che raggiungono i 10 milioni di articoli di ruolo, soltanto due milioni di partite sono assoggettate all’imposta patrimoniale, e che gli articoli di ruolo per tutte le categorie di possessori assoggettati ad imposta sul patrimonio si aggirano sui 4 milioni. Ciò potrebbe significare che numerosi piccoli proprietari sono esenti dall’imposta.
Ma questa constatazione nulla toglie alla fondatezza dell’osservazione precedentemente fatta, anche perché le numerose esenzioni sono dovute alla polverizzazione della proprietà esistente in molte località.
Concludendo: io stimo opportuno che il provvedimento sottoposto al nostro esame sia modificato nel senso che siano colpiti innanzi tutto i depositi bancari, i titoli al portatore, gli enti collettivi, e che sia alleggerita la proporzionale per i patrimoni minori. Questo, onorevoli colleghi, a mio giudizio, si impone per ragioni di equità e di giustizia. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.
NITTI. (Segni di attenzione). Dopo tanti errori e tante illusioni, siamo infine nel campo della realtà. La realtà è dolore.
Dal punto di vista politico e dal punto di vista economico il primo di luglio è giorno di realtà.
Si può difficilmente mentire dinanzi alla evidenza dei fatti, ma non è più possibile avere troppe illusioni, né sopra tutto darne agli altri. Il pubblico è divenuto giustamente incredulo.
I trattati di pace, che ci sono imposti, sono veramente ingiusti e non potevano essere concepiti in spirito meno sereno e sì poco amichevole. Oltre all’aver gridato per tanto tempo al pubblico lungamente illuso e ingannato che la Repubblica democratica ci avrebbe dato pane e lavoro, si è anche più gridato che l’Italia, a causa del suo nuovo ordinamento politico, avrebbe avuto dalle democrazie repubblicane condizioni di pace favorevoli. I trattati che ci sono imposti sono di grande durezza e di vera ingiustizia e qualcuna delle democrazie vittoriose ha riserbato a se stessa vantaggi a nostro danno non giusti e non giustificabili.
Nel campo economico, dopo tante rovine accumulate, abbiamo trovato l’assistenza amichevole degli Stati Uniti di America, sopra tutto a traverso l’U.N.R.R.A.
II concorso dell’America ci ha consentito di vivere finora con minore difficoltà che non si potesse prevedere.
L’U.N.R.R.A. ha lasciato il nostro Paese il 1° luglio, dopo aver esaurito il suo compito.
Le convenzioni dell’U.N.R.R.A., dopo il marzo 1945 e gennaio 1946, han fatto sì che i principali aiuti americani sono stati dati all’Italia. Sopra 22 milioni e mezzo di tonnellate spedite all’estero, l’Italia ne ha avuto oltre 10 milioni: grano, carbone, petrolio, cotone, ecc.
È stato un aiuto largo che, evitando o limitando la vendita di lire per comperare le derrate più indispensabili, ha contribuito a mantenere il corso della lira e rendere meno difficile la finanza dello Stato.
Ora tutto ciò è finito.
Ho spiegato a lungo nel mio discorso ultimo l’immane sforzo dell’America in Europa e in Asia, non solo con la larga assistenza ma con aiuti per riprendere e assicurare la produzione industriale.
Ma è stato errore ed è illusione considerare, sia pure limitatamente, il concorso americano come duraturo.
Per quanto enorme la produzione americana, essa non può continuare a sopportare il peso di una economia mondiale che, rotte le leggi dello scambio, graviti in direzione unica, e di cui solo un grande paese debba portare le responsabilità sia pure in vista di vantaggi futuri.
L’America non è disposta oramai a dare dollari, se non nella misura che gli altri paesi esporteranno. Necessità suprema di tutti i paesi è dunque aumentare la loro esportazione. Per ottenere dollari lo sforzo deve essere diretto a questo fine. Malauguratamente, le difficoltà di aumentare la produzione sono grandi e per noi soprattutto la mancanza di materie prime e la deficienza dei generi alimentari. Sappiamo ciò di cui abbiamo bisogno, non ciò che possiamo avere. Crediamo che la utilizzazione di tutti i resti ci consenta di arrivare a ottobre prossimo; ma il problema diventa dopo di allora assillante e di difficile soluzione.
Possiamo pure supporre che fra qualche mese il prezzo del carbone potrà essere anche di tre o quattro volte superiore a quello attuale. Come potrebbero funzionare le fabbriche più importanti in queste condizioni? Come potremo avere le risorse necessarie? Questi sono ancora i mesi meno duri, ma il mese più duro è, come ho detto, non lontano, ed è ottobre, in cui la situazione dell’Italia si delineerà in tutta la sua gravità. Allora il grano del raccolto sarà in gran parte, se non interamente, esaurito e noi avremo bisogno di una somma ingente per comprare anche soltanto ciò che è indispensabile per la nutrizione.
Di fronte all’Italia, l’America seguirà la stessa politica che verso tutti gli altri paesi e se pure può avere particolare considerazione, ciò non può mutare l’indirizzo generale che l’America nel suo interesse e per necessità si è imposto.
Nessuno nel mondo attuale è sicuro: noi non possiamo prevedere se altre cause di disordine non turberanno la vita del mondo.
Noi dobbiamo raccoglierci in uno sforzo di volontà; dobbiamo aver fiducia in noi e inspirare e conquistare la fiducia. Dobbiamo aumentare pure a traverso gli ostacoli, la produzione e renderla meno costosa che sia possibile.
La nostra politica estera, la nostra politica economica e soprattutto la nostra politica finanziaria devono essere indirizzate in uno stesso senso.
In politica estera, accettando i trattati non senza tutte le riserva per l’avvenire, dobbiamo contribuire a tutto ciò che possa aiutare a rinnovare i rapporti internazionali di scambio. Lasciamo i progetti avveniristici. L’Italia ha interesse a tutto ciò che ci fa uscire dall’isolamento attuale. Come in passato, l’Italia deve non solo volere la pace, ma concentrare il suo sforzo in un’unica direzione: libero movimento degli uomini e delle merci. Non vi sarà vera ripresa se non in questa direzione.
Ciò dipende solo in parte da noi e la stessa politica economica solo in parte dipende da noi.
Bisogna naturalmente evitare tutto ciò che ci indebolisca di fronte al mondo e apparire come una massa compatta di 46 milioni di uomini fidenti nell’avvenire. Vi sono però cose che dipendono da noi.
La politica finanziaria dipende infatti soprattutto da noi.
Siamo noi che dobbiamo regolare le nostre spese e in conseguenza le nostre entrate, sempre più limitate, che ci imporranno ben presto quella linea di condotta che risponde allo stato di necessità.
Di fronte a una spesa che è tre volte e più quella consentita dalle entrate, di fronte a un debito enorme, e a forme di debito minacciose e che ci obbligano a nuove e continue emissioni di carta moneta, noi non possiamo avere sogni utopistici.
Ma l’utopia invece risorge sempre in tutte le forme.
Programmi ieri appena ancora annunziati dal Governo attuale alla sua presentazione sono abbandonati, altri programmi vengono fuori. E vengono fuori anche nuove illusioni.
Che cosa ci è imposto dalla necessità finanziaria?
Prima di tutto, con provvedimenti di urgenza, impedire che si produca la caduta della moneta.
Su questa prima esigenza nessuna divergenza di idee è possibile. Prima di tutto è necessario dare sicurezza che le spese non saranno oltre aumentate senza corrispettivo aumento di entrate.
E poi sono necessarie imposte nuove e riordinamento delle imposte esistenti, in modo che siano seriamente applicate e diano un maggior rendimento.
Sono soprattutto le imposte dirette, i monopoli, le imposte di fabbricazione che han bisogno di una vera revisione.
Si parla ora di una grande imposta sul patrimonio, ma io temo soprattutto per il momento in cui dovrebbe essere applicata, che possa dar luogo a grandi delusioni e turbamenti della opinione pubblica.
Il male maggiore è che negli ultimi anni si è perduto il senso della realtà finanziaria.
Nell’imposta non si cerca solo una entrata per lo Stato, ma assai più un mezzo, nelle forme che si crede più semplici, di grandi riforme sociali. Si vuole che le classi lavoratrici e in generale i ceti popolari siano il più che possibile sottratti alle imposte. Ora basta avere un minimo di conoscenza economica e finanziaria per comprendere come queste non siano che illusioni.
L’idea di creare un nuovo ordine economico attraverso le imposte è puerile. Si può rovinare un regime economico con imposte che disordinano la produzione della ricchezza, ma non si può rinnovare o cambiare un regime economico con l’imposta.
Le imposte che sono fondamento di qualsiasi sistema finanziario, devono per necessità basarsi sulla grande massa della popolazione. Le fortune rilevanti contribuiscono per la minor parte, in quanto appunto rappresentano la minor parte del reddito e del consumo nazionale.
È puerile credere che imposte che assorbono tanta parte del reddito siano possibili senza sofferenza per tutte le classi sociali e che così in alto come in basso sia possibile di sottrarsi alla resistenza se non all’avversione dei contribuenti.
Non vi sono contribuzioni che si pagano volentieri né tanto meno contribuzioni volontarie, come non vi sono donatori spontanei. Ciò poteva accadere nelle città antiche, in periodi di calamità pubbliche e di estremo pericolo. E gli ordinamenti finanziari sono soggetti alle stesse leggi economiche.
Tutto ciò che in materia finanziaria è avveniristico non è serio. La finanza è la forma di attività che meno si presta alla fantasia.
Ora è venuta fuori la illusione di una imposta generale sul patrimonio, che non solo dovrebbe miracolosamente contribuire a risanare il bilancio ma contribuire a compiere opera di ricostruzione sociale.
Io devo dire lealmente che non solo non credo che un’imposta sul patrimonio, applicata in questa fase della vita nazionale, possa dare grandi e utili risultati, ma credo che possa, dando risultati cattivi, complicare e rendere più difficile ogni opera di risanamento finanziario.
Il decreto legislativo che, con procedimento non ammirevole, è stato messo in esecuzione prima ancora di essere approvato, è fatto nuovo nella forma se non nuovo nel contenuto. Si comprende un decreto catenaccio quando si tratti di ricchezze che possono sfuggire al fisco come dazi di dogana o anche il prezzo di alcuni generi di consumo. Ma come nell’imposta sul patrimonio, quali ricchezze potevano o possono sfuggire?
Procedimento tumultuario e inesplicabile.
Il decreto legislativo si riferisce nel Titolo alla istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. In realtà ciò riguarda due distinti provvedimenti tributari, l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva e l’istituzione di un’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio, con la soppressione, a partire dal primo gennaio dell’anno prossimo, delle relative imposte ordinarie.
Considerati nel loro insieme, questi provvedimenti, se anche potessero in ipotesi dare risultati apprezzabili, non possono darli a breve termine.
Per quanto riguarda la difesa della lira, che è la cosa ben più urgente, l’adozione di questa imposta non può che produrre danno rendendo più inquieto il mercato. Per la situazione del bilancio almeno fino al 1949 non hanno questi provvedimenti alcuna importanza.
La patrimoniale crea negli ignari la illusione che costituisca una specie di panacea sociale (colpisce i ricchi e determina una grande entrata).
Tutte le esperienze del passato dimostrano che mai l’imposta sul patrimonio ha determinato entrate imponenti e mai è servita a sanare la finanza pubblica; che mai ha prodotto grandi entrate a breve termine; e in breve periodo di tempo; che mai è stata applicata seriamente e non ha potuto per la sua forma e per la sua durata essere pagata dal reddito e non già dal patrimonio.
È poi norma essenziale che nessuna grande imposta patrimoniale debba essere applicata in tempo di grande incertezza monetaria.
Siamo noi sicuri che il corso attuale della moneta avrà una stabilità almeno relativa?
E se prima non provvediamo alla moneta come imporre provvedimenti che daranno i loro risultati solo fra qualche tempo?
Io ho l’aria di parlare contro ciò che io stesso ho fatto. Io stesso infatti sono il Capo del Governo che nel 1919 ha voluto la patrimoniale. L’ho voluta e l’ho applicata, ma per le stesse ragioni ora non la vorrei, perché si presenta in circostanze diverse e che ne rendono pericolosa l’applicazione. Ed ora mi tocca a protestare soprattutto contro le illusioni, perché io sono favorevole all’imposta sul patrimonio, ma desidero che venga pagata in realtà come un’imposta sul reddito, e come che sia, applicata in circostanze determinate.
Applicai la patrimoniale nel 1919, ma l’avevo già preparata nel 1917, quando ero Ministro del tesoro. Io ebbi l’idea, vedendo i conti che venivano al Tesoro da tutti gli arricchiti di guerra. Allora si chiamavano pescicani: non so come sono stati chiamati dopo e come si chiamano ora. Io fui colpito da questi immensi guadagni e fu una delle ragioni per cui pensai ad una imposta sul patrimonio che avesse carattere progressivo efficiente. E fu da allora che feci il primo piano di questa imposizione.
Io volevo allora alcuni grandi monopoli che avevo preparato e volevo rinforzare alcune imposte che erano ancora lente nel loro sviluppo e volevo introdurre insieme l’imposta sul patrimonio. Così venne nel 1919 l’imposta sul patrimonio.
Devo dire che quell’imposta – che si poteva pagare in dieci o venti anni – fu pagata secondo le previsioni e il gettito fu anche maggiore di quello che alcuni miei uffici prevedevano. Devo anche dire che l’imposta non dette luogo ad alcun inconveniente e non offese le classi possidenti, al punto che io potetti fare nello stesso tempo il più grande prestito pubblico che l’Italia abbia mai fatto: il prestito per pagare le spese della guerra del 1915.
È pessima politica volere una buona finanza ed insultare in permanenza chi possiede ed abbia possibilità di pagare. E così è cattiva finanza tenere sotto l’incubo d’una continua minaccia chi possiede! Bisogna avere il coraggio di prendere ai cittadini ciò che si deve e si può, arditamente, ma lasciare la gente respirare! Niente di più dannoso della continua, assillante minaccia, come si ha ora l’abitudine di fare.
È perciò che l’imposta sul patrimonio va considerata non solo nella sua funzione, ma nel tempo. Una stessa imposta è buona o cattiva, secondo il tempo e secondo le circostanze. Vi sono casi in cui, a seconda delle circostanze determinate, le imposte si possono applicare, altri in cui non si possono.
E se io ho in me grande dubbiezza adesso, è perché il tempo e la circostanza non mi sembrano favorevoli. Apprezzo le buone intenzioni dell’onorevole La Malfa. Dirò di più: ho fiducia in lui che, come Ministro dei trasporti, seguii con interesse perché mi diede l’impressione di un uomo di intelligenza e di senso pratico, e che rese dei servizi. Se ho tanta dubbiezza, non è per la sua persona e per le sue attitudini, ma è per la difficoltà del momento. Né egli riescirà, né in questo momento altri riescirebbe.
É un momento difficile. Vi sono molti sintomi che ci fanno credere che la patrimoniale non possa dare risultati. E non è prova contraria il fatto dei 12 miliardi pagati finora per riscatti.
Io vedo già ordini del giorno, proposte di modificazioni, articoli aggiuntivi. Forse nuove cose vorranno essere aggiunte! Óra già si trova, per esempio, che il limite è basso e che non è possibile applicare l’imposta nella forma attuale, dato il discredito della moneta. Altri notano che altre categorie vanno colpite, che altre forme di ricchezza vanno tenute presenti. Tutto questo indeterminatamente ed in forma che ci preoccupa.
Senza dubbio l’imposta, com’è presentata, lascia incerti e dubbiosi se non contrari. È sopratutto questione di tempo e di opportunità. Io mi rivolgo lealmente al Ministro e al Relatore e domando loro se credono essi che nel momento attuale, quando si devono applicare tante imposte e duramente applicarle, si possa mettere il pubblico in agitazione. E se non è dall’imposta sul patrimonio che noi potremo trarre ciò che ci è più necessario in questo periodo, perché farne causa di perturbamento e di disordine? L’imposta sul patrimonio è veramente complementare e solo fra qualche anno potrà svilupparsi. Ma noi dobbiamo nel momento attuale preoccuparci non di quello che avverrà negli anni prossimi, ma nei mesi prossimi. Perché mettere il pubblico in agitazione?
Io so che cosa è nelle democrazie la gelosia, che cosa è l’invidia. So che in ogni paese, in ogni villaggio, l’imposta sul patrimonio diverrà motivo di dissidi e di lotta. Il tale ha pagato, il tal altro non ha pagato o non pagherà. Non ci sono misteri, tutto viene fuori. E così l’imposta diventerà una causa di divisione e di lotte civili, proprio in un momento in cui siamo costretti a fare il massimo assegnamento sul credito e a portare il rendimento delle imposte essenziali al limite massimo di tolleranza.
Io, dunque, mi preoccupo non di un problema di ordine giuridico; mi preoccupo, invece, della temporaneità di questa imposta, per domandare se proprio in questo momento in cui dobbiamo chiamare a raccolta tutte le risorse del risparmio sia il caso di adottare provvedimenti finanziari che aprirebbero una lotta all’interno. Sarebbe una lotta dissimulata, ma non per questo meno effettiva. Tanto più valgono queste mie considerazioni, in quanto è ora al Governo un solo partito, e non bisogna dimenticare che le gelosie e i rancori sono inevitabili e più vivaci.
Credete che tutto questo avverrà senza una nuova lotta, senza aspri contrasti, senza diffidenze, senza accuse giuste ma soprattutto ingiuste? E non diminuisce la nostra resistenza finanziaria?
Io credo dunque che sia necessario considerare il problema nella sua essenza.
Non voglio fare proposte precise. Ma dal momento che vi proponete introdurre questa imposta, vi prego di fare in guisa che essa non sia ancora peggiorata con altre aggiunte e con altre modificazioni che la deformino ancora di più. Ma vi prego sopra tutto di considerare se non sia il caso di procedere a nuovo esame di questa materia. È possibile sospendere l’applicazione di un così inopportuno decreto legislativo e considerare a fondo la questione e rendersi conto di ciò che si può fare e di ciò che è meglio rinviare. Ora entriamo nel periodo delle grandi difficoltà. Dopo il mese di ottobre diventerà sempre più aspro il nostro cammino. Il 1948, dal punto di vista economico e finanziario, si presenta minaccioso. Non complicate le difficoltà. Non aggravate senza necessità la situazione attuale già incerta, che sotto alcuni aspetti ci minaccia. Pur non facendo alcuna proposta concreta, io confido che il relatore e il Governo si renderanno conto del pericolo di questo inopportuno, intempestivo e illusorio decreto sull’imposta patrimoniale. Spero ancora che si trovi il modo di rendere meno aspro questo momento e, se si può, di rinviare questo disegno di legge diventato legge ancora prima di essere stato esaminato e discusso, senza necessità, nella generale diffidenza. Dal momento che tutto è stato incerto nelle origini, solo un rinvio può essere utile.
In ogni caso io sono sicuro che i fini cui si è mirato non saranno raggiunti e che ciò sarà solo causa di nuovo turbamento economico e finanziario. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Angelini. Non è presente; si intende che vi abbia rinunziato.
È iscritto a parlare l’onorevole Pesenti. Non è presente; si intende che vi abbia rinunziato.
Segue l’onorevole Selvaggi. Non è presente; si intende che vi abbia rinunziato.
Segue l’onorevole Micheli, il quale ha presentato anche il seguente emendamento all’articolo 51:
«Aggiungere, in fine:
«Qualora il riscatto sia stato esercitato prima che l’accertamento dell’imposta sia divenuto definitivo, gli interessi imputati in conto imposta, ai sensi del presente articolo, sono rimborsati in relazione all’ammontare dell’imposta che risulti non dovuta e del tempo trascorso dal versamento al rimborso»:
L’onorevole Micheli ha facoltà di parlare.
MICHELI. Mi riservo di parlare per lo svolgimento dell’emendamento.
PRESIDENTE. Sta bene. Segue l’onorevole Vigorelli. Ha facoltà di parlare.
VIGORELLI. Prego di dare la precedenza all’onorevole Scoccimarro.
PRESIDENTE. Sta bene. Ha facoltà di parlare l’onorevole Scoccimarro.
SCOCCIMARRO. Questa discussione sull’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio ha un vizio d’origine che, a mio giudizio, le toglie gran parte del suo valore: esso consiste nel fatto che questo importante provvedimento finanziario ci viene presentato come «a sé stante» non inquadrato in un piano organico di politica economica e finanziaria, cioè in un complesso ben congegnato di provvedimenti capaci di dare un colpo di arresto al processo inflazionistico e speculativo; di determinare condizioni favorevoli alla ripresa economica; di creare quel senso di fiducia tanto essenziale agli operatori economici ed infine di giustificare con gli obiettivi che si propone ed i risultati che se ne attendono i gravi sacrifici che essa impone. Fin dal primo momento in cui, nel 1945, fu decisa l’istituzione del tributo straordinario, questo fu concepito nel quadro di un insieme di provvedimenti che dovevano precederlo e seguirlo, e in relazione alla situazione economica e finanziaria del momento: quel piano non si attuò per il non avvenuto cambio della moneta. Ed anche quando, verso la fine del 1946, si provvide alla elaborazione di un nuovo progetto indipendente dal cambio della moneta si seguì lo stesso criterio: l’imposta straordinaria faceva parte di un piano finanziario che insieme al pareggio del bilancio ordinario prevedeva un finanziamento triennale delle spese straordinarie per la ricostruzione. La crisi di gennaio ha impedito l’attuazione anche di questo piano finanziario. Si è invece lanciato all’improvviso questo nuovo progetto di imposta straordinaria come un provvedimento isolato, senza le misure preventive che esso richiedeva, in un momento che non è apparso del tutto tempestivo e congegnato in modo tale da sollevare non poche critiche e obiezioni. La nostra perplessità ancor si accresce dopo la risposta sostanzialmente negativa data dal Ministro del bilancio alle nostre proposte, per cui si ha l’impressione che questa imposta straordinaria in definitiva sarà un nuovo tributo che si pone a fianco degli altri tributi esistenti; ma non elemento di un piano organico di finanza straordinaria. E tanto più ci conferma in questa impressione il rifiuto del Ministro del bilancio di accogliere la proposta di istituire quel Bilancio della Ricostruzione nel quale avrebbe dovuto inquadrarsi l’imposta straordinaria. I motivi di quel rifiuto si sono andati a ricercare in dibattiti di un lontano passato che non hanno nulla che vedere con le esigenze della situazione attuale alle quali soltanto io mi sono richiamato nel proporre l’istituzione del Bilancio della Ricostruzione come si è fatto in altri paesi, ad esempio in Francia. L’aver considerato l’imposta straordinaria come un provvedimento a sé stante ha fatto sì che esso è stato emanato nel momento meno opportuno e pertanto è stato intempestivo. Infatti, condizione preliminare e necessaria di una imposta straordinaria, e pertanto temporanea e non permanente, non destinata a far parte integrante del nostro sistema tributario, è di farla precedere da tutte le misure necessarie capaci di creare, se non una immediata stabilizzazione monetaria, per lo meno le condizioni di una prossima stabilizzazione. Si deve tener presente che era maturato il problema della rivalutazione degli impianti delle società industriali, alla quale si potevano collegare particolari provvedimenti dei quali ho già parlato in sede di discussione sulle dichiarazioni del Governo: quei provvedimenti, a mio giudizio, dovevano tutti precedere l’imposta straordinaria perché diretti contro la speculazione che si è disfrenata nel primo semestre con relativa svalutazione monetaria che costituisce una evasione all’imposta straordinaria.
E la cosa è tanto più importante che ai fini dei bisogni immediati di tesoreria della riduzione del disavanzo dell’esercizio in corso, non era tanto l’imposta straordinaria che aveva importanza, perché di rendimento più lontano, quanto gli altri provvedimenti che avevano possibilità di un risultato immediato.
LA MALFA, Relatore. Onorevole Scoccimarro, quali?
SCOCCIMARRO. Per esempio i provvedimenti fiscali sul problema della rivalutazione degli impianti industriali. Non dimenticate che fra il febbraio e il maggio, si sono distribuiti in Italia, fra azioni gratuite e opzioni, 1.200 miliardi, dai quali il tesoro ha tratto scarso beneficio.
CAMPILLI. Questo non esclude che si faccia.
SCOCCÌMARRO. Ma bisognava farlo prima.
CAMPILLI. L’uovo e la gallina. Se l’avessimo fatto prima, avreste detto che bisognava prima fare l’imposta straordinaria.
SCOCCÌMARRO. Ma non è indifferente l’ordine in cui vengono presi i provvedimenti. Ne vedremo ora le conseguenze.
Che cosa avviene? Noi abbiamo fissato il 28 marzo come data di accertamento dei patrimoni. Ora quella parte dei 1.200 miliardi che è venuta alla luce dopo il 28 marzo è legalmente esclusa dalla imposta straordinaria.
Ma vi dirò di più. Al dicembre 1946 per le 170 società che in Italia hanno i loro titoli quotati in borsa, questi titoli si calcolavano attorno a 500 miliardi, mentre gli stessi titoli a fine maggio valevano 1.500 miliardi. Nel nostro progetto di imposta straordinaria noi prendiamo il semestre ottobre-marzo come termine di valutazione delle azioni: gran parte di quell’aumento di valore sfuggirà all’imposta.
CAMPILLI. Si è abbreviato a sei mesi quello che prima si era previsto in tre anni. Il primo progetto era molto vantaggioso.
SCOCCIMARRO. Le ricordo, onorevole Campilli, che i provvedimenti finanziari vanno esaminati al momento in cui vengono lanciati. Nel 1945 noi avevamo una flessione, una depressione di tutti i titoli: la situazione poi si è rovesciata.
CAMPILLI. Qui si è preso il periodo più alto.
SCOCCIMARRO. Nel 1945 la produzione in Italia era ridotta a un terzo.
VANONI. La media del triennio 1942-1945 era inferiore ai prezzi del 1945. Questo è un dato di fatto.
SCOCCIMARRO. Non lo contesto. Comunque, quello era un progetto non ancora definitivo, e non è detto che in esso non vi fosse ancora qualche errore da correggere. Quello che è certo è che nei primi mesi del 1947 si è avuto un enorme aumento nella valutazione dei titoli in Borsa, e non c’è dubbio che quando noi fissiamo la data del 28 marzo per l’accertamento dei patrimoni, tutto l’aumento successivo sfugge all’imposta.
Questo dimostra la intempestività del provvedimento, che è stato lanciato nelle acque torbide ed agitate dalla speculazione, senza difesa contro i danni che avrebbe subito, senza avere prima nulla fatto per calmare e rasserenare l’ambiente.
Ecco perché, secondo me, sarebbe stato opportuno attendere qualche mese, affinché quel processo di rivalutazione si esaurisse, e non c’era nulla di preoccupante se l’imposta straordinaria fosse stata istituita uno o due mesi dopo. E dico–questo perché? Perché oggi a molti si pone il problema che poneva l’onorevole Cappi discutendo le dichiarazioni del Governo, cioè se non sia opportuno, conveniente, riesaminare se quella data del 28 marzo non si possa spostarla per ridurre la zona di evasione; badate, di evasione legale, direi quasi autorizzata. Si potrebbe calcolare di quanto l’imposta viene a perdere come imponibile mantenendo quella data del 28 marzo piuttosto che spostarla, non dico molto, ma di qualche mese. Questa è la proposta che farò in sede di emendamenti.
Un’altra osservazione riguarda il criterio generale che ispira il provvedimento. Non dobbiamo dimenticare che la guerra e l’invasione hanno notevolmente impoverito il nostro Paese e che per provvedere alla restaurazione delle rovine ed alla riparazione delle spogliazioni si dovrà sostenere uno sforzo finanziario considerevole e di lunga durata. I sacrifici che si richiedono sono gravi e potranno essere tollerati solo se equamente ripartiti. Per tale ripartizione non bisogna dimenticare che l’impoverimento generale non si è ripartito proporzionalmente fra tutti i patrimoni: alcuni sono diminuiti, altri si sono conservati, altri si sono accresciuti costituendo un vero e proprio arricchimento. Ora, l’imposta straordinaria deve tener presente tali disuguaglianze causate dalla guerra. Perciò l’imposta straordinaria non ha soltanto uno scopo finanziario ma anche uno scopo politico sociale, cioè di attenuare le maggiori disuguaglianze create dalla guerra.
È per questa ragione che nel 1945 si era pensato di integrare l’imposta straordinaria con un tributo speciale su l’incremento patrimoniale: quella che in Francia si è chiamata l’imposta sugli arricchimenti. A questa soluzione si era arrivati anche per un’altra considerazione: quando si è riformata la legge fascista sui sovraprofitti di guerra, sostituendo all’imposizione del 60 per cento della legge fascista, l’avocazione integrale dei sovraprofitti, si è constatato che sotto il Governo fascista vi era stata una larghissima evasione. Inoltre, tenendo presente che i sovraprofitti di guerra si erano cominciati ad accumulare dal 1935 e non dal 1940, perché, il periodo delle guerre fasciste comincia nel 1935, si era cercato di vedere se era possibile riportare la data di applicazione dell’imposta sui sovraprofitti di guerra dal 1940 al 1935. Ma qui ci si è trovati di fronte ad una impossibilità tecnica. Allora, si è pensato che l’imposta straordinaria dovesse essere affiancata da un provvedimento che doveva cogliere gli arricchimenti straordinari realizzati nel decennio 1935-1945.
Ora, questa parte dell’imposta straordinaria è scomparsa e si è sostituita con l’imposta proporzionale sul patrimonio, il che costituisce una grave ingiustizia a danno dei piccoli proprietari, vulnera lo spirito dell’imposta straordinaria e rappresenta un vero e proprio capovolgimento dei suoi principî inspiratori. L’asse del provvedimento si spostava dalla ricchezza mobiliare alla ricchezza immobiliare. Già in sede di commissione ho richiamato l’attenzione del Ministro sull’opportunità di rivedere questo punto, ricordando che il riscatto dell’imposta ordinaria sul patrimonio era stato concepito non come parte della straordinaria, ma come elemento sussidiario di un complesso di provvedimenti, e con una aliquota più bassa per un periodo di tempo più lungo, con l’esenzione dei piccoli patrimoni ed un sistema di aliquote differenziate allo scopo di non gravare troppo sulle piccole proprietà.
Viceversa, in questo progetto, così come è attualmente formulato, l’aliquota è aumentata, il tempo della riscossione ridotto, il pagamento richiesto subito, mentre l’imposta progressiva straordinaria è resa inefficiente per i cespiti mobiliari e se ne rinvia il pagamento al 1948, senza nemmeno chiedere un anticipo, consentendo così ad eventuale evasione per svalutazione monetaria.
In queste condizioni l’imposta proporzionale diviene essa la leva del patrimonio. Le funzioni delle due imposte sono così invertite con gravi conseguenze d’ordine economico e sociale. A ragione l’onorevole De Vita osservava che in tal modo si realizza una progressività a rovescio, perché questa imposta è più onerosa per i piccoli patrimoni che per i grandi, e si rileva particolarmente gravosa per i piccoli patrimoni di case con fitti bloccati. Inoltre va tenuto conto che i grandi patrimoni sono per lo più costituiti da unità divisibili per cui si può vendere una parte, senza essere costretti a vendere tutto, mentre i piccoli patrimoni sono di solito indivisibili; per cui chi vende, deve vender tutto. Inoltre i grandi patrimoni hanno maggior margine di risparmio e di reddito non necessario per il consumo e quindi hanno la possibilità di sostenere l’imposta senza gravi conseguenze, mentre i piccoli patrimoni mancano di tale possibilità e per pagare l’imposta devono vendere.
Si crea così una grave sperequazione sopratutto politica e sociale, poiché mentre i grandi patrimoni potranno sostenersi, i piccoli patrimoni vanno soggetti ad una falcidia. Ci sarà molta gente che sarà costretta a vendere e non mancherà la speculazione che ne trarrà profitto. In tal modo lo scopo politico-sociale dell’imposta straordinaria, che era di favorire una redistribuzione dei grandi patrimoni personali, si realizza a rovescio: cioè saranno spazzati via i piccoli patrimoni, che sono frutto di lavoro e di risparmio e in molti casi strumento indispensabile di lavoro, oppure costituiscono mezzo di sostentamento e di vita o di garanzia e sicurezza per l’avvenire. Perciò, applicando l’imposta così come è ora progettata, noi applichiamo a rovescio il principio a cui deve ispirarsi questo tributo dal punto di vista politico e sociale.
La lotta contro l’inflazione si può condurre in due modi: mediante il sacrificio e la rovina dell’economia dei ceti medi e piccoli, oppure chiamando a contributo tutti i patrimoni, secondo la loro reale capacità contributiva. Io temo che con questo progetto noi ci incamminiamo per la prima via; e propongo che si cambi strada.
Le proposte che io vorrei fare sono queste: stralciare l’imposta proporzionale dal progetto di imposta straordinaria, esentare i patrimoni minori, ridurre l’aliquota, adottare un sistema di aliquote differenziate, concedere un più lungo periodo di tempo per il pagamento, estenderla agli enti collettivi. In compenso chiedere un «anticipo» sulla imposta straordinaria con l’iscrizione provvisoria a ruolo.
Ed ora passiamo ad un terzo problema: gli enti collettivi. Qui è necessario dire qualcosa sui precedenti. Nel 1945 si era pensato di colpire le fondazioni e le persone fisiche. La società per azioni sarebbe stata raggiunta dall’imposta sugli incrementi patrimoniali, perché lì si erano accumulati i maggiori sopraprofitti e si erano accumulate le maggiori ricchezze. Nel 1946, in conseguenza del mancato cambio della moneta, si pensò di mantenere l’imposizione sulle fondazioni, e di risolvere in sede di imposta straordinaria anche il problema della rivalutazione degli impianti industriali, separando e considerando a parte, il problema dell’imposizione sugli incrementi patrimoniali.
Ora siamo arrivati all’attuale progetto, nel quale scompare l’imposizione per le fondazioni e per le società azionarie, scompare l’imposizione sugli incrementi patrimoniali e non si parla più della rivalutazione degli impianti industriali. In sede di Commissione si è discusso se è giusto tassare gli enti collettivi: si sa che qui c’è anche un problema di dottrina. V’è chi sostiene che la tassazione degli enti collettivi significhi una doppia imposizione, e chi sostiene invece la tesi contraria osservando che società e patrimonio dei soci sono entità economiche distinte, ciascuna con propria capacità contributiva. Io prescindo qui dal problema teorico, non è questa la sede per tale discussione, e considero la questione solo dal punto di vista pratico e politico. L’esenzione degli enti collettivi può avere come conseguenza che una società con un patrimonio considerevole può rimanere completamente esente dall’imposta perché i possessori singoli dei titoli hanno essi patrimoni che non superano il minimo imponibile.
Altro inconveniente: le aziende individuali in quanto fanno parte del patrimonio del contribuente sono soggette all’imposta con l’aliquota corrispondente al complesso patrimoniale, mentre le società azionarie come tali non pagano nulla: questo può divenire un elemento di sperequazione con conseguenze abbastanza serie.
Poi, il modo come è congegnato il provvedimento consente una larghezza di evasione ai possessori di titoli azionari, che sarebbe in parte attenuato dal fatto che la società paga essa un contributo sia pure con aliquota ridotta.
Per tutte queste ragioni pratiche, indipendentemente da ogni considerazione teorica, penso che sia opportuno colpire le società per azioni. L’importanza finanziaria di questo problema risulta da qualche cifra: su 20 mila società esistenti in Italia solo per 170 società si calcola che il valore delle azioni arrivi a 1500 miliardi. Inoltre le fondazioni rappresentano solo esse un quinto della ricchezza nazionale: con l’esenzione degli enti collettivi il gettito della imposta subisce una notevole riduzione.
La relazione che accompagna il provvedimento, per giustificare la esenzione delle fondazioni, fa delle osservazioni abbastanza strane. Si dice ad esempio: se si colpiscono le fondazioni, queste pagano una aliquota corrispondente al patrimonio individuale e quindi vengono colpite con aliquota elevata, mentre le Banche-società, il cui patrimonio è frazionato fra le molteplicità dei compartecipanti, pagherebbero con aliquote più basse. E si aggiunga che, anche se si riduce l’aliquota, non si eliminano le sperequazioni. Ora, mi pare che qui non vi sia nesso logico, perché si potrebbe ridurre l’aliquota per le fondazioni fino ad eliminare le sperequazioni o a ridurle al minimo. Si sa che gli enti collettivi sarebbero in ogni caso tassati con aliquote inferiori a quelle applicate per le persone fisiche.
Ma non basta. La cosa più interessante è la disquisizione giuridica con la quale si pretende giustificare l’esenzione delle società e delle fondazioni. In sostanza si fa questo ragionamento: non è giusto colpire le fondazioni perché si esentano le società; d’altra parte non è giusto colpire le società se si esentano le fondazioni. Quindi si conclude: esentiamo tanto le fondazioni quanto le società. Ma si può concludere anche in un altro modo, cioè: colpiamo tanto le società quanto le fondazioni. In questo provvedimento non vi è equità di imposizione tra ricchezza mobiliare e ricchezza immobiliare. Ora bisogna trovare il modo di far entrare nella sfera di imposizione una più larga parte di ricchezza mobiliare.
Ma c’è ancora un’altra questione: quella degli Enti religiosi. L’articolo 29 del Concordato dice che gli Enti religiosi e affini di culto sono assimilati agli enti di assistenza e beneficenza, per quanto riguarda l’imposizione fiscale. E siccome questi Enti sono esenti, automaticamente sono esenti tutti gli Enti religiosi.
Nella misura in cui questi Enti assolvono ad una funzione religiosa, la cosa è comprensibile. Ma, signori, nessuno ignora che taluni Enti religiosi svolgono anche una vera e propria attività economica e, nella misura in cui svolgono tale attività, non vedo la ragione per cui essi non devono essere soggetti ai contributi a cui sono soggetti altri Enti che svolgono la stessa attività: in fondo è la corresponsione per i servizi pubblici dello Stato di cui anche essi usufruiscono.
Di attività economiche di Enti religiosi potremo citarne parecchie. Dirò soltanto di un caso: è noto che non molto tempo fa, la C.I.C.A., volendo importare 25 mila tonnellate di materie zuccherine dal Perù, si è rivolta per la valuta necessaria alla Pontificia facoltà teologica, la quale ha concesso 4 milioni e mezzo di dollari di proprietà degli «Ordini dei frati minori conventuali». Io non ho nulla da eccepire al fatto in sé, ma dico che, quando si svolgono attività di questo genere, questi Enti devono dare il loro contributo, come lo danno tutti gli altri Enti economici. E penso che da questo punto di vista non si viola il Concordato, il quale si riferisce ad Enti religiosi in quanto svolgono una attività a fine di culto.
Ma c’è di più: c’è il problema dei benefici ecclesiastici. È giusta e giuridicamente giustificata la loro esenzione dall’imposta straordinaria? Vi sono, è vero, numerosi benefici ecclesiastici così esigui, per cui i loro titolari hanno bisogno della congrua: è giusto che questi siano esentati. Ma vi sono anche benefici ecclesiastici costituiti da patrimoni considerevoli; ora, questi non dovrebbero essere esentati da ogni contributo. A questo proposito, c’è un precedente. Già nel 1932, in regime fascista, fu sollevata la questione per una serie di tributi, e vi fu una circolare del Ministro delle finanze Mosconi, la quale ad un certo punto dice: «È appena necessario avvertire, poiché è stato proposto un quesito al riguardo, che l’esenzione in parola – qui si parla di esenzione fiscale dopo il concordato – non è applicabile ai benefici ecclesiastici per la rendita che essi traggono dal beneficio ed in confronto di essi l’imposta va applicata nei modi ordinari come per gli altri contribuenti».
Ora, non c’è dubbio che si tratta di questione diversa da quella che noi consideriamo ed io condivido al riguardo le osservazioni fatte da molti colleghi democristiani in sede di Commissione. Io pongo tuttavia il problema da un punto di vista analogico e dico: non pare a voi che almeno certi patrimoni di benefici ecclesiastici debbano dare il loro tributo all’imposta straordinaria? Non pare a voi che ciò sia utile allo stesso prestigio delle istituzioni religiose e che l’onere cui esse andrebbero incontro sarebbe più che ripagato dal maggior prestigio spirituale che a loro deriverebbe dal fatto di aver dato il loro contributo alla ricostruzione del Paese nel quale esse operano e vivono?
In sede di Commissione, io avevo proposto che gli enti di assistenza o beneficenza non venissero esentati dalla corresponsione dell’imposta straordinaria, con l’impegno di un contributo dello Stato a tutti quegli enti che assolvono ad una funzione di assistenza e di beneficenza, siano essi ecclesiastici o no; contributo che all’occorrenza per taluni potrebbe anche essere superiore a quanto si è pagato per la imposta straordinaria.
CAPPI. Come è furbo!
SCOCCIMARRO. Ciò verrebbe a togliere un privilegio che è reputato ingiusto dall’opinione pubblica; io non credo che sul piano politico e morale si possa non accedere a quanto io dico. Pertanto ritengo che gli enti collettivi, compresi gli enti religiosi, debbano essere soggetti all’imposta straordinaria con una tariffa adeguata e inferiore a quella adottata per le persone fisiche.
Ed ora passo alle persone fisiche.
Vi sono alcune cifre di straordinario interesse, le quali fanno pensare che qui le possibilità di evasione sono veramente superiori a quello che si poteva pensare al tempo in cui la Commissione ha elaborato il progetto, non potendo sapere quello che è avvenuto dopo d’allora.
In Italia vi sono 3300 società per azioni con capitale superiore a un milione, e queste società comprendono in complesso 950 mila azionisti: di questi, solo 1500 possiedono il 70 per cento del capitale azionario, altri 8500 azionisti possiedono il 15 per cento, e gli altri 940 mila azionisti possiedono il restante 15 per cento del capitale azionario.
Questo ci rivela una concentrazione di proprietà mobiliare superiore a quanto si poteva credere.
Ora, se consideriamo sulla base di questa cifra il modo come è disposto l’accertamento, che cosa constatiamo? Si chiede al contribuente che denunci i titoli, fidando che lo schedario dei titoli delle società per azioni sia uno strumento sufficiente per controllo. Ma, dopo quanto è avvenuto negli ultimi quattro o cinque mesi nel movimento dei titoli azionari lo schedario delle società per azioni non è strumento di controllo sufficiente per l’Amministrazione finanziaria.
V’è quindi la possibilità di una larga evasione, tanto maggiore quanto più forte è la loro concentrazione in poche mani. Negli ambienti interessati è così profonda questa convinzione che molti non si interesseranno nemmeno di fare la denuncia dei titoli che possiedono, sapendo che l’Amministrazione finanziaria non è oggi in grado di fare un serio controllo, dopo quanto è avvenuto negli ultimi quattro o cinque mesi.
Per combattere questa evasione bisogna fare obbligo alle società di denunciare i possessori dei loro titoli azionari; è vero che esse possono saperlo solo di coloro che hanno partecipato al voto in assemblea; ma, data la forte concentrazione della proprietà dei titoli, ed essendo i loro proprietari fra quelli che sicuramente partecipano alle assemblee, la loro denuncia comprende il maggior numero sicuramente soggetto ad imposta, mentre di quelli che sfuggono probabilmente gran parte è al disotto del minimo imponibile. In ogni caso, sarà sempre meglio che affidarsi esclusivamente alla buona volontà del contribuente.
Ma c’è un secondo problema – non meno grave – che riguarda la valutazione dei titoli. Noi abbiamo stabilito il periodo 1° ottobre-31 marzo, come il semestre per la media dei prezzi di compenso per la valutazione dei titoli. Ma, quando io oggi constato che il valore delle azioni quotate in Borsa a fine dicembre era di 516 miliardi ed alla fine di maggio 1947 è di 1.500 miliardi, mi domando se non convenga e non sia giusto spostare i termini per la valutazione: e precisamente, invece del semestre 1° ottobre-31 marzo, stabilire il semestre gennaio-giugno.
Con questo semplice spostamento noi impediamo una larga evasione.
Altro problema è quello dei depositi bancari e dei titoli. Anche qui ci si affida al contribuente. Ma se il contribuente non denuncia o se fa una denuncia inesatta l’Amministrazione non ha nessun mezzo di controllo. Perché? Perché bisogna osservare il segreto bancario. Mi domando perché in Paesi dove il sistema bancario è ben più sviluppato che in Italia, come per esempio in Inghilterra ed in Francia, quando è stato necessario non si è fatto ostacolo e si è sospeso il segreto bancario. Perché in Italia, una volta tanto, questo non è possibile? Anche qui si tratta di una cifra importante: si può andare intorno ai 1000 miliardi.
Ora si è pensato di rimediare ponendo per legge un minimo alla denuncia della moneta, depositi e titoli supponendoli nella misura del 5 per cento del patrimonio. Questo sistema porta alla, maggiore sperequazione, perché si attribuisce il possesso di ricchezza mobiliare anche a coloro che non ne hanno, per cui questi pagano l’imposta anche per quello che non possiedono, mentre gli altri pagano per meno di quanto possiedono. Al solito, coloro che meno hanno, pagano per quelli che hanno di più.
Ora, secondo taluni se si fosse fatto il cambio della moneta sarebbe stato possibile sospendere il segreto bancario. E perché non si può farlo anche se non si fa il cambio della moneta?
Si dice: sarebbe una ingiustizia verso coloro che non depositano la loro moneta alla banca. Ma l’ingiustizia è ancora maggiore col sistema che si è seguito.
Fra due ingiustizie bisogna scegliere la minore.
Di fatto poi non è necessario scomodare le banche. Basterebbe stabilire che la disponibilità dei depositi è subordinata alla presentazione di una dichiarazione dell’ufficio delle imposte dell’avvenuta denuncia e allora ogni singolo contribuente provvederebbe a farla. Si ridurrebbero così le sperequazioni. V’è anche un altro sistema: stabilire una imposizione del 10 o 20 per cento sui depositi, dalla quale sarebbero esenti coloro che abbiano fatto la denuncia. Però anche questo sistema crea un beneficio per i grandi patrimoni a danno dei piccoli.
Il sistema della legge è poi quello che crea le maggiori sperequazioni.
La Commissione ha proposto ed il Ministro ha accettato l’adozione di una aliquota discriminata. Ma questo accorgimento attenua soltanto l’inconveniente, ma non lo elimina. Si pensi che oggi vi è molta gente, specialmente nel campo dei piccoli proprietari di case a fitto bloccato, che non ricavano nemmeno quanto è loro necessario per vivere, e non possiedono né moneta, né depositi, né titoli. Far loro pagare su un presunto possesso di ricchezza mobiliare sarebbe veramente una ingiustizia che diviene quasi un sopruso e una beffa. Sono queste le ingiustizie che pungono di più e sollevano le critiche più aspre. Perciò in questo campo bisognerebbe avere un sistema di accertamento più serio, qual è quello che io propongo: l’accertamento nominativo dei depositi bancari. Per i titoli si può provvedere mediante versamento «a dossier»: i titoli vengono depositati in banca; oppure il pagamento delle cedole è subordinato alla dichiarazione di avvenuta denuncia. Ma per combattere l’evasione bisogna anche adottare sanzioni severe: perciò propongo che i titoli non denunciati, siano essi pubblici o privati, siano dichiarati intrasferibili o soggetti a confisca. Con questi mezzi non si elimina completamente l’evasione, ma si può ridurla di molto. E così si corregge l’impressione che l’imposta straordinaria colpisca in modo sproporzionato la ricchezza immobiliare e lasci invece molte agevolazioni alla ricchezza mobiliare.
Le questioni delle quali vi ho parlato rivelano tutte la stessa tendenza. Il momento in cui è uscita l’imposta, l’imposta proporzionale sul patrimonio, l’esenzione degli enti collettivi, il mantenimento del segreto bancario, il periodo di valutazione dei titoli azionari ed il loro accertamento: in tutti questi punti la soluzione adottata costituisce una posizione di favore e di privilegio per i possessori di ricchezza mobiliare. Su questo provvedimento si scorge una impronta molto precisa: l’impronta dei ceti plutocratici, di coloro che possiedono la ricchezza mobiliare nel nostro Paese. Questo è il difetto che noi dobbiamo correggere.
Se ci si vuol fare una idea approssimativa di quanta parte della ricchezza nazionale con questo progetto sfuggirebbe alla imposta straordinaria, da quanto ho detto risulta che vi sfuggono: tutti i nuovi titoli azionari emessi dopo il 28 marzo, cioè una gran parte di 1200 miliardi; gran parte del maggior valore delle azioni per gli aumenti avvenuti negli ultimi mesi, cioè intorno ai 1000 miliardi; il patrimonio degli enti collettivi per quella parte che non viene colpita presso le persone fisiche; il patrimonio delle fondazioni, cioè un quinto della ricchezza nazionale; tutte le proprietà degli Enti religiosi e benefici ecclesiastici. A ciò bisogna aggiungere la possibilità di larga evasione consentita ai titoli azionari, ai depositi e titoli al portatore, ecc. Voi vedete quanta parte della ricchezza nazionale sfugge all’imposta straordinaria. Ed allora non meraviglia che un esperto tecnico attuariale abbia calcolato che questo tributo darà meno di 300 miliardi: importo veramente esiguo rispetto al valore attuale della moneta. Ed in questo calcolo non si tien conto delle evasioni e delle frodi da tempo predisposte, per cui il risultato sarà ancora inferiore. E tutto questo a vantaggio di chi? Prevalentemente ed essenzialmente della ricchezza mobiliare. La ricchezza immobiliare non ha molte possibilità di movimento. Ancora una volta le regioni settentrionali dove si concentra la maggior parte della ricchezza mobiliare si troveranno ad essere favorite rispetto alle regioni meridionali, come è nella tradizione delle vecchie classi dominanti.
Ora, a me pare necessario modificare la legge nel senso indicato. Ed è pure necessario che lo Stato si premunisca con tutti i mezzi dalla frode.
In sede di Commissione io ho fatto una proposta che ora ripresento all’Assemblea, cioè che la dichiarazione del patrimonio per l’imposta straordinaria sia accompagnata da dichiarazione giurata; chi froda lo Stato vada in galera.
Queste sono le osservazioni che volevo fare sulla imposta straordinaria. È necessario che questa imposta sia applicata, ma prima dobbiamo correggerne i difetti e possiamo farlo noi qui. Non bisogna dimenticare che l’imposta straordinaria è un provvedimento finanziario che deve rispondere anche ad una esigenza di giustizia. Questo provvedimento non soddisfa tale esigenza. Correggetelo: fatene uno strumento di fiscalità severa, ma giusta. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vigorelli. Ne ha facoltà.
VIGORELLI. Onorevoli colleghi, mi limito a una osservazione particolare, a una contradizione che esiste nel testo del decreto in esame fra il titolo primo e il titolo secondo, contradizione che concerne gli enti di assistenza e di beneficenza, i quali sono, sì, esentati dall’imposta progressiva sul patrimonio, ma non sono esentati invece dalla proporzionale.
Ora, questa contradizione deve essere eliminata, perché costituisce una evidente iniquità e perché dà luogo a inconvenienti di cui ognuno si può rendere facilmente conto. Non si possono particolarmente colpire enti pubblici cui lo Stato dà i suoi contributi per l’opera di solidarietà umana e sociale che svolgono, nello stesso momento in cui non si è in grado di evitare le evasioni di cui vi ha così ampiamente e chiaramente detto l’onorevole Scoccimarro, e nello stesso momento in cui non si riesce a colpire coloro che hanno accumulato delle fortune con la borsa nera, con le speculazioni se non addirittura col collaborazionismo coi tedeschi.
Il tributo di cui al secondo titolo del decreto è fondato sull’imposta ordinaria sul patrimonio istituita col decreto-legge 12 ottobre 1939, n. 1529, convertito in legge 8 febbraio 1940, n. 100. Si può anzi dire che questo tributo è una forma di riscatto di tale imposta che era stata istituita con carattere di continuità e che ora è abolita col disposto dell’articolo 74 della legge in esame.
Giova qui ricordare molto rapidamente la natura e la finalità dell’imposta straordinaria sul patrimonio.
Questa imposta aveva carattere di complementarietà e di progressività, tanto che è una vera e propria imposta sul reddito: basata sul patrimonio, colpisce però in sostanza il reddito.
Durante la discussione di quella legge, alcuni deputati chiesero al Ministro delle finanze che fossero esentate dal nuovo tributo le Opere pie e gli Enti di assistenza. Ma alla esenzione non si credette di giungere. Invece il Ministro delle finanze del tempo dichiarò che, rendendosi conto della difficile condizione in cui versavano gli Enti d’assistenza, si sarebbero emanate tassative istruzioni perché in sede di applicazione della imposta e nella determinazione dei criteri di valutazione dei patrimoni fossero prevalentemente considerati per le Opere pie i redditi in confronto ai valori venali. Le promesse del legislatore furono allora mantenute, ma ora l’imposta straordinaria sul patrimonio del 4 per cento, che equivale a dieci annualità anticipate dell’imposta ordinaria, praticamente viene a frustrare quel correttivo che allora si era consentito per quanto riguarda gli Enti di assistenza; e la nuova imposizione cade, per gli Enti di assistenza, nel momento peggiore, perché ognuno sa come il blocco degli affitti abbia notevolmente diminuito i loro redditi e come l’inflazione abbia notevolmente aumentato le loro spese, costringendoli ancora oggi ad erogazioni che sono presso a poco quelle di un tempo e che quindi sono irrisorie in confronto ai bisogni cui devono provvedere.
Comunque, di fronte a questa situazione non vi è se non un rimedio che possa essere efficace, quello dell’esonero di questi enti dall’obbligo dell’imposizione.
Ora è vero – lo abbiamo sentito ripetere qui e giustamente – che bisogna andare molto cauti nelle esenzioni, ma bisogna tener presente che nella specie la questione viene proposta per enti che non svolgono alcuna attività economica, che non hanno beni se non provenienti prevalentemente da donazioni e che devolvono il reddito al fine di alleviare le miserie e le tribolazioni così gravi nel nostro Paese.
Questi enti sono nell’impossibilità di pagare il tributo. Io ho ricevuto da più parti segnalazioni di questo genere, gravi e preoccupanti. Vi accenno all’Ente di Cremona, per esempio, il quale si trova di colpo a dover pagare 7 milioni, mentre non ha in cassa neppure un centesimo disponibile. Quindi, vende i suoi immobili, o deve procurarsi il denaro con un onere che alla fine va a ricadere sullo Stato che sovvenziona questi Enti.
Giustamente, dunque, questi Enti sono tutti in allarme, e hanno votato nella loro Associazione un ordine del giorno che è veramente un grido di preoccupazione e che l’Assemblea non può non tener presente nella determinazione, su questo punto, delle sue decisioni.
In quell’ordine del giorno si afferma come anche dal punto di vista morale sarebbe iniquo chiamare le classi povere a compiere intollerabili sacrifici, mentre gli abbienti non sono stati ancora colpiti con adeguati pesi tributari; si dichiara che ove lo Stato mantenesse questo tributo, le istituzioni di beneficenza ed assistenza sarebbero costrette non solo a sospendere la loro attività assistenziale, ma altresì ad alienare parte dei propri beni patrimoniali; e si chiede che in siffatta situazione, per evitare gravi e dolorose ripercussioni nei confronti delle classi povere di tutte le Regioni italiane, il Governo voglia accordare la riduzione dei tributi a favore degli enti comunali di assistenza e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.
Resta qui la sola preoccupazione del danno che le finanze dello Stato ne potrebbero subire. Ma a questa obiezione è facilissimo rispondere che non solo non vi sarà danno per le finanze dello Stato se lo Stato accorderà l’esenzione, ma se lo Stato non dovesse concederla dovrà in ogni caso rimborsare agli enti denari che essi pagheranno a questo scopo, perché evidentemente non da altre parti essi potrebbero attingere i mezzi; e lo Stato pagherà allora una somma maggiore, perché dovrà rimborsare il maggior onere degli interessi e dei premi pagati per sodisfare l’imposta, e – di più – il rimborso si verificherebbe con disturbo per tutto il sistema, già tanto disgraziato ed imperfetto, dell’assistenza sociale, quale vige nel nostro Paese.
È chiaro, dunque, che per le finanze dello Stato non esistono motivi di preoccupazione ed è certo altresì che – nell’interesse delle classi disagiate del nostro Paese – il Ministero non deve avere nessuna difficoltà a stabilire che, anche per quanto concerne l’imposta proporzionale, venga riconfermato quanto fu stabilito già per l’imposta progressiva.
A questo scopo presenterò il seguente emendamento, firmato anche dagli onorevoli Corsi, D’Aragona, Tremelloni, Preti:
Art. 68-bis.
«Sono esenti dall’imposta i patrimoni mobiliari ed immobiliari delle Istituzioni pubbliche di assistenza, compresi gli Enti comunali di assistenza (e Opere pie dipendenti) che fruiscono di contributi permanenti dello Stato».
La definizione degli enti è, in questa formulazione, così precisa che non si teme di creare un precedente che possa giustificare pretese od esigenze da parte di altri enti similari.
Sono certo che questo emendamento sarà accettato dal Ministro e dal Relatore e che sarà votato dall’Assemblea.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Foa. Poiché non è presente, si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Bonomi Paolo. Poiché non è presente, si intende che vi abbia rinunciato.
Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.
La seduta termina alle 12.25.