ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXLV.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 11 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI
indi
DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Comunicazioni dei Governo (Seguito della discussione):
Presidente
Cappi
Labriola
Nomina di una Commissione:
Presidente
Scoccimarro
Lussu
Sui lavori dell’Assemblea:
Uberti
Presidente
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
La seduta comincia alle 10.30.
RICCIO, Segretario, legge il verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito delle discussioni sulle comunicazioni del Governo.
È iscritto a parlare l’onorevole Perrone Capano. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole De Vita. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Monticelli. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.
CAPPI. Onorevoli colleghi, poche parole, di argomento limitato e a titolo personale. Contro il volo di dardi acuminati, ma spero non attossicati, che si stanno avventando qui e fuori di qui contro il mio partito e contro il suo capo, altri da questi stessi banchi si leverà a difesa; altri, il quale, per difesa contro tanta tempesta, dovrà imbracciare il grande scudo di Uguccione della Faggiola che, è noto, «ben dieci partigiane regge e, come fosser ceci, dei Lucchesi i verrettoni regge infitti a dieci a dieci».
Dopo le dichiarazioni del Governo io avrei anche potuto rinunciare a parlare, perché mi ero inscritto per un dubbio che mi aveva traversato la mente. Questo dubbio fu dissipato dalle dichiarazioni del Governo, alle quali, sono certo, seguirà una coerente e concreta attività. Il dubbio era questo: in una delle fasi, delle molte fasi, attraverso le quali è passata questa crisi, si profilò come possibile soluzione quella che fu chiamata di centro-sinistra. Si seppe di un lungo colloquio al Viminale fra l’onorevole De Gasperi e l’onorevole Tremelloni, cosicché vi era motivo a credere (e, per conto mio, a sperare) che le direttive generali della politica economico-finanziaria del Governo si sarebbero ispirate ai concetti espressi dall’onorevole Tremelloni in un suo discorso di alcuni mesi fa alla Costituente, concetti i quali, nel loro temperato realismo e gradualismo, pienamente affidavano di questo: che l’eccezionalità del momento avrebbe giustificato l’uso di mezzi eccezionali nel campo politico e nel campo della finanza, anche all’infuori di certa dottrina finanziaria classica e ortodossa; non escluso un razionale ma non pavido interventismo statale.
Poi questa soluzione di centro-sinistra tramontò; e le perplessità non scomparvero (non ho difficoltà a dirlo), quando si seppe che alla ruota maggiore del timone che avrebbe dovuto guidare la politica finanziaria ed economica del Governo era stato chiamato l’onorevole Einaudi.
Noi tutti conosciamo l’onorevole Einaudi; conosciamo il suo pensiero, attraverso i suoi studi, attraverso i suoi discorsi alla Costituente e nelle Commissioni per la Costituzione; lo conosciamo anche noi (parlo di me), quasi profani in materia, attraverso quei suoi articoli di cui è prodigo nei giornali politici e di informazione, articoli nei quali la fusione fra la chiarezza divulgativa e il rigore scientifico raggiunge un grado di perfezione difficilmente superabile.
Noi dunque conosciamo la dottrina, almeno nelle sue linee generali, dell’onorevole Einaudi; tendenza liberista, antinterventista, tendenza che preferisce i mezzi ordinari ai mezzi straordinari, tanto nel campo della finanza quanto nel campo della politica.
Io ho già avuto occasione di ricordare un episodio di quando alla seconda Sottocommissione si discuteva di un certo congegno parlamentare e alcuni lo censuravano perché, si diceva, avrebbe reso difficile e inceppata la promulgazione di leggi e di provvedimenti da parte del Governo; e l’onorevole Einaudi, con quella sua inimitabile arguzia, disse: appunto per questo io lo approvo!
Queste le ragioni di quella certa perplessità di cui vi parlavo prima. Questa perplessità fu però completamente (almeno per me) dissipata dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio dalle quali abbiamo appreso come il nuovo Governo intenda mantenere sostanzialmente ferme nel campo finanziario ed economico le direttive del passato Governo. (Interruzione dell’onorevole Tonello).
Abbia pazienza, caro onorevole Tonello, altri risponderà alla sua curiosità. Le dichiarazioni del Presidente del Consiglio ci hanno anche dimostrato una cosa, della quale avevamo già la sensazione: che l’onorevole Einaudi, come tanti altri anziani e, se mi fosse lecito dire, vegliardi, che siedono in questa nostra Assemblea, a monito e ad esempio di tutti noi, l’onorevole Einaudi, nonostante l’età, ha conservato una giovanilità ed una freschezza di spirito che, come dicono i fisiologi, gli dà prontezza e precisione di riflessi, riflessi politici, per intendere i segni e le voci del tempo, per intendere le esigenze nuove, le nuove situazioni, ed adeguare alle stesse la sua attività di uomo di governo.
Di fronte a questo, pare a me che logica sia stata la posizione presa ieri nel suo sostanzioso discorso dall’onorevole Ruini, il quale, prendendo atto delle dichiarazioni e dei propositi del Governo, concluse il suo discorso con quella che io chiamerei fiduciosa attesa.
Meno logico mi parve l’onorevole Foa, il quale non poté contraddire, almeno nelle sue linee essenziali, il programma esposto dal Governo, ma disse che assumeva una posizione rigidamente e decisamente negativa, perché egli non riteneva (pure attraverso una temperanza di linguaggio, che si spinse fino alla cortesia) che questi propositi del Governo potessero essere attuati da un uomo, quale è, dottrinalmente, l’onorevole Einaudi.
Ora, questa posizione mi sembra inaccettabile perché essa, pure attraverso la cortesia del linguaggio, implica un’accusa di insincerità al Governo, o, peggio ancora, implica il sospetto di un dissenso primordiale fra l’onorevole Einaudi, il Capo del Governo, ed il resto del Ministero.
TONELLO. Sono sempre andati d’accordo fino a ieri!
CAPPI. Ad ogni modo, questo sospetto di insincerità mi sembra veramente eccessivo, e mi sembra che avrebbe potuto giustificare una posizione di attesa più o meno benevola, una posizione che avesse atteso il Governo ai fatti, alla realizzazione di questi suoi propositi. La posizione così negativa non mi sembra la conseguenza logica delle premesse del discorso dell’onorevole Foa, e mi fa sospettare che l’opposizione abbia, sotto sotto, dei motivi più profondi e di natura meramente politica.
Una voce a sinistra. Che vuol dire politica?
CAPPI. È chiaro: non esclusivamente economico-finanziaria, non tecnica. Qui il mio discorso potrebbe finire; con un consiglio, con un augurio al Governo, che prosegua animosamente lungo la strada che si è tracciata, verso la meta che si è prefissa.
Qualche suggerimento particolare però vorrei dare, sebbene veramente la parola suggerimento sia forse eccessiva, perché ho detto in principio (non è falsa modestia) che io sono quasi profano in materia finanziaria ed economica. Tuttavia, ormai è di moda tener conto delle voci dell’uomo della strada, le quali meritano di essere ascoltate quando, come nel caso mio, si ispirano unicamente all’interesse pubblico, al bene comune.
Sono delle domande, dei piccoli problemi che io accenno al Governo e, in ispecie, a colui che del Governo regge le sorti nel settore economico e finanziario. Il problema che oggi assilla tutti quanti è quello dei prezzi, di questo vertiginoso e, per molti, inspiegabile rialzo.
Ora io non vorrò essere semplicista in materia. Sono troppo manzoniano per non ricordarmi come certi interventi eccessivi e faciloni siano inutili o peggio che inutili. So benissimo che non si risolve una situazione economica svaligiando le botteghe, o impiccando i bottegai, come si auguravano al tempo della carestia manzoniana. Però credo anche che il Governo possa fare qualche cosa; che qualche intervento sia doveroso ed efficace.
Per venire al concreto, accennerò al problema del latte. Vivo in una plaga dove la riproduzione del latte è vastissima. Ora, mi sono sentito dire, già da mesi, ed anche recentemente, da agricoltori, da conduttori diretti di aziende agricole, che non si rendevano conto del continuo salire del prezzo del latte. Loro che erano interessati a questo rialzo non se ne rendevano conto. Ho cercato spiegazioni al Ministero competente dell’agricoltura, e non me ho avute. L’uomo della strada ragiona così e dice: il patrimonio zootecnico, merito dell’auto-finanziamento delle classi agrarie, è stato ricostituito; per produrre latta non occorre carbone, ferro, né altre materie che si debbano importare dall’estero, ed allora, perché questo vertiginoso aumento del prezzo del latte, che provoca poi quello del burro, del formaggio e di altre materie necessarie all’alimentazione?
Vediamo se qui non entri il fattore «speculazione», e se contro questo fattore il Governo possa fare qualche cosa.
Altro punto, punto scottante, è quello delle borse. So che parlare delle borse è pericoloso, perché i sacerdoti e gli accoliti del tempio di Mercurio sono i più decisi a pronunciare l’oraziano: odi profanum vulgus et arceo. La Borsa deve essere un campo chiuso, nel quale gli incompetenti non devono mettere piede. Ed anche da alcuni economisti del mio partito mi sono sentito fare qualche rabuffo, e ricordare la nota frase: che prendersela con le borse è come se il malato se la prendesse col termometro, anziché con la febbre. È una vecchia frase, che da gran tempo si legge, per esempio, negli articoli del bravo Egisto Finella sul «Sole». Essa, al pari di tutti i proverbi, avrà un fondo di vero, ma solo un fondo, come in certi broccardi che noi avvocati lanciamo davanti ai giudici, un po’ per fare pompa di erudizione e un po’ per confondere le idee dei giudici. (Commenti).
Questi luoghi comuni devono essere sottoposti ad una critica più penetrante.
Io non credo che si possa veramente paragonare la Borsa ad un termometro, cioè ad un semplice strumento di misurazione, come fosse un elettro-cardiografo, il quale non fa che segnare le oscillazioni dei battiti del cuore. Non siamo nel mondo fisico. Nella Borsa agiscono gli uomini e la volontà umana; e noi sappiamo che la volontà umana può essere buona e cattiva, e tante, volte può volgere a fine di male anche quelli che potrebbero essere strumenti di bene od innocui. Quindi, ripeto, anche in questo settore delle Borse trovo che il Governo deve portare la propria attenzione: come e quando, spetterà deciderlo a coloro che hanno specifica competenza.
Come ultimo punto, voglio accennare all’imposta straordinaria sul patrimonio. Abbiamo sentito tutti con soddisfazione che il nuovo Governo la manterrà. Faccio una domanda. Il progetto di legge, quale stava dinanzi a noi, fissava come data di riferimento dei patrimoni soggetti all’imposta il 28 di marzo. Ora domando al Governo se, dato il tempo trascorso, non sia il caso di spostare in avanti questa data; per la seguente ragione. Dopo il 28 di marzo, quando si entrò in una zona, diremo di franchigia, noi abbiamo visto il denaro, quel denaro che non era stato colpito, che aveva scampato il pericolo del cambio della moneta, uscire dai recessi ed affluire con frenetica forza alle borse, affluire ad acquistare azioni e beni reali; onde abbiamo visto da allora un rialzo grandioso ed impressionante.
Si dirà dai liberisti: è naturale; questa è la speculazione; è un fatto umano; non c’è niente di male. Benissimo. I contribuenti, i capitalisti, hanno approfittato, hanno atteso a comperare che i beni reali non fossero più soggetti all’imposta sul patrimonio; hanno fatto i loro interessi, hanno fatto una cosa lecita. Ma sarà anche lecito che il Governo si difenda. Non vedo sul piano morale o politico nessuna differenza. Legittima è la speculazione, ma è altresì legittimo che il Governo, lo Stato, il quale ha bisogni urgentissimi, cerchi di non farsi danneggiare da questa speculazione, e quindi sposti in avanti il termine di riferimento dell’imposta patrimoniale.
Ho parlato finora al Governo. Ora permettete che una parola dica anche al Paese. Questo Paese, che è sulla bocca di tutti, parla a noi e tante volte con male parole (non so se meritate o meno); quindi, non è male che anche il Parlamento qualche parola non mala rivolga al Paese. Oggi il problema sostanziale è un problema di distribuzione; ahimè, non distribuzione di ricchezza bensì di miseria, o, per lo meno, distribuzione di oneri di sacrifici. E allora, se questo è, il discorso va rivolto principalmente a quelle classi le quali devono sopportare i maggiori sacrifici. Queste classi sono restìe a sopportarli e – interroghiamo ciascuno noi stessi – non c’è da meravigliarsi, perché, da che mondo è mondo tutti si è restii a sopportare gli oneri; – all’infuori forse dell’onere del potere (Ilarità), perché per quanto riguarda l’onere del potere, da che l’uomo è uomo, vi sono molti volonterosi i quali ripetono il dantesco: «I’ mi sobbarco!» –. Ad ogni modo, queste classi sono state restìe, sono restìe a sopportare questi sacrifici. Per non andare lontano, lo ha dimostrato il magro esito dell’ultimo prestito. Ora, a giustificazione di questa loro riluttanza, tali classi adducevano queste ragioni. Dicevano: non è giusto, noi non vogliamo dare il nostro aiuto, i nostri mezzi, a un Governo nel quale sono preponderanti dei partiti che a noi sono chiaramente ostili.
SPANO. Preponderanti come? Con quanti ministri?
CAPPI. Parlo del precedente Governo.
E aggiungono: non vogliamo dare mezzi a un Governo, che è eterogeneo e quindi inefficiente, ad un Governo scialacquatore.
Ora, colleghi, specialmente voi colleghi che mi interrompete, queste ragioni di codeste classi abbienti, erano soltanto dei pretesti? Io non lo credo e credo che bisogna avere il coraggio di dirlo. Non erano soltanto dei pretesti, perché, a mio avviso, è infantilismo psicologico e politico quello di dire ad ogni momento che certe classi sono superate nella storia, non hanno più funzioni, se non una funzione parassitaria, additarle al disprezzo, quando non all’odio del popolo, e poi a queste classi chiedere dei sacrifici… (Rumori).
TONELLO. I pescicani sono rimasti pescicani!
CAPPI. Orbene, oggi simili giustificazioni queste classi non le hanno più. Oggi hanno un Governo omogeneo. (Rumori).
SPANO. Come piace a loro! Il loro Governo!
Una voce a destra. Voi vorreste il vostro, questo lo sappiamo!
CAPPI. Queste classi oggi hanno un Governo omogeneo nel quale non siedono più certi partiti; hanno un Governo nel quale tiene le chiavi della cassa l’onorevole Einaudi e del quale è quindi lecito credere che non sarà un Governo scialacquatore. Ed allora, attendiamolo alla prova.
Né quello che ho detto loro è una blandizia, come si usa verso quelli ai quali si chiede aiuto. Vi è una ragione più profonda ed è che io personalmente, e ritengo anche il mio partito, non crediamo che sia finita in Italia la funzione storica e sociale di queste classi. (Interruzioni – Rumori a sinistra).
Una voce a destra. Il monopolio deve essere soltanto vostro, si sa!
PRESIDENTE. Egregi colleghi, sono concetti, quelli dell’oratore, da cui si può eventualmente dissentire, ma che tutti hanno il diritto di ascoltare.
CAPPI. In un suo discorso di alcuni mesi fa alla Costituente, l’onorevole Saragat aveva constatato questo fatto: che in Italia, a differenza di altri Paesi, la guerra di liberazione aveva rovesciato un regime politico, ma non un sistema economico e sociale. E di qui egli traeva la conseguenza o, per meglio dire la spiegazione, di quel carattere composito e compromissorio che avrebbe la nuova Costituzione. Io non so se l’onorevole Saragat si limitasse a fare oggettivamente questa constatazione o se ritenesse, come io ritengo, che se quel sistema economico-sociale abbattuto radicalmente non fu, ciò è dovuto al permanere di una sua funzione, perché, in altre parole, non meritava di essere radicalmente abbattuto. (Rumori a sinistra). Come nella massa laboriosa del nostro popolo, quella massa la quale dimostra una disperata volontà di lavoro, urgendo alle frontiere, pronta al sacrificio di lasciare la Patria per trovare all’estero occupazione e lavoro, come in questa massa non mancano gli elementi antisociali – falsi reduci e falsi disoccupati – così è certo che nelle classi industriali e nelle classi agrarie non mancano coloro che sono cordialmente egoisti e coloro che sono chiusi ad ogni senso di comprensione e di solidarietà sociale. Ma la generalizzazione sarebbe arbitraria. Basta pensare al progresso agricolo ed industriale nell’ultimo cinquantennio, progresso che ci ha resi onorati ed invidiati nel mondo; basta questo per dire che onestamente non si può affermare (sarebbe demagogia e falsa valutazione della realtà) che queste nostre classi, chiamate abbienti, agrarie ed industriali, nel loro complesso siano ormai così fradicie (Rumori ed interruzioni a sinistra) …così fradicie da meritare di essere travolte, così come fu travolto il feudalesimo esistente prima della rivoluzione francese e come fu travolta in Russia la classe dirigente.
Però, detto questo – e detto con profondo convincimento – aggiungo che il diritto di continuare ad avere una funzione sociale queste classi se lo debbono conquistare, giorno per giorno! (Rumori a sinistra). Esse hanno il diritto ed il dovere di avere una partecipazione ed un giusto peso nel reggimento della vita pubblica del loro Paese…
Una voce a sinistra. E i lavoratori no? E gli operai?… (Commenti – Rumori).
CAPPI. Onorevoli colleghi, ho detto il giusto peso!
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, siamo appena all’inizio della discussione: non mancherà tempo per chi dissente di replicare nelle prossime sedute.
CAPPI. Se aveste avuta la bontà di attendere, vi avrei detto che non sono così cieco da non vedere che un nuovo mondo si affaccia alla ribalta politica, e questo nuovo mondo è il mondo del lavoro. Per ciò ho detto: «una parte del potere» ed ho detto: «un giusto peso nella vita politica del Paese», e l’altro giusto peso dovrà averlo questo nuovo mondo che noi stiamo inserendo nella Costituzione, nel processo produttivo e nel profondo stesso del tessuto sociale. La differenza fra la mia parola ed il vostro pensiero o, meglio, le vostre parole… (Interruzioni a sinistra) è questa: che noi riteniamo ancora possibile una evoluzione graduale e pacifica della situazione sociale. L’Italia, che nella sua saggezza ha evitato tante volte le rivoluzioni violente, io credo potrà anche ora evitarle, se vi sarà buon volere da parte delle classi a cui io mi sono rivolto al principio del mio discorso e che debbono sopportare maggiori sacrifici. Il miracolo della salvezza italiana potrà ancora aversi! (Rumori a sinistra).
Potrò anche aggiungere – e non è demagogia – che le altre classi sono all’estremo limite della possibilità di sacrificio, tanto che i provvedimenti annunciati dal Governo giustamente non le colpiscono. (Interruzioni a sinistra). Le classi ricche oggi si trovano davanti ad un banco di prova; oggi è per loro una grande, decisiva giornata; perché o sentono questo loro diritto, ma insieme anche questo loro inscindibile dovere, di concorrere alla salvezza comune, ed avranno allora il diritto di sopravvivere; o questo dovere non sentiranno, e allora potranno essere eliminate dal corpo sociale, come tutti gli elementi inutili, sorpassati e parassitari. E questo loro dovere si riassume in una sola proposizione: concorrere, in corrispondenza del loro potere sociale ed economico, alla salvezza comune.
Questo è il mio pensiero. Il mio dire è terminato. Oggi, sono un po’ di moda le perorazioni. Qualche volta anche il Presidente del Consiglio, il quale, me lo consenta, si direbbe che sia nemico giurato della retorica, ha chiuso il suo discorso con qualcosa che si può paragonare ad una perorazione. Ma io non la farò, perché proprio in questi giorni mi è capitata sott’occhi una frase, che non so se traduco bene – ed il professor Marchesi mi potrà correggere – una frase del nostro buon Cicerone, il maggior uomo che fra i latini abbia vestito la toga ed abbia onorato la libera tribuna. Scusate la digressione, ma io non condivido il pensiero del Mommsen e di altri storici tedeschi. Con Cicerone potremo forse avere qualche fatto personale, per i ricordi del ginnasio e del liceo, ma non mi pare che la figura di Cicerone sia da mettere in secondo piano, come fanno questi storici, esaltando a contrasto la figura di Cesare e degli altri generali. Cicerone fu un avvocato, parlò molto, ma fu anche un animoso difensore di civile libertà contro il tiranno. E per essere rimasto fedele a questa libertà, nella piana di Minturno porse la gola al sicario che lo uccise. Dicevo: vi è una frase di Cicerone che dice: Res loquitur ipsa, quae semper valet plurimum, che io tradurrei: «La cosa parla da sé ch’è sempre il meglio». E mi pare che oggi le cose parlino da sé e dicano a tutti noi che veramente è necessario uno sforzo comune, per salvare la casa comune (Interruzione a sinistra). Non vorrete attribuire alla Democrazia cristiana questa situazione tragica in cui si trova il Paese. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).
TONELLO. Vi risponderà il Paese. Vedrete il Paese come risponderà! (Commenti al centro).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, interrompere l’oratore quando sta per concludere, non mi sembra che sia utile per nessuno. Prosegua, onorevole Cappi.
CAPPI. Mi dispiace, colleghi interruttori, che voi non accogliate, pare, questo appello alla concordia. (Commenti a sinistra). Eppure ieri, nella sua commossa rievocazione di Giacomo Matteotti, il vostro Canepa ebbe parole nobilissime, specie allorché ricordò la frase del mite Virgilio, nemico di ogni guerra e di ogni violenza: l’Italia magna, parens frugum, magna virum.
L’Italia, oggi, è madre avara di biade; e, pare, anche di uomini; si direbbe vi sia una meschina generazione di rissosi, non consapevole della gravità dell’ora. Chi oggi può negare che questa Italia non sia una nave logora, quasi un relitto in balìa delle onde? (Interruzioni – Commenti all’estrema sinistra). Ora, per la salvezza comune (e lo ha ricordato anche il Presidente del Consiglio) è necessario uno sforzo comune, perché questa nave in pericolo è la nostra; nave carica di tanti dolori, ma carica anche di tanta gloria, lontana e recente, e, soprattutto, di immortali speranze. (Vivi applausi al centro).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare d’onorevole Labriola. Ne ha facoltà.
LABRIOLA. La Costituente non riesce a terminare la Costituzione – cioè prima a vivere, e poi a morire per le ragioni del suo vivere – ma giudica in permanenza governi e programmi. L’onorevole Terracini deve essere desolato. Altro che ridurre a dieci minuti lo sviluppo di un emendamento e le relative dichiarazioni di voto!
Se ad ogni termine di stagione, se cioè ad ogni tre o quattro mesi, noi dobbiamo giudicare un Governo, temo anch’io che la definizione d’una Costituzione per la neonata Repubblica dovrà, per esempio, esser rimessa alla futura Assemblea Legislativa, la quale potrà largamente utilizzare le esperienze negative di questa Costituente.
Infine della Costituzione sarà quel che sarà e che gli dei nella loro saggezza avranno deciso che sia.
Si vorrà tener conto che, per l’una o per l’altra ragione, noi possiamo esser vicini ad una consultazione degli elettori.
Alla vigilia di nuove elezioni, un giudizio sul Governo attuale, sulle dichiarazioni che in nome suo ha fatto il Presidente di esso, può avere la maggiore importanza; tanto più che ogni apprezzamento del Governo di oggi, è altresì un apprezzamento di quello di ieri.
E ciò è proprio vero, nel senso più stretto della parola.
L’onorevole De Gasperi se ne andò dal Governo, e non disse perché. Qualsiasi discussione sulle dichiarazioni di lui fu resa impossibile, come del resto era accaduto a proposito della ratifica del trattato di pace e della questione. finanziaria.
Dovendosi vivere, in regime parlamentare, di interpretazioni, si deve ammettere che il silenzioso ritiro dell’onorevole De Gasperi, equivaleva praticamente a riconoscere che le opposizioni all’antico Governo, diciamo: trinitario, presieduto dall’onorevole De Gasperi, avevano pienamente ragione.
Insomma è come capo della propria opposizione che l’onorevole De Gasperi dette le proprie dimissioni. Il suo ritorno al Governo non è l’avvento al potere dell’onorevole De Gasperi come capo della triarchia, invece come capo dell’opposizione alla triarchia stessa.
La situazione non manca di amenità. Come capo dell’antico Governo triarchico, che l’onorevole De Gasperi ha rovesciato senza ammettere nemmeno che si potesse discutere di questa opportunità, l’onorevole De Gasperi avrebbe dovuto essere escluso dal Governo; e come capo dell’opposizione al proprio Governo di ieri, l’onorevole De Gasperi è ritornato al Governo.
Insomma con quale De Gasperi abbiamo da fare? Col De Gasperi dell’antico Governo, che egli stesso volle abbattere, o col De Gasperi che, abbattendo il vecchio Governo, riconobbe il fondamento delle ragioni che movevano le antiche e sparse opposizioni contro sé stesso, e perciò non avrebbe mai dovuto ritornare al potere?
Presidenza del Presidente TERRACINI.
LABRIOLA. Ripeto: la cosa potrebbe agevolmente muovere il riso ed eccitare lo spirito di qualche estroso compositore di satire politiche; per coloro, poi che amano Pirandello, c’è molto pirandellismo in tutto questo!
Se votiamo a favore dell’onorevole De Gasperi, diamo torto a De Gasperi, antico e permanente capo della triarchia; se votiamo contro di lui, votiamo a favore dell’onorevole De Gasperi, antico presidente della triarchia. Ma, dimettendosi, l’onorevole De Gasperi ha dato torto a sé stesso come capo della triarchia; quindi il nostro voto favorevole di oggi, è un voto contrario contro l’antico presidente.
Nell’uno e nell’altro caso, noi voteremo sempre contro l’onorevole De Gasperi.
Si può presentare la questione in altra forma. Se votiamo a favore dell’onorevole De Gasperi, cioè delle sue dichiarazioni attuali, noi votiamo contro l’onorevole De Gasperi in quanto capo della triarchia, e se votiamo contro l’onorevole De Gasperi noi votiamo a favore dell’onorevole De Gasperi capo della triarchia contro la quale egli dette le sue dimissioni, cioè contro lo stesso onorevole De Gasperi.
La conclusione è che noi votiamo sempre contro l’onorevole De Gasperi; ed il risultato dovrebbe essere che il Capo dello Stato (provvisorio) dovrebbe sempre invitarlo a dimettersi.
Io non credo che parlamentarmente e costituzionalmente l’attuale situazione si possa intenderla. Si può soltanto intenderla da un punto storico e sociale.
Noi viviamo in una situazione assurda, paradossale è dire troppo poco perché l’assurdo del paradosso è solo apparente, mentre l’assurdo è la falsità mera.
Se vi piace, il tema principale di questa discussione è appunto comprendere perché ci troviamo in una situazione così falsa.
La condotta dell’onorevole De Gasperi al momento di aprire la crisi era un presentimento dell’assurdo in mezzo al quale viviamo. La soluzione che egli ha dato alla crisi ne è stato un altro. Io credo che questa Assemblea debba fare un serio sforzo per chiarire i termini istessi della situazione. Forse non può farlo a favore di sé stessa. Ma l’esame che essa potrà condurre della situazione costituzionale e parlamentare che si è formata in Italia, potrà essere un vero servizio che essa può rendere agli elettori della futura Assemblea Legislativa.
Stabiliamo ad ogni modo in che cosa consista l’assurdità della situazione. Noi osiamo una Costituente, sta bene, ma siamo anche un’Assemblea sovrana, la sola che esprima una legalità, e da questa legalità sorge un Governo. Il Governo esce dal seno di questa Assemblea secondo le riconosciute regole del parlamentarismo. Essa funziona in base a un principio maggioritario, e di questo principio è espressione il Governo stesso. Quali che siano le particolari accidentalità del nostro lavoro, esso è di pura essenza parlamentare e si sviluppa appunto in conformità delle norme e dei metodi del parlamentarismo.
Senonché, noi siamo subito confrontati da una difficoltà. Il regime parlamentare, fondato sul suffragio universale, su di una Assemblea libera delle sue decisioni, che essa prende a maggioranza, e perciò su di un Governo, il quale altro non è se non l’espressione di una libera maggioranza di deputati che interrogano soltanto la loro coscienza individuale, un tal regime (adopero anch’io questo inutile francesismo, la cui traduzione italiana è reggimento oppure ordine) suppone un paese padrone di sé stesso e, nella sua indipendenza, libero di prendere le decisioni che giudica migliori.
Sventuratamente noi non siamo liberi. Forze militari straniere occupano sempre il nostro paese, nonostante che il Governo italiano, non però l’Assemblea sovrana (e ciò grazie ad un escamotage, in italiano: gherminella o peggio, del cessato gabinetto) si sia precipitato a ratificare l’imposto trattato, così contrastante al meraviglioso sforzo fatto dal nostro paese per aiutare militarmente la causa degli alleati. Le servitù che esse c’impongono sono enormi, e non tali ad ogni modo da metterci in grado di dimostrare una impossibile simpatia, anzi da giustificare resistenze e rancori, di cui forse un giorno i nostri vincitori si accorgeranno.
E questo sarebbe poco. In verità il senso del non esser liberi agisce in maniera ben più sostanziale sui nostri animi. Una libertà parziale e limitata, costretta ad aggirarsi entro la cerchia di necessari consentimenti o di temute opposizioni, di assentimenti espliciti od impliciti, non è una libertà, e, cosa ancora più grave, non permette nemmeno l’illusione di poterla conquistare.
Non voglio, naturalmente, riecheggiare opinioni oltraggiose sullo andamento di quest’ultima crisi ministeriale, e perciò parlare di influenze straniere sul suo verificarsi. Però se ne è parlato e scritto. Non penso di godere la particolare simpatia del primo settore, che è alla mia destra, e, naturalmente, contraccambio cordialmente questi sentimenti. Ma giudicherei un fatto anti-italiano un’imposizione – o un suggerimento – riguardante parti e uomini politici di una parte o di persone di questa Assemblea. Tuttavia che di certe cose si sia potuto o si possa parlare, questa è la prova che viviamo in un’atmosfera di sospetti e di ambiguità, che toglie a noi la possibilità di parlare di condizioni perfettamente libere del nostro lavoro; e mi spiego così la poca conformità alla buona regola parlamentare seguita, dal Capo del precedente Governo, o forse dallo stesso Capo dello Stato, nella soluzione della crisi.
E qui veniamo ad una questione forse spinosa, ma sulla quale è pur mestieri intrattenersi, ad ogni modo sulla quale è necessario un chiarimento definitivo, dico definitivo almeno nel senso che i termini di esso siano nettamente spiegati davanti al Paese.
Ho detto che il regime parlamentare suppone la formazione di maggioranze nell’Assemblea, composte di parlamentari, i quali interrogano soltanto la loro coscienza individuale rischiarata, si capisce, dalle proprie idee che possono essere di un partito. Siamo innanzi al problema dei rapporti fra sistema democratico ed azione dei partiti, insomma fra democrazia e partitocrazia. Quando io – credo il primo – adoperai quest’ultima parola nelle stampe, mi fu obiettato che era cacofonica. La cosa è più cacofonica ancora.
Il difetto esterno della partitocrazia è il fatto di sostenere una maggioranza mercé un’altra maggioranza, cioè di poter dare alle decisioni di un’assemblea eventualmente un sostegno teorico così ristretto, che esso non si distingue gran fatto dal valore numerico della minoranza. Un sol voto di maggioranza ha dato la prevalenza nell’assemblea ristretta del partito; un sol voto di maggioranza può darlo nell’Assemblea elettiva che legifera e risolve costituzionalmente. Le ragioni aritmetiche sono soddisfatte; lo sono altrettanto le ragioni morali?
Una volta i socialisti si accanivano contro la Massoneria. Personalmente la mia adesione a questa istituzione è puramente teorica e dipendente da una valutazione che io faccio dell’esistenza del Vaticano in Italia; meglio ancora dalla coesistenza dello Stato del Vaticano, che è un’estensione della Santa Sede, e dello Stato laico italiano. Chiarito questo punto, io desidero ricordare un argomento da parte dei socialisti che è poi stato ripetuto infinite volte, allo scopo di contrastare l’adesione dei socialisti a cotesta istituzione. Se non mi sbaglio l’ho sentito ripetere anche recentemente.
Lascio stare – e non me ne occupo – la questione se la Massoneria fosse un’istituzione «borghese». In realtà essa consiste in una istituzione selettiva di carattere morale, e quindi costretta a circondarsi di cautele formali per poter compiere la propria funzione. In certe sue forme degenerative essa può considerarsi come una mediocre chiesetta protestante.
L’argomento del quale in certi ambienti socialisti si parlava contro la Massoneria era, e forse è ancora, che la Massoneria imponesse ai suoi componenti opinioni prese senza controllo dell’opinione pubblica o, ad ogni modo degli avversari di essa. Preoccupava che essa poteva decidere in ambiente ristretto cose che poi dai suoi componenti potevano essere imposte in più responsabili consessi. Espongo e non formulo obbiezioni. Mi limito semplicemente a stabilire che tali osservazioni non nascevamo da chiare informazioni o dal desiderio di assumerle.
Noto che l’argomento portato contro la simultanea appartenenza dì socialisti alla Massoneria e al proprio partito, consisteva in una preoccupazione che essi potessero decidere e prendere impegni fuori delle assemblee del proprio partito.
Ora questo argomento è appunto quello che può muoversi al sistema delle decisioni unilaterali prese dai singoli partiti e poi portate dai propri appartenenti nelle Assemblee responsabili.
È certo che fin quando nell’Assemblea, che per comodità chiamerò pubblicamente responsabile, si recano e consacrano voti presi in ambienti chiusi, non solo le discussioni della prima appaiono perfettamente inutili, ma viziate dal sospetto di parzialità e di interessi particolari.
Ma c’è di più. L’evoluzione dei partiti in questi ultimi tempi si è verificata verso una forma gerarchizzata, che include l’obbligo dell’adesione alla maggioranza da parte della stessa minoranza.
Questo diritto che essi, i partiti, si son preso verso gli eventuali dissidenti, crea un rigido conformismo che rende la vita pubblica pesante e senza uscite. Il qual conformismo non sarebbe così assoluto, anzi facile e desiderabile ad infrangere, se l’appartenenza a codesti partiti non fosse capace di assicurare ai propri consenzienti vantaggi di varia specie, fra cui la scelta per le cariche pubbliche. Rompere la solidarietà di partito è troppo pericoloso perché il dissidente vi si arrischi. Invece la fedeltà al proprio nucleo è giudicata cosa utilissima per coloro che la dimostrano. Ma in ultimo codesta fedeltà al partito si risolve nella fedeltà verso i capi, il cui disinteresse può essere insospettabile, ma la cui sorte dipende appunto da questa fedeltà.
Léon Blum ha scritto che oggi una democrazia fuori dei partiti è impensabile, il che è per lo meno vero nel senso che ogni democrazia suppone il diritto di ognuno di costituirsi in partito con i suoi aderenti. Se egli ha voluto dire che l’organismo istituzionale dei partiti, come corpi nettamente e separatamente costituiti, è quello che dirige, controlla ed organizza la democrazia, allora la cosa va intesa nel senso che essi agiscano con la massima discrezione senza pretendere ad un diritto esclusivo per i propri dipendenti ed organizzati, e lasciando all’individualità non organizzata un giusto riconoscimento ed il suo posto nell’ordinamento dello Stato. Senza questo riconoscimento ed una simile ammissione delle facoltà della persona estranea alla competenza e giurisdizione dei partiti, i partiti stessi diventano setta, e la setta coacervo d’interessi personali.
Può darsi che non tutti siano in grado di comprendere il suggerimento di J.S. Mill, nel suo trattatello sulla Libertà, di proteggere ed aiutare l’individualità autonoma, fiera della propria indipendenza, e sin capace di apparire bizzarra. Ho detto si può non intendere tutto il valore pratico del consiglio offerto dal Mill. Ma nessuno può chiudere gli occhi al fatto che il monopolio del potere e della influenza politica ai fedeli della parte, implica per essa non solo un avvenire di dubbio conformismo, ma una odiosa selezione di qualità inferiori: l’obbedienza, la rinunzia alla discussione, il rifiuto dei consigli di una ragione estranea alla parte, di propositi non formulati dai capi. Peraltro io non voglio prendere la mano al Mill, e vi prego di leggere il resto nel capitolo III del suo trattatello sulla Libertà, che porta appunto il titolo: Of individuality as one of the elements of well-being.
Ma questa è filosofia, e torniamo alla politica, la quale in un certo senso non è appunto che una conclusione della filosofia.
Anche ammesso, come assume il Blum, che oggi una democrazia fuori dei partiti è semplicemente impensabile, da questo non segue che i partiti debbano formare un trust per godersi insieme il governo. Allora i partiti diventano semplicemente i soci di un ben avviato commercio, di una profittevole industria.
Un partito al governo, sta bene, non due, tre, quattro, cinque o sei, fraternamente collegati per godersi insieme il potere. Uno al potere e gli altri, se non alla opposizione, che sarebbe il meglio, ma al controllo del potere medesimo. E se no, che diavolo succede? L’individuo è escluso dalle cariche pubbliche e da qualsiasi influenza sull’amministrazione pubblica. I membri delle varie associazioni politiche, sindacali, cooperativistiche o culturali stringono un patto fra di loro per amministrare disinteressatamente il comune denaro, cioè loro e degli altri, ma soprattutto degli altri, e le cose vanno a rotoli. È superfluo, in questi casi, pretendere che la moglie di Cesare non deve essere sospettata; però alla condizione che essa non si renda sospettabile. L’uomo è quello che è, e non bisogna farsi troppe illusioni. Toglietegli il santo timore dei carabinieri e del giudice, e niente più vorrà trattenerlo. Sei partiti insieme, fanno sei tentazioni che si sentono impunibili, perché cointeressate. Una democrazia dei partiti, fuori la regola che uno di essi governa e gli altri appuntano gli occhi su di esso e lo sottopongono ad una inchiesta permanente, degenera in camorra legalizzata e la morale pubblica diventerà un mito.
Il caso italiano è stato appunto quello della lega dei partiti. A controllare non c’è rimasto che l’onorevole Finocchiaro-Aprile, e l’Uomo qualunque tende a farsi frate, cioè a farsi accettare nella buona società dei padroni a fare il settimo, fra tanto sestuplice senno.
Non mi piacciono i facili sospetti d’irregolarità personali. In tanti anni da che sono alla Camera, non ho mai né partecipato, né incoraggiato scandali e rivelazioni. Del resto l’episodio Nasi mi ha sempre reso estremamente diffidente verso gli scandali stessi. Il fatto nell’esarchia e poi nella cognata triarchia che m’ha colpito, è la facilità dell’unione fra cose non solo divise, ma opposte. Già, c’era da difendersi da un fascismo spietatamente perseguitato, e dalle sue possibili reincarnazioni, e poi dal monarchismo, e poi dalla celebre reazione in agguato. Grazie alla comoda formula, i sei o tre partiti al governo, hanno ognuno per conto proprio messo il bavaglio al proprio programma; e, dopo tre anni di governo dichiarano disinvoltamente, per bocca dell’onorevole De Gasperi, che essi non hanno fatto nulla!
I tre partiti ufficiali non potevano far nulla. Fino gli scamuzzoli della stampa provinciale hanno notato che è impossibile realizzare un programma quando si è in tre ad averne uno per ciascuno; quindi a non poterne attuare nessuno. Tuttavia sarei disposto a fare un’eccezione per la Democrazia cristiana. La Repubblica può essere un programma ideale per i socialisti e – si capisce! – per i repubblicani storici o preistorici, veggano loro. Infine chi mira ad una sovranità totale del popolo, è necessariamente repubblicano, perché per esso il popolo è la sorgente di tutti i poteri. Ma la questione per i cattolici prende un altro carattere.
Io non voglio ricordare il documento detto Syllabus pubblicato 1’8 dicembre 1864: avrei un giuoco troppo facile per la mia tesi. In esso si condanna tutta la società moderna dal materialismo filosofico al liberalismo politico, compresa la nostra Costituente, peraltro allora non ancora preveduta. Del resto i profeti d’Israele per non sbagliare usavano profetizzare almeno un par di secoli dopo che l’avvenimento si era verificato. Noto, en passant, che il Syllabus condanna esplicitamente la tesi della equiparazione di tutte le religioni, che in questa Assemblea è stata approvata dai democratici cristiani.
Su di ciò non m’intrattengo. C’è, ad ogni modo, nel Syllabus di Pio IX un rigetto aperto del principio che lo Stato moderno sia un soggetto di diritti «mentre l’origine di tutti i diritti è la Chiesa» (così dice il Syllabus), che io non so come si potrebbe barattare.
Si è cattolici o non si è cattolici, ed il cattolicismo riconosce al Pontefice una posizione particolare, che implica gravissime conseguenze. Se la Chiesa è l’origine di tutti i diritti e non lo Stato moderno, il potere del Pontefice come capo non solo spirituale, ma anche temporale dei cattolici, è indiscutibile. A parte che il Syllabus condanna senza ambagi il principio della sovranità popolare, è chiaro che per un cattolico il principio repubblicano può sussistere solo in quanto è sottinteso che esso è rappresentato dal Pontefice. Del resto una repubblica presieduta dal Papa è un vecchio sogno del guelfìsmo.
Un repubblicanesimo temporale, mondano, terreno, non mi pare conforme alle vere tendenze e possibilità politiche del cattolicesimo militante. «Sovranità del Papa o sovranità del popolo?».
Eppure i nostri democratico-cristiani si mostrarono pieni di un equivoco repubblicanismo, tanto che a Napoli, dove il popolino aveva preso ad entusiasmarsi per la monarchia, quando si accorsero che i preti – evidentemente per suggerimento del Vaticano – avevano lavorato per la repubblica, si misero ad invadere le Chiese ed a maltrattare i servi del Signore.
Fatto sta che qui dentro fecero il diavolo a quattro per infliggerci i Patti lateranensi. Non starò a ripetere una polemica già fatta, la quale, peraltro, potrebbe domani rifarsi in un’Assemblea Legislativa, la quale rivendicasse per sé, secondo le tradizioni del diritto costituzionale italiano, la facoltà costituente. Ad ogni modo nessuno potrà mai negare ai Patti lateranensi – peraltro non registrati alla Società delle Nazioni, ciò che forse colpisce la loro essenza giuridica – la natura di trattati internazionali, e quindi sempre annullabili da una volontà unilaterale, per esempio, la nostra.
Non discuto i Patti lateranensi se non in rapporto alla mia tesi dei patteggiamenti che include un governo misto. Essi non sarebbero passati se una parte dell’Estrema non li avesse fatti propri. Dicono che, aritmeticamente, anche nel difetto del voto di essa, i Patti lateranensi sarebbero stati approvati. Sarà vero o non vero. Ad ogni modo questo si è appurato dopo. Prima sussiste un accordo eterogeneo fra parti opposte.
Senza queste pattuizioni non si capisce affatto il nostro torso di Costituzione, la quale ogni giorno più rassomiglia al vestito di Arlecchino. A suo tempo la definii il Cerbero a tre teste. Ora la definizione mi sembra troppo drammatica, e mi basta ritenerlo una eteroclita mistura di pii desideri.Il clerico-estremismo, che essa consacra, è divertentissimo.
Nel progetto non ci fu un orientamento rettilineo. Ognuno si reputò felice di depositarvi qualche sua trovata. Nessuno si preoccupò di confezionarla secondo un disegno netto. Onde la nostra Costituzione non si sa bene che cosa minaccia di diventare. Liberale in un senso, comunista in un altro, regionalista se vi piace, unitaria; se volete clericaleggiante per un verso, laicistica per l’altro, e chi sa quante altre cose ancora: essa è il simbolo stampato di tutti i partiti che si adoperano per godersi il potere. È un peccato che solo fascisti e monarchici non vi abbiano messo mano. Così l’intruglio saprebbe riuscito più saporito. Ma si può ancora sperare che anch’essi ci abbiano la loro parte. Del resto un principato repubblicano e un totalitarismo frazionario non son poi la cosa più difficile a vedere.
Indignati, certi pubblicisti confidano in un rigetto per via di referendum. Se la peregrina idea avesse seguito, potremmo ricominciar da capo la bella giostra. Ma la questione non è di ricominciare, sì bene di metter termine alla babilonia dei partiti coalizzati.
Il nostro problema fondamentale risulta da tristi condizioni obiettive, e non trova la sua risoluzione in un cumulo di partiti che si ammassano, ciascuno per realizzare un programma avveniristico, e che appunto per la differenza di questi programmi non ne realizzano nessuno.
Già prima della guerra il reddito italiano pro capite era uno dei più bassi del mondo. Esso era di 343 unità internazionali, cioè del valore del dollaro del periodo 1925-1934; mentre quello degli Stati Uniti era di 1381 e quello della Gran Bretagna di 1069. È vero che dopo di noi venivano la Jugoslavia e l’U.R.S.S., ma esse trovavano in loro stesse elementi naturali di compenso (la foresta, il pascolo, il basso livello dei tributi, le abitudini di estrema semplicità dell’abbigliamento) che noi non abbiamo. Ad ogni modo fa piacere rilevare che nella stessa Russia sovietista il reddito individuale fosse inferiore non solo a quello dei grandi paesi capitalistici, ma perfino al nostro…
E ci fossimo fermati lì! Così misero come esso è, avremmo potuto in qualche modo adattarci e cercare di vivere come ci sarebbe stato possibile. In realtà, il reddito individuale è diminuito di circa la metà, non rappresentando più se non il 58,5 per cento di quello del 1938. Si sa che tutti i settori della vita economica sono stati colpiti. Il meno colpito è stato il settore commerciale, il cui reddito è il 90 per cento di quello del 1938. Il settore più percosso è quello industriale, che dà appena il 34,3 per cento di quello del 1938. La caduta del reddito italiano è stata continua dal 1938 in poi.
Si può ammettere che i salari abbiano subito una notevole scossa. Tuttavia essi hanno seguito una tendenza a livellarsi con i prezzi delle cose. Dati ufficiali non se ne hanno; quelli particolari di alcune città rivelano il fenomeno del livellamento col costo tale da ristabilire l’equilibrio precedente. È pure da mettere in risalto il dato che Napoli, la più povera delle grandi città d’Italia, è anche la città che manifesta il maggiore rincaro della vita, il che si spiega con l’enorme consumo di viveri praticatovi dagli eserciti delle nazioni occupanti, e con la distruzione pressoché totale del suo modestissimo impianto industriale. È certo che per Napoli andava fatto qualche cosa di speciale, e non mi pare che la realtà sia stata questa.
Insomma tutti i settori della vita italiana sono stati pesantemente colpiti: agricoltura, industria e commercio. Ciò era prevedibile, poiché se nel periodo precedente la prima guerra mondiale, l’economia italiana si era favorevolmente estesa, nel periodo fra le due guerre essa aveva subito una pericolosa stasi. Si capisce che il sopraggiungere della seconda guerra mondiale, la disfatta, la spietata inclemenza del vincitore (il quale finse di non accorgersi che le nostre perdite umane nella cobelligeranza, nel partigianesimo, nelle quattro giornate dell’insurrezione di Napoli, superarono di gran lunga le sue nella lotta contro il tedesco, in Italia), l’arresto del commercio estero, che per l’Italia è sempre in relazione con la sua interna prosperità, falciarono selvaggiamente la nostra economia nazionale. Da ciò il miserando impoverimento del nostro paese e tutti i fenomeni di disordine che a tale miseria si accompagnarono e si vanno tuttavia aggiungendo.
Calmate le angosce più atroci imposte dalla guerra, noi avevamo bisogno d’incoraggiare una ripresa organica della nostra economia nazionale, il che non può venire se non dalla libertà del produttore, imprenditore industriale che egli sia o capo di una azienda agricola. Oserei dire che il socialismo è un lusso, che ci possiamo accordare soltanto allorché un’economia normale è stata ristabilita. Un accordo fra i partiti per la gestione dello Stato era forse consigliabile allo scopo di conseguire una mutua rinunzia alle vedute particolari. Essi invece operarono nel senso di assicurarsi il potere dello Stato per sviluppare la loro politica di parte. I socialisti andarono al potere per preparare il socialismo, i comunisti per dare un’avviata al comunismo, la democrazia cristiana per favorire il sogno di una repubblica pontificia. E i minori aggruppamenti per secondare le voglie particolari dell’una o dell’altra gerarchia dirigente.
Nessuno più di me è convinto che alla storia non si fanno errata-corrige. In un certo senso, quello che è avvenuto non poteva non avvenire. Tuttavia non bisogna sempre confondere la piccola cronaca politica, le meschine turbolenze dei corridoi delle assemblee, con il solenne e spesso inumano incedere della storia. Certi dirizzoni dei partiti sono sempre emendabili, e possono essere diversi da quello che sono. L’idea di ritornare alle buone regole parlamentari con un partito al potere, i gruppi ad esso favorevoli che lo spingono, lo sollecitano o lo frenano secondo le esigenze del momento, e nello stesso tempo lo controllano, mentre un’opposizione anche limitata di numero, l’osserva, lo vigila, lo controlla, lo sorveglia, mi sembra una delle poche cose buone che il parlamentarismo ci può dare. Non mi pare che dopo le esperienze fatte, il trust dei partiti sia da incoraggiare. Dovremmo ammettere che meriti lode l’onorevole De Gasperi per avere inaugurato il sistema opposto?
C’è prima di tutto la questione delle persone che è essenziale nel sistema parlamentare. Come credere all’onorevole De Gasperi, capo di un esperimento monocromo dei partiti, dopo che egli è stato il capo inveterato della triarchia, e se non mi sbaglio persino dell’esarchia? Triarchia o monarchia parlamentare?
E poi c’è la questione stessa della Democrazia cristiana. Un uomo di Stato francese, noto per l’estremo radicalismo tanto delle sue opinioni, quanto delle sue espressioni, Georges Clémenceau, aveva sempre opinato che i ralliés francesi, anche se con l’elemento moderato dell’Assemblea formassero la maggioranza di essa, non potevano condurre una repubblica che, volere o no, derivava dai Droits de l’homme e dal 1793.
L’Extrème Gauche, l’antica Montagne dei Danton e dei Robespierre, anche se minoranza, secondo il giudizio di Clémenceau, era essa la Repubblica e doveva essa governarla.
Non chiedo che si vada tanto in là.
Gli elettori votarono per la Repubblica, ma anche per un’utilizzazione numerica nell’Assemblea, della Democrazia cristiana. Votarono essi per una Democrazia cristiana che assumesse esclusivamente in proprio la direzione dello Stato?
Non esito a dire che tale non può essere stata la loro volontà. Oppure bisognerà attendersi un nuovo responso degli elettori.
Il significato della Repubblica è una interpretazione umana e terrena dei valori ideali. Il senso di essi, da un punto di vista democratico, è neutro rispetto all’ecclesiasticismo. Una repubblica culturale e sociale moderna è opposta ad una interpretazione confessionale dei compiti di essa.
Non dubito del democraticismo della Democrazia cristiana; ma ne trovo il limite nell’istesso aggettivo che la qualifica.
Le vie della storia sono imperscrutabili, ed il Vaticano è uno Stato sovrano, col quale non possiamo avere se non i rapporti comuni che si hanno con qualunque Stato. Che cosa accadrebbe se voi foste posti al bivio: confessione o Nazione? Culto o patria? E voi non foste contenuti da altri alleati?
Rifiuto l’alternativa ed ho già fatto la scelta; perciò giudico che un governo monocorde che s’ispiri al tipo confessionale di un partito non può ottenere il mio voto. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
Nomina di una Commissione.
PRESIDENTE: In relazione al mandato conferitomi ieri dall’Assemblea, ho chiamato a far parte della Commissione, che dovrà riferire sul disegno di legge: «Proroga del termine previsto per la durata della Costituente», gli onorevoli Bocconi, Calamandrei, Cappi, Conti, Fabbri, Gasparotto, Malvestiti, Mattarella, Morelli Renato, Pajetta Giancarlo, Paratore, Piccioni, Rodi, Scoccimarro e Targetti.
SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Prego di essere sostituito con l’onorevole Togliatti.
LUSSU. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LUSSU. Poiché l’onorevole Calamandrei deve assentarsi da Roma, propongo che sia sostituito con l’onorevole Schiavetti.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. Invito i componenti a riunirsi immediatamente per procedere alla costituzione della Commissione e all’esame del provvedimento, in modo che la relazione possa essere presentata entro le 48 ore.
Sui lavori dell’Assemblea.
UBERTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
UBERTI. Ritengo che non sia opportuno interrompere la discussione sulle dichiarazioni del Governo con l’esame del disegno di legge relativo alla proroga della Costituente.
PRESIDENTE. Onorevole Uberti, ieri sera, tutta l’Assemblea – e lei non espresse parere contrario – manifestò il desiderio che si accelerassero i lavori.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare,
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ritengo che il disegno di legge sulla proroga della Costituente, in quanto riguardante materia costituzionale, possa essere discusso nella seduta antimeridiana di sabato.
PRESIDENTE. Su ciò deciderà l’Assemblea nella seduta di venerdì. Intanto invito l’Assemblea ad approvare la procedura d’urgenza, e cioè che la Commissione presenti la relazione sul disegno di legge entro 48 ore, ossia entro venerdì a mezzogiorno.
(L’Assemblea approva).
La seduta termina alle 12.20.