Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 21 APRILE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

xcix.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 21 APRILE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Cimenti                                                                                                             

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Della Seta                                                                                                       

Codignola                                                                                                        

Malagugini                                                                                                      

Spallicci                                                                                                          

Macrelli                                                                                                          

Rossi Maria Maddalena                                                                                 

Uberti                                                                                                               

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

CIMENTI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Onorevole Presidente, nella seduta di sabato scorso l’onorevole Nitti ha affermato essere una triste eredità del fascismo quella di inserire nel testo della Costituzione, alla fine del secondo capoverso dell’articolo 23, la dizione «con speciale riguardo alle famiglie numerose». Egli ha detto che quello stesso veleno che il fascismo aveva infiltrato nelle famiglie con la campagna demografica e con la mania delle «famiglie numerose», è quello stesso che oggi si vorrebbe consacrare nella nuova Costituzione. Mi sento profondamente umiliato da questa dichiarazione dell’illustre parlamentare e poiché ho il singolare privilegio di essere il Deputato col maggior numero di figliuoli, anche a nome di altri quindici colleghi che condividono con me, da questi banchi, questo oneroso e onorifico primato, ed a nome altresì di ben 600.000 capi di famiglie numerose stretti in una libera associazione, il cui Comitato Centrale mi onoro di presiedere, elevo la mia viva protesta contro lo spirito e la forma di tali dichiarazioni.

Crede forse l’onorevole Nitti che le famiglie numerose siano state un portato del fascismo, oppure che esse non siano invece il risultato della vita morale del nostro popolo? (Commenti). E se il fascismo, per le sue mire di espansione nel mondo, ha circondato le famiglie numerose di qualche cura e di qualche vantaggio materiale, ritiene l’onorevole Nitti che questi privilegi debbono essere aboliti, soltanto perché ci richiamano ad un periodo della nostra storia, che vogliamo cancellare, come se si dovesse distruggere tutto quello che di buono ha potuto fare un nostro nemico o un nostro avversario, mentre la nuova Costituzione prevede il materno interessamento della Repubblica verso i meno abbienti e verso le più bisognevoli categorie di persone?

Io posso affermare, senza tema di smentita, che la quasi totalità delle famiglie numerose hanno conosciuto e purtroppo conoscono, in tempi disagiati e dolorosi di restrizioni, come quelli presenti o di un recente passato, tutte le privazioni e tutte le difficoltà, per cui anche verso di esse la nuova Repubblica democratica deve volgere il suo sguardo ed il suo interessamento.

Se è vero che la morale della famiglia – e sono parole dell’onorevole Nitti – non consiste nel creare una prole abbondante, è altresì profondamente più vero che una prole abbondante è il segno più evidente della moralità della famiglia. (Interruzioni – Commenti).

Le famiglie numerose non ripetono il loro atto di nascita ed il loro impulso – me lo consenta l’onorevole Nitti – dalla dottrina e dai favori del fascismo, ma bensì da quella dottrina morale che la Chiesa cattolica ha sempre insegnato e dalla fiducia nella Provvidenza che è conforto e sostegno anche nelle prove più dure. Io spero che la Repubblica democratica italiana non vorrà rifiutare di essere ministra di tale Provvidenza. (Applausi – Commenti).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Caroleo.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana

.

Rivolgo viva preghiera agli onorevoli colleghi di tenere presente che, cominciando dalla seduta di oggi, un limite nel tempo, per la discussione generale del secondo Titolo, dovrebbe essere osservato.

Abbiamo udito discorsi certamente interessanti, ma che hanno superato il tempo che era strettamente necessario a rendere edotta l’Assemblea dei concetti e dei principî che gli oratori desideravano esprimere.

A cominciare da oggi, pertanto, io tenterò, nel limite in cui l’Assemblea lo consentirà, di tenere presente quel limite di mezz’ora, concordato, all’inizio, non tacitamente, ma esplicitamente, ma che ormai è entrato nel campo delle dimenticanze.

È iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, chi ha l’onore di parlarvi è un uomo che ha vissuto nella scuola, della scuola, per la scuola; e che dalla scuola, anche in ore non liete, ha tratto sempre il più grande conforto della vita, insegnando ai giovani una filosofia, che, se non porta all’accaparramento dei milioni, certo porta, nella perenne giovinezza, a quella libertà ed a quella serenità dello spirito, onde la coscienza si rinfranca sotto l’usbergo del sentirsi pura.

Questo dico, perché mi dorrei se si credesse che io oggi qui parlo solo come rappresentante di un gruppo o di un partito con una tesi prestabilita.

Parlo come uomo che della scuola ha una grande esperienza e che la scuola ha profondamente amato; parlo come uomo convinto che, se non si ha un corpo insegnante, il quale comprenda che quella dell’insegnamento non è semplicemente una carriera, ma è una vera alta missione, una vera cura di anime, tutte le riforme scolastiche saranno nulle. Se è vero che la nostra oggi deve essere anche opera di ricostruzione morale, il primo compito in questa ricostruzione, dopo la famiglia, spetta alla scuola. La scuola, la vera pietra angolare, basilare, del grande edificio: la scuola che il popolo deve apprendere ad amare ed a tutelare come il vero tempio civile della Nazione.

Io non posso certo occuparmi dei molteplici problemi, che nel loro complesso costituiscono il problema pedagogico della scuola. Tutto questo rientra nella legislazione scolastica. Se mi ci soffermassi devierei dall’argomento cui sono rigidamente richiamato dagli articoli 27 e 28 del progetto di Costituzione. Se una deviazione dovessi permettermi, sarebbe solo per richiamare la vostra attenzione sulla significativa coincidenza che noi stiamo parlando della scuola nel momento stesso nel quale nella nostra Assemblea sono pervenute le proteste del Corpo insegnante, il quale invoca uno stato giuridico ed un trattamento economico che ad esso garantiscano quella dignità di vita e quella serenità di spirito, che sono condizioni inderogabili onde potere esplicare, efficacemente, l’altissimo compito educativo.

Io debbo invece soffermarmi sul problema politico della scuola; poiché se è vero che nella scuola non si può e non si deve, nel senso settario della parola, fare della politica, è altrettanto vero che c’è un aspetto politico della scuola, che ci riporta a quelli che sono i diritti e i doveri del cittadino, a quello che è il problema della libertà, a quella che è la funzione dello Stato. Certo, se io dovessi delineare un ordinamento scolastico ideale per un società ideale, per una società nella quale, le singole chiese reciprocamente rispettandosi, nessuna di esse aspiri al monopolio della educazione; se vi fossero partiti i quali sentissero che, oltre le particolari ideologie, vi sono problemi fondamentali inerenti alla comune educazione ed allo svolgimento dello spirito umano; se fossimo in una società nella quale il popolo sentisse veramente l’importanza del problema della scuola e l’istituto della scuola amasse e tutelasse, oh, allora la formula ideale solo una sarebbe: «Libera scuola in libero Stato»!

Ma il problema della scuola non è un problema astratto, è un problema concreto: è un problema che si pone per un dato popolo, in un determinato momento della sua vita, della sua storia. Entrano in giuoco il genio della stirpe, le tradizioni nazionali, le secolari esperienze, le attuali aspirazioni. È merito di Vincenzo Cuoco aver rilevato la storicità di questo problema.

Ora, se così è, è facile un’osservazione: dopo la dittatura, è naturale che vi sia stato e vi sia ancora come un senso di insofferenza verso l’autorità dello Stato; è naturale che, dopo lo scempio che il fascismo ha compiuto della scuola, sia settariamente interpretando il patrimonio della nostra cultura, sia educando, o meglio diseducando i giovani alla menzogna, all’ipocrisia ed al servilismo, dopo tale scempio, è naturale che vi sia ancora in taluno la tendenza a sottrarre la scuola allo Stato, o ad equipararla alle altre scuole, private o a queste scuole in secondo piano a subordinarla. Questo è naturale. Ma lo Stato democratico è la stessa cosa dello Stato fascista?

Lo Stato democratico non è un istituto verso il quale i cittadini debbono trovarsi in un rapporto di diffidenza e per il quale tutta la scienza costituzionale debba consistere a congegnare garanzie verso lo Stato, onde la sua invadenza non abbia a sopprimere i diritti della personalità. Lo Stato, in regime democratico, è la nazione che governa se stessa. Non ha più ragione di essere il concetto negativo dello Stato, cioè dello Stato gendarme, dello Stato la di cui funzione si limiti a tutelare l’ordine pubblico.

Lo Stato è inoltre il promotore del bene e del benessere sociale; e non solo del materiale benessere, ma anche, anzi, soprattutto, del bene morale.

Se questo è, non si può disconoscere nello Stato anche una funzione altamente educativa: lo Stato educatore, questo il concetto fondamentale della scuola repubblicana italiana.

Ci si è domandato ieri, in quest’Aula: Cosa attendete, voi, repubblicani, per prendere posizione su tale problema? Cosa si attende, noi rispondiamo, per conoscere le pagine dei nostri pensatori, ove a caratteri lapidari è scritto che tutti i grandi problemi si risolvono in un problema di educazione, e che se dello Stato deve aversi un sano concetto è quello appunto dello Stato educatore?

Lo Stato educa, anzitutto, con i suoi reggitori, se danno testimonianza di rettitudine e di carattere; educa con le sue leggi, poiché c’è una vera funzione pedagogica della legislazione; ma educa soprattutto con la scuola. Quindi, scuola di Stato: questa è la parola della democrazia. Non come una delle tante scuole che debba gareggiare con le altre; ma come una scuola che sulle altre abbia la debita preminenza. Allo Stato le supreme direttive dell’educazione nazionale. Se abdicasse a questa sua funzione, lo Stato non sarebbe più lo Stato né noi più potremmo coerentemente parlare di democrazia.

Un punto bisogna chiarire. Ci si è domandato ieri, con trepidazione: Non pensate, voi repubblicani, quale pericolo potrebbe correre la scuola di Stato col porre troppo l’accento sulle autonomie regionali?

Rispondiamo che noi, repubblicani, non vogliamo né lo Stato burocratico accentratore e neppure delle autonomie che siano in contrasto con l’unità politica dello Stato e con l’unità spirituale della Nazione. Ma, prima di essere un problema politico, è un risultato della moderna scienza pedagogica il riconoscere che scuola di Stato non significa scuola uniforme. La scuola elementare, la scuola professionale, la scuola dell’artigianato, la scuola rurale non possono non adattare le loro esigenze a quelle che sono le condizioni della regione. Non che l’insegnante, come è stato da taluno proposto, debba dare la sua lezione in dialetto. Sarebbe una esagerazione. Ma l’adattare queste scuole al carattere della regione, alle esigenze locali, risponde ad esigenze di carattere psicologico e pedagogico. Non riconoscerle significa ignorare i principî primi della scienza educativa.

A proposito di autonomie, vi sarebbe un altro problema da trattare, ma i limiti di tempo non me lo consentono. È il problema dell’autonomia universitaria. Nessuno più di noi è fautore di questa autonomia, che è garanzia di libertà per l’alto insegnamento; ma deve essere un’autonomia ben altrimenti disciplinata, se non si vuole, in nome della libertà delle singole Facoltà, sanzionare degli arbitri, specie nel campo dei concorsi universitari che molte volte risentono di indebite pressioni e inframmettenze. E non parliamo di certe cattedre conferite ad uomini di cosiddetta chiarissima fama; per le quali, non rare volte, salvando tutte le forme, si giunge a sanzionare il privilegio e l’arbitrio.

Ma non basta dire scuola di Stato. Non basta conferire a tale scuola la preminenza. Non basta affidare allo Stato le supreme direttive della educazione nazionale. Taluni, con aria di trionfatori, hanno detto: vedete, noi, in nome della democrazia, siamo riusciti ad ottenere l’inclusione nel progetto di Costituzione della scuola di Stato. Non basta. Nessuno nega la scuola di Stato. Non credo vi siano proprio dei negatori recisi ed assoluti della scuola di Stato. Gli stessi democristiani non si sono mai sognati di negare una tale scuola. Ciò che interessa sono le direttive, è l’indirizzo educativo che la scuola di Stato deve avere. Si parla di scuola laica e di scuola confessionale, di scuola liberale e di scuola non liberale.

Ora, badate, con la votazione dell’articolo 7, cioè con la inserzione dei Patti lateranensi, delle direttive, in senso confessionale, sono già state date alla scuola pubblica, alla scuola della nuova Repubblica italiana. L’articolo 36 del Concordato è esplicito: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica».

Tengo a dichiarare che, pedagogicamente parlando, non ho nessuna avversione per l’insegnamento religioso. Ne riconosco anzi l’alto valore spirituale. Non è senza efficacia, per la vita, innalzare l’anima del fanciullo al sentimento del divino. Dico di più. Vorrei che, nella scuola media, l’insegnamento della storia fosse, più che altro, una storia dell’umano incivilimento e in questa storia, colmando lacune tuttora esistenti, fugando pregiudizi tuttora inveterati, dovrebbe essere posto in particolare rilievo, con tutti i loro riflessi sulle altre manifestazioni dello spirito, il grande valore delle grandi religioni storiche positive. Dico di più. Vorrei che nell’alto insegnamento all’abolita Facoltà di teologia si sostituisse, come in altri paesi, una Facoltà ove venissero raggruppate tutte le discipline concernenti la scienza delle religioni, onde i giovani portati ad alti e severi studi potessero approfondirsi nella storia, nella psicologia, nella filosofia, nella sociologia religiosa.

Ma, detto questo, non possiamo non aver presente che la scuola pubblica – e ci riferiamo sovrattutto alla scuola media – è bene una scuola cui accedono, come insegnanti e come discepoli, cittadini professanti credenze religiose diverse.

L’insegnamento religioso confessionale, dopo la famiglia e la Chiesa, se può ammettersi, quale incontestabile diritto, in quelle scuole private che un tale carattere confessionale hanno voluto dare a se stesse – onde, legittimamente, vi possono essere scuole cattoliche o evangeliche o israelitiche – un tale insegnamento non può trovar luogo nella scuola pubblica, nella quale se un indirizzo educativo deve essere preminente è quello di far sentire ai giovani, malgrado ogni divergenza confessionale, che v’è un qualcosa spiritualmente più alto che tutti li unisce, cioè la consapevolezza di essere figli devoti della patria comune, alla quale, educando se stessi, debbono ripromettersi di dare, pel comune bene, il contributo della propria opera.

Se questo è laicismo, noi siamo per la scuola laica, per quella scuola che solo una interpretazione settaria potrebbe identificare con la scuola atea, con la scuola irreligiosa o antireligiosa. Riserbando l’insegnamento religioso confessionale, dopo la famiglia e la Chiesa, a quelle scuole private confessionali, cattoliche, evangeliche o israelitiche, che nessuno pensa di ostacolare, noi intendiamo che nella scuola pubblica, cioè nella scuola di Stato, la nota della religiosità sia segnata da una più alta spiritualità, informata ad un carattere prevalentemente morale.

Un corso di etica civile, da sostituire all’insegnamento religioso confessionale, questo, per la scuola pubblica, io suggerirei al Ministro della pubblica istruzione.

Dopo lo scempio compiuto dal fascismo, noi abbiamo bisogno di una scuola nella quale la gioventù sia educata a dare il predominio alla ragione sulle passioni; a disciplinare la volontà, verso il bene orientandola e non rendendola mancipia dei ciechi impulsi; ad apprezzare il possesso dei valori morali fondamentali, quali la sincerità, la semplicità, la dignità, il carattere; ad armonizzare il sentimento, forte, della personalità col sentimento della solidarietà sociale; ad avere il culto della patria, senza deformarlo e profanarlo attraverso un esasperante nazionalismo, che adombri la visione di una umanità più umanamente organizzata nell’armonia tra gli Stati e nella fratellanza dei popoli.

C’è un piccolo grande libro che io non nomino, poiché voi lo conoscete; un libro non certo irreligioso e che io vorrei, per questo corso di etica civile, vedere adottato nelle scuole medie d’Italia; un libro dove si parla di diritti, ma anche di doveri; un libro dove, dominante, torna la nota ammonitrice: Il problema vitale dei tempi nostri è un problema di educazione.

Riconosciuta allo Stato la suprema direzione della educazione nazionale, riconosciuta, sulle altre scuole, la preminenza alla scuola di Stato, riconosciuta, salvo le debite garanzie, la libertà della scuola, cioè il diritto di aprire scuole private, non rimaneva alla Costituzione che sancire le norme che, in rapporto alla scuola, sono proprie di un vero regime democratico.

La scuola è aperta al popolo, dice il primo comma dell’articolo 28. Questo comma, forse, è pleonastico, dato che poi si accenna, giustamente, alla obbligatorietà e alla gratuità dell’insegnamento inferiore impartito almeno per otto anni. Non sarebbe stato inopportuno invece uno speciale accenno all’interessamento che lo Stato dovrà avere per talune scuole popolari, come le scuole professionali, le scuole di artigianato, le scuole rurali, ecc.

Ma la Costituzione se aveva, contro la libertà dell’ignoranza, giustamente affermata la obbligatorietà dell’insegnamento inferiore, non poteva a questo insegnamento limitare la gratuità, facendo della scuola media e superiore un privilegio degli abbienti. Bene ha fatto, quindi, l’articolo 28 ad accennare alle provvidenze, onde lo Stato si propone di aiutare i capaci e i meritevoli affinché, anche se privi di mezzi, essi possano raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento.

Ad evitare equivoci, la dizione dell’articolo dovrebbe però essere più precisa. Così come formulata sembra che gli incapaci e gli immeritevoli possano, se non privi di mezzi, raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento. Bisogna dire invece: solo i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento.

Non è questione qui, ben si comprende, di semplici parole. È andare alla radice del problema della scuola. Si sono avute riforme e controriforme; mentre la soluzione del grande problema sta in un’opera di selezione che, attraverso esami severi, severissimi, dovrebbe iniziarsi dalla scuola media, onde siano avviati ad altri campi di attività quelli che non rivelano capacità, né amore per gli studi alti e severi. Oggi, purtroppo, si ha una pletora impressionante di giovani che affollano le nostre Università alla caccia di un titolo che dovrebbe documentare la perizia in una scienza che non posseggono. Se c’è una piaga sociale, è quella appunto di questi giovani che escono dalle Università, pavoneggiandosi del titolo di «dottori», ma ben più ignoranti di quando iniziarono il corso dei loro studi. (Applausi).

Non sarebbe male che, in rapporto al problema della scuola, una parola fosse detta, nella Costituzione, per quanto riguarda il corpo insegnante. Non accenniamo alle garanzie, pur necessarie, con le quali debbono essere espletati i pubblici concorsi. Non accenniamo al diritto alla inamovibilità che, come per i magistrati, deve essere riconosciuto per i docenti universitari. Accenniamo al diritto, per gli insegnanti di ogni ordine e grado di scuola, di avere una retribuzione degna dell’alto compito che essi esplicano e che li ponga al riparo dalla morsa del bisogno e dalla preoccupazione di finire gli ultimi giorni della vita con una pensione che rasenta la fame. Il che, se doloroso per chi ha consumato tutta la sua esistenza nella scuola, è vergognoso per lo Stato che si mostra insensibile ad esigenze che hanno pure un significato morale incontestabile.

Tutto questo, cioè quanto concerne la scuola di Stato, io riassumerei, in brevi norme, in questo articolo 27, che, così come formulato nel testo, si presenta invero alquanto prolisso, poco chiaro e molto involuto; raccoglierei invece, per una maggiore organicità, nel successivo articolo 28, tutto quanto concerne la scuola privata.

PRESIDENTE. Onorevole Della Seta, è da 35 minuti che parla. Prosegua pure, ma io dovevo segnalarglielo.

DELLA SETA. Mi si conceda sulla scuola privata una parola. La incontestabile preminenza della scuola di Stato non autorizza, certo, lo Stato a negare al cittadino o a più cittadini il diritto di aprire una scuola, una scuola che si continua a chiamare privata per distinguerla da quella di Stato, ma che in realtà è anch’essa una scuola pubblica, in quanto adempie una pubblica funzione.

Non diremo che in Italia, specie nel Mezzogiorno – chi non ha letto le belle pagine di Francesco De Sanctis sulla scuola di Basilio Puoti? – non diremo che la scuola privata, in Italia, ha tutta una gloriosa tradizione; né diremo che, nel periodo critico che attraversiamo, la scuola privata può contribuire anch’essa ad alleggerire, efficacemente, lo Stato del suo grave pondo; ma diremo che aprire una scuola privata è un diritto del cittadino. Sarebbe ben strano che lo Stato, il quale autorizza certe case da giuoco ed altre case non nominabili, poi rifiutasse al cittadino il diritto di aprire una scuola. È così vasta, ancora, la piaga dell’analfabetismo, così diffusa l’ignoranza, così vivo il bisogno di una sana educazione morale che noi, in verità, vorremmo veder l’Italia, come la Svizzera, popolata, per tutte le sue plaghe, di molte e molte scuole, di scuole popolari, di scuole professionali e rurali, di scuole private che non dovranno chiedere un sussidio allo Stato – noi siamo recisamente contrari alle scuole private sussidiate dallo Stato – ma che il sussidio riceveranno dalla generosità dei privati abbienti e che opereranno non come concorrenti, ma come cooperanti all’azione che lo Stato, per proprio conto, svolge nella sua scuola.

Pur qui, naturalmente, quando si parla di libertà, si deve intendere una libertà disciplinata. La scuola esercita non un pubblico servizio, come si è detto, ma una pubblica funzione. E lo Stato non può essere indifferente al modo col quale le giovani generazioni vengono educate; quindi una libertà disciplinata, cioè una scuola privata che deve offrire allo Stato determinate garanzie; quindi la necessità di avere, all’uopo, un corpo di ispettorato, saggiamente selezionato per la indiscussa competenza, per la serenità e per la severità del giudizio.

Noi non ci soffermiamo a distinguere le scuole privatissime dalle parificate o dalle pareggiate; diciamo che le scuole private, qualunque esse siano, debbono offrire, per poter funzionare, determinate garanzie di ordine igienico per l’ubicazione della scuola e per i locali scolastici; di ordine didattico, nel senso di possedere il materiale didattico necessario per l’insegnamento; nonché possedere un corpo insegnante la di cui capacità sia garantita da adeguati titoli di studio; ma che sia al tempo stesso giustamente retribuito e non si debba più parlare di questi insegnanti come dei veri paria dell’insegnamento, compiendo al loro danno una vera e propria opera di sfruttamento, e riducendo le scuole private a vere agenzie di speculazione commerciale.

Lo Stato non può inoltre disinteressarsi dell’indirizzo educativo che queste scuole private intendono seguire.

Libere, liberissime, teniamo a ripeterlo, queste scuole di volere aggiungere agli altri insegnamenti anche un insegnamento religioso riferibile ad una determinata credenza; onde si potranno avere scuole cattoliche od evangeliche o israelitiche; ma lo Stato non potrebbe mai permettere che, in nome di una male intesa libertà della scuola, si impartisse in queste scuole private un insegnamento insidioso che tendesse ad alienare l’anima dei giovani da quello che è lo spirito di una sana democrazia.

Superfluo aggiungere che, quando si tratti di conseguire un titolo di studio che autorizzi il passaggio ad una scuola di ordine superiore, gli alunni delle scuole private, in piena parità di condizioni con gli alunni cosidetti interni, dovranno superare l’esame nella scuola pubblica.

Mi si pone ora innanzi un quesito cui ho già accennato incidentalmente in altri discorsi e che esige una maggiore precisazione. L’articolo 27 comincia con una solenne dichiarazione sulla libertà della scienza e dell’insegnamento. Due libertà che quasi si identificano e che vanno a ricongiungersi con un’altra libertà, con la libertà del pensiero, riconosciuta nell’articolo 16 della Costituzione.

Ora non mi soffermo a precisare il significato della libertà di insegnamento che taluno confonde con la libertà della scuola, che è un’altra cosa; e che taluno confonde anche, per quanto abbia il suo valore, con quel potere di iniziativa che pur gli insegnanti delle scuole medie debbono avere, quel potere di iniziativa che io chiamerei potere creativo, nel senso di non essere impastoiati da circolari e circolari ministeriali che tutto vogliono disciplinare e suggerire innalzando la pedanteria a sapienza pedagogica. Né si deve confondere con l’altro problema universitario, pure importante, della libera docenza. Libertà dell’insegnamento significa che nessun cittadino, per le proprie convinzioni religiose, politiche o scientifiche, può essere ostacolato e vessato nel proprio insegnamento; significa che nessun docente, per tali convinzioni religiose, politiche o scientifiche, possa essere destituito dal suo insegnamento o gli si neghi il diritto di riprendere questo insegnamento quando questo diritto, superato un periodo di reazione, è stato, nel nuovo regime di libertà, democraticamente riconsacrato; significa che ogni cittadino, quando alla dignità della vita unisca doti e meriti scientifici incontestabili, debba avere il diritto – quali che siano state, nel passato, le sue opinioni o convinzioni religiose, politiche o scientifiche – di concorrere al pubblico insegnamento.

Ora, non mi soffermo a rilevare la importanza di questa libertà d’insegnamento, che si immedesima, ripeto, con la libertà del pensiero, con la libertà della scienza, con l’incremento della scienza stessa; con quelle libertà senza le quali non si giungerà mai alla scoperta del vero.

Ed aggiungo che, se questa libertà dell’insegnamento, piena, integrale, non equivoca, non verrà riconosciuta, non si potrà mai parlare di democrazia, non si potrà mai parlare di regime repubblicano.

Un passo è stato già fatto, cioè quando, nella seduta del 12 dicembre 1946, votammo, a grande maggioranza, il disegno di legge sul giuramento, di cui io ebbi l’onore di essere il relatore; e per cui fu abolito il giuramento politico per i professori universitari; è vero onorevole Moro?

MORO. Esattamente.

DELLA SETA. Un passo è stato fatto, ma non è tutto. Noi, oggi, abbiamo l’articolo 27 che sancisce la libertà della scienza e dell’insegnamento; ma abbiamo anche i Patti lateranensi, non più come progetto, ma inseriti, per votazione di maggioranza, nella Costituzione.

Qui si pone il quesito se v’è o no una logica giuridica, che poi si risolve, anche per una Costituzione, in una esigenza morale di sincerità e di carattere: si può affermare in un articolo quanto in altro articolo si è negato?

Qui si presenta lo stesso dilemma che si presentò la settimana scorsa, quando, per l’articolo 14, si discusse e si votò sulla libertà religiosa. Ricordate? «Religioni egualmente libere di fronte alla legge?» o «Religioni eguali davanti alla legge?» Ricordate? Io mi astenni e la mia astensione suscitò un certo scandalo.

Ma io, fautore, tutore e combattente per la libertà religiosa in tutta la mia vita, io volli domandare: Ma che eguaglianza delle religioni innanzi alla legge è mai questa, quando, con i Patti lateranensi ormai votati e sanzionati, quando con lo Stato confessionale, con tutte le conseguenti esplicazioni, è stato consacrato il privilegio giuridico e politico di una religione rispetto alle altre fedi?

È questione di logica.

Ora si presenta il caso identico.

I Patti lateranensi, con lo Stato confessionale, portano, conseguentemente, all’articolo 36 del Concordato, il quale stabilisce che tutta la istruzione pubblica deve avere per fondamento e per coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana conforme alla tradizione cattolica; portano al famoso articolo 5 del Concordato, per cui l’ex sacerdote irretito da censura non può, anche se uomo preclaro per meriti scientifici incontestabili, conseguire o riconquistare la cattedra universitaria.

Nel volere tutto questo, voi, democristiani, siete logicissimi; ma è anche logico il riconoscere la illogicità, cioè la contraddittorietà di una Costituzione, la quale in un articolo afferma solennemente la libertà della scienza e dell’insegnamento e in altro articolo, per date convinzioni religiose e scientifiche, si vieta di salire la cattedra a coloro che ne hanno incontestabile diritto.

Se si vuole essere veramente logici, si deve riconoscere che questa libertà della scienza e dell’insegnamento non può più oggi essere consacrata nella Costituzione del nuovo Stato; se si vuole che rimanga, rimanga pure, ma non come consacrazione di un diritto riconosciuto, ma come aspirazione ad un diritto che in una prossima revisione si dovrà riconoscere.

Se è vera la parola del Vangelo, quando dice: «La verità vi farà liberi», è altrettanto vero che solo attraverso la libertà si giunge alla verità. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Codignola. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Onorevoli colleghi, il collega e amico Calamandrei, parlando dell’articolo 24 del progetto di Costituzione, osservava che in questo progetto si contendono molte disposizioni inutili o illusorie o contrarie alla verità; ma vi sono altre disposizioni in questo progetto che possono piuttosto definirsi equivoche e insidiose, disposizioni destinate a dar luogo alle più opposte interpretazioni. È questo il caso degli articoli 27 e 28, relativi alla scuola.

Non è a caso che ciò sia accaduto: poiché su questo argomento si sono scontrate (come si dovevano scontrare) posizioni ideali e politiche radicalmente contradittorie, ed era vano sperare di poter trovare un facile compromesso su posizioni antitetiche, connesse con lo sviluppo del pensiero moderno. In verità, sarebbe stato meglio, forse, che su questo argomento il progetto di Costituzione si limitasse a qualche breve dichiarazione generale, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di affrontare i problemi particolari dell’ordinamento scolastico. Ho qui sott’occhio la formula che la Costituzione francese del 1946 ha adottata in tema di ordinamento scolastico: poche parole, sufficienti però ad indicare l’indirizzo generale di quella legislazione: «La nazione garantisce l’eguale accesso del fanciullo e dell’adulto alla istruzione, alla formazione professionale e alla cultura. L’organizzazione dell’insegnamento pubblico gratuito e laico in tutti i suoi gradi è un dovere dello Stato».

Una formulazione di questo genere, che segnasse semplicemente una guida di massima al legislatore futuro della scuola, sarebbe stato l’unico mezzo, forse, per impedire che la nostra Costituzione codificasse un equivoco permanente circa il modo in cui la nostra Repubblica intende ordinare la scuola. Che questo equivoco sia in atto proprio sul problema della scuola, è un fatto che ci deve far pensare seriamente, poiché, come è stato giustamente detto da un nostro collega, la scuola deve essere sacra per tutti noi, come cosa che trascende le posizioni di partito, cosa che riguarda l’avvenire dei nostri figli e le generazioni future. Ed il pensiero che questo strumento, così delicato per l’avvenire del Paese, possa fondarsi costituzionalmente su un equivoco, è un pensiero che ci preoccupa molto gravemente.

Quali sono i principî fondamentali, i pochi principî su cui si poteva sperare di trovare un accordo con relativa facilità? Libertà di insegnamento: dirò fra poco come anche questo principio sia giudicato ed interpretato dalle varie correnti politiche in modo estremamente vario; tuttavia nessuna corrente politica avrebbe potuto opporsi in modo aperto ad una dichiarazione esplicita sulla libertà di insegnamento. Egualmente, nessuno poteva opporsi al principio del controllo dello Stato sull’insegnamento, al principio, cioè, che il rilascio dei titoli di studio spetta esclusivamente alla competenza dello Stato. E, infine, credo che fosse nella unanimità dei desideri delle varie correnti politiche qui rappresentate che si facesse un concreto passo in avanti dal punto di vista sociale, si stabilisse cioè il principio della gratuità dell’insegnamento fino al 14° anno di età.

Questi tre principî erano principî generalmente riconosciuti, che avrebbero potuto dar luogo ad una formulazione semplice, capace di consentire per l’avvenire uno sviluppo legislativo coerente, e – soprattutto – uno sviluppo legislativo, che non fosse imbrigliato da impostazioni costituzionali equivoche e capaci di creare insidie nella interpretazione della legge. Invece, si è preferito scendere ad una specie di casistica, spesso contradittoria in se stessa e, quel che è peggio, contradittoria con altri principî fondamentali affermati nella medesima Costituzione.

L’evoluzione della scuola è l’evoluzione del pensiero della società umana, e il principio fondamentale che regge la scuola moderna s’identifica col principio fondamentale che alimenta il pensiero moderno. Questo principio è la libertà del metodo critico, è la libertà della ricerca scientifica. Noi possiamo dire che il padre spirituale del pensiero moderno è Galileo, in quanto fu egli ad affermare, nel modo più drammatico, questa esigenza fondamentale della libertà della ricerca scientifica. E l’evoluzione della scuola è, appunto, parallela all’evoluzione della civiltà e del pensiero su tale direttiva. È per questo che, dopo la scuola d’ispirazione dogmatica, dell’età medievale, a partire dai primordi del Rinascimento, noi abbiamo tutto uno sviluppo conseguente della scuola verso la conquista della libertà di critica, della libertà interiore della ricerca scientifica.

Questo sviluppo è naturalmente ritardato o favorito dalle diverse situazioni storiche in cui la scuola si è trovata ad operare nei secoli; ma il cammino che la scuola ha continuato a percorrere da allora è un cammino unitario. Il principio che la pedagogia moderna ha affermato su questa linea di sviluppo è che la scuola deve soprattutto affermare e favorire la libertà del discepolo, la libertà dell’alunno. La libertà dell’alunno, cioè la libertà della personalità umana in formazione, si è trovata, nel mondo moderno, al centro del problema della scuola. Questo problema non lo si è più guardato da un punto di vista trascendente o, comunque, esteriore; cioè, non si è posto più il problema di una educazione che preesistesse alla scuola e che si dovesse, in qualche modo, imporre nella scuola, alle giovani menti degli alunni; ma si è compreso che il problema dell’educazione è un problema interiore alla coscienza dei giovani, che la vera libertà della scuola consiste nella ricerca disinteressata della verità nella collaborazione fra alunno e maestro, in quella comunità di spiriti, che è la forza, la vera forza della scuola moderna, e che non consiste in una imposizione estrinseca di uno spirito su un altro spirito, ma consiste in questa capacità di ritrovarsi, fra maestro ed alunno, in questa capacità di comprendersi è di completarsi a vicenda.

Questo mi pare sia il nucleo fondamentale del pensiero pedagogico moderno ed è l’origine di quell’esperimento, di quel primo esperimento di scuola moderna, che Vittorino da Feltre chiamò «Casa giocosa»: in quanto la scuola egli la vedeva non più come un carcere in cui il bambino dovesse apprendere qualcosa che era fuori della sua esperienza, ma piuttosto come una esperienza vissuta, giorno per giorno, dal bambino insieme col maestro. Ed è appunto su questa strada, in questa direzione, che si è mossa ed ha proceduto l’evoluzione della scuola; è in questa direzione che si sono mossi ed hanno proceduto i rapporti fra lo Stato e la scuola. Lo Stato moderno ha accettato questa impostazione, nel momento stesso in cui ha riconosciuto che non poteva avere alcun diritto di imporre una sua verità alla scuola, così come non aveva questo diritto nessun altro ente che non fosse lo Stato, perché la verità della scuola era intrinseca a se stessa, era intrinseca all’insegnamento, così come l’unico decentramento possibile della scuola è il decentramento che si attua nel singolo rapporto di fanciullo e maestro.

Mi pare che sia questo, sostanzialmente, il nocciolo fondamentale del dissenso che esiste oggi fra le forze di sinistra, in senso lato, del nostro Paese, e non soltanto del nostro Paese, e le forze cattoliche; poiché quella che noi chiamiamo scuola laica o scuola aconfessionale – cioè scuola la quale in partenza riconosce che non si può imporre nessun credo e nessun dogma nell’insegnamento, e che è compito dello Stato garantire che nessun credo e nessun dogma si imponga – i cattolici la chiamano scuola anticattolica. È questa identità artificiosa fra aconfessionalità e anticattolicità, che crea l’impossibilità sostanziale di un accordo fra le posizioni nostre e le posizioni cattoliche. Io non dico che le posizioni cattoliche non abbiano un loro intrinseco motivo; esse sonò perfettamente coerenti ad una dottrina, che è dottrina secolare. Per la scuola, per la Chiesa, non esiste altro che una Verità, la Verità rivelata, e la scuola non è che un mezzo attraverso cui si pone questa Verità rivelata davanti alle giovani coscienze: è, quindi, un dovere per il cattolico che accetti codesta impostazione l’affermare che la scuola non possa impartire che una Verità sola, che è appunto la Verità rivelata.

Uno scrittore cattolico, Padre Chiocchetti, scrive: «Non c’è istruzione senza educazione; non c’è educazione senza religione: non c’è religione all’infuori della cristiana cattolica e solo la Chiesa è la depositaria legittima di tale religione. Ond’è che le scuole appartengono, per diritto divino e per volontà espressa di Gesù Cristo, alla Chiesa, che ha ricevuto l’ordine categorico di ammaestrare tutte le genti».

E un altro scrittore cattolico, che si è occupato recentemente di questa materia, così scrive: «Non è esagerato affermare che la scuola laica è la causa principale e originaria dell’incredulità contemporanea, che va sempre più dilagando in tutti i ceti sociali.

«L’impossibilità di fare una statistica di tutti coloro che, anche ritenendosi cattolici, hanno idee e massime eterodosse, anzi eretiche, sino ad avere smarrito la nozione genuina della fede cattolica, illude ancora molti sul loro gran numero; ma un attento osservatore può constatare una vasta crisi di fede, non solo tra gli uomini della scienza e della cultura, ma anche tra il popolo, specialmente nelle grandi città».

Deriva da questa impostazione, che – ripeto – è una impostazione logica, il principio monopolistico della Chiesa rispetto alla scuola. Coloro che accettano questa impostazione rigorosa della dottrina cattolica, debbono giungere necessariamente alla concezione monopolistica della scuola. Essi non possono consentire che la scuola sia un terreno sperimentale in cui si ricerchi la verità, ma debbono affermare che la scuola mira ad imporre una Verità già compiuta, la Verità rivelata. Essi non possono consentire che la scuola sia una palestra aperta alla libera ricerca della verità. È da questa impostazione che deriva il carattere surrogatorio che la dottrina cattolica attribuisce allo Stato in materia scolastica. Mi meraviglia che alcuni colleghi democristiani abbiano sostenuto che non è vero che la Chiesa e in generale la dottrina cattolica attribuiscano allo Stato questo carattere surrogatorio. Si è detto che, in realtà, la dottrina cattolica accetta e riconosce l’iniziativa dello Stato in materia scolastica; essa chiede soltanto che lo Stato consenta anche l’iniziativa di altri.

Ma devo affermare che queste dichiarazioni sono in contrasto con un’ampia documentazione in senso opposto, e questa documentazione non appartiene a semplici scrittori di cose cattoliche, ma alla somma autorità della Chiesa.

Scrive Pio XI a questo riguardo: «La missione dell’educazione spetta innanzi tutto, soprattutto, in primo luogo alla Chiesa e alla famiglia, ai padri e alle madri; spetta loro per diritto naturale e divino e perciò in modo inderogabile, ineluttabile, insurrogabile. Lo Stato certamente non può, non deve disinteressarsi dell’educazione dei cittadini, ma soltanto può e deve interessarsene per porgere aiuto in tutto quello che l’individuo e la famiglia non potranno fare da sé».

Sarebbe facile continuare in questa documentazione: per il cattolico, l’unico ente che abbia il diritto di determinare quale debba essere la formazione educativa, l’indirizzo educativo del fanciullo, è la famiglia; lo Stato non fa altro che porgere gli strumenti perché questo fine sia raggiunto. E a questo punto interviene la libertà della famiglia; senonché, quando i cattolici parlano di libertà della famiglia, essi non ricordano quello cui accennavo dianzi, che esiste certamente la libertà della famiglia, che esiste certamente la libertà della Chiesa, come esiste la libertà dello Stato, perché il concetto di libertà si esprime, si manifesta di fronte a tutti gli enti che formano la società; ma esiste, prima di ogni altra, la libertà del fanciullo.

E vorrei anche far presente che se è vero, e noi siamo perfettamente d’accordo in questo, che la libertà dello Stato può facilmente mutarsi in arbitrio, altrettanto vero è che la libertà della famiglia può mutarsi anch’essa in arbitrio della famiglia; non è vero che la libertà dell’alunno, della sua educazione, sia garantita, sol perché è garantita la libertà della famiglia e del capo della famiglia. Noi tutti sappiamo che questa libertà della famiglia può mutarsi in una cappa di piombo sulle spalle dei fanciulli, indotti, in un’età in cui essi non sono in grado di comprendere, verso metodi educativi che possono essere contrari ai loro interessi ed alla loro spiritualità. E qui si viene, mi pare, al problema centrale di questa discussione, il problema della libertà della scuola.

Si parla di libertà di insegnamento e di libertà della scuola, facendo, mi pare, un voluto equivoco, poiché i due concetti sono radicalmente diversi: basterebbe leggere attentamente i verbali della prima Sottocommissione, per rendersi conto come, mentre ci si batteva da parte della Democrazia Cristiana per la libertà della scuola, si sia tentato fino in fondo di resistere alla formula della libertà di insegnamento.

Io ho qui un documento di una certa Associazione Nazionale per la Scuola Italiana. Certamente, questo documento non impegna politicamente la Democrazia Cristiana; tuttavia esso rappresenta un certo orientamento, certe posizioni. In questo documento si dice esplicitamente:

«Tra le osservazioni da fare, la prima riguarda l’affermazione contenuta in questo articolo 27 sull’assoluta libertà di insegnamento, la quale, se è ovvia per quanto riguarda la libertà della ricerca scientifica e l’insegnamento relativo agli istituti universitari, non può assolutamente ammettersi per l’insegnamento elementare e medio. In tale insegnamento, infatti, i docenti devono rispettare le convinzioni morali e religiose degli alunni e delle loro famiglie. I genitori italiani non possono né intendono rinunziare al loro diritto, congiunto al gravissimo dovere di educare i figli; e perciò neppure possono né intendono lasciare i propri figli a disposizione di questo o quel docente, ecc.».

Cioè i cattolici dicono: libertà della scuola, sì; ma libertà di insegnamento, è un’altra cosa. Libertà di insegnamento significa che l’insegnante, il maestro è esso, moralmente e spiritualmente, l’unico giudice e l’unico responsabile dell’insegnamento che impartisce ai suoi alunni nell’ambito dei principî generali stabiliti dallo Stato. Nessuno può entrare in questo rapporto, che è un rapporto di coscienza che si instaura fra alunno e maestro; ed è questo che i cattolici non vogliono, quando, affermando la libertà della scuola, richiedono in realtà libertà di organizzazione scolastica.

Già l’onorevole Togliatti, in sede di prima Sottocommissione, fece rilevare l’importante differenza che esiste fra i due concetti: quando i cattolici ci parlano di libertà della scuola, essi vogliono dire che lo Stato deve garantire a chiunque la piena libertà di organizzare la scuola, di organizzare gli studi in tutti i gradi e in tutti gli ordini, fino alle estreme conseguenze che siano loro consentite. Ora, questo tipo di libertà della scuola, diciamo pure questa libertà della scuola, è precisamente la negazione del pensiero moderno, dei risultati della pedagogia moderna, di quello che ho detto, iniziando, essere il punto fondamentale che distingue il pensiero moderno, che distingue il pensiero critico, dal pensiero teologico, dalla dogmatica, dal catechismo.

Questo punto fondamentale è, onorevoli colleghi, la libertà della ricerca del vero, la libertà nella scuola. La libertà della scuola quale i cattolici propongono non è in realtà se non la libertà di imporre il catechismo di parte, il catechismo che io non voglio dire solo cattolico, ma che chiamo il catechismo di parte, nella scuola.

Noi abbiamo del resto un esempio di quello che significhi portare il catechismo nella scuola; è un esempio che ci vien dato appunto dall’insegnamento religioso, così come oggi viene impartito nelle nostre scuole. Questo insegnamento religioso è la negazione della religiosità che tutti noi sentiamo necessaria nella scuola, poiché la religione si insegna non già attraverso pratiche catechistiche, ma attraverso l’esperienza viva delle sofferenze della società e attraverso la diretta conoscenza dell’esperienza religiosa dei grandi pensatori. Così come nessuno ha mai imparato la filosofia attraverso i manuali scolastici, ma soltanto attraverso il pensiero dei grandi filosofi e attraverso la vita, così è dell’esperienza religiosa. Noi sappiamo invece perfettamente cosa è diventato l’insegnamento catechistico, così come oggi si pratica: è diventato precisamente lo strumento che allontana la gioventù dalla vera esperienza religiosa.

Noi sappiamo che cosa è questa esperienza religiosa; anche coloro fra noi che si sono distaccati da un certo tipo di religione, sentono che la religione è un patrimonio inalienabile dello spirito umano. Noi pensiamo, quindi, che essa debba restare a fondamento di qualsiasi educazione: ma noi vogliamo in pari tempo distinguere in modo netto quello che è il mondo religioso, dal conformismo catechistico, che è educazione all’insincerità, che è educazione all’abito dell’accettare senza discutere.

E noi sappiamo altresì che cosa questo significhi; noi usciamo, infatti, da un’esperienza che ci ha fatto ben intendere che cosa voglia dire educare i giovani all’accettazione del dogma, all’accettazione di una verità rivelata, sul cui conto non è lecito discutere.

Colleghi democristiani, voi non potete accusarci di statolatria; noi crediamo che lo Stato abbia il solo dovere di offrire tutti gli strumenti necessari, perché l’educazione possa essere un fatto che si espande liberamente nella società umana. Ed io ricordo che, se lo sviluppo del pensiero moderno ha condotto a quell’abito di critica e di metodo critico cui accennavo poc’anzi, esso ha condotto anche ad un’altra conquista fondamentale: che l’educazione è andata sempre più allargandosi da alcuni ceti, da alcune categorie privilegiate di uomini, alla grande massa dei cittadini, è diventato un grande fenomeno sociale. Questo fatto sta a fondamento del concetto nazionale della scuola. Chi oggi non sente questo problema come il primo problema di qualsiasi Stato moderno, ancor prima che socialistico, costui non ha il senso dello Stato moderno. Lo Stato moderno ha, prima di tutto, davanti a qualunque altro dovere, questo dovere che è un dovere elementare, il dovere della educazione del cittadino.

Scriveva Genovesi: «La scuola deve formare teste per la Repubblica, uomini forniti di buon senso e produttivi, e non dei frati e dei pedanti». Queste parole di Genovesi sono tuttora vive. Noi abbiamo il dovere fondamentale di riconoscere che l’educazione è il primo compito dello Stato. Chi penserebbe mai di voi che siano possibile oggetto di scambio, che siano possibile oggetto di cessione ad altri istituti sociali l’amministrazione della giustizia, o la difesa dello Stato? Vi sono alcuni attributi fondamentali della convivenza civile, alcuni attributi, rinunziando ai quali, onorevoli colleghi, lo Stato rinunzia a se stesso, rinunzia alla sua funzione sociale, rinunzia alla sua funzione nazionale.

Come potete pensare sul serio che sia possibile riconoscere oggi la necessità di procedere sulla strada delle nazionalizzazioni economiche, e invece ritenere che lo Stato, proprio mentre procede avanti sul cammino della civiltà rinunzi a questo che è il suo privilegio fondamentale, cioè l’educazione dei cittadini?

Io vorrei ricordarvi un’altra cosa, che interessa voi come noi: la garanzia fondamentale che lo Stato dà a tutti, assumendosi esso la responsabilità dell’organizzazione scolastica. Esso ci garantisce che la scuola pubblica non diverrà mai scuola di parte; esso ci garantisce che all’infuori delle nostre contese politiche vi è una cosa sacra, vi è una cosa su cui queste contese non possono portare il loro peso, e questa cosa è l’educazione dei nostri figli. È soltanto se noi manteniamo fermo e solido il principio che sta allo Stato di offrire questa garanzia come suo dovere principale, è soltanto in questo caso che noi possiamo garantirci, non soltanto da una degenerazione dell’insegnamento scolastico, ma da una degenerazione della nostra società.

Noi saremmo altamente preoccupati se domani una eccessiva spinta clericale sulla nostra istruzione, costringesse alle forze politiche a mettersi sulla difensiva ed a porre, come problema di partito, quello di un’organizzazione scolastica propria. Questo significherebbe la distruzione della scuola, e della coscienza civile prima che della scuola. Se noi dovessimo ridurre la scuola a campo di esperimento politico, colleghi democristiani, noi avremmo distrutto, tutti insieme, la libertà, perché la libertà si fonda prima di tutto sulla scuola. Giustamente ricordava il collega Bernini, l’altro giorno, l’aforisma: res sacra puer. Ma anche res sacra schola, la scuola è sacra, e deve esserlo al di là delle nostre divisioni politiche. Ora, io credo che voi commettiate un errore nel valutare diversamente il problema. Voi certamente avete oggi una notevole forza politica che vi potrebbe consentire, in certe condizioni, di imporre una certa fisionomia alla scuola, un certo indirizzo; ma voi non potete prevedere l’avvenire. Voi potreste trovarvi domani davanti a una situazione diversa del Paese, ed allora potreste accorgervi, forse troppo tardi, di avere sbagliato, di avere creato voi stessi gli strumenti per la distruzione di quella libertà nella scuola che deve stare in cima a tutti i nostri pensieri.

E qui si pone il problema immediato, legislativo dei rapporti fra scuola privata e scuola di Stato. Noi non soltanto riconosciamo alla scuola privata il diritto di esistere, ma riconosciamo anche che la scuola privata può essere una forza effettiva di sviluppo della scuola in generale. Ma vi sono delle condizioni fondamentali che devono essere garantite, perché la scuola privata possa costituire un bene comune per il Paese. Queste condizioni sono chiare: la scuola privata deve innanzi tutto costituire uno strumento di emulazione della scuola pubblica, essa cioè deve consentire una migliore selezione nella scuola pubblica, e non già deve servire a far conseguire con maggiore facilità i titoli di studi. Deve essere inoltre mantenuta una distinzione nettissima fra i docenti delle scuole private e gli esaminatori, coloro cioè che son chiamati a determinare se gli studi compiuti nelle scuole private siano tali da garantire la società. Ancora, lo Stato deve mantenere il controllo didattico sulle scuole private, cioè garantirsi che le linee fondamentali dell’insegnamento che viene impartito nelle scuole private sono le medesime che formano i fondamenti della scuola pubblica. Ed infine, gli esami devono essere, cioè devono continuare ad essere di esclusiva pertinenza dello Stato, che mette a disposizione per questo scopo propri insegnanti e proprie sedi. È con queste garanzie ed entro questi limiti che è possibile riconoscere ed anzi favorire lo sviluppo della scuola privata.

Sorge qui il problema delle sovvenzioni. Ho sentito dire che non è vero che i democristiani chiedono sovvenzioni dello Stato per l’insegnamento privato. Io mi sono molto meravigliato di ciò, perché, se non sbaglio, a parte tutta la pubblicistica a questo riguardo, nel progetto proposto dall’onorevole Moro in sede di Sottocommissione, all’articolo 2 ultimo comma è detto che «lo Stato concederà sussidi alle scuole private in ragione del numero dei frequentanti e del rendimento didattico accertato negli esami di Stato». Quindi io non mi rifaccio affatto a delle richieste evasive, ma mi rifaccio a richieste formali presentate dall’onorevole Moro, immagino per conto della Democrazia Cristiana, richieste di sovvenzioni dello Stato alle scuole private.

Vero è che, come dicevo in principio, gli articoli 27 e 28 hanno disteso una coltre di nubi sopra queste richieste. Ma non è già che esse non siano mantenute negli articoli 27 e 28 del progetto. Esse vi sono contenute, con la medesima coerenza di prima; soltanto, il compromesso in questo caso era forse troppo difficile a realizzarsi, perché verteva su principî fondamentali sui quali era effettivamente difficile raggiungerlo, ed allora si è cercato di farlo nascondendo la verità. La vostra richiesta, comunque, è implicita negli articoli 27 e 28, e noi dobbiamo opporci in modo categorico a questa richiesta, perché essa significherebbe in brevissimo tempo il crollo della scuola statale…

UBERTI. I Paesi che danno le sovvenzioni non sono per niente crollati: ad esempio l’Olanda, il Belgio.

TONELLO. Le ha date Pétain in Francia!

CODIGNOLA. Risponderò anche a questo. Faccio osservare che questo crollo della scuola statale è già in atto. Quando noi ci siamo liberati dal fascismo, una delle cose che noi sentivamo più urgenti, era di riportare la libertà nella scuola.

Noi ricordiamo cosa sia stato il crollo della scuola sotto il fascismo, noi, che abbiamo vissuto la nostra esperienza scolastica in un periodo, in cui il veleno fascista era già penetrato nella scuola, ed abbiamo visto, successivamente, questo veleno invadere tutto e distruggere la possibilità d’una educazione libera del Paese.

E pensavamo e speravamo che una delle cose, su cui avremmo potuto essere tutti d’accordo, doveva essere la ricostruzione d’una scuola libera nel nostro Paese.

Invece, noi stiamo oggi assistendo (e dobbiamo renderne grazie al nostro, anzi al vostro Ministro della pubblica istruzione) allo smontaggio, pezzo per pezzo, della scuola italiana. (Interruzioni al centro).

Ed ha colto nel giusto chi ha detto che il nostro Paese oggi non ha un Ministro della pubblica istruzione, ma un Ministro dell’istruzione privata. (Interruzioni al centro – Applausi a sinistra).

CORSANEGO. È un Ministro che ha istituito seimila scuole statali.

BOLDRINI. Le scuole partigiane perché le fate morire?

CODIGNOLA. In questo momento, il Ministro della pubblica istruzione sta, per suo conto, preparando una riforma clandestina della scuola (Interruzioni al centro); egli sta raccogliendo e spendendo milioni per una riforma, che deve essere, prima di tutto, consentita dal Paese, in libera discussione, e non può essere un prodotto di parte.

Ma torniamo alla nostra discussione. Le sovvenzioni distruggono la scuola statale, per semplici considerazioni, che mi permetto di sottoporvi.

È stato osservato dall’onorevole Binni che uno Stato, il quale ha uno spaventoso numero di analfabeti, come l’Italia (in alcune regioni il 40 per cento), non è veramente in condizione di pensare alla scuola altrui, dato che non può pensare alla scuola propria. Questo problema si potrebbe porre ad una sola condizione: che avessimo prima distrutto la piaga dell’analfabetismo in Italia ed avessimo potuto ricostruire tutte le nostre scuole; quando avessimo scuole in tutti i piccoli centri e si consentissero agli insegnanti condizioni decenti di vita. Ma oggi, sarebbe un delitto contro lo Stato pensare a stornare le poche forze finanziarie che sono a nostra disposizione a favore di altre scuole, che non siano le scuole statali.

Ma questo è un solo aspetto della questione. Vorrei sapere con quale logica voi, democristiani, chiedete che lo Stato dia i fondi, provenienti dalle contribuzioni di tutti i cittadini, ad una scuola che non sia controllata dallo stesso Stato. Questo è un assurdo.

CARIGNANI. Chi nega il controllo sulle scuole?

CODIGNOLA. La scuola, attraverso le sovvenzioni, diventerebbe, in realtà, un campo di passioni politiche; perché, se le sovvenzioni si dovessero dare alle scuole cattoliche, noi non potremmo evitare – e saremmo i primi a farlo – che altre forze (altre forze politiche, così come siete voi una forza politica), altre forze che sono su questi banchi rappresentate, chiedessero sovvenzioni per le proprie scuole. (Rumori – Commenti).

Ed infine, voi dareste alla scuola privata una condizione di effettivo privilegio, poiché nessuna scuola pubblica può fare concorrenza alla scuola privata, quando la maggior parte degli insegnanti della scuola privata possono essere sacerdoti, cioè insegnanti che non vengono retribuiti. Questo io debbo ricordare a questa Assemblea, perché, mentre noi siamo costretti a porci ogni giorno il problema drammatico degli insegnanti e dei professori che debbono pur avere un minimo per vivere, le scuole private possono servirsi di locali, di insegnanti, di mezzi, che appartengono alla potente organizzazione della Chiesa: cosicché, in realtà, nel nostro progetto di Costituzione noi stabiliremmo il principio che esiste, sì, una scuola privata, ma questa sarebbe, nella sostanza, soltanto la scuola della Chiesa cattolica.

Poc’anzi un collega democristiano accennava alle soluzioni date da altri paesi a questo problema. È vero che vi sono altri paesi – come l’Olanda, per esempio – dove si verifica questo: che i cittadini olandesi ricevono dallo Stato un buono di istruzione che essi possono spendere in qualsiasi scuola; ma l’Olanda è un paese in cui le confessioni religiose sono nettamente divise, è un paese in cui effettivamente si pone un problema pratico diverso dal nostro dove, a detta degli stessi democristiani, esiste in sostanza una sola religione. Il problema è dunque di natura totalmente diversa: in Olanda si vuole garantire che una confessione religiosa non prevalga sull’altra, mentre non mi pare che anche i democristiani più decisi pensino sul serio che le altre scuole religiose, ebraiche o protestanti, possano in Italia rappresentare per essi un pericolo.

È inutile poi che io mi soffermi su una constatazione elementare, che cioè le tradizioni storiche del nostro Paese non sono quelle degli altri paesi, e il pensare di porre il nostro Paese sullo stesso piede, per esempio, dell’Inghilterra, sarebbe come chiedersi per quale ragione il Parlamento italiano non sia quello inglese, e per quale ragione noi non possediamo l’impero britannico. Noi ci dobbiamo porre i problemi storici e politici che riguardano il nostro Paese. Nel nostro Paese le sovvenzioni, ed in generale i favori alla scuola religiosa, determinerebbero non soltanto una situazione catastrofica per la scuola pubblica dal punto di vista economico, ma significherebbero in brevissimo tempo lo spostamento di grandi masse scolastiche (e voi democristiani lo sapete) nei vostri istituti. Per una ragione molto semplice: perché i metodi di insegnamento dei vostri istituti sono più facili che i metodi di insegnamento che si fondano sulla libertà di pensiero e di ricerca scientifica (Rumori – Commenti – Proteste al centro), e noi otterremmo soltanto questo: un abbassamento generale del livello di cultura ed una enorme diffusione di quegli spostati di cui giustamente l’onorevole Marchesi si preoccupava e per cui preconizzava una crociata capace di risolvere questo problema. Sono uomini forniti di titoli, forniti di carta, ma non di pensiero, sono uomini che potrebbero essere ben altrimenti utili alla società e che invece sono falsamente favoriti da una scuola, che purtroppo, non dico sempre, ma spesso è guidata da criteri speculativi e, in ogni modo, è una scuola che si fonda su criteri di estrema larghezza, che non danno nessuna garanzia di seria preparazione.

E passiamo al problema della parificazione. Voi sapete meglio di me quale sia la storia della parificazione. L’esame di Stato fu a suo tempo sostenuto anche da parte vostra; il progetto Anile, passato nell’ultima legislatura sotto il governo Facta, prevedeva l’esame di Stato, già adottato nel progetto Croce; e voi lo sosteneste come difesa contro lo Stato laico e contro la scuola laica. A voi sembrava ch’esso costituisse un passo avanti in quel lavoro di revisione dell’impostazione puramente anticlericale, che aveva prevalso nei primi decenni del ’900, e che noi respingiamo. A voi sembrava un passo importante quello dell’esame di Stato, ed era effettivamente importante. Ma, in realtà, dalla legge Gentile ad oggi, dell’esame di Stato non è rimasto che l’ombra.

Vi ricordo brevissimamente la storia di questo esame di Stato e della parificazione. Il decreto 6 giugno 1925, n. 1344, prevedeva la procedura di pareggiamento, procedura che offriva garanzie sufficienti, in quanto presupponeva la parità della condizione giuridica dell’insegnante delle scuole pareggiate e delle scuole pubbliche, e dava tutte le garanzie necessarie nei riguardi degli esami. Senonché il decreto 25 aprile 1929, n. 647, immediatamente successivo alla Conciliazione, stabiliva l’estensione a tutti gli istituti medi, della norma di cui all’articolo 51 del decreto 4 maggio 1925, n. 653, il quale prevedeva la parificazione, in via eccezionale, per gli educandati femminili e per i collegi militari.

Il decreto 25 aprile 1929, in esecuzione del Trattato e del Concordato, diceva appunto che era estesa agli alunni di istituti privati di istruzione media la facoltà prevista da quell’articolo 51. Si precisava, che doveva trattarsi di «insegnanti abilitati all’insegnamento e di buona condotta morale e politica» (badate che questa definizione è del 25 aprile 1929), e di istituti capaci di rispondere alla fiducia delle famiglie.

Era questo decreto 25 aprile 1929 che apriva la strada alla istruzione dell’esame di Stato e alla distruzione della scuola pubblica. Tanto vero che quando si determinò quel purtroppo passeggero conflitto (dico purtroppo, perché sarebbe stato necessario che si fosse mantenuto aperto), che successe al Concordato fra lo Stato e la Chiesa, un decreto successivo – precisamente in data 26 giugno 1930 – abrogava gli effetti del precedente decreto. Cioè, lo Stato fascista, di fronte all’invadenza dell’Azione Cattolica, che perfino allo Stato fascista sembrava un po’ eccessiva (Proteste al centro), si decise ad abolire quella norma estensiva contenuta nel decreto 25 aprile 1929. Ma successivamente la riconciliazione ebbe luogo, e in data 20 giugno 1935 uscì un nuovo decreto che, questa volta, parlava esplicitamente dell’istituto della parificazione. Le disposizioni del decreto 25 aprile 1929, riguardanti la concessione del beneficio della parificazione, erano rimesse in vigore limitatamente ai ginnasi e ai licei classici. L’evoluzione continuava sotto gli auspici di Bottai; e sotto la sua gestione, si ebbe la famosa legge 19 gennaio 1942, n. 86, che istituendo l’E.N.I.M.S., sanciva veramente il principio della distruzione della scuola pubblica.

Questa è brevemente la storia della parificazione: istituto oscuro, istituto che se si dovesse definire giuridicamente, sarebbe di assai difficile definizione, poiché, ripeto, l’unico istituto previsto dalla nostra legislazione è il pareggiamento, mentre la parificazione non è entrata nella nostra legislazione, se non di soppiatto. E con grande meraviglia, improvvisamente, troviamo questo istituto, che non è un istituto legislativo, elevato ad istituto costituzionale. Vi dirò anche – questo potrebbe forse tranquillizzare qualche coscienza – che neppure il Concordato parla di parificazione; e non ne parla, semplicemente, perché non conosceva l’esistenza di questo istituto, che nel 1929 era inesistente.

Ed è allora molto chiaro il motivo che vi spinge a costituzionalizzare questo istituto, che non esiste. Il motivo è appunto questo; che non vi basta neppure l’articolo 7 a garantire i privilegi che vi siete conquistati, perché l’articolo 7, da solo, non vi consente di mantenere l’attuale legislazione. Ed allora inserite un’ulteriore aggiunta, e come se non bastasse l’articolo 7, come se non bastasse l’inserimento dei Patti lateranensi nella Costituzione, chiedete una norma costituzionale che stabilisca un trattamento privilegiato delle scuole parificate.

Io credo che voi democratici cristiani dovreste fare attenzione a non chiedere troppo.

Ci sono alcune parole del nostro Vico che io vorrei ricordarvi: «Le cose, fuori dello stato naturale, né vi si adagiano né vi durano». E se voi create cose fuori dello stato naturale, esse non dureranno. Credo che sia nell’interesse di tutti che questo non avvenga.

Faccio ancora una osservazione. Il progetto di Costituzione, nell’ultimo comma dell’articolo 27, dice: «Per un imparziale controllo ed a garanzia della collettività è prescritto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale e per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole indicati dalla legge». Ora, io dico ai colleghi democristiani: che cosa è questo esame di Stato di cui parlate nell’articolo 27? Voi avete ragione di rispondere che è quell’esame di Stato che è oggi in atto, che è in atto nel momento in cui la Costituzione, nell’ultimo comma dell’articolo 27, lo riconosce. E, dal punto di vista giuridico, mi pare che lo possiate sostenere. Ma noi sappiamo perfettamente che cosa è questo esame di Stato. L’esame di Stato oggi è diventato una semplice buffonata, l’esame di Stato oggi significa che un insegnante viene delegato dallo Stato ad essere presente agli esami che si sostengono nelle scuole parificate, mentre poi gli esaminatori sono i medesimi professori che hanno, durante l’anno, insegnato agli alunni che ora devono giudicare.

Questo è l’esame di Stato che oggi è in atto; non solo, ma, per il periodo della guerra, intervenne una disposizione del governo fascista che abrogava interamente l’esame di Stato, perdurando quelle contingenze eccezionali. Non siamo ancora riusciti a sapere dal Ministro Gonella che cosa egli intenda fare quest’anno nei riguardi dell’esame di Stato, quale sarà la disposizione di legge che egli intende richiamare, se intenda richiamarsi a quella larva di esame di Stato che è rimasta in vita o se voglia richiamarsi (sarebbe molto lodevole da parte sua) alla legislazione originaria sull’esame di Stato.

Devo anche soggiungere che la formula del progetto è particolarmente insidiosa, perché vi si parla di esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale e per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole indicati dalla legge. Ora, è chiaro che la licenza liceale, che fra tutti questi esami di Stato è quell’esame di maturità che noi ricordiamo come una delle prove fondamentali della nostra giovinezza, non è compresa in questo comma, perché l’esame di licenza liceale non è un esame di abilitazione all’esercizio professionale, né un esame di ammissione «ai vari ordini e gradi», in quanto esso non è considerato come esame di ammissione alla Università. È notorio che l’esame di maturità classica, l’esame di licenza liceale è fine a se stesso; dimodoché non soltanto si farebbe entrare nella Costituzione un esame di Stato che praticamente non esiste più, ma si escluderebbe addirittura per l’avvenire la possibilità di regolare con esami di Stato la licenza liceale. Questa è la situazione in cui ci veniamo a trovare.

Ora vorrei ricordare a voi amici democristiani – consentitemi di chiamarvi così – che voi stessi vi trovate in contradizione, perché nonostante le discussioni intervenute nella Sottocommissione, nessuno di voi ha messo seriamente in discussione il primo comma dell’articolo 27, là dove si dice che l’arte e la scienza sono libere e che libero è il loro insegnamento. In partenza, voi non avete posto in discussione il problema della libertà di insegnamento, mentre ora dovete convenire che parecchie delle statuizioni che voi chiedete, parecchie di quelle che sono già entrate nella nostra Costituzione attraverso la porta del Concordato, sono in aperta opposizione alla libertà di pensiero e di insegnamento. Io vi domando: una volta che sia passato il principio della libertà di insegnamento, come credete voi che sia possibile mantenere in atto l’articolo 5 del Concordato? «Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato, ecc. In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

Questo, egregi colleghi, non si chiama libertà di insegnamento; e allora chiedo a tutti coloro che intendono porsi con me questo problema costituzionale: è valido l’articolo 27, cioè esiste veramente la libertà di insegnamento? Oppure è valido l’articolo 7, che afferma che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi? Qualcuno ha provocato grande scandalo nelle vostre file rispondendo che questo dilemma non potrebbe risolversi, se non ricorrendo all’articolo 50 del progetto di Costituzione che prevede il diritto di resistenza del cittadino: il quale, ritenendosi colpito dall’articolo 5 del Concordato, trovandosi per esempio nelle condizioni in cui si è trovato Ernesto Buonaiuti, potrebbe legittimamente rifiutare di accettare una imposizione che è contraria alla libertà di coscienza, alla libertà di pensiero e alla libertà di insegnamento.

Con questo ho sostanzialmente finito. Dichiaro che aderirò a parecchi emendamenti che sono stati proposti da egregi colleghi del mio Gruppo o di Gruppi affini.

Vorrei per ultimo fare soltanto due brevi considerazioni: la prima riguarda il problema dell’insegnamento universitario. Dell’insegnamento universitario non si fa parola nel progetto, ma ho l’impressione che il problema si voglia introdurre surrettiziamente in sede di emendamenti. Ho veduto già apparire, in un florilegio di altri emendamenti, due proposte dettate apparentemente dalla volontà di difendere la libertà di insegnamento, e che chiedono l’assoluta indipendenza dell’insegnamento e dell’organizzazione universitaria dallo Stato.

Ebbene, onorevoli colleghi, io credo che nel votare certi principî, noi dobbiamo tener conto prima di tutto di una situazione politica. Non si vota mai un principio astratto, si vota sempre un principio per le connessioni e le conseguenze che esso può avere nel campo concreto della politica e della società.

Ebbene, sotto questo punto di vista e sotto questo profilo, l’accettare l’emendamento che chiede la piena indipendenza dell’insegnamento universitario nei riguardi dello Stato, significa solo una cosa; rendere possibile, anche nell’ambito universitario, anche in quell’ambito in cui padre Chiocchetti e altri suoi colleghi ci dicono che almeno lì la libertà di ricerca e di critica scientifica è liberamente ammessa, la possibilità di una concorrenza di istituti ecclesiastici. E questi istituti sono precisamente fondati sopra un principio opposto a quello della libera ricerca scientifica. Io vi ricordo che gli allievi dell’Università cattolica del Sacro Cuore devono prestare un giuramento antimodernista quando escono da quell’Università. Questo significa che in partenza è stabilito un vincolo alle coscienze di coloro che frequentano istituti superiori universitari tenuti da religiosi. Ecco la ragione per la quale noi voteremo contro gli emendamenti proposti per l’indipendenza delle Università nei riguardi dello Stato. Noi potremmo accettare il principio dell’inamovibilità dei professori; siamo d’accordo su di esso, perché è lo stesso principio che consente alla magistratura una garanzia di indipendenza; ma non crediamo che per il momento sia il caso di accettare l’altro.

Come è nostro costume, noi l’abbiamo dichiarato qui pubblicamente, perché non abbiamo l’abitudine di usare di tattiche sapienti: crediamo sia meglio indicare chiaramente, con lealtà, le ragioni della nostra opposizione.

E l’ultimo punto riguarda la scuola del popolo. Io qui vorrei rivolgermi piuttosto agli amici di sinistra. Credo che il problema dell’estensione dell’istruzione alle classi lavoratrici sia veramente il problema fondamentale, uno dei problemi fondamentali della società moderna. Ma facciamo attenzione a non promettere ciò che non si può mantenere; l’impegno che noi assumiamo oggi nella Costituzione di garantire l’insegnamento gratuito fino ai quattordici anni – vi sono delle Costituzioni che garantiscono molto di più – è già però un impegno gravosissimo per il nostro bilancio. Questo, però, impegna la politica scolastica del Paese ad una svolta decisiva, poiché è inutile pensare che si possa sul serio mettere in atto questo articolo fondamentale, se continueremo a lesinare sopra il bilancio dell’istruzione, come se si trattasse del bilancio di un’azienda commerciale. È stato detto giustamente che il bilancio dell’istruzione deve essere passivo, deve essere in grande passivo; e, tanto più esso è passivo, tanto più uno Stato è civile e si avvia alla conquista della civiltà moderna.

E allora, egregi colleghi, non basta oggi votare perché sia stabilito il principio della gratuità dell’insegnamento, il principio delle sovvenzioni ai poveri che hanno il diritto e il dovere di fronte alla società di essere istruiti; non basta; ma bisogna che la politica delle sinistre sia tale da consentire che praticamente questo principio sia attuato. Bisogna che ci decidiamo finalmente a tagliare i bilanci militari che rappresentano una cancrena nel corpo della Nazione e che questi bilanci militari noi li trasferiamo su un altro capitolo di spesa, un capitolo che non rende dal punto di vista della contabilità immediata, ma rende dall’unico punto di vista che deve essere considerato dallo Stato, quello della educazione delle generazioni future.

Solo in questo caso avremo fatto una cosa seria, e avremo rispettato la nostra coscienza. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Come avranno potuto constatare gli onorevoli colleghi, io ho ormai rinunziato ad ogni intervento per richiamare gli oratori; nel modo anche più gentile e cortese, alla considerazione che v’è un’esigenza la quale supera l’interesse e l’utilità delle esposizioni così ampiamente e dottamente fatte. È evidente che, non sorretto dal consenso dell’Assemblea, sarò ridotto alla mera funzione della disciplina, formale.

Invito ancora una volta l’Assemblea a valutare se non vi sia l’esigenza di sottostare ad una disciplina del nostro tempo.

È iscritto a parlare l’onorevole Malagugini. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Io mi auguro che il rilievo fatto or ora dal nostro Presidente non possa essere applicato a me, in quanto cercherò di contenere il mio intervento entro la mezz’ora convenuta.

Non è colpa mia, onorevoli colleghi, se vengo terzo, dopo l’onorevole Della Seta e dopo il collega onorevole Codignola, a parlare nella stessa seduta sullo stesso problema.

Io ho seguito con molta cura il dibattito sulla scuola, non solo attraverso le interessanti sedute delle Commissioni, ma anche nei convegni degli insegnanti e degli studiosi, nonché sulle riviste e sui giornali. Ho ascoltato con grande attenzione gli onorevoli colleghi che vi hanno accennato nella discussione generale e quelli che ne hanno trattato di proposito e in particolare durante l’esame del Titolo secondo del progetto di Costituzione.

Mi dispiace soltanto di non aver potuto, per circostanze indipendenti dalla mia volontà, assistere al discorso del collega e compagno Bernini, di cui mi si dice molto bene, e non fatico a crederlo, anche se i giornali gli hanno dato un ostracismo ingiustificato e sospetto. Avrei tuttavia desiderato che il mio intervento fosse avvenuto dopo che i colleghi di parte democristiana – specie quelli che alla redazione del progetto hanno maggiormente contribuito – avessero illustrato il loro punto di vista e dato ragione del loro atteggiamento, che mi auguro non voglia significare irrigidimento, su determinate posizioni.

Allo stato attuale delle cose, debbo accontentarmi di quanto ho sentito venerdì mattina dall’onorevole Colonnetti: è già molto, del resto, trattandosi di un illustre collega che onora non solo della sua dottrina ma della sua integrità morale – a cui, in una non dimenticata occasione, l’Assemblea unanime ha reso meritato omaggio – che onora ripeto il Consiglio Nazionale delle Ricerche, facendone dimenticare l’origine spuria e certi non encomiabili precedenti.

Per il resto, dovrò attenermi alle relazioni dei resoconti sommari, riserbandomi di replicare in sede di emendamenti, a quanto di nuovo o di modificato risultasse nell’ulteriore corso della discussione:

Non ripeterò, o almeno mi sforzerò di non ripetere, quanto hanno detto altri colleghi, specialmente l’onorevole Binni, e poco fa l’onorevole Codignola, con le cui conclusioni sostanzialmente concordo, anche se da essi qualche sfumatura mi divide: di forma più che altro e di intonazione. Non lo ripeterò, anzitutto per ragioni di buon gusto e di economia di tempo, ma anche perché essi sono giovani e filosofi, ed io, ahimè, giovane più non sono e con la filosofia, intesa almeno nel senso dottrinale e scientifico della parola, non ho mai avuto, lo confesso e non me ne vanto, una soverchia dimestichezza.

Non disturberò, quindi, le ombre magnanime dei grandi pensatori antichi e moderni, ma parlerò praticamente da uomo di scuola, che nella scuola ha sempre profondamente creduto, che la scuola non ha mai considerato un mestiere, che alla scuola ha dato – perdonatemi l’espressione anche se può sembrare immodesta – il meglio del suo intelletto e del suo cuore; e che, se gli fosse dato di rinascere, tornerebbe a fare il professore.

Curioso destino il mio, che mi consente di parlare di questo argomento alla luce di una esperienza multiforme, talvolta non lieta, ma sempre istruttiva. Infatti, ho iniziato la mia carriera nelle scuole di Stato; estromessone per incompatibilità con le direttive politiche del governo fascista, ho insegnato per parecchio tempo in un vecchio istituto privato, ora scomparso, che chiamerò laico tanto per intenderci, anche se diretto da una figura ascetica di apostolo della scuola e della fede, Francesco Grassi; che nessuno o quasi di voi avrà sentito nominare, ma che fu scienziato illustre e maestro incomparabile, di una vita così illibata, di una religiosità così alta e pura, da farmi pensare, colleghi democristiani, che la santità non possa avere caratteristiche o aspetto diversi dal suo.

Poi fu la volta di un istituto religioso parificato, fra i più seri e accreditati; infine ebbi l’audacia di dar vita a una scuola mia personale, di carattere strettamente privato, senza alcun riconoscimento legale, vissuta, come potete immaginare, piuttosto pericolosamente, ma che resistette tenace fino a quando, incalzando gli eventi, la maggior parte dei docenti e dei discepoli prese la via della congiura o della montagna.

Scuola di Stato, scuola privata aconfessionale, istituto religioso parificato, mi ebbero successivamente insegnante; una scuola personale, non legalmente riconosciuta, assolutamente libera, mi ebbe direttore e maestro. E fu – ve lo assicuro – un osservatorio assai interessante.

Nella scuola di stato pre-fascista non tutto, è vero, andava nel migliore dei modi; ma si studiava sul serio e i professori, pur con stipendi modesti, compivano nobilmente il loro dovere. E i giovani crescevano moralmente sani e affrontavano gli uffici e le libere professioni sufficientemente preparati.

Una prima scossa la scuola subì in occasione della guerra 1915-1918; non tanto durante il suo svolgimento, quanto dopo la sua conclusione. Era il collasso inevitabile dopo lo sforzo immane. Poi la lotta politica assunse forme sempre più aspre, ma la scuola non ne risentì, se non in una minore severità di giudizio resa inevitabile dalla necessità di sanare lo sconvolgimento prodotto dalla guerra. Allora le scuole private non erano molte; pochissime, come adesso del resto, le scuole pareggiate; e la parola «parificazione» non era stata ancora inventata o, per lo meno, non era stata introdotta nel vocabolario della legislazione scolastica.

Con il fascismo cominciarono, ed era naturale, i guai. E se è vero che la scuola oppose per qualche tempo una certa resistenza, che torna a suo onore, una certa resistenza passiva al nuovo ordine che si proclamava di voler instaurare in tutti i settori della vita nazionale, non si può d’altra parte negare che dopo il colpo di Stato del 3 gennaio ogni resistenza fu infranta e si passò, lentamente ma inesorabilmente, alle abdicazioni e alle prostituzioni, attraverso le quali la scuola perdette ogni suo carattere educativo per diventare strumento di dominio e preparatrice di servi ignoranti e presuntuosi.

La scuola, ho detto, tutta la scuola con poche apprezzabili eccezioni e senza sensibili distinzioni. Tutta la scuola: pubblica e privata, parificata e non parificata, dal cosiddetto ordine elementare all’ordine medio o secondario, all’ordine universitario.

Voi mi direte che nelle scuole private io e i miei compagni di sventura abbiamo pur trovato asilo dopo l’ostracismo di quella di Stato: questi casi rientrano nelle apprezzabili eccezioni cui ho fatto cenno, e se rendono doverosa la nostra personale riconoscenza di perseguitati politici, non bastano a cancellare l’onta delle nostre università e dei nostri universitari, vergognosamente obbedienti…

Una voce. Non tutti…

MALAGUGINI… alla voce del padrone; non bastano a far dimenticare che anche l’unica università non di Stato del nostro Paese univa al coro miserabile degli osannanti la voce dei suoi maestri e, più alta di tutte, quella del suo capo. (Commenti). A che cosa è servita la scuola privata, la scuola libera, la scuola orientata, come direbbe l’onorevole Colonnetti; quale compito diverso dalla statale ha essa assolto in regime di servitù politica, se l’unico istituto libero d’alta cultura, che pur poteva contare sull’appoggio altissimo della suprema autorità spirituale, non ha potuto o saputo sottrarsi alla sorte comune?

E quali posizioni minacciate deve essa ora difendere in regime democratico se la scuola di Stato è (non sono parole mie, sono parole dell’onorevole Moro che traggo dalla sua relazione) se «la scuola di Stato è la scuola di tutti a servizio di tutti»?

D’accordo con lui, che essa deve «meritare la fiducia di tutti i cittadini i quali possono conformarla come meglio credono in relazione ai loro orientamenti spirituale e morali». D’accordissimo che essa deve «esprimere senza falsificazione la profonda volontà del popolo italiano e deve essere tale da meritare la fiducia delle famiglie». E come può egli temere che avvenga altrimenti se la scuola di Stato sarà organizzata dallo Stato attraverso le leggi studiate ed emanate dal Parlamento, libera espressione di quella profonda volontà del popolo italiano che, se non erriamo, è tutt’uno con le famiglie di cui deve meritare la fiducia?

Perché la scuola esprima la volontà del popolo, e meriti la fiducia delle famiglie, creda a me l’onorevole Moro, credano a me i colleghi della democrazia cristiana, non occorre tanto che vi si insegni il catechismo in quell’ora settimanale che è un’ora di «russìa», come dicono nel loro gergo spregiudicato e irriverente gli scolari del nord, che è un’ora di baldoria, dico io, non solo nelle scuole pubbliche, ma anche in quelle tenute da religiosi; ma è necessario che vi si spieghino seriamente e intelligentemente le lettere e le scienze costituenti il programma dei singoli corsi, che si coltivino con amore le attitudini naturali dei figlioli, che si infonda loro entusiasmo per tutto ciò che è bello, che è vero, che è buono (io rimango fedele a questo vecchio trinomio anche se a taluno sembrerà che odori di naftalina); occorre in una parola che l’insegnante sia un maestro nel senso più nobile e più completo della parola.

Ed eccoci al punto per me fondamentale. L’onorevole Colonnetti, iniziando il suo discorso, ha detto che il problema della scuola è un problema di libertà. Ebbene, a costo di passare per semplicista, io affermo che il problema della scuola è un problema di insegnanti o il problema degli insegnanti.

Assicurare agli insegnanti condizioni economiche, giuridiche e morali dignitose, che consentano loro non solo di vivere materialmente, ma di integrare ed aggiornare continuamente la loro cultura e la loro preparazione: ecco il dovere dello Stato. E poi essere inesorabile nel pretendere che essi facciano tutto intero il loro dovere, eliminando senza pietà gli inetti e gli indegni.

È un problema, lo so, che non si risolve in poco tempo; occorreranno degli anni, bisognerà a poco a poco rinnovare i quadri, ché i vecchi irrugginiscono o scompaiono e i giovani, anche se colti e preparati a insegnare, non sono sempre maturi per essere degli educatori, dato il clima in cui son nati e in cui si sono formati. Ma una cosa è certa: che lo Stato dovrà concentrare ogni suo sforzo per una soluzione alla quale tutti sentiamo che sono legate le possibilità di resurrezione morale del nostro Paese. Ed è altrettanto certo che, se a questa soluzione si vorrà giungere, lo Stato non potrà permettersi il lusso di alcuna sovvenzione, o «ripartizione» che dir si voglia, a scuole private. Le quali del resto (mi pare di non aver ancora sentito questa osservazione, che pure ha la sua importanza) di sovvenzioni non sembrano avere affatto bisogno, tanto sono popolate e prosperose. Ché, se così non fosse e qualcuna vivesse di vita grama, se ne dovrebbero ricercare le ragioni nella sua inutilità o nel suo cattivo funzionamento: nell’un caso e nell’altro non varrebbe la pena di tenerla artificialmente o colpevolmente in vita.

E non mi dica l’onorevole Colonnetti, non mi dicano gli altri colleghi della democrazia cristiana che in tal modo verrebbe a mancare la effettiva libertà di scelta della scuola. Chi infatti vorrà impedire agli istituti privati di accogliere anche i meno abbienti che li preferiscano alla scuola di Stato, contenendo per essi le tasse entro limiti modesti, salvo gravare maggiormente la mano sui più agiati e sui ricchi, che in pratica costituiranno sempre, come sempre hanno costituito e tuttora costituiscono il grosso della loro popolazione scolastica?

Due parole telegrafiche su quella istituzione, ibrida e pericolosa – anche perché di pretta marca fascista e, quindi, ispirata a un sostanziale disprezzo della scuola – che è la parificazione. Conseguente alle premesse, non starò a ripetere quanto in proposito hanno detto altri colleghi; mi conforta la speranza che nessuno vorrà insistere per inserirla nella Carta costituzionale. Aggiungerò soltanto che, se fossi nei panni del Ministro della pubblica istruzione, adotterei – se non subito, al più presto possibile, e magari per settori regionali – un provvedimento draconiano, imitando a fin di bene un provvedimento che troppo spesso e non sempre giustificatamente prendono certi datori di lavoro quando la loro industria non funziona o va male: dichiarerei decadute tutte le parificazioni e i cosiddetti riconoscimenti legali attualmente esistenti, o almeno quelli concessi durante il periodo fascista. Poi, a quegli istituti che ne facessero domanda e attraverso serissimi e non superficiali accertamenti ne risultassero meritevoli, concederei il pareggiamento; che non voglio fare ai colleghi il torto di ignorare come sia una cosa profondamente diversa dalla parificazione. Sarebbe l’unico modo, a mio avviso, di bonificare veramente il settore della scuola privata, valorizzando la parte sana e socialmente utile e facendo giustizia sommaria di tutti gli incompetenti, di tutti gli speculatori, di tutti i filibustieri.

Un accenno, rapidissimo, al cosiddetto «esame di Stato» che – come ebbi a dire qualche giorno fa interrompendo un collega – non deve essere l’esame contro lo Stato; cioè fatto per imbrogliare lo Stato. Appunto per questo, e solo per ragioni pratiche e formali, io sarei d’avviso che la dizione «esami di Stato» non dovesse entrare nella Costituzione. Meglio, molto meglio adottare come ultimo comma dell’articolo 27 una enunciazione press’a poco di questo genere:

«Spetta esclusivamente alla Repubblica – o allo Stato, come pare piaccia all’onorevole Nitti – il conferimento dei titoli legali di studio nei vari ordini e gradi dì scuola e dei diplomi di abilitazione all’esercizio professionale. La legge garantisce, «attraverso gli esami che da essa saranno prescritti», parità di trattamento agli alunni da qualunque scuola provengano».

Questo per la forma. Per la sostanza, resti ben fermo che detti esami non dovranno limitarsi all’ultimo anno della scuola secondaria, ma dovranno intendersi obbligatori per ogni passaggio da un grado all’altro di detta scuola. In questo modo soltanto il controllo sarà serio e non saranno più giustificati gli scrupoli degli esaminatori, preoccupati di non «rovinare» – come si suol dire – un ragazzo ormai alle soglie dell’Università; in questo modo soltanto si potranno fermare a tempo e avviare per altre strade coloro che non manifestino capacità o attitudine agli studi superiori.

Sempre per la sostanza, a proposito della maturità e dell’abilitazione, bisognerà rivedere la tecnica dell’esame di Stato. Vi siete mai domandati, egregi colleghi – parlo a quelli di voi che non sono giovanissimi e che, o come insegnanti o come padri di famiglia, o anche come candidati hanno avuto a che fare con l’esame di Stato – vi siete mai domandati perché, anche nella sua forma originaria, questa prova abbia rivelato nella pratica attuazione tanti inconvenienti?

Il difetto fondamentale consisteva nella formazione delle commissioni esaminatrici, non sempre all’altezza del compito ad esse affidato. Anzitutto troppi degli insegnanti universitari, destinati a presiederle, cercavano di sottrarsi al loro compito (anche perché compensati in modo inadeguato) e dovevano essere sostituiti o da liberi docenti o anche da ordinari che ne facevano una domanda non sempre disinteressata e che spesso non avevano né la competenza né le altre doti necessarie a così delicato ufficio. In secondo luogo, molti dei commissari, pur valenti nella loro singola materia, mancavano di equilibrio e di comprensione e o non davano alcuna importanza alla carica e promuovevano tutti, o peccavano di eccessiva severità e facevano strage, persuasi che nello scibile non esistesse altra disciplina che la loro, oppure si comportavano in modo stravagante, facendo domande impossibili, le più strane e strampalate, e provando una sadica voluttà quando vedevano la vittima prescelta confondersi e arrendersi a discrezione.

Ebbene, in quegli anni lontani, io ho sempre chiesto a me stesso (non potevo chiederlo ad altri, da quel reprobo che ero) ho sempre chiesto a me stesso come mai il Ministero non utilizzava ì suoi ispettori, integrandone magari il numero con altri elementi idonei, per distribuirli come osservatori nelle varie sedi di esame, in modo che dopo tre o quattro anni si costituisse un corpo di esaminatori selezionati, con la eliminazione degli scettici, dei cerberi e dei pazzi. Quello che non si è fatto allora – perché, come le successive deformazioni hanno dimostrato, non si volevano e non si sapevano fare le cose sul serio – si potrà e si dovrà fare domani, quando l’Assemblea legislativa sarà chiamata a riordinare tutta la complessa materia scolastica.

Ho detto riordinare, evitando di proposito la parola riforma, della quale l’esperienza mi ha insegnato a diffidare.

Io penso, e non da oggi, che in fatto di scuola, di educazione, di cultura, tutti gli ordinamenti sono buoni o suscettibili di buoni risultati: il problema sta tutto nel modo con cui la scuola si fa, con cui la cultura si impartisce, con cui l’educazione si forma. In una parola – ripeto quanto ho già detto poc’anzi – il problema sta tutto negli insegnanti. Ai quali, dopo aver assicurato le condizioni di vita cui ho accennato, bisogna anche lasciare libertà di pensiero e di insegnamento. Libertà nella scuola, dunque, più e prima che libertà della scuola; come rilevo dai resoconti che, riferendosi al pensiero di Filippo Turati, ebbe ad affermare ieri l’altro anche il collega Bernini. Libertà nella scuola, più e prima che libertà della scuola; purché si tenga sempre presente il principio del retore antico maxima debetur puero reverentia, non molto dissimile, del resto, dal res sacra puer, che è stato più volte ricordato da precedenti oratori. Principio che solo le tirannidi non possono, per ovvie ragioni, accettare e al quale solo uomini liberi e amanti della libertà possono attenersi.

Nel lontano 1926 un Ministro fascista, alla caccia di pretesti per allontanare dalla scuola gli spiriti liberi, affermava, tra l’altro, che il mio passato politico di fervente sovversivo non offriva nessuna garanzia di fedele adempimento dei miei doveri scolastici. Ebbene, in una lettera che il tempo ha ingiallito ma che io conservo come il mio maggior titolo di orgoglio, rispondevo – pur riaffermando la mia fede incrollabile nella idealità socialista, che poteva come può essere mal servita dagli uomini o magari bestemmiata dai partiti, ma è pur sempre «luce nuova, sole nuovo che sorgerà dove l’usato tramonterà» – rispondevo, ripeto, che nella scuola io non avevo e non avrei mai portato l’eco delle battaglie politiche o, peggio, il fermento delle passioni di parte.

Questa concezione, dopo tanti anni e tante vicende, io non mi sento di abbandonare; a questa concezione persisto a credere che tutti gli uomini liberi debbano rendere omaggio.

Del resto, egregi colleghi, tutte queste iniziative, queste manifestazioni, questi tentativi di svincolarsi dalla autorità dello Stato, queste conversioni, spesso di data recente, a forme di autonomia in altri tempi aspramente combattute o sprezzantemente derise, sono sempre molto sospette. Si ha l’impressione – io almeno ho l’impressione che credo condivisa da questa parte dell’Assemblea – che fino a quando lo Stato era tutto e completamente nelle mani dei ceti privilegiati e delle forze conservatrici, da parecchi degli attuali assertori di libertà e di autonomia (o meglio dai loro naturali legittimi predecessori) si facesse ogni sforzo per consolidarne l’autorità e difenderne la sovranità in tutti i suoi attributi. (Interruzione dell’onorevole Uberti).

E chi ha detto che debba essere proprio lei il convertito dell’ultim’ora? Non me ne faccia dubitare con questa excusatio non petita…

Oggi in cui le forze nuove, le forze del lavoro hanno cominciato a penetrare, purtroppo ancora assai debolmente, negli ingranaggi dello Stato, e tentano, nel più scrupoloso rispetto della legalità democratica, di smantellare l’edificio del privilegio e della conservazione trasformandolo nella casa di tutti per creare condizioni di vita più umane agli umili e ai diseredati – gli statalisti di ieri, quelli che facevano propria e applaudivano la formula «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», sono improvvisamente diventati fierissimi fautori del principio opposto e attribuiscono al centralismo statale tutti i guai di cui soffre il nostro infelicissimo Paese.

Io non intendo qui soffermarmi sul complesso problema, che avrà modo di essere ampiamente trattato a proposito di altri titoli della Costituzione. Affermo soltanto che, anche per quel che riguarda la scuola, sono affiorate e vanno moltiplicandosi da qualche tempo a questa parte, spesso inconfessatamente e da parte di taluni forse involontariamente, preoccupazioni e tentativi del genere.

Ora noi diciamo, rifacendoci a quanto nella discussione generale ebbe a raccomandare il compagno nostro onorevole Basso, che la Costituzione non può e non deve essere – o almeno non dovrebbe essere – un documento di parte, sia pure della parte che ha nell’Assemblea il maggior numero di rappresentanti.

Già in taluni degli articoli fin qui approvati c’è stata la prepotente affermazione di questa volontà preponderante. Non credo che fareste opera saggia e duratura, o colleghi della democrazia cristiana, se continuaste oggi, a proposito della scuola, come domani per altri gravi problemi che verranno in discussione, ad imporre il vostro punto di vista fidando su maggioranze occasionali e provocando alleanze innaturali o pericolose. (Commenti).

Io non voglio aver la pretesa di darvi consigli, né aver l’aria di abusare della mozione degli affetti. Vi dico soltanto: facciamo una Costituzione che sia veramente tale e non un ibrido miscuglio di principî generali e di disposizioni legislative.

Credete nella bontà della vostra politica? Avete la certezza o almeno la fiducia che il Paese la comprenda e la segua? Ebbene, quest’autunno tornerete qui, a riprendere il discorso e a fare le leggi: anche le leggi per la scuola. Ci troverete fermi – quelli di noi, s’intende, che verranno – al nostro posto di leali combattenti. Per ora siate paghi di enunciare formule che uniscano, non particolari vincolativi che possano dividere il popolo italiano.

Il quale, credetelo – e non è l’uomo di parte che parla, ma l’uomo della scuola che anche in questa veste obbedisce a una fondamentale esigenza unitaria – il quale popolo italiano non ha nella sua enorme maggioranza altro desiderio che quello di poter mandare con serena fiducia i propri figliuoli alla scuola pubblica. Lavoriamo insieme per irrobustirne la struttura, per rafforzarne l’autorità, per far sì che diventi veramente la scuola di tutti e prepari, in un clima rinnovato di effettiva democrazia, i quadri dirigenti della società di domani. (Vivi applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Lozza e Bernabei, iscritti a parlare, si intendono decaduti.

È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. Onorevoli colleghi, dopo che eminenti rappresentanti del diritto, emeriti insegnanti e illustri docenti universitàri hanno parlato lungamente, sia concesso anche ai medici, cui non fu dato entrare nelle Sottocommissioni, dire una loro parola. Metterò a fuoco l’articolo 26 del progetto di Costituzione.

Qualcuno vi ha veduto un accenno pleonastico: tutelare la salute, promuovere l’igiene. Che cosa potrebbe fare di diverso uno Stato che si rispetti? Esistono dei doveri fondamentali di civiltà elementare su cui potrebbe sembrare ozioso soffermarsi. Ma, se abbiamo ammesso che la libertà personale è inviolabile, potremmo anche dare diritto di cittadinanza all’articolo che parla della sanità e promuove l’igiene. Questa provvidenza sanitaria non aveva incontrato le simpatie di una Repubblica molto lontana nel tempo, e direi anche nello spazio, perché era soltanto nella fantasia raziocinante di un filosofo, dico della Repubblica di Platone; perché i malati cronici, gli invalidi erano inesorabilmente estromessi da quello stato ideale.

L’assistenza da parte dello Stato era consentita soltanto all’uomo sano che poteva incorrere in malattia di poco conto. Solo l’uomo sano aveva diritto di essere curato dal medico. Voi ricorderete, nella conversazione socratica, quel falegname che si rivolge al medico chiedendogli un rimedio, un revulsivo, un purgante, un emetico, che lo liberi sollecitamente dalla infermità che lo affligge.

Non ho tempo, egli dice, per seguire un lungo regime; io debbo servire il mio lavoro, non posso servire la malattia. E allora, se resiste, bene, altrimenti è abbandonato al suo destino.

Soltanto al ricco è adunque consentito di potersi curare? No, nemmeno a lui, perché l’assiduità delle cure inibisce l’esercizio della mente e della virtù. Qui sarebbero pregiudicati gli interessi della famiglia come là quelli dello Stato. Non metterebbe conto vivere se la vita dovesse scendere goccia a goccia nel lucignolo riarso della lampada prossima a spegnersi.

E allora voi vedete che in questa Repubblica ideale entravano appena per la scala di servizio l’assistenza sociale e la tutela della sanità. L’ombra del Taigeto vi domina. Del resto Socrate, che metteva al bando i troppo cagionevoli di salute come anche i poeti, avrebbe preteso che i medici avessero in precedenza sofferto tutte le malattie, per fare su loro stessi quella esperienza che i nostri giovani fanno negli ospedali e nelle cliniche. D’altro canto si attribuiva al medico un duplice compito, curare i corpi e le anime. Rupe Tarpea e Taigeto, che abbiamo visto ritornare di fosca attualità ad opera del nazismo, col fuoco, coi gas, coi forni crematori per eliminare gli invalidi, i cronici e gli indesiderabili.

Ma il dovere sociale incombe su di noi e ci detta nuovi compiti nella vita civile. Per comune accezione, tutti sanno che lo Stato è tenuto a provvedere nei casi di epidemia alla difesa dei cittadini. Provvede contro assalti violenti o insidiosi, contro l’infezione malarica, ad esempio, che è tornata di triste attualità in Sardegna e nella media e nella bassa valle del Liri, nei pressi di Cassino, dove il provvidenziale, ma costoso D.D.T. riesce a risanare l’ambiente.

Ma vi è un’altra assistenza, che si esplica in momenti di tregua patologica: essa è quella assistenza sociale di cui sono segno tangibile gli istituti per la invalidità e la vecchiaia. In questo campo, noi vediamo che anche l’articolo 34, dei rapporti economici, ritorna sull’argomento, come già vi accenna l’articolo 26.

Chi abbia avuto campo di visitare questa desolata umanità degli invalidi e dei vecchi che si raccolgono nelle corsie di quegli istituti, ha avuto la sensazione di una rassegnata vecchiaia che, nell’affievolimento degli affetti della famiglia, non vede attorno a sé, non dico quella poca gioia dell’urne dopo il compianto dei tempi acherontei, ma neppure alcuna speranza, nella squallida ora del giorno, per questa carenza affettiva che anticipa nei congiunti la rituale rassegnazione per il previsto giorno del lutto.

Le bocche inutili, quando se ne vanno non inducono al pianto. Forse le nostre classi meno abbienti vanno gradualmente assuefacendosi a questa dura legge degli assedi?

Necessità è una spietata legge. L’operaio, l’impiegato, il pensionato, condannato a vivere in quei campi di concentramento che è il grande agglomerato urbano, e in perpetua contesa col caroviveri, col caro-alloggi, col caro-salario, col caro-stipendio, col metro della breve risorsa deve misurare l’indispensabile.

Ed allora non c’è posto per il vecchio. Il vecchio deve essere abbandonato alle cure dello Stato. Se una legge impone ai genitori l’obbligo di alimentare, educare ed istruire i figli, noi pensiamo che ce ne debba essere anche un’altra che imponga ai figli di alimentare i genitori che siano incapaci al lavoro per vecchiaia o per invalidità.

Mi direte: Codice civile. Va bene. Mi direte: principî ovvî di morale; ma pensate che tutta la civiltà millenaria della Cina è basata su questo affetto filiale.

Quando io guardo queste grandi case alveare delle nostre città, in cui l’aria è contesa al respiro, penso con nostalgia a quelle piccole casette-villette che l’«Umanitaria» aveva costruito a Milano, fuori di Porta Ludovica, con un piccolo quadrato di terra accanto, e penso che questa cubatura d’aria che si va contendendo all’operaio, all’impiegato, al pensionato, domani possa essere ridonata con una maggiore generosità, anche lontana dalle città, come avevano pensato i primi fondatori dell’«Umanitaria» milanese.

Queste bocche inutili che si allontanano, questo esodo dei vecchi dall’ambiente familiare, è ben una triste cosa. Un nuovo vangelo di bontà noi dovremmo predicare alla gente. Dovremmo fare in modo che non sia solo lo Stato a provvedere. Non è soltanto con l’elevare di tono economico la famiglia che noi potremmo ridonare vita al fervore e alla solidarietà degli affetti. Abbiamo bisogno che questo edonismo imperante sia sostituito da una forza morale. Certe forme esteriori di religiosismo interiore rappresentano degli alibi a un egoismo interiore, perché, per la grande maggioranza del popolo, le religioni vivono di rendita di un grande capitale spirituale dei fondatori e degli apostoli.

Abbiamo bisogno così di vivificare questo senso di religiosità nelle nostre folle, nel nostro popolo italiano. In attesa di una resurrezione delle fedi, richiamiamo lo Stato ad un compito suo ben prefisso: «Lo Stato tutela la salute e promuove l’igiene». Noi del Gruppo medico parlamentare composto di rappresentanti di tutti i partiti che vanno dall’estrema destra alla estrema sinistra, al primo comma abbiamo presentato un emendamento che sostituisce il primo comma dell’articolo 26, in cui si parla di cure gratuite garantite agli indigenti: «La Repubblica si propone la tutela della salute come un fondamentale diritto dell’individuo e come un generale interesse della collettività».

Ci sembra che in questo modo possa essere molto bene assolto il compito della Repubblica. Qualcuno aveva accennato ad una eugenetica di Stato.

Nello scorcio del secolo passato, verso il 1865, se non erro, fu un inglese, il Francis Gaerton, che iniziò questo apostolato dell’eugenetica e non era forse la prima voce che si levava, perché già il nostro Campanella nella sua Città del Sole aveva pensato di selezionare le coppie destinate al matrimonio. Gaerton si era riproposto il problema. Si era detto: perché essere così provvidi e attenti nelle selezioni dei cani, dei cavalli, dei conigli e non pensiamo alla razza umana? Dal 1865 al 1905 egli lanciò questa idea di una responsabilità eugenica del matrimonio. L’argomento fu molto discusso allora e in vario senso. È noto che certe malattie, come l’epilessia, come la mania depressiva, come la demenza, provocano delle anomalie ereditarie. Come provvedere? In Italia già nel 1913, per opera dell’Artom, del Niceforo, del Mangiagalli, del De Sanctis, si era fondato, presso la Società romana di antropologia, un comitato di studi di eugenetica. Poi, con il Pestalozza ed il Gini, si fondò un’altra società che aveva gli stessi compiti. Ma se l’eugenetica si studia di porre i problemi della trasmissione ereditaria dei caratteri, e pone l’accento sulle devastazioni prodotte nella prole dall’alcoolismo e dalla criminalità, la nostra civiltà latina non varca mai i confini di quella eutanasia che vorrebbe sopprimere i disgeni come antisociali.

Noi ricordiamo le parole di un poeta, Maurizio Maeterlink: I medici e i sacerdoti, accostandosi al letto del malato o del morente, rendono sempre più paurosa l’idea della morte. Si allontanino, rivedano un po’ le loro idee – diceva sempre il Maeterlink – giorno verrà in cui la scienza non esiterà ad abbreviare le nostre disgrazie, la morte sarà una cosa dolce e serena. La vita se ne andrà, piano piano, come la luce del giorno cede al crepuscolo della sera.

Ma, dicevo, per la nostra civiltà latina questo argomento è già superato di gran lunga. Possiamo ripetere con orgoglio le parole di un grande maestro, Augusto Murri; «Fra noi ed il malato sta tacito, ma sacro, il giuramento che fino all’ultimo suo respiro noi combatteremo per sottrarlo alla morte».

Ho accennato a questa idea di eugenetica, perché un tempo si parlò a lungo di certificati pre-matrimoniali. Si disse un tempo che bisognava creare delle razze elette, ma io non ho nessuna intenzione di sfogliare davanti a voi le romanticherie di «Un giorno a Madera», né tornare sull’argomento di un tempo, perché questi selezionatori avevano sì, indubbiamente, concetti sani e lodevoli, si preoccupavano realmente della vita della società, ma scordavano anche la vita spirituale. Il matrimonio non ha solo finalità procreative. Dal Soglio pontificale, in una Enciclica del 31 dicembre 1931 si disse che: non terrae et tempori sed coelo et aeternitati generarim. Non dimentichiamo questa duplice missione del matrimonio. Come fra la dittatura e la libertà sconfinata, così fra questa eugenetica, considerata troppo rigorosamente, ed una specie di agnosticismo che considera la malattia come una specie di fatalismo, c’è questa via di mezzo della diffusione delle norme igieniche, per cui tutti quanti dovrebbero realmente porsi il problema del matrimonio ed il problema della ereditarietà, nel giorno in cui scelgono la compagna della propria vita.

Dovremmo noi restare indifferenti, per esempio, a quegli incroci tra razza bianca e razza nera, che hanno tanto preoccupato la nazione inglese?

Lungi da noi il pensiero di razza inferiore o razza superiore.

Chi rivendica a maestro Arcangelo Ghisleri, lascia ben volentieri certi temi ai nazionalismi esasperati delle supernazioni. Ma questi incroci tra razze che hanno scarsa affinità non sono fatti per migliorare il nostro tipo umano.

I mulatti sono scarsamente resistenti al logorìo ambientale dei nostri climi e molto vulnerabili dal dente delle malattie.

In Italia ne abbiamo 11.000 (statistica dal gennaio al giugno 1945). Su queste creature noi ci curviamo con la stessa trepidazione con cui ci curviamo sopra tutte le culle, come davanti a un punto interrogativo del mistero della vita. E pensiamo, col rossore nel volto, che questo colore italo-nero, nelle guance di questi bimbi rappresenta il senso di abiezione della Patria; e questo senso di tristezza lo sentiamo tutti quanti nel cuore, come senso angoscioso di responsabilità per tutti. Ad un dato momento, questa ondata di corruzione è passata sul nostro Paese, perché, oltre alle violenze delle truppe saccheggiatrici, liberatrici, ossessionate dal sensualismo, c’è stata anche la prostituzione e la corruzione. Noi ci volgiamo a questi illegittimi collo stesso sguardo con cui guardiamo tutti gli altri nostri bambini.

Nessuno, dunque, nel rinnovato clima della nostra libertà e della nostra democrazia, può pensare alla sterilizzazione. I compiti della salute pubblica sono ben altri. Noi caldeggiamo un’idea, che, naturalmente, non può trovar posto nella nostra Costituzione. Pensiamo alla obbligatorietà della visita. Lo Stato dovrà affacciarsi nella vita civile non soltanto col volto del questurino, a chiedere la carta d’identità, ma a chiedere anche la carta di sanità.

Bisognerebbe che ognuno vincesse quel pudore che si ha a volte di fronte a certe malattie. Dovremmo avere un’anagrafe che indicasse con precisione tutte le malattie, cui possiamo andare soggetti. Questo potrebbe valere come difesa della collettività e come difesa dell’individuo.

Pensate, ad esempio, alle devastazioni cancerigne. Il malato non se ne accorge che quando la malattia ha fatto degli inesorabili progressi. Pensate alle devastazioni diabetiche. Ad esempio, un malato, colto da coma in mezzo alla strada e trascinato al pronto soccorso viene sottoposto dal medico di guardia alla solita iniezione di olio canforato, che può non fargli più riacquistare i sensi, mentre una iniezione di insulina avrebbe potuto ridargli la vita. Ma questo si può ottenere dalla indicazione glicemica della carta di sanità, che il malato potrebbe avere in tasca. Così, il medico di guardia può comprendere questo S.O.S. dell’organismo in sofferenza e provvedere opportunamente.

Noi pensiamo a questa obbligatorietà, ma non ce ne nascondiamo le difficoltà.

In Inghilterra, i medici sono stati ostili a questa innovazione. I medici inglesi considerano il malato come cosa privata, non pensano a questo grande sistema di socialità e di assistenza.

Abbiamo degli istituti di assistenza; non vorrei alludere a quelli che hanno fatto così cattiva prova, come le nostre Mutue, le quali sembra che rendano più agli amministratori, che non ai malati ed ai medici. Dicevo, assistenza; noi dovremmo trovare il modo di assistere l’individuo giovando alla collettività. Vi sono compiti poi che lo Stato dovrebbe incoraggiare. Un giornale medico che ho sott’occhio me ne indica uno: quello della dietetica. In questi giorni, è stato inaugurato, a Niguarda, nell’Ospedale Maggiore di Milano, un corso di dietetica e il professore Ragazzi ha invocato che questo corso non sia soltanto riserbato ai medici, ma che questi ne diffondano le nozioni alle assistenti sanitarie, che dovrebbero, in questa carenza alimentare che ci affligge, sorvegliare le mense collettive, le mense aziendali. Sono avvenuti dei casi d’intossicazione, per totalismo da ingestione di carni guaste, in due stabilimenti industriali milanesi. La sorveglianza delle mense industriali può essere provvidenziale, non soltanto per misurare il numero delle vitamine, il che potrebbe sembrare un’algebra alimentare, ma per impedire il consumo di alimenti deteriorati.

È doveroso un accenno sia pure fugace sulla maternità ed infanzia. Il binomio madre-bambino dev’essere affermato. Ci sono delle istituzioni provinciali, regionali che vanno rimesse in onore. Noi siamo dei regionalisti: pensiamo al decentramento della regione, pensiamo che queste iniziative provinciali e regionali devono essere incoraggiate, e rese armoniche in un senso nazionale. Ma pensiamo che la madre che ha ottenuto dei vantaggi, potendosi allontanare a tempo opportuno dallo stabilimento quando si avvicina il momento del parto, può farsi poi portare il bimbo nelle apposite sale di allattamento. Ma dovrebbe anche ottenere licenza quando il bambino è ammalato.

Vorremmo che vi fossero delle scuole nelle quali si potesse insegnare anche il compito della madre. Ho qui delle statistiche, fatte da un egregio collega milanese, le quali riferiscono l’alto numero di madri nubili, raccolte in determinati istituti. In questi istituti che sono di beneficenza si insegna il cucito e il ricamo, ma non si pensa al compito materno che dovrebbe avere la donna. Uscendo da questi istituti di beneficenza la donna potrebbe essere un’infermiera magnifica per i nostri nidi di infanzia. Le istituzioni di assistenza alla maternità ed infanzia erano precedenti al fascismo, che in parte le ha trasformate e ha bene operato: non dobbiamo distruggere quello che di benefico si è fatto, soltanto perché è stato fatto dal fascismo.

Dovremmo istituire nella Capitale una Cassa di compensazione fra tutti gli istituti ostetrici e di pubblica assistenza, con il compito di attuare una giustizia distributiva fra tutte le istituzioni periferiche.

Ho finito. Desidero soltanto aggiungere due parole su un altro argomento. Nell’articolo 26, ultimo capoverso, si accenna al divieto di «pratiche sanitarie lesive della dignità umana».

Dopo le delucidazioni date da un membro della Commissione, l’onorevole Corsanego, dovendo ritenere che le pratiche lesive della dignità umana vogliano indicare la sterilizzazione, crederei di omettere la frase, per non lasciare nessuna traccia di certe pratiche nefande. Come in certi codici non si parlava neppure del parricidio per l’orrore che destava quest’orrendo crimine nell’animo del legislatore, ma si preferiva ignorarlo.

Anche noi non lasciamo traccia di queste barbarie senza nome nella nostra Costituzione.

Dunque, dicevo, assistenza sanitaria, assistenza che non trasformi i malati in postulanti ed i medici in fiscali. Non bisogna mettere nelle condizioni il medico di essere un fiscale. Chi ha vissuto durante la guerra nei posti di medicazione e di soccorso sa quale ribellione avveniva nell’animo del medico di fronte al soldato che si trasformava in autolesionista. Tutto questo cercheremo che non avvenga negli istituti di protezione della sanità di domani. Dunque, per il medico, la “pietà che l’uomo a l’uom più deve”, e per tutti: una salus publica, che deve essere suprema lex; salus che non sia soltanto nel senso politico, ma anche una valetudo effettiva. Noi, che siamo degli ottimisti inguaribili, pensiamo che dopo il tempo buio ci attende una giornata di sole; noi, di fronte all’ignaro tubercoloso che disperde il proprio sputo quasi come un ordigno esplosivo a tutta offesa del prossimo, pensiamo alla Sancetta di Jenner, alla fiala di Behring, ai sulfamidici, alla penicillina; pensiamo che al di là della trincea c’è il vaiolo, le difterite, tutte le malattie infettive e dobbiamo e vogliamo dare uno scudo al cittadino perché si difenda.

Questo grande compito sociale non ci trova divisi, ma tutti riuniti nella difesa della Repubblica che coincide colla difesa dell’umanità.

Se noi abbiamo ammesso che tutti i cittadini, che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, dobbiamo anche affermare che tutti gli uomini sono uguali di fronte alla morte, ma dovremmo fare diseguali gli uomini in questo senso: faremo più provvidi e resistenti alle malattie quelli che seguiranno queste regole, questi principî, e quelli che sentiranno che non è soltanto lo Stato che deve tutelare, ma anche i cittadini stessi, che hanno un dovere da compiere ed un impegno che non possono tradire (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Chiedo pochi minuti alla cortese attenzione dell’Assemblea per aggiungere alcune osservazioni a quelle che sono già state fatte dai colleghi del mio Gruppo. È una materia delicata questa dei rapporti etico-sociali. Anche di fronte a questi problemi che assillano la nostra vita, la vita del nostro popolo, è bene dire una parola precisa, chiara, non come quelle, purtroppo, che sono negli articoli che dobbiamo discutere, che dobbiamo approvare o respingere. Perché, mi si consenta di dirlo, o le parole hanno tradito il pensiero, o il contrasto delle idee è stato troppo forte, ma gli articoli dei quali noi ci occupiamo, cioè dal 24 al 29, sono riusciti, non vorrei dire «una selva selvaggia ed aspra e forte», ma certo un insieme di parole e di frasi che non sempre sono aderenti alla realtà, quella realtà che noi dobbiamo affrontare e risolvere.

Il nostro pensiero è già conosciuto: noi abbiamo una storia, abbiamo una tradizione. Anche questi articoli trovano, o dovrebbero trovare, la loro base, il loro fondamento sul principio di libertà. E il nostro partito, che è il partito classico della libertà, ha bene il diritto di dire qualche cosa a proposito dei problemi che sono sottoposti al nostro esame ed alla nostra critica.

Diciamo subito, colleghi, che noi avremmo preferito che certi articoli, anche di questo titolo, non fossero posti nella Carta costituzionale, in quella che dovrà essere, cioè, la legge fondamentale dello Stato, perché avrebbero dovuto trovare – secondo noi – posto altrove.

Noi pensiamo che la futura Camera legislativa, che sorgerà dalle prossime o dalle lontane elezioni, dovrà pur dire la sua parola, dovrà pure affrontare e risolvere problemi che urgono nella vita collettiva e individuale del popolo italiano.

Voi avete sentito la nostra parola a proposito del famoso articolo 7; noi non abbiamo voluto affrontare la battaglia sul terreno squisitamente politico, morale e religioso. Abbiamo fatto come farò io adesso, in questo momento, a proposito dell’articolo 24, una questione di natura, di ordine che vorrei definire giuridico-costituzionale.

Ma insomma, perché, se altre leggi, se i Codici possono provvedere in materia, dobbiamo noi inserire nella Carta costituzionale certe disposizioni come quelle dell’articolo 7 o dell’articolo 24?

L’articolo 24 tratta della indissolubilità del matrimonio. Signori, io sono il meno indicato a parlare in materia: scapolo impenitente – adoperiamo pure la solita frase – non dovrei neanche accennare a questo problema.

Una voce a sinistra. È sicuro di rimanere tale?

MACRELLI. Certo, non lo so; non sappiamo mai cosa può accadere in avvenire. (Si ride).

A proposito della indissolubilità del matrimonio, dicevo, noi non siamo qui a discutere il divorzio; non ne parliamo, noi. Ma è strano: ne avete parlato voi, colleghi della Democrazia cristiana, come se – ripeto le parole dell’amico Sardiello – fossimo ora chiamati non a discutere la Carta costituzionale, ma proprio una legge relativa al divorzio.

Nessuno di noi ha parlato di divorzio; nessuno di noi in questo momento parla di divorzio. Se ne parlerà a suo tempo, se la coscienza pubblica vorrà così, se l’iniziativa parlamentare o governativa vorrà che si affronti questo problema. Oggi non ce ne occupiamo, non ce ne preoccupiamo; oggi diciamo soltanto che la materia di questo articolo 24 non dovrebbe essere nella Carta costituzionale, dovrebbe far parte di un’altra norma legislativa che si discuterà a suo tempo.

Noi non comprendiamo la vostra insistenza, amici e colleghi della Democrazia cristiana. Anche attraverso l’articolo 7 avete già ottenuto qualche cosa a proposito della indissolubilità del matrimonio, se è vero che nell’articolo 7 avete incluso i Patti lateranensi. Voi siete a posto dal punto di vista politico, dal punto di vista giuridico e dal punto di vista religioso. Ed allora, perché insistere? Noi abbiamo l’impressione che voi vogliate non soltanto vincere, ma stravincere, ed allora il gioco può essere pericoloso. D’altro lato, amici, parliamoci chiaro, perché è bene essere sinceri a questo proposito. Stamani ho sentito l’onorevole Avanzini, parlando da valoroso avvocato quale è, ci ha offerto dei dati statistici. Mi pare che abbia accennato a un certo numero di sentenze emesse, non so in quale periodo di tempo, dai Tribunali ecclesiastici in cause di annullamento di matrimonio. Si è limitato ad una cifra modesta che, indubbiamente, risponde a verità, ma che deve essere però circoscritta in un periodo incerto di tempo. Da buon avvocato ha soltanto presentato quella cifra. Orbene, proprio ieri, è stato pubblicato un articolo di fondo sul Messaggero, a firma del direttore Mario Missiroli, in cui si riportavano questi dati statistici che io ho voluto segnare: negli ultimi 17 anni sono state emesse dai Tribunali ecclesiastici italiani 1156 sentenze di annullamento, e le cause di annullamento sono sempre le stesse: o vizi di consenso o errore di persona. Io scommetto che se noi facessimo un’altra statistica – e tu amico Avanzini appunto perché sei avvocato come me, devi consentire – se noi ricercassimo le sentenze emesse in materia dai Tribunali civili italiani, non raggiungeremmo mai queste cifre. Tu appartieni ad un Tribunale che lavora in materia civile, ma credo che non abbia mai pronunciato una sentenza in materia. Nella mia Romagna, in provincia di Forlì ed in provincia di Ravenna, non si è mai avuta una causa di annullamento di matrimonio in sede civile. La nostra legge civile è molto più severa del diritto canonico in proposito; ed allora, ripeto, io non comprendo la vostra insistenza. Avrà le sue buone ragioni, ne sentirò parlare ancora, ma fino a questo momento non mi avete persuaso. E scusate se parlo franco.

Un’altra osservazione. Vi ho detto che sarei stato rapido; manterrò la promessa che ho fatto al nostro illustre Presidente. Un accenno fugace, telegrafico, ad un altro problema altrettanto grave e delicato compreso in questo titolo della tutela dei rapporti etico-sociali: la scuola.

Della scuola hanno parlato un po’ tutti: professori e non professori, e abbiamo sentito delle cose interessantissime. Ho ascoltato per esempio il discorso del mio buon amico Bernini che ho approvato in pieno. Anche dalla parte democristiana sono venute delle parole che noi abbiamo ascoltato con piacere; stamane, per esempio, l’onorevole Laura Bianchini ha parlato toccando profondamente il nostro sentimento di uomini, di cittadini e di italiani e siamo andati a congratularci con lei, non per fare un atto di omaggio ad una rappresentante del gentil sesso, ma perché aveva detto delle cose su cui noi ci troviamo completamente d’accordo. Ma quando ho sentito da quel banco l’onorevole Bianchini e da questi l’onorevole Malagugini, invocare l’accordo, l’unità, invocare, starei per dire, la pacificazione degli animi, allora mi sono domandato: perché esistono questi due articoli, l’articolo 27 e l’articolo 28, che ci inchiodano qui alla discussione e alle responsabilità? Anche questi sono due articoli un po’ confusi, prolissi; vi si trovano delle idee contrastanti fra di loro. Lo hanno già rilevato dei colleghi e lo rileveremo ancora in sede di emendamenti. Certo è che il problema ha richiamato l’attenzione dell’Assemblea Costituente. Si tratta della scuola, cioè dell’ambiente nuovo, sia dal punto di vista materiale che dal punto di vista morale, in cui si dovrà formare la nuova coscienza, in cui si dovrà forgiare la nuova anima del popolo italiano. Due principî sono stati affermati in questi articoli: nell’articolo 28 si parla di obbligatorietà e di gratuità dell’insegnamento inferiore. Su questo siamo perfettamente d’accordo.

Nessun contrasto. La discussione può avvenire e avviene, anzi è già avvenuta sull’articolo 27: libertà d’insegnamento. Che cosa vi dobbiamo dire noi a questo proposito? Abbiamo sentito poco fa la parola profonda dell’onorevole Della Seta. Io accennerò brevemente a quello che è il mio pensiero sul problema della libertà di insegnamento. Ma noi abbiamo sempre sostenuto questo principio attraverso tutta la nostra azione. Basta ricordare le parole di Romagnosi, basta ricordare le parole di Mazzini e di Cattaneo, basta ricordare un articolo della Costituzione romana del 1849: «L’insegnamento è libero». Tutto sta ad intendersi, onorevoli colleghi, sulle parole, sul significato delle parole, sul contenuto morale delle parole. Non bisogna prenderle così in senso assoluto, ma alle parole bisogna dare uno spirito, bisogna dare un’anima, bisogna dare qualche cosa che le innalzi. Libertà d’insegnamento; scuola privata. Noi non siamo contro la libertà d’insegnamento e, quindi, contro la scuola privata; basta che noi pensiamo alle scuole private dei primi tempi del Risorgimento, basta che pensiamo alla scuola, per esempio, di Basilio Puoti, alla scuola di Francesco De Sanctis, alle quali scuole si sono formati gli uomini delle lotte e delle battaglie, coloro che hanno lasciato la vita per la libertà della patria, coloro che hanno affrontato le carceri, gli esili, le torture per la libertà e l’indipendenza della Patria italiana. Basta pensare a questo per dire quale è il nostro pensiero e il nostro atteggiamento oggi.

Però confessiamo questa che è una dolorosa realtà: tutti abbiamo dovuto constatare che la scuola privata oggi non è che una fabbricatrice – scusate la parola – di alunni che vanno a dare gli esami, e basta; senza una funzione profondamente, squisitamente morale. Io non intendo fare critiche, sollevare sospetti: ci sono indubbiamente, ci saranno, ci devono essere delle eccezioni, delle lodevoli eccezioni; ma questa, purtroppo, è la dolorosa verità nota a tutti; e l’intervento dello Stato, che oggi si vuole consacrare in una legge, in un articolo della legge fondamentale dello Stato, è quello che ha creato appunto una situazione ibrida e grave. Come hanno pullulato in questi ultimi tempi certe scuole private e parificate; io, che pur sono la negazione della matematica, ho dovuto raccogliere qualche dato statistico, qualche cifra. Orbene, nell’anno scolastico 1941-42, di fronte a 110 ginnasi governativi, esistevano 366 ginnasi non governativi; iscritti nei ginnasi governativi: 6.088 alunni; iscritti nei non governativi: 25.046. La stessa proporzione, su per giù, si ha per i licei classici, per i licei scientifici, per gli istituti magistrali. Non vi leggo le cifre, per non tediarvi e per non farvi perdere del tempo prezioso. In totale: 580 scuole governative di fronte a 1.028 scuole non governative.

Questo che cosa significa? Che si va verso la soppressione, si può dire, della scuola di Stato; si va verso l’abolizione della scuola di Stato. Credete che sia utile? (Interruzioni al centro).

Non è la fiducia, onorevole interruttore, non è la fiducia che manca; non è che le famiglie non abbiano fiducia nella scuola di Stato.

Una voce al centro. E allora?

MACRELLI, E allora, la ragione si trova, si trova nella povertà della scuola di Stato e si trova nella ricchezza, se così vogliamo chiamarla, di mezzi delle altre scuole, che fruiscono anche dei fondi dello Stato.

Ora, io richiamo l’attenzione dell’Assemblea su questo dato di fatto preciso, concreto, sul quale non può cadere alcun dubbio: quando l’articolo 27 riconferma il principio dell’intervento dello Stato per quel che riguarda le scuole parificate – intervento in tutti i sensi, da quello morale, di minore importanza perché inefficace a quello finanziario, che è il più importante, perché il più tangibile – quando si consacra questo principio, si compie un’altra delle tante violazioni della libertà che noi abbiamo denunziate in questa sede a proposito del progetto di Costituzione.

Scuole parificate. Lasciamo andare. Qui si aggiunge – mi si consenta di dirlo apertamente – anche l’ironia, perché con una frase che vuole tradire un’ingenuità candida, si dice: «Per un imparziale controllo e a garanzia della collettività è prescritto l’esame di Stato»; l’esame di Stato quindi per le scuole pubbliche come per le scuole private, parificate o meno. Voi avete già sentito una lunga serie di rilievi fatti da ogni parte. A questo proposito si è parlato anche di una riforma scolastica. Io ricordo che è stata nominata una Commissione ad hoc. Ma di essa non si sente più parlare; essa è scomparsa e noi non sappiamo quale sarà la riforma del domani. E intanto io penso che noi dovremo, sì, fissare dei principî nella Carta costituzionale, ma sarà la nuova Camera legislativa che dovrà dare le norme a questo proposito; e noi ci auguriamo che ad essa convengano uomini non soltanto rappresentanti di partiti politici, ma uomini che pensano al bene dell’Italia, pensando al bene della scuola.

Articolo 27, dunque: esame di Stato. Ma quale esame di Stato? Si vuole forse il ritorno alla legge Gentile con quelle commissioni che venivano da fuori, girando tutta l’Italia e i cui componenti erano i vagabondi dell’esame e dovevano funzionare nello stesso modo, tanto nei confronti degli alunni statali, quanto nei confronti di quelli delle scuole private, con le stesse condizioni, con la stessa eguaglianza di metodi e di sistemi?

Oppure si vuol mantenere quella parodia dell’esame di Stato che vige oggi, che dovrebbe essere in vigore oggi, per cui nelle scuole pubbliche gli alunni vengono esaminati, controllati, promossi o bocciati, dagli stessi insegnanti dell’istituto?

Una voce al centro. Non è esatto.

MACRELLI. Per quanto riguarda le scuole private, dovrebbe bastare allora l’intervento di un Commissario governativo, il quale non conosce né uomini né cose, il quale non sa che cosa valgano gli alunni, il quale non sa che cosa valga la scuola, il quale probabilmente non sorveglia niente, non vigila niente, ma «giudica e manda» come il Minosse dantesco.

Ora, tutto questo, egregi colleghi, non è affatto serio. Noi vogliamo arrivare ad una profonda riforma scolastica, e intanto fissare dei principî nella Carta costituzionale, riserbandoci di affrontare la soluzione più ampia e più profonda in altra sede e con altri provvedimenti.

Noi vogliamo proporci di difendere la scuola, come funzione statale di interesse nazionale; noi vogliamo che esista un controllo efficace, effettivo da parte dello Stato su tutte le iniziative private.

Tranquillizzo perciò l’amico onorevole Bernini che l’altra sera si rivolgeva proprio a noi di parte repubblicana e diceva: forse voi che perseguite la fantasia del regionalismo, del frazionamento dell’Italia, non comprendete l’importanza del problema scolastico sotto questo riguardo.

No, onorevole Bernini, chi conosce la scuola repubblicana non può avere alcun dubbio a questo proposito. Noi lo abbiamo detto e lo riaffermiamo oggi: è lo Stato che deve intervenire, dalle Alpi alla Sicilia, se vogliamo adoperare la solita frase.

BERNINI. Ma una cosa è l’intenzione e una cosa è la realizzazione.

MACRELLI. Ma siamo d’accordo: verrà la nuova Costituzione, il nuovo Parlamento, in cui saranno i veri rappresentanti del popolo gli interpreti della volontà… (Rumori). Non mi avete compreso!

Una voce al centro. Si è spiegato male!

MACRELLI. Avete interpretato male. Noi tutti siamo i rappresentanti del popolo italiano, nominati con libero voto popolare. Io accennavo al futuro compito della Camera legislativa, che dovrà risolvere anche i problemi della scuola.

Noi abbiamo confuso i compiti.

Ed ho finito; soltanto mi preme richiamare la vostra attenzione, l’attenzione di tutti, non più sul progetto di Costituzione, sugli articoli, su questi rapporti etico-sociali, ma sui problemi contingenti, di immediata attuazione, che travagliano la vita della scuola italiana. Io non ho sentito parlare qui degli 80 mila maestri disoccupati, non ho sentito parlare dei dieci milioni di analfabeti che abbiamo in Italia.

Una voce. Sono quindici milioni.

MACRELLI. E sia pure; la cifra è sempre grave e deve far piegare i nostri spiriti di fronte a questi problemi nuovi che impediscono all’Italia di vivere, respirare liberamente come vorrebbe.

Siamo usciti proprio in questi giorni da una serie di agitazioni; di altre si parla; noi avremmo voluto che la scuola fosse stata al difuori della lotta, al di sopra delle agitazioni, ma ci sono necessità impellenti di vita, necessità morali e materiali che spingono anche i professori, i maestri, a questi gesti, che qualcuno ha voluto chiamare intempestivi e pericolosi.

È la voce delle cose, è la realtà che prende alla gola tutti quanti e tutti ci dobbiamo persuadere di una cosa, uomini di tutte le fedi e di tutti i partiti: è nella scuola che si forma l’anima della Nazione ed è attraverso la scuola che noi dovremo dare veramente un nuovo volto, una nuova fisionomia, ma soprattutto una nuova anima all’Italia repubblicana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l’onorevole Rossi Maria Maddalena. Ne ha facoltà.

ROSSI MARIA MADDALENA. Onorevoli colleghi, il dibattito su questo Titolo volge ormai al termine e possiamo dire che esso ha messo a dura prova la pazienza del nostro Presidente e della stessa Assemblea.

Mi propongo di essere breve. Prima di entrare nel merito dell’articolo 24, desidero tuttavia sottolineare che noi concordiamo con quei colleghi che hanno ritenuto che la Costituzione debba occuparsi della famiglia. Noi concordiamo con essi per due motivi: prima di tutto perché regolare i rapporti tra il nucleo primordiale, che è alla base dello Stato, e lo Stato stesso è un preciso dovere, soprattutto nell’attuale situazione storica del nostro Paese; in secondo luogo perché è indispensabile un rinnovamento dell’istituto familiare nello spirito della Costituzione democratica che è compito di quest’Assemblea dare oggi all’Italia.

Si è fatto cenno, qui, alla legislazione italiana, che nei riguardi della famiglia reca un’impronta nettamente antidemocratica, aggravata dal fascismo. Oggi sul nucleo familiare si ripercuotono le conseguenze delle guerre fasciste, con tutte le loro miserie materiali e morali; né potremmo rimanere spettatori di fronte alle minacce che per l’istituto familiare si celano nella aggravata situazione economica del nostro Paese, nel conseguente dilagare della piaga della prostituzione, nella preoccupante massa dei disoccupati, nelle pessime condizioni della salute pubblica. Lo stesso fenomeno dell’emigrazione, a torto, io credo, giudicato da alcuni non come un male necessario, ma come uno dei mezzi più idonei a risolvere gli urgenti e inderogabili problemi lasciatici in eredità dal fascismo, costituisce una minaccia per l’integrità dell’istituto famigliare. Ora, di fronte a questa situazione, la salvaguardia dell’istituto familiare è per lo Stato non solo un dovere ma un diritto perché la saldezza della famiglia è condizione essenziale a salvaguardare la saldezza della Nazione. La tutela ed il rafforzamento dell’istituto familiare sono materia di Costituzione, non vi è dubbio, perché sono esigenze che si presentano in tutti i tempi alla coscienza dei singoli e dello Stato. Mi pare che su questo punto si sia avuta la quasi unanimità nell’Assemblea. Divergenze si sono manifestate, né poteva essere diversamente, là dove le singole correnti dell’opinione pubblica hanno formulato le proprie esigenze. Gli uni ritengono che l’inserimento di determinati principî assoluti nella Carta costituzionale costituisce una condizione essenziale al rafforzamento dell’istituto familiare.

Per altri invece il problema non può essere utilmente risolto che con il rinnovamento in senso democratico dell’istituto stesso e soprattutto con lo stabilire i principî che rendono possibile ed efficace tale rinnovamento.

Può l’inserimento del principio dell’indissolubilità del matrimonio nella Costituzione essere considerato una garanzia essenziale per la tutela ed il rafforzamento dell’istituto familiare? Per alcune correnti il vincolo coniugale è indissolubile per legge naturale e per legge divina. Esse affermano inoltre che l’inserimento di questo principio nella Costituzione è condizione essenziale per la salvaguardia ed il rafforzamento dell’istituto familiare. Noi concordiamo con esse su di un punto, questo salvaguardare la famiglia significa salvaguardare la Nazione. Ma noi siamo contrari ad inserire il principio dell’indissolubilità del matrimonio nella Costituzione. Siamo contrari per diversi motivi che io esporrò brevemente. È stato detto qui da giuristi autorevoli che l’indissolubilità del matrimonio non è materia di Costituzione ma di legislazione civile, è questo è senza dubbio, per i cultori del diritto, un argomento da prendere in seria considerazione.

Ma noi riteniamo che vi siano anche altri motivi, altrettanto seri, che vi si oppongono. Inserendo questo principio nella Costituzione non si elimina alcuna delle cause che nell’ambito dei nostri attuali rapporti economico-sociali minacciano l’istituto familiare. Inoltre, inserire questo principio nella Costituzione significa rifiutare nettamente di risolvere determinati casi che il legislatore dovrà invece prendere in esame.

Si è detto qui che chi sostiene la necessità di inserire il principio della indissolubilità del matrimonio nella Costituzione si propone di vincolare il legislatore futuro in modo da non permettere che la legge ordinaria possa stabilire eccezioni a questa norma. Si è parlato perfino di «polizze di assicurazione». Ebbene, tutto ciò ha, lo riconosciamo apertamente, un lato positivo. Stabilire un limite che non si può varcare, limite non soltanto morale ma giuridico, esercita un’influenza, anche psicologica, sui coniugi, che si sforzeranno di adeguarvisi nonostante le divergenze che la convivenza porta inevitabilmente con sé.

Ma c’è anche un lato negativo. Vi sono casi nei quali né il vincolo morale né quello giuridico possono evitare che si giunga ad una situazione insostenibile. Le famiglie illegittime, in Italia, sono molte, onorevoli colleghi. Non esistono dati statistici precisi, ma si ha ragione di ritenere che il numero di queste famiglie si elevi a parecchie centinaia di migliaia; è una realtà che non può essere ignorata né cancellata con un’affermazione categorica di principio o con una rigida norma di legge.

I casi sui quali è indispensabile attirare l’attenzione del legislatore sono: coniugi senza figli che hanno consenzievolmente formato ciascuno una nuova famiglia, della quale sono talvolta venuti a far parte dei figli; reduci, prigionieri, ex-combattenti che al loro ritorno in Patria trovano l’onore familiare distrutto; famiglie nelle quali uno dei coniugi è colpito da condanna infamante e molti altri ancora.

II    legislatore ha il dovere di prendere in esame questi casi, con speciale riguardo, nel momento attuale, a quelli riguardanti gli ex-combattenti e i reduci. L’onorevole Ministro della giustizia ha ricordato come un problema analogo si presentasse alla coscienza dei legislatori italiani dopo la prima guerra mondiale. Gli onorevoli Marangoni e Lazzari presentarono, nel 1920, un progetto di legge al riguardo che suscitò allora vivaci discussioni. Fu proposto, allora, un allargamento dei casi per i quali la legge prevede l’annullamento del matrimonio. Vi è chi parla oggi di sanatoria. Io non entro nel merito perché non è argomento di competenza di questa Assemblea, ma ripeto che lo Stato non può rifiutarsi di prendere in considerazione questi casi, specialmente nei riguardi degli ex-combattenti e dei reduci: essi sono stati lontani dalla loro casa per servire il Paese, hanno esposto la loro vita, hanno sacrificato anni interi della loro esistenza; non si può chiedere loro, oggi, di rinunciare a rifarsi una vita. Sarebbe chiedere troppo.

Quanto al noto caso dell’ergastolano, del coniuge colpito da condanna infamante, caso al quale si è fatto cenno anche nel corso di questa discussione, devo dire che gli argomenti addotti dagli oppositori della nostra tesi non mi hanno per nulla persuasa. Vorrei anzi osservare, se non temessi di offendere i molti giuristi di questa Assemblea, che mi sembra strana la facilità con la quale certi giuristi si investono della parte dell’ergastolano anziché di quella della moglie innocente.

Se poi si tratta di un giurista che è anche un gesuita, possiamo ben comprendere il suo ritegno. Ma, da un punto di vista morale, abbiamo pure il diritto di chiedere, sovrattutto ad un gesuita, di porsi dalla parte della donna innocente sulla quale ricade una condanna tanto severa. Sono problemi che è necessario risolvere, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista politico, onorevoli colleghi: la legislazione civile deve essere dettata da una coscienza civile, e non essere in contrasto con questa.

Noi non proponiamo qui, ripeto, né sanatoria né allargamento dei casi di annullamento di matrimonio. Non è compito nostro. È compito nostro additare al legislatore il problema, e noi riteniamo che sollecitare provvedimenti legislativi specifici, che ridiano tranquillità a tanti cittadini ed eliminino situazioni immorali della nostra società, non significhi mettere in pericolo la tradizionale stabilità ed unità della famiglia. Una legislazione che tenda a sanare queste piaghe, contribuirebbe, anzi, secondo noi, a rinsaldare vincoli familiari, a rafforzare la morale.

Non vorrei suscitare reazioni troppo clamorose da parte di qualche settore dell’Assemblea, ma che il problema esista, lo ha dimostrato l’atteggiamento della Chiesa stessa, la quale, in pratica, ha esteso, in questi ultimi anni, i casi di annullamento di matrimonio, o facendo passare, talvolta, come annullamento veri e proprî casi di scioglimento, o facendo uso di quel «privilegio paolino», di cui si è fatto cenno in quest’Aula.

Noi non poniamo la questione del divorzio. È stato detto e ridetto da parte nostra che noi non la poniamo e che siamo anzi contrari che si ponga oggi questa questione, perché essa non è sentita dalla maggioranza del popolo italiano, perché vi sono oggi ben altri problemi dei quali urge trovare la soluzione.

Noi non poniamo che i problemi che sono maturi, quelli sentiti e voluti dal popolo. Ed oggi il popolo italiano reclama in primo luogo una Costituzione antifascista, che garantisca all’Italia un ordinamento giuridico e costituzionale democratico, in modo che i suoi ideali di libertà non possano più essere calpestati.

Con l’accettare l’articolo 7, noi pensiamo di aver già dato la tranquillità a coloro che ritengono che il matrimonio debba essere indissolubile, perché essi ne traggono la garanzia dal diritto canonico.

Dal punto di vista religioso, noi abbiamo dato ormai tutte le garanzie e non abbiamo alcun timore di essere fraintesi. Con la maggiore tranquillità noi possiamo affrontare oggi questo problema da altro punto di vista, dal punto di vista politico e sociale.

Questa è la nostra opinione sulla indissolubilità del matrimonio e sul principio da inserire o meno nell’attuale Costituzione.

E vorrei aggiungere qualche osservazione sul primo comma dell’articolo 24, che ha pure suscitato vivaci discussioni in seno all’Assemblea. Noi approviamo questo primo comma; il nostro assenso, qui, è completo, perché il principio della parità morale e giuridica dei coniugi completa gli altri articoli, nei quali si aboliscono le disuguaglianze che ancora esistono, fra uomo e donna, nel campo politico, economico, sociale e giuridico. Riconoscere la parità tra donna e uomo là dove la maggioranza delle donne esplicano la loro missione fondamentale, nella famiglia, è giusto, onorevoli colleghi. È un riconoscimento ormai maturo nella coscienza del popolo italiano: lo ha affermato perfino l’onorevole Condorelli. È un concetto ormai maturo nella coscienza del popolo italiano, ma dalle discussioni che si sono svolte in quest’Assemblea, mi è rimasta l’impressione che esso trovi qualche difficoltà a maturare nella coscienza di parecchi onorevoli colleghi. È vero che l’attuale legislazione italiana contrasta con questo principio. L’onorevole Calamandrei fu tra i primi e più autorevoli oratori che misero in evidenza questo fatto. Ma noi abbiamo sperato che egli proponesse: «Cambiamo il Codice civile». Egli non ha detto, né avrebbe potuto dirlo: «Non si può cambiare il Codice civile». Ha proposto di togliere di mezzo l’articolo.

Noi non ci aspettavamo davvero questo atteggiamento da parte dell’onorevole Calamandrei. Egli ha detto anzi che nessuno pensa a cambiare la legislazione civile. Ebbene, mi dispiace che non sia presente questa sera, perché vorrei dirgli che c’è qualcuno che ha intenzione di cambiare il Codice civile in materia, e sono precisamente le donne italiane. Noi non condividiamo i dubbi e le riserve avanzati da alcuni colleghi preoccupati di conservare nell’ambito della famiglia una gerarchia che la realtà politica e sociale ha già superato. Si è detto che la famiglia deve avere un capo, l’ha detto anche l’onorevole Calamandrei, che ha soggiunto: uomo o donna, non ha importanza. Egli l’ha detto, credo, senza fare dell’ironia, ma io ho colto dei sorrisi nell’Aula. Ora, vorrei domandare ai colleghi che hanno sorriso quel giorno se essi sono ben convinti che su questo si possa fare dello spirito, che una donna a capo della famiglia sia davvero cosa tanto ridicola. Noi non intendiamo, badate, che la Patria potestà debba essere esercitata dalla donna; noi sosteniamo che diversità di compiti nell’ambito familiare non significa necessariamente disparità di compiti. Ma mi pare che le donne abbiano già dato sufficienti prove di saper dirigere una famiglia, di avere le capacità, la forza fisica e morale per dirigerla. Non sto a parlare di quello che le donne hanno fatto in tempo di guerra, ma vorrei invitare i colleghi che conservano dubbi a questo riguardo, ad osservare ciò che avviene intorno a noi: quasi senza eccezione, finché la madre vive l’unità della famiglia c’è, la saldezza della famiglia esiste. L’uomo può morire o andarsene, la famiglia resta egualmente unita. Ma, anche nelle famiglie più salde, più unite dai vincoli affettivi, quando la madre scompare i legami si allentano a poco a poco e finiscono per spezzarsi.

Si è parlato di preminenza naturale dell’uomo sulla donna. Io vorrei dire che la preminenza giuridica dell’uomo sulla donna proviene da un’altra cosa: dalla sua preminenza economica, preminenza che il capo della famiglia ha quasi sempre avuto in passato, ma che oggi in moltissimi casi non ha più. L’assoluta preminenza economica dell’uomo nella famiglia va gradatamente diminuendo e tende a scomparire con lo sviluppo della società moderna, nella quale l’uomo e la donna sono entrambi fattori essenziali dell’economia nazionale. Non solo da noi: è una conseguenza dello sviluppo della società moderna e vale per tutti i Paesi civili del mondo. E sarebbe vano opporsi a questa legge, onorevoli colleghi, anche con misure, come quella che è stata proposta, del salario su basi familiari. Gli assegni familiari sono cosa utile e necessaria, essi portano un aiuto concreto alla famiglia, ma non sarà il salario su base familiare a far ritornare la donna completamente nell’ambito della famiglia. Non c’è rimedio a questo. E se qualcuno se ne rammarica in nome di una tradizione che gli è cara, c’è anche chi pensa che in una società ben ordinata la donna potrà, senza trascurare i suoi doveri di moglie e madre, essere in grado di partecipare attivamente al processo produttivo, potrà inserirsi da pari a pari nella vita della Nazione.

Noi comprendiamo come, dal punto di vista pratico, sia difficile alla legislazione risolvere questi problemi in una fase di transizione come quella che noi stiamo attraversando. Sono problemi difficili, ma non impossibili a risolversi. Non è compito di quest’Assemblea affrontarli.

In questo caso si tratta di affermare un principio giusto, e la Costituzione deve affermarlo. Al legislatore toccherà il compito di tradurlo in leggi: si cercherà insieme una formula che sodisfi le esigenze di tutti. Questa esigenza è viva e sentita tra le masse femminili, onorevoli colleghi, e ne è prova anche la grande affluenza delle donne italiane nelle organizzazioni di massa femminili.

Voi non ignorate certo che in Italia esistono organizzazioni di massa femminili che contano un numero imponente di aderenti, come l’Unione Donne Italiane ed il Centro Italiano Femminile. Non ho dati precisi al riguardo di questa ultima associazione; ma credo che esse contino, unite, circa due milioni di aderenti e la loro influenza nel Paese è ben più grande.

Queste organizzazioni di massa hanno scopi ben precisi, onorevoli colleghi. L’U.D.I., sorta in un momento difficile della vita del nostro Paese, quando le donne vollero battersi contro i negatori di tutte le libertà, rivendica oggi nel suo programma parità per tutte le donne di tutti i diritti, nel campo politico, economico e sociale, perché esse possano, attraverso lo sviluppo della propina persona, sempre più divenire fattori di progresso in seno alla famiglia e in seno alla Nazione.

È una realtà che non bisogna ignorare, onorevoli colleghi, né sottovalutare.

Del resto, io devo dirvi che noi ci siamo rallegrati di udire giorni fa, qui, una giovane collega, di udire altre colleghe di questo settore che hanno parlato in quest’Assemblea, che sono intervenute nel dibattito per la Costituzione. Abbiamo pensato che con esse, altre verranno a popolare questi banchi e impareranno da voi a servirsi di questa tribuna, non per difendere punti di vista femministi – che noi non condividiamo anche perché, tra l’altro, partono da premesse sbagliate – ma per difendere insieme con la libertà di tutti gli individui, la libertà delle donne italiane.

Riconoscere alla donna la parità morale e giuridica anche nell’ambito della famiglia, significa contribuire validamente allo sviluppo della persona umana, allo sviluppo della personalità femminile; non accettare il principio della parità morale e giuridica dei coniugi, significa porsi in contrasto con un principio che è stato accettato e approvato recentemente da tutta l’Assemblea.

L’onorevole Molè, giorni fa, ha parlato in termini molto elevati della donna, della madre; l’ha posta così in alto che ad un certo punto ho avuto quasi il timore che la donna, la madre di cui egli parlava si perdesse tra le nubi, lasciando nella realtà mogli e madri italiane nello stato di inferiorità, cui le costringe l’attuale legislazione italiana. Tuttavia, l’onorevole Molè ha pronunciato parole che ci hanno commossi, che hanno commosso soprattutto le donne di questa Assemblea.

Riferendomi a quelle sue parole, vorrei dire che l’affermare oggi il principio nella Costituzione onorerà la nostra Assemblea, così come ha onorato i componenti della Sottocommissione che l’ha accettato all’unanimità. E aggiungo che questo, sì, è un riconoscimento che ciascuno di noi deve a quella che certo è, o sarebbe, se vivesse ancora, orgogliosa di aver dato la vita ad un figlio che è oggi investito di così grande responsabilità di fronte alla Nazione e di fronte a tutte le donne italiane. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 10.

Avverto che vi sarà seduta anche alle 16.

La seduta termina alle 20.20.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.