ASSEMBLEA COSTITUENTE
LXXXV.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 12 APRILE 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
indi
DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Commemorazione di Roberto Bracco:
La Rocca
Targetti
Colitto
Crispo
Cappi
Cianca
Chiostergi
Bergamini
Binni
Presidente
Interrogazioni (Svolgimento):
Merlin, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia
Bertini
targetti
Scalfaro
Scelba, Ministro dell’interno
Farini
Grilli
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Binni
La Rocca
Nobili Tito Oro
Lucifero
Nobile
Laconi
Cianca
La seduta comincia alle 10.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Commemorazione di Roberto Bracco.
LA ROCCA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LA ROCCA. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, vi prego di scusarmi se rubo qualche minuto ai lavori dell’Assemblea.
Ma sento di obbedire a un dovere, di adempiere a un voto.
Nei giorni scorsi, Napoli ha iniziato le onoranze ad un suo grande figlio, che, nell’arena dell’arte, stampò una inconfondibile orma; che patì ed arse per condurre più innanzi l’ala della poesia e della verità; che, negli anni bui, vecchio e indomito, visse come in esilio nella sua patria, straniero nella sua terra stessa, nutrendosi del suo patimento, di ogni sorta di vituperî facendo concime ai suoi fiori: e, in disparte, con la sua compagna, nella miseria, nelle rinunzie, aspettò l’alba della libertà, e con la sua opera l’affrettò, l’eccitò col suo grido; e, per avversità della sorte, non vide quest’alba levarsi, trasvolare, nella sua veste vermiglia sulle rovine e sulla bellezza d’Italia: morì, poco prima che il fascismo crollasse, nell’aprile del 1943, in una casa a Sorrento, tra quelle vigne ambrosie e quei giardini d’aranci, che già avevano profumata la sua giovinezza errante.
Parlo di Roberto Bracco.
Fu un artista geniale, un italiano schietto, un soldato dal cuore saldo al servizio della causa del nostro paese.
Certa critica, che presume di troneggiare su ogni argomento e sputa su tutto – che, intanto, dall’inizio del secolo, ha mancato al suo compito, perché non è riuscita a dar luce a un’opera d’arte – certa critica, tra zoppa e sbilenca, ha tentato di diminuire l’artista, spacciandolo per un napoletano che voleva atteggiarsi a nordico (la scimmia di Ibsen), o addirittura a russo.
Ma la censoria asinità di critici alla Castelvetro passa; e le Smorfie gaie e le Smorfie tristi, le Ombre cinesi e gli Specchi restano.
Resta, cioè, quella novellistica bracchiana, che non teme il confronto della migliore francese: dal Maupassant al Daudet: mirabile rappresentazione di corpo e d’anima, dove il comico si mescola al tragico e la vena del riso si tramuta in un nodo di pianto e lo stame della vita è dedotto e attorto dalle mani del caso, il vero peccatore, come seppe Edipo, che, dopo aver commesso il più gran male, dopo avere arato e seminato il solco nel quale era nato, redense l’ignoto perverso, entrando volontariamente nel buio.
E in questa novellistica, iridata di spume, nell’intreccio di mille vicende, tra dolorose e liete, un’immagine torna sempre: l’immagine di una Napoli d’altri tempi e ormai fuori moda: della Napoli piena di dimenticanza che, nel grembo di una donna, restringe l’immensità del sogno; della Napoli del «popolo minuto», rapita in una ebrezza che pare la festa del mondo; della Napoli in cui la gioiosità e la malinconia di cento poeti levano in alto gli zampilli di fontane incantate; della stupenda città, protesa sopra un mare di oblio, che converte in fiori i suoi pensieri, per ispargere di profumo il cammino per il quale passa l’amore.
Cercò egli, nell’ultima tappa di una esistenza amara, di accostarsi all’altra città, alla nuova, destinata a mutare il volto del Mezzogiorno: alla Napoli infoscata dalla fuliggine dei carboni, arrossata dal bagliore dei forni, sonante del pulsare asmatico dei motori, di un ansito di ferro, dell’orchestra delle sirene: alla città delle fabbriche e delle officine, – ormai per due terzi distrutta, – e dove lo sposalizio del genio e del braccio trasfigura l’ignoto.
Ma questi tentativi d’arte, ricchi di spunti e di aneliti, si perdettero nel saccheggio dei fascisti barbari, che irruppero nello studio dello scrittore e lo devastarono.
E, di là dagli sberleffi di una minutaglia estetico-critica dalle labbrucole salivose e dal naso che non sa di viola, resta, di Roberto Bracco, il teatro, che se non è prodigio, è quasi sempre turbamento: perché, in un’epoca di cerebrali senza idee, il Bracco tradusse in visioni, che parlano alla sensibilità, problemi che la scienza e la filosofia pongono e non risolvono: fedele all’insegnamento che la tragedia è tragedia appunto per questo; perché non è vincitrice, perché non è eroica, come appare dalla storia spirituale del teatro tragico, dove, guardando alle cime, dai greci allo Shakespeare, dal Racine al Goethe, non s’incontra nessuna creatura, la quale sia veramente vittoriosa.
Se ad esempio, nel Piccolo Santo, il dissidio tra l’anima dei personaggi e le loro manifestazioni costituisce il filo conduttore dello sviluppo drammatico e lo scrittore fa dell’arpa dei suoi sensi un ponte per portare sulla scena le parole del silenzio, nei Pazzi, che debbono considerarsi la continuazione, la sintesi e il culmine logico di altre opere bracchiane d’indole tragica, non solamente si chiede dove nell’uomo finisca la saggezza e la follia cominci e quali siano, su questa terra, i pazzi e quali i savi, ma, in una serie di quadri, è raffigurato il contrasto tra la materia e lo spirito, tra la carne e l’anima; e, alla fine, il sipario cala, lasciando che le interrogazioni e i dubbi continuino a pungere l’umanità in un’eco perpetua.
Drammi composti con un ritmo inimitabile, secondo una libera invenzione e non secondo le ricette convenute: opera uscita da una profonda ansietà e da una vigile angoscia e intesa a trasformare le immagini del mondo visibile in segni luminosi del mondo interiore, del nero gorgo del cuore.
Anche per questo, la tomba di Roberto Bracco non sarà silenziosa.
Ma, da quando il fascismo s’impadronì del potere, egli abbandonò quasi il suo lavoro di artista e volle dimostrarsi, innanzi tutto e soprattutto, il servo di un’idea, un difensore della libertà.
Del resto, già Pindaro aveva troncate le corde e mutilata la cetra, perché sapeva quanto sia più bello combattere e osare.
Giovanni Amendola trasse il Maestro dai giardini dell’arte nel campo della politica militante: dalle polemiche rumorose nei caffè e dalle dispute nelle piazze e nelle strade lo attirò nella battaglia di Montecitorio.
E qui, Roberto Bracco, deputato di Napoli e della Campania nel 1924, mutò il suo seggio in una trincea, per la resistenza all’oppressione e per l’attacco; e si consacrò alla lotta con l’impeto di un giovane di vent’anni.
Abbattuta la tribuna parlamentare, egli fu, in ogni circostanza, una volontà di rivolta, e il vivo anelito umano verso l’armonia sociale, contro il dominio dei predoni; e pagò, con una morte lenta, con un lungo martirio, l’ardore della sua fede; cacciato dalle vetrine dei librai, bandito dai cinematografi e dai teatri, colpito nei suoi pochi beni, con la casa di Santa Teresella degli Spagnoli invasa e spogliata, e dispersi i libri, bruciate le carte, dove vivevano in germe alcune opere nuove; ridotto, povero in canna, a far sottili le spese, con un male che già lo consumava, con mille necessità che lo premevano e lo angustiavano; e tuttavia in piedi, diritto, sul limitare della decrepitezza, il volto leso dagli anni, arato dai crucci, ma aperto e fiero; gli occhi cerchiati di sofferenza, ma la bocca piena di dispregio e d’odio contro la dittatura che ci teneva immersi nella vergogna, contro il regime che diceva di portare in sé lo spirito della vittoria, e non portava se non il fermento della disfatta.
Le sue lettere di quel tempo, ad uomini politici, ad artisti, ad impresari, ad amici, quando saranno pubblicate, daranno la misura del suo coraggio.
Certo, la sua stanza da studio, di via Crispi, di via Tasso, fu, per anni, un centro di riunione delle forze schiettamente democratiche, che si opponevano alla tirannide coronata di stupidezza e intendevano compiere un lavoro di talpa alle basi della nostra schiavitù di allora.
Sentiva egli approssimarsi il battito d’ali di un genio di libertà e di giustizia, chiamato ad improntare di sé la vita della nazione. E pronunciava parole d’avvenire; si tendeva con ansia verso un ordine nuovo.
La sorte non gli ha concesso di vivere questo suo sogno.
È un debito di gratitudine, per tutti gli italiani onesti, onorare Roberto Bracco, il cittadino magnanimo che, dell’amore dell’arte e della libertà fece alla sua vita lampada e rogo; che aggiunse, con la sua opera, una qualche pietra armoniosa all’edificio innalzato dai padri; che, vecchio ed invalido, nei giorni della reazione più cruda, tenne alta, a viso aperto, la bandiera dell’antifascismo; e fu la voce della fede, la riscossa della volontà, il grido che eccita l’aurora; e parve davvero di granito. (Vivi generali applausi).
TARGETTI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TARGETTI: Il nostro Gruppo socialista, con due sole parole, ma con tutto il cuore, si associa alla nobilissima esaltazione che con bella eloquenza ha fatto l’onorevole La Rocca di Roberto Bracco.
Colleghi, al fascismo, al dittatore, anche quando agli occhi di tutti apparve un criminale insanguinato, letterati, artisti, giornalisti, in una vergognosa gara, cercarono di prostrarsi, anzi cercarono di vincersi gli uni gli altri nell’adulazione, negli incensamenti. Una grande mortificazione per tutti noi! E a tutti noi, antifascisti, antifascisti ante l’8 settembre, ci fu di grande conforto sapere che non eravamo restati addirittura abbandonati dagli uomini del pensiero e dell’arte. E quando da qualche manifestazione ci veniva la consapevolezza che qualcuno di questi uomini a noi cari per l’altezza del loro pensiero era rimasto al nostro fianco, ci veniva, colleghi, un conforto che è difficile descrivere quanto e quale fosse. Per questo conforto, del quale manterremo sempre gratitudine, per l’onore che questi uomini, come Roberto Bracco, resero all’arte, per avere, nei limiti della loro possibilità, redento la letteratura e l’arte dalla vergogna cui tanti altri l’avevano condannata, vada il nostro pensiero costante e reverente. (Applausi).
COLITTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. Io mi associo, a nome del Gruppo al quale appartengo, con fervido cuore, alla magnifica celebrazione che l’onorevole La Rocca ha fatto di Roberto Bracco. Egli, con la sua parola alata, ci ha fatto d’un subito attingere le vette dello spirito e ci ha fatto protendere l’animo verso l’orizzonte luminoso di quella che è l’arte italiana, la quale non ha mai conosciuto e non conoscerà se non l’ansia e la sete, sete inesausta, del superamento. Ciò significa che l’Italia è una Nazione che ha ancora qualche cosa da dire al mondo. E la dirà. (Applausi).
CRISPO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CRISPO. Il gruppo liberale si associa alla rievocazione della nobilissima figura di Roberto Bracco. Egli non fu soltanto un grande artista; fu, soprattutto, l’apostolo di una fede che visse nel suo cuore e nell’opera sua. A quella fede noi oggi sentiamo il dovere di dare il tributo del nostro ricordo e del nostro sentimento. (Approvazioni).
CAPPI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CAPPI. Il Gruppo democristiano, con parola forse più fredda, ma con non minore intensità di sentimento, si associa alla commemorazione di Roberto Bracco, la cui memoria è a noi cara non solo per l’indomito amore suo per la libertà, ma per la nobiltà, e la spiritualità che ispirarono la sua arte. (Applausi).
CIANCA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CIANCA. Mi associo, anche a nome del mio gruppo, alla rievocazione che è stata fatta di Roberto Bracco. Io ricordo in Roberto Bracco il combattente attivo per la causa della libertà. Da questi banchi, accanto a Giovanni Amendola, egli si levò fermamente contro la dittatura e, quando la rivendicazione dei diritti integrali del Parlamento fu resa vana, egli, insieme con Giovanni Amendola, continuò la sua battaglia dalla trincea del Mondo.
Sono stati ricordati i meriti artistici di Roberto Bracco. Io voglio esaltare soprattutto l’esempio di coerenza, di dignità, di fermezza, di coraggio morale che egli ha lasciato a tutti gli italiani.
Io penso che l’Assemblea dell’Italia libera e repubblicana, onorando Roberto Bracco, onori se stessa. (Applausi).
CHIOSTERGI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CHIOSTERGI. A nome del Gruppo repubblicano, mi associo a questa commovente manifestazione in onore di Roberto Bracco. Tre anni fa ho avuto occasione di commemorarlo all’estero, davanti a miei allievi di altra nazionalità: e Roberto Bracco ha potuto servire ancora una volta a difendere il buon nome d’Italia là dove, purtroppo, esso era soprattutto rappresentato da coloro che l’Italia non rappresentavano, ma soltanto il fascismo.
È dunque doveroso da parte mia associarmi a questa grande manifestazione di ammirazione verso l’artista e soprattutto verso l’uomo di carattere, che è stato un esempio per noi ed è stato di grande utilità per la difesa del carattere italiano all’estero. (Applausi).
BERGAMINI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BERGAMINI. Rivolgo anch’io una parola di compianto alla memoria di Roberto Bracco, col quale ebbi una lunga consuetudine di affetto ed anche di lavoro giornalistico.
Per molti anni ho creduto che egli fosse esclusivamente dato al suo amore dell’arte, ai cimenti letterari e del teatro, nei quali rifulgeva il suo nobile ingegno, la sua ispirazione, la sua virtù creatrice d’opere acclamate in Italia e all’estero. Quella era la sua grande passione, tutta la sua vita che sembrava lontana, avulsa dalle preoccupazioni e dalle battaglie politiche. Ma quando egli vide la libertà italiana soffocata, quando vide la nostra civiltà offesa, si svegliò a un tratto in lui il senso politico e fu veemente, tenace e attivo. Allora io l’ho più amato ed ammirato, perché ho visto che era alta in Roberto Bracco la coscienza politica; non meno della coscienza artistica, erano in lui alti e robusti e fiammanti gli ideali supremi d’un popolo civile, e saldo il carattere e forte la fibra di combattente: onde si può ben dire che egli ha onorato, come l’arte, la politica italiana. (Applausi).
BINNI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BINNI. Desidero associarmi, a nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani a questa commemorazione di Roberto Bracco e desidero che in questo caso la mia parola suoni anche come omaggio di quei letterati e critici che si trovano in questa Assemblea.
L’arte di Roberto Bracco è un’arte che ha ancora la sua durata, la sua limitata ma importante durata, e ripeto, in questo caso mi piace che da uomini di cultura e del mestiere si renda omaggio ad una continuità e ad una fedeltà all’arte, quale si mostrò nei romanzi e nel teatro di colui che oggi l’Assemblea commemora. (Applausi).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi. La rievocazione di Roberto Bracco era un dovere di questa Assemblea di liberi rappresentanti del popolo italiano. Roberto Bracco sarà perennemente ricordato all’arte nella Italia e nel mondo. Qui bene è stata rievocata la sua figura di uomo, che ha affrontato il dispotismo, di uomo di carattere e di fede, che ha voluto dedicare la sua vita, anche negli ultimi anni, alla lotta contro il dispotismo, che aveva offuscato le più belle tradizioni della vita italiana.
L’Assemblea ha onorato se stessa ricordando Roberto Bracco, ed io sono sicuro di interpretare il pensiero di voi tutti mandando alla famiglia l’espressione del più vivo ricordo e della più viva ammirazione di tutti gli italiani. (Vivi generali applausi).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.
La prima è quella dell’onorevole Bertini, al Governo, «per sapere se abbia nulla da dire o da fare per il disservizio giudiziario rassegnatamente cronico e portato ora alla esasperazione dall’agitazione di giusta protesta dei magistrati e degli avvocati; e se, in attesa di esaminare innanzi alla Costituente i nuovi ordinamenti su questo argomento, non creda di dare una precisa assicurazione circa il trattamento proporzionato da fare ai magistrati e circa la pienezza dei mezzi atti a porre l’amministrazione giudiziaria nella dignità ed efficienza proprie di uno Stato libero, consapevole del dovere di rendere a tutti giustizia».
Poiché anche altre due interrogazioni dell’onorevole Targetti e dell’onorevole Scalfaro al Ministro di grazia e giustizia sono relative ad argomenti identici, esse possono venire raggruppate e svolte contemporaneamente.
Do lettura dell’interrogazione dell’onorevole Targetti, al Ministro di grazia e giustizia, «perché voglia informare l’Assemblea del punto a cui si trova l’agitazione dei magistrati che rende ancora più grave e dannoso per la collettività, nelle più importanti città d’Italia, il disservizio giudiziario, e di ciò che il Governo si propone di fare per risolvere tale grave questione, in modo da assicurare al Paese una giustizia sollecita, illuminata e serena».
Do lettura dell’interrogazione dell’onorevole Scalfaro, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere se non ritenga di intervenire con massima urgenza ad eliminare la penosa situazione dei magistrati: 1°) integrando gli stipendi, perché siano adeguati alle necessità della vita ed alla dignità della loro funzione; 2°) risolvendo rapidamente la posizione di coloro che, promossi durante la repubblica fascista per normale scrutinio o per concorso e comunque non per ragioni politiche di alcun genere, sono stati retrocessi al grado precedentemente ricoperto e ciò con grave scapito, tra l’altro, del prestigio del magistrato così colpito.
L’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.
MERLIN, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia. Per rispondere agli onorevoli interroganti potrei rimettermi a quanto ho già avuto l’onore di dichiarare alla Assemblea il 29 marzo 1947. Però, confermando quelle dichiarazioni, credo opportuno completarle e, se necessario, chiarirle.
Ripeto pertanto che il Governo è a conoscenza perfetta delle ragioni che hanno spinto una parte dei magistrati, in alcuni distretti giudiziari, al gravissimo atto della parziale astensione del lavoro.
Conoscere non vuol dire certo né approvare né giustificare.
La Magistratura si lagna per non aver ottenuto, nella nuova carta statutaria, quella posizione di pieno autogoverno cui essa aspira; d’altra parte la Magistratura realmente soffre (il Governo per primo lo ha riconosciuto) del disagio economico che lo slittamento della moneta ha provocato.
Sul primo punto il Governo non c’entra, il problema è di competenza dell’Assemblea Costituente, davanti la quale non è stato presentato lo statuto, ma un progetto di Costituzione.
Tra non molto verranno in discussione gli articoli da 94 a 105 sull’ordine giudiziario e sulle norme della giurisdizione. Il punto più grave, che è quello della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, è regolato dall’articolo 97. Il Governo non può né esprimere pareri, né anticipare giudizi, e tanto più che per lo statuto ciascun membro del Governo vota soltanto secondo la sua coscienza.
Perciò i magistrati, su questo punto, dovrebbero rimettersi senz’altro alle decisioni della Costituente con piena fiducia, comunque con senso di disciplina, perché la Costituente, eletta liberamente, dal popolo, ha tutti i poteri per dare agli italiani il nuovo statuto e tutti i cittadini sono tenuti in anticipo a rispettare le deliberazioni che saranno prese.
Ad ogni modo il Governo ama ricordare ai magistrati che la legge più ampia che sia stata data alla Magistratura per assicurarne le più sicure guarentigie di inamovibilità e di indipendenza, con elezione democratica per i Consigli giudiziari presso ogni Corte di appello e del Consiglio Superiore in Roma, porta le firme di De Gasperi, Togliatti e Corbino ed ha la data del 31 maggio 1946, n. 511.
Questo dovrebbe già essere un elemento di tranquillità per una fiduciosa attesa.
Sul secondo punto, che è indubbiamente il più grave, il Governo ha già dichiarato che è convinto che condizioni di grave disagio economico esistano, e che era doveroso provvedere nei limiti del possibile.
Evita di proposito di definire la qualifica giuridica esatta da darsi ai magistrati.
Questo sarà compito dell’Assemblea.
Ma il Governo ha già dichiarato che nel quadro, generale delle strettezze in cui vive tutta la classe impiegatizia, la situazione dei magistrati, per ragioni evidenti, presenta una maggiore importanza ed esige particolari provvidenze.
È per questo che il Governo ha già dato prova della sua buona volontà e qualche cosa ha già fatto in favore dei magistrati.
Il mio Ministero, dopo opportuna deliberazione del Consiglio dei Ministri, ha presentato alla Commissione competente dell’Assemblea uno schema di decreto legislativo, che contiene notevoli provvidenze economiche per il personale dell’ordine giudiziario.
Vengono prima di tutto aumentate le indennità di toga; questa indennità era diventata irrisoria perché partiva da un minimo di lire 247 mensili per gli uditori, ed arrivava ad un massimo di lire 2.473 per il primo Presidente della Corte Suprema.
La nuova tabella partirà da un minimo di lire 3.437 per i gradi 10 e 11 ed arriverà a lire 6.875 per il grado 1°.
Questi aumenti costeranno al bilancio dello Stato una spesa di circa 300 milioni.
Un secondo beneficio è compreso nello schema di decreto sopraricordato e riguarda i compensi per lavoro straordinario.
In ordine a tali compensi le norme vigenti prevedono in linea generale la possibilità di corrisponderli in ragione di un massimo di 60 ore mensili; ma, per quanto riguarda i gradi inferiori al sesto, è stabilito che la spesa complessiva non possa superare l’importo dei compensi che in tale misura spetterebbero ad una metà del personale; vale a dire che, nell’ipotesi in cui si ritenga di corrispondere i compensi a tutto il personale, non è possibile superare il limite di 30 ore mensili per ciascuna unità. Quanto ai gradi superiori al 7° è, invece, prevista la possibilità di corrispondere i compensi in ragione di 60 ore mensili con una speciale liquidazione forfetaria.
Nello schema di decreto presentato, come si disse alla Commissione della Costituente, tali limitazioni vengono abolite, disponendosi che per i magistrati sia consentita la corresponsione dei compensi per un massimo di 60 ore, senza distinzione di gradi.
Da calcoli, per quanto approssimativi, del mio Ministero, questa seconda concessione costerà al Tesoro circa altri 300 milioni.
Non si poteva negare tale beneficio anche al personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie e si avrà così una maggiore spesa di altri 300 milioni circa.
Ecco perché nelle mie precedenti dichiarazioni avevo potuto affermare che queste provvidenze costeranno al Tesoro circa un miliardo e ciascun magistrato avrà un beneficio medio di circa lire 6.000, cioè annue lire 70.000 circa.
Sono il primo a riconoscere che queste concessioni rappresentano non quello di cui la Magistratura avrebbe bisogno, ma una prova soltanto di buona volontà ed un soccorso urgente.
Anche su questo i magistrati darebbero buon saggio di disciplina e di patriottismo rimettendosi all’Assemblea Costituente ed alla Commissione davanti alla quale il progetto è allo studio.
Osservo comunque, senza con ciò voler fare confronti, sempre odiosi, che in Italia intere classi di umili lavoratori, per saggio consiglio delle loro organizzazioni, capiscono che la politica dell’inflazione sarebbe la peggiore delle politiche ed avvierebbe tutti al disastro ed attendono invece con fiducia l’effetto utile della politica di rivalutazione della lira e di compressione di prezzi che il Governo si è proposta.
Perciò il Governo rivolge ancora una volta un appello ai magistrati di voler desistere dalla loro agitazione, che non giova a nessuno e fa del danno a tutti.
Il nostro Paese, per risollevarsi dalla rovina in cui è stato gettato per colpa del fascismo, ha bisogno di concordia e di disciplina. Questa soltanto sarà la via della nostra salvezza! (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Bertini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
BERTINI. Non posso naturalmente dichiararmi sodisfatto delle dichiarazioni del Governo, se non sotto un solo punto di vista, cioè che c’è oggi in realtà la buona volontà del Sottosegretario e del Ministro. A proposito poi del Sottosegretario, gli riconosco il buon volere, anche perché ebbe la benevolenza, in seguito ad un invito da me rivoltogli come Presidente dell’Ordine forense di Bologna, di intervenire ad una riunione di magistrati e di avvocati, nella quale la situazione della classe fu particolarmente esaminata; e ciò ha condotto alle dichiarazioni odierne ed all’appello che il Governo fa, per la cessazione dello sciopero, diciamo così, dei magistrati.
Peraltro, il guaio è sempre lo stesso; perché non si deve dimenticare che la irritazione gravissima, da cui oggi è dominata la classe dei magistrati, ha il suo addentellato in una serie di dimenticanze sistematiche, secondo l’andazzo di tutti i passati Governi.
Si potrebbe dire – se l’argomento potrà piacere – che, se non tutti i Ministri della giustizia, almeno il 50 per cento di loro, dacché l’Italia è stata costituita, ha avuto la premura di fare dei progetti per l’ordinamento e per il trattamento di quella classe; ma, peraltro, questi progetti hanno rappresentato una specie di fidanzamento colla povertà e quasi si potrebbero raffigurare col famoso dipinto giottesco in Assisi: S. Francesco che dà l’anello alla povertà, per sposarla. I Ministri della giustizia del Regno d’Italia non hanno fatto, per mostrare questo fidanzamento amoroso, se non depositare negli archivi polverosi del Ministero i progetti di riforma.
Ma veniamo a guardare in faccia la situazione.
Si parla di slittamento della lira, ed è giusto. Ma – intendiamoci – quando i magistrati – e non da oggi – hanno sollevato la loro voce, ce n’è voluto perché, finalmente, si arrivasse a quelle indennità, le quali rappresentano una promessa, e lo riconosce anche l’onorevole Sottosegretario di Stato, onestamente; ma se questa promessa si aggiunge alle centinaia di promesse continuate fatte in passato, allora la classe dei magistrati si viene a trovare in tale stato di malcontento, da non potere essere sodisfatta con uno sbocconcellamento di poche migliaia di lire.
Io – lo sa l’onorevole Sottosegretario – pur solidarizzando con la classe povera, perché questa astensione venisse fatta, ma contenuta in limiti tali da non recar danno nei casi pietosi o urgenti in cui fosse necessario l’intervento della giustizia, tuttavia, ho mantenuto i contatti con la classe forense e con i vari gradi della magistratura, per trovare la soluzione adeguata alle esigenze attuali del bilancio.
L’onorevole Sottosegretario ha accennato alle nuove riforme, che la Carta costituzionale ha già molto opportunamente introdotte. Ma, se queste riforme danno buon affidamento e buona impostazione al piano organico della magistratura ed ai nuovi rapporti col potere esecutivo, tuttavia, signori, è pur tempo che, correlativamente, si dia alla magistratura qualcosa che risponda ad una dignitosa condizione di vita.
Quindi, se oggi il tema viene soltanto saggiato, affinché in sede di Carta costituzionale il problema sia risolto, deve essere esaminato, nello stesso tempo, almeno un piano organico, un piano che, anche come programma minimo, rappresenti da parte del Governo una veduta d’insieme sulla sorte dei magistrati.
E c’è di più: bisogna anche considerare che l’amministrazione della giustizia non è un peso per lo Stato. Potrebb’essere un peso, perché la giustizia, rappresentando un servizio fondamentale per la civile convivenza, dovrebbe rappresentare anche da parte dello Stato una adesione a quella spesa che è rappresentata come esigenza di pari grado.
Tuttavia, si sono avuti notevoli inasprimenti delle tasse giudiziarie; ma tutto ciò a che ha servito per i magistrati? Essi non hanno avuto nessun beneficio, mentre i contribuenti ne sono rimasti gravemente colpiti. Ora, fate la proporzione e vi renderete conto che, se voi arrivate in ritardo con le vostre misure, la colpa non è né dei contribuenti né dei magistrati, e si verrebbe anzi ad aumentare quella irritazione di cui lo sciopero è stata una ragione d’essere, ed a cui questa categoria è stata costretta di addivenire.
Sono 44 anni che vivo a contatto con le classi della magistratura e so che ci sono poveri magistrati che non hanno avuto la maniera di scaldarsi, né in casa né durante l’esplicazione del loro mandato nelle aule giudiziarie. Molti magistrati ci hanno detto: noi lavoriamo per la fame e non per l’agiatezza. Voi dovete dunque fare un elogio alla magistratura italiana, che ha sempre cercato di difendere la propria indipendenza; e si tratta di una categoria che vive ancora oggi in mezzo alla miseria profonda, e che tuttavia sa essere onesta, a differenza di molte altre classi della burocrazia, e di corrispondenti gradi dell’amministrazione statale.
Signori miei, io vado al termine accennando anche a servizi dell’amministrazione giudiziaria che sono miserabili: voi avete, per esempio, allargato la giuria ed introdotto parecchie commissioni speciali, nelle quali i magistrati vengono sempre chiamati a dirigerle o a farne parte, e non vi accorgete che manca il personale. Il 50 per cento delle sedi, cui i magistrati dovrebbero essere adibiti, sono prive di personale. Io ricordavo ieri al Ministro e al Sottosegretario di Stato che, dall’aprile dell’anno scorso, è stato indetto un concorso per nuove assunzioni di magistrati. Ebbene, è una cosa che fa piangere e potrebbe far ridere al tempo stesso: quel concorso è rimasto in sospeso, in attesa che la Commissione abbia a finire la revisione degli scritti, scritti che furono presentati nell’aprile dell’anno scorso. Intanto questi giovani aspettano di essere chiamati a dare gli orali; ed accade che i più, o si sviano dall’aspirazione che avevano di entrare nella magistratura, oppure si trovano in condizioni di inferiorità nei riguardi di altri impiegati che sono successivamente entrati nella magistratura. Costoro hanno la facoltà di poter essere domani assunti nella magistratura, e così coloro che cercavano di entrarvi, attraverso un concorso regolare, verranno invece a subire la diminuzione dell’anzianità rispetto a questi altri.
Signori, dunque, è tutta una vita di pianto che noi con dolore vi rappresentiamo. Ed allora io avrei desiderato, illustre amico di cui so la grande bontà e so anche la grande volontà che pone per rendere efficiente la propria opera, amico Sottosegretario, io so che lei parla chiaro e parla bene in tutti i momenti nei quali la sua attività viene data al Ministero di grazia e giustizia; si compenetri, come sempre si compenetra, del pianto di questa gente che è pianto, o signori, pericoloso, perché se questa istituzione della Magistratura non regge alla dignità, all’imparzialità ed all’indipendenza del suo mandato, sono inutili le leggi restrittive a difesa della libertà, sono inutili le sanzioni per mantenere onesta la gente; signori, voi perderete la libertà e perderete la giustizia, degna garanzia di un popolo libero. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
TARGETTI. Se della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia, non si è dichiarato sodisfatto l’onorevole Bertini, suo compagno di Partito, sarà un po’ difficile che mi possa dichiarare sodisfatto io.
Una voce al centro. Che c’entra?
PROIA. Lei pure appartiene alla maggioranza!
TARGETTI. È vero che come appartenente al Partito socialista italiano faccio parte della maggioranza, però c’è stato l’articolo 7, che può spiegare… (Rumori – Interruzioni). Le interruzioni non si dovrebbero raccogliere, ma a non raccoglierle si fa un atto di poca considerazione per l’interruttore.
PRESIDENTE. È opportuno non raccoglierle.
TARGETTI. Ma allora si dimostra che non si considerano meritevoli di essere prese in considerazione.
Io, comunque, non posso, a maggior ragione del collega Bertini, essere sodisfatto della risposta del Sottosegretario, perché qui non siamo a fare delle esercitazioni di eloquenza, ma a chiedere cose determinate, per raggiungere un determinato scopo.
Io ho chiesto al Governo che cosa intende fare per risolvere questa incresciosa questione dello sciopero dei magistrati ed è questo che sarebbe utile e interessante poter sapere. Lo sciopero dei magistrati è un fatto ormai anche troppo noto. Contro lo sciopero dei magistrati si è protestato, come questione di principio, da varî partiti. L’onorevole De Gasperi, in una a conversazione alla radio – le conversazioni alla radio sono un buon sistema, molto democratico, per comunicare col pubblico, ma non bisogna abusarne, perché delle volte è facile andare incontro a qualche piccolo inconveniente – l’onorevole De Gasperi parlando dello sciopero dei magistrati è stato un po’ forte, un po’ aspro. Si capisce che per i magistrati, dipendenti dallo Stato, sarebbe augurabile che non fossero mai costretti a scioperare, ma è molto più facile, onorevoli colleghi, – e vorrei persuadere i colleghi anche di altre parti dell’Assemblea – è molto più facile essere abbastanza stoici per affermare questo divieto che essere stoici al punto di rispettarlo. I magistrati, si dice (e lo si dice in genere dei funzionari dello Stato, dei ferrovieri, dei postetegrafonici) non devono scioperare; ma, al tempo stesso, si dovrebbe dire che il Governo non deve mettere né i magistrati, né i maestri elementari, né alcuno dei suoi dipendenti nella impossibilità di vivere. È per questa ragione che il nostro Partito, attraverso la sua stampa, a Milano, e a Torino, ha dato la sua piena solidarietà a questa agitazione dei magistrati, riconoscendone tutta la fondatezza. Come tutti sanno, noi socialisti non abbiamo nessun debito di riconoscenza da pagare alla Magistratura italiana, presa nel suo complesso. Del resto, alla Magistratura italiana noi non abbiamo mai chiesto né chiediamo, né chiederemo mai, nessun’adesione alla politica nostra piuttosto che ad altra politica. Abbiamo sempre chiesto, chiediamo e siamo pronti a fare tutto il possibile – nelle forme naturalmente più che legali – per imporre che la Magistratura italiana non amministri una giustizia di classe. Entro questi limiti e in questi termini si può delineare il nostro atteggiamento verso la Magistratura.
Noi non abbiamo potuto negare la nostra solidarietà a questo movimento, per le stesse ragioni accennate dall’amico Bertini. Le condizioni della Magistratura sono veramente pietose. Se voi assistete, onorevoli colleghi, ad una riunione di magistrati, soltanto dalle manifestazioni esterne, dall’abito e, non è una esagerazione dire, perfino dal volto – perché vi sono dei magistrati in condizioni di tale miseria da non aver potuto e non potere neppure alimentarsi a sufficienza – voi comprendete che quella è una specie di esposizione della miseria. La stessa impressione dolorosissima si avrebbe intervenendo ad un’adunanza di maestri elementari.
In una situazione così grave il Governo ha il dovere di fare tutto il possibile perché questo movimento si arresti.
L’onorevole Sottosegretario alla giustizia ha confermato che qualche provvedimento, qualche soccorso di urgenza è stato deliberato a favore dei magistrati. Avrei preferito – come gliene avevo fatto preghiera confidenzialmente – che, alla designazione generica dei provvedimenti presi, avesse sostituito l’indicazione di cifre. Sarà forse che io me ne intendo poco o non so di chi è la colpa, ma quando si sente quello che il Ministero ha concesso ci si fa un’idea; quando si sente che cosa hanno ottenuto quelli a cui la concessione è stata fatta, ci facciamo un’idea del tutto diversa. Noi avremmo voluto sapere praticamente – specialmente per i disgraziati giudici dei gradi inferiori – quale rimedio alle loro necessità è stato oggi offerto dal Governo.
Noi sappiamo purtroppo quale è la reale situazione in cui si trovano i magistrati. È verissimo che anche nel passato, e quando io parlo del passato (assicuro i colleghi che questa non è una esagerazione, ma un mio sentimento profondo), quando parlo del passato del nostro Paese, non vi includo il periodo fascista, perché quello fu un periodo di invasione, di dominazione, di oppressione da parte di connazionali più stranieri e nemici dell’Italia che molti stranieri; anche nel passato, il problema della Magistratura non è stato fra noi mai affrontato. Ma per quale ragione, onorevoli colleghi? Perché per l’Amministrazione della giustizia, come per le scuole, non si è mai voluto spendere neppure lo strettissimo necessario. Si è preferito spendere per la marina e per la guerra, ma la giustizia e l’istruzione pubblica sono state le due cenerentole del bilancio dello Stato italiano.
Questo passato vergognoso rende ancora più grave il presente.
Che cosa fare? Noi chiediamo che il Governo – se oggi, come oggi, si trova nell’impossibilità di concedere ai magistrati qualche altro miglioramento, veramente efficace e notevole – dia loro almeno una fondata speranza, anzi un’assicurazione che, appena possibile, la loro situazione sarà ancora riveduta. Dia assicurazioni capaci di togliere questa nuova causa di disservizio giudiziario rappresentata dallo sciopero dei magistrati. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. L’onorevole. Scalfaro ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto. La prego di tener presente che l’argomento è stato già discusso ampiamente.
SCALFARO. Due parole. Sono magistrato, e come tale sono particolarmente parte in causa. Non parlo certo – e non ne ho l’autorità – a nome della magistratura. Ringrazio quegli onorevoli colleghi di qualsiasi parte che in ogni modo si sono voluti interessare, in un momento tanto triste nella vita, della magistratura italiana. Non li ringrazio però qualora abbiano comunque ritenuto lecito l’atteggiamento di sciopero. (Applausi a destra e al centro). Parlo come magistrato, e non ho mutato, per essere entrato in quest’Aula, il mio pensiero: cioè che la magistratura, la quale deve tutelare, deve applicare la legge, la magistratura che ha in mano questa forza di giustizia nella sua attuazione, non può fare sciopero. E soprattutto non può farlo e non deve farlo, come lo ha fatto, in questo momento. Chi d’altra parte è entrato, come gli onorevoli colleghi avvocati sono entrati, in questo periodo di vacanze, in tutti gli uffici giudiziari, ha trovato i magistrati al loro posto; per cui, in ultima analisi, ci si trova di fronte a magistrati che hanno voluto assumere un atteggiamento, traendone tutte le dolorose conseguenze nei commenti e nei riflessi dell’opinione pubblica, senza averne i vantaggi che hanno le altre categorie in questi casi.
Ringrazio il Ministro di grazia e giustizia e il Sottosegretario per la giustizia, ringrazio il Governo, per quello che hanno voluto fare. Però mi si consenta un’osservazione: il centro della questione è l’autonomia della magistratura. Se tale problema – come è giusto – deve essere portato dinanzi a questa Assemblea perché venga risolto dalla Costituzione, è altrettanto vero che non è possibile che i magistrati si trovino continuamente di fronte a questa argomentazione: a parità di grado – se si vuole ancora ripetere la graduazione che si faceva un tempo: grado X, grado IX, grado VI, ecc. – in un’altra Amministrazione gli stipendi sono inferiori. Ma bisogna rifarsi a quella che è la dignità del magistrato, bisogna rifarsi all’altissimo compito del magistrato, bisogna rifarsi a quello che è l’impedimento che scaturisce da una precisa disposizione di legge per il magistrato di avere qualsiasi altra attività, di esercitare qualsiasi altra mansione o funzione.
E allora, per quale ragione già nel progetto di Costituzione si dice che i magistrati si distinguono per funzioni e non per gradi? Per quale ragione si scrive nel progetto di Costituzione – e io spero che questa Assemblea lo voglia varare con grande maggioranza – che il magistrato non deve essere iscritto a partiti politici, per essere al di fuori, al di sopra della vita politica della Nazione, se non perché si vede che il magistrato si trova in condizioni tanto diverse da quelle di tutti i funzionari delle varie amministrazioni? Si definirà la magistratura il terzo potere o meno; questo lo deciderà la Costituzione.
Ma io voglio dire che proprio per queste argomentazioni, per questi dati di fatto, bisogna andare incontro al magistrato, vedendo in esso quella altissima funzione e dignità. Perché invece si è lasciato che si giungesse ad uno sciopero che, lo ripeto ancora una volta, io depreco profondamente? Perché non si è cercato in tutti i modi di impedirlo? Perché non si è cercato di attuare quanto i magistrati chiedevano da tanto tempo?
E concludo: faccia il Governo, faccia l’Assemblea, facciano gli avvocati, che in modo particolare conoscono qual è la situazione speciale dei magistrati, che questa toga, già tanto pesante nella fatica, nella difficoltà per la ricerca del vero e del giusto, non debba maggiormente appesantirsi sotto le continue, terribili preoccupazioni economiche. Fate dunque in modo che l’esodo, che avviene soprattutto fra i giovani, dalla Magistratura, i quali disertano in cerca di altre vie più remunerative, non debba continuare aumentando il disagio della Magistratura, già tanto depauperata di molti suoi elementi migliori.
Bisogna fare in modo che la Magistratura possa riprendere la sua funzione; bisogna che questo appello sia accettato, anche se muove dall’ultimo magistrato d’Italia.
Se infatti io ho parlato è perché sono certo di aver detto parole di verità, se ho alzato un grido, è perché ritengo e fermamente ritengo che sia un grido di giustizia. (Applausi).
PRESIDENTE. Si trasmetterà questo voto al Ministro del tesoro, perché ne prenda conoscenza.
Si dovrebbe ora passare all’interrogazione dell’onorevole Geuna, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro delle finanze e tesoro, «per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda prendere a favore dei pensionati che versano nelle più gravi condizioni di stenti e di fame e che, senza agitazioni inconsulte, con alto senso di civismo, attendono legalmente giustizia».
Vorrei però rivolgere all’onorevole Geuna una preghiera: l’onorevole Ministro dell’interno desidererebbe rispondere subito ad una interrogazione urgente presentata ieri dagli onorevoli Farini ed altri sulla serrata degli esercenti dei ristoranti e dei bar. Se pertanto l’onorevole Geuna vorrà consentire, lo svolgimento della sua interrogazione potrà essere rinviato alla prossima seduta.
GEUNA. Acconsento.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Massini, Farini, D’Onofrio, Pertini, Barbareschi, Grieco hanno presentato la seguente interrogazione:
«Al Presidente del Consiglio, perché dica se il Governo, di fronte alla decisione di serrata presa dai conduttori dei pubblici esercizi di Roma, alla minaccia analoga agitata dai commercianti di Torino, alla deliberazione dei proprietari di case di Milano di rifiutare il pagamento delle tasse, tipici esempi di una mentalità avida e incapace di comprendere le necessità del momento, atteggiamenti che nettamente contrastano con quelli delle masse lavoratrici che, sopportando da anni i durissimi pesi della sventura nazionale, danno diuturno spettacolo di rinuncia e di sacrificio, non ritenga di dovere immediatamente disporre le misure più severe consentite dalla legge per punire tanta manifestazione di chiuso egoismo ed ammonire ognuno della sua ferma volontà di svolgere senza esitazione il programma annunciato in materia economica e finanziaria».
PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.
SCELBA, Ministro dell’interno. Per quanto riguarda la serrata degli esercenti dei ristoranti e dei bar che ha avuto luogo a Roma ieri, essa potrebbe considerarsi in certo senso esaurita, in quanto la serrata stessa è venuta a cessare. Desidero però precisare l’atteggiamento del Governo in questa materia, anche come riferimento alle notizie pubblicate stamattina dalla stampa, che travisano completamente quella che è stata la decisione del Governo.
Appena informato della proclamata serrata, io ho fatto comunicare ai dirigenti della categoria che la serrata rappresentava nella sostanza un attentato contro la politica del Governo tendente alla limitazione dei consumi e che il Governo non avrebbe tollerato menomamente, per suo conto, questo atteggiamento; e che comunque ero deciso a prendere tutte le misure necessarie per stroncare questa agitazione.
Per mezzo poi del Sottosegretario di Stato per l’interno è stato comunicato che il Governo non poteva restare impassibile di fronte al tentativo di affamamento della popolazione romana e di tutte le persone che hanno l’abitudine di prendere i loro pasti nei ristoranti, e feci diffidare la categoria che se entro mezzogiorno non fosse stata presa una decisione, il Governo avrebbe assicurato, con tutti i mezzi a sua disposizione, la riapertura di tutti i ristoranti, anche procedendo alla nomina di commissari, perché si trattava di assicurare l’alimentazione della cittadinanza di Roma.
La Commissione sottopose alcune osservazioni: erano osservazioni di dettaglio: le giacenze di pasta bianca e di farina bianca che tutti i ristoranti si erano procurate nel passato quando le leggi annonarie non erano applicate. Si trattava di contravvenzioni fatte in periodi di transizione. Dissi che tutta questa materia poteva essere regolata. Ma una cosa doveva essere ferma e chiara, che le disposizioni attuate dal Governo in materia annonaria dovevano essere osservate rigorosamente e perentoriamente, e nessuna disposizione già impartita sarebbe stata né attenuata, né revocata per quanto riguardava l’avvenire. Questa dichiarazione è stata fatta nettamente, e tengo a riaffermarla qui, perché stamane una parte della stampa ha presentato come una specie di capitolazione l’atteggiamento del Governo di fronte alle richieste degli esercenti romani.
Devo dire che non solo non c’è stata una capitolazione del Governo, ma il Governo ha confermato ieri e, comunque, intende confermare nettamente di fronte all’Assemblea e alle categorie interessate, che le leggi votate dal Governo saranno osservate severamente ed i mezzi che abbiamo escogitati, compresa la cointeressenza degli agenti nella osservanza delle leggi, ci danno affidamenti che esse troveranno piena ed assoluta applicazione.
Si tratta di leggi dettate da necessità imperiose; e da disordini in questo campo e di fronte alla miseria di tante categorie s’impone una disciplina nei consumi.
Tutti i cittadini devono sentire, e gli esercenti per primi, che la politica del Governo in materia annonaria è dettata da necessità imperiose ed inderogabili e questa politica va assolutamente perseguita.
Questa assicurazione intendo dare all’Assemblea. Disposizioni sono state rinnovate all’Autorità di pubblica sicurezza perché tutte le infrazioni in materia dolciaria ed in materia annonaria siano severamente punite, così come si era incominciato a fare sin da martedì scorso, e l’Assemblea può essere sicura che il Ministero dell’interno perseguirà inflessibilmente la politica del Governo. (Applausi).
Per quanto riguarda le altre materie che formano oggetto della interrogazione, compreso lo sciopero minacciato dai proprietari di case, il Governo ha allo studio la materia e si propone di attuare, anche legislativamente, le misure necessarie per assicurare l’osservanza della legge anche in questo campo. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
FARINI. Noi non possiamo che prendere atto delle dichiarazioni del Ministro dell’interno e dichiararci in parte sodisfatti, per quanto riguarda soprattutto la messa a punto del Governo circa l’interpretazione data dai giornali questa mattina per quanto è avvenuto ieri, messa a punto estremamente necessaria e che dimostra come vi è una certa stampa – una stampa che chiamiamo gialla – la quale utilizza ogni avvenimento che si verifica nel nostro Paese, in questo momento particolarmente grave e difficile, per creare una situazione di disagio e di agitazione e per intervenire come alimento fomentatore di agitazione. Io penso che in questo caso l’onorevole Ministro dell’interno avrebbe dovuto dire quali sono le misure che intende prendere contro questa stampa.
È indispensabile fare il punto della situazione; non si può più consentire che esista una stampa la quale, contro gli interessi fondamentali della nazione, crei difficoltà alla politica del Governo, a quelle misure iniziali che noi approviamo e sosteniamo; che devono tendere appunto a risanare il nostro Paese ed a realizzare il programma economico e finanziario che il Governo si propone.
Uno degli elementi fondamentali è indiscutibilmente quello di compiere un atto di giustizia perché il grave peso di questa situazione sia sopportato da tutta la massa del popolo, da tutti i cittadini italiani, secondo le loro reali possibilità economiche. Ed è deplorevole che una categoria, come quella dei commercianti, i quali hanno realizzato ampi profitti (badate che facciamo distinzione fra il grosso commerciante e il piccolo commerciante, perché sappiamo che alla testa di questa agitazione, della serrata, sono soprattutto quei commercianti che hanno realizzato i maggiori profitti e che si abbandonano facilmente alla speculazione), debbano imporre la loro volontà, e noi diciamo che questi commercianti devono essere severamente colpiti, in quanto è la massa di tutto il popolo italiano che sta soffrendo di questa situazione e che ne sopporta le conseguenze con grande disciplina nazionale.
Il popolo italiano, dall’atteggiamento che terrà il Governo nei riguardi di questa categoria, giudicherà la politica reale che il Governo persegue. E badate che se noi siamo solidali nella politica del Governo, d’altra parte rispondiamo di questo tutti collettivamente di fronte al Paese. Badate che la massa del popolo italiano giudica in questo modo e dipende quindi dal vostro atteggiamento, dal vostro senso di giustizia se questa azione di rigenerazione morale e di miglioramento economico e finanziario del nostro Paese si potrà realizzare.
Quei commercianti hanno dimostrato di seguire solamente gli interessi del proprio portafoglio.
Ora noi diciamo che non possiamo considerare chiuso l’incidente solamente perché la serrata è cessata. Sappiamo che un’analoga minaccia esiste al nord, sappiamo qual è la posizione che stanno prendendo i proprietari di case a Milano. Ebbene, noi diciamo che il Governo deve darci maggiore affidamento e dirci, nel caso in cui si verifichi un’altra volta la serrata contro gli interessi nazionali, che affamerebbe il popolo, quale sarà la sua azione. Passeremo al ritiro delle licenze, alla confisca dei negozi? Passeremo a trasformare questi negozi in spacci e a darne la direzione al personale? Ecco quello che vogliamo sapere dal Governo. E vogliamo anche sapere dal Governo che ha iniziato quest’opera di disciplinamento, quali mezzi adopererà, vale a dire quali misure opporrà contro coloro che si disinteressano delle sorti del Paese. (Applausi).
PRESIDENTE. Vi è un’altra interrogazione presentata ieri con richiesta di urgenza, ed alla quale l’onorevole Ministro dell’interno intende rispondere:
«Al Ministro dell’interno, sulle violenze commesse il 7 aprile in Guastalla contro il deputato Alberto Simonini per impedirgli di pronunciare un discorso politico.
«Grilli, Badini Confalonieri, Bonomi Ivanoe, Cifaldi, Tremelloni, Chiaramello, Calosso, Ghidini, Canevari, De Caro Raffaele, Ruggiero, D’Aragona, Cairo, Rossi Paolo, Di Gloria, Veroni».
L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.
SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, a seguito delle violenze perpetrate contro rappresentanti di questa Assemblea, sono state impartite particolari disposizioni ai prefetti perché la libertà di parola, che deve essere garantita a tutti i cittadini, venga tutelata in modo particolare nei confronti dei rappresentanti dell’Assemblea Costituente.
Ma nello stesso tempo ho ricordato ai partiti e ai cittadini che vi sono leggi che vanno osservate, e le leggi prescrivono che non si può tenere un pubblico comizio senza darne preavviso all’Autorità di pubblica sicurezza, in modo che questa abbia la possibilità di predisporre le misure atte ad assicurare la libertà di parola nel caso che violazioni venissero tentate.
Nel caso dell’onorevole Simonini mi dispiace di dover dichiarare che egli non si è attenuto alle norme di legge. Il suo comizio è stato improvvisato e nessuna comunicazione ne è stata data all’autorità di pubblica sicurezza. Sicché non si sono potute prendere tempestivamente le misure necessarie a garantire per ogni evenienza la libertà di parola all’onorevole Simonini. Egli, anzi, si è reso responsabile dell’infrazione di una precisa disposizione di legge, e qualche autorità ha chiesto di procedere contro di lui per violazione della legge. (Commenti animati).
Devo aggiungere che le autorità locali, nelle particolari condizioni in cui si è realizzata la manifestazione, hanno fatto tutto quello che potevano. E, se non è toccato di peggio all’onorevole Simonini, qualche merito ne ha la polizia. Non bisogna, del resto, dimenticare che le forze di polizia sono modeste; noi non possiamo tenere degli interi battaglioni di agenti nelle varie località, ma soltanto pochi agenti; e si è dovuto anche allo sforzo fatto dagli agenti di pubblica sicurezza esistenti nel luogo, e ai carabinieri, se l’onorevole Simonini non ha avuto di peggio.
Per quanto riguarda la repressione dell’attentato, sette dei responsabili sono stati individuati e denunciati all’autorità giudiziaria. Essi saranno perseguiti nei modi di legge.
PRESIDENTE. L’onorevole Grilli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.
GRILLI. Non sarei sincero, se dicessi di aver presentato questa interrogazione soltanto per conoscere quali sono le comunicazioni ufficiali pervenute al Governo sugli incidenti di Guastalla, che riguardano un nostro valoroso collega; o per conoscere quali misure intenda adottare il Ministro dell’interno per evitare che inconvenienti di questo genere abbiano a ripetersi.
Perché, qualunque potessero essere le assicurazioni che su questo punto mi venissero dal Governo, non potrei mai sentirmi sodisfatto, perché penso che sarebbe umiliante per tutti se domani l’uomo politico che vuole esprimere e divulgare il suo pensiero in una assemblea di cittadini, avesse bisogno di circondarsi di carabinieri e di poliziotti.
Il problema che ci preoccupa non è di polizia: si tratta di ben altro. Si tratta di sapere se il nostro Paese è capace e degno di democrazia, se ha capito cosa è la libertà e se l’articolo 16 del progetto di Costituzione, che approveremo stasera, contenga la proclamazione d’un principio penetrato nella coscienza del popolo italiano, o non piuttosto una platonica affermazione, destinata domani alle beffe di quello strillone fiorentino, di cui ci parlò l’onorevole Calamandrei. Io non mi sento troppo tranquillo su questo punto.
Sono trascorsi 26 anni dal giorno in cui, in quest’Aula, da questo stesso posto, ebbi l’onore di protestare contro le violenze commesse a Bologna, in danno di Enrico Ferri.
Si era allora agli albori del fascismo – la parola «albori» forse non è appropriata, perché le tenebre non hanno albori – si era all’inizio del fascismo; perché il fascismo è cominciato proprio così: colle aggressioni agli uomini, che avevano il culto della libertà.
Si sentiva allora che qualcosa di grave pesava sul nostro Paese. Ed io vi confesso che, talvolta, mi pare ancora di sentire quell’afa del 1921. Ma allora non si sapeva dove si sarebbe andati a finire; oggi si dovrebbe sapere, se gli avvenimenti ci hanno insegnato qualcosa.
Allora, io mi rivolsi al Governo; oggi vorrei rivolgermi ai Partiti politici, a tutti i Partiti politici, che in questa Assemblea hanno i loro rappresentanti migliori. Io non intendo fare il processo ad alcun partito. Non voglio portare qui le risse del Paese. Voglio anch’io condividere le responsabilità, voglio anch’io assumere la mia parte di colpa, affinché ci si possa guardare negli occhi, serenamente, onestamente, tutti compresi della gravità di questo problema e tutti protesi alla ricerca della migliore soluzione.
Quando si trattò delle elezioni amministrative nella scorsa primavera, e poi, delle elezioni politiche del 2 giugno, tutti i partiti si trovarono d’accordo ed accettarono e pronunziarono una parola d’ordine, che dette risultato magnifico: rispetto di tutte le opinioni e di tutte le propagande.
E le elezioni – sotto la sorveglianza del Ministro Romita, il quale scrisse allora una pagina che gli farà sempre onore – si svolsero in un’atmosfera, civilissima e tranquillizzante, di libertà. Chi di noi non fu fiero di quel successo?
E, se si vuole, in questa stessa Assemblea – eccettuati alcuni incidenti determinati dall’affioramento di questioni personali che inacidiscono ed eccitano per loro natura – la discussione del progetto di Costituzione e dei più importanti problemi della nostra politica si è svolta alta e serena, in una forma, che qualunque Parlamento ci potrebbe invidiare.
Ed allora dico: perché non ci mettiamo d’accordo, per ripetere ancora una volta al Paese quella parola d’ordine? Una parola, che bolli e sconfessi tutte le violenze, da qualsiasi parte vengano? Perché non ci mettiamo d’accordo tutti per difendere questo patrimonio comune, che è la libertà, e per imporne il rispetto a tutti quelli che ci seguono senza eccezioni, senza restrizioni mentali, senza paura, affinché le violenze, se dovessero ancora continuare, non abbiano almeno una bandiera, in cui ammantarsi, non abbiano un partito politico dietro il quale pretendere l’impunità, e rimangono soltanto una esplosione di criminalità, per la quale basti il Codice penale?
Onorevoli colleghi, dopo tutto si tratta di una questione di lealtà, dirò di più: di una questione di onestà. Ed io vi pongo, questo dilemma: o tutti noi siamo sinceri, quando si parla e si scrive di democrazia e di libertà – e sono due anni che queste parole brillano su tanta carta e sono pronunciate da tante labbra – ed abbiamo allora il dovere di essere coerenti e di imporne e pretenderne il rispetto da tutti i nostri seguaci, per non far come il famoso padre Zappata, che predicava bene e razzolava male. O invece, Dio non lo voglia, non siamo sinceri, e queste parole democrazia e libertà sono soltanto parole vane che non salgono dalla nostra coscienza, ma escono dalla nostra bocca magari per inganni elettorali; ed allora smettiamo questa gesuitica commedia, leviamoci la maschera e parliamo chiaro, e confessiamo che la formula «o con noi o contro di noi» e quell’altra formula «io soltanto ho sempre ragione», che furono il nucleo centrale della presunzione fascista, non sono rimaste fra i cadaveri di Dongo, ma sono rientrate in Paese, raccolte da qualche sollecito successore. Ma allora, colleghi, dobbiamo rinnegare anche quei ragazzi che sono morti per ridarci la libertà! (Applausi).
SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo non può che accogliere e far proprio l’appello che l’onorevole interrogante ha rivolto all’Assemblea.
È proprio vero ciò che lo stesso interrogante ha detto: che la libertà politica non può essere garantita dalla polizia. Vana illusione è questa, o signori, di contare esclusivamente sulle forze di polizia. Se una coscienza ed un senso della democrazia non pervade tutti i partiti nella loro azione concreta, se l’azione di tutti i partiti non imporrà ai propri aderenti la disciplina coerente, e conseguente, vorrei dire, è vano parlare di democrazia ed è vano pensare alla libertà.
Io sento che nel Paese vi sono fremiti di agitazione, vi sono manifestazioni continue di intolleranza, che la polizia non sempre è in grado di prevenire, anche se reprime, perché nessun caso di violenza è rimasto ad oggi non denunciato all’Autorità giudiziaria.
Noi sentiamo che, soltanto se il senso di libertà pervaderà tutti gli italiani, potremo veramente assicurare al nostro Paese la libertà politica. E l’appello, che così altamente ha rivolto l’onorevole interrogante all’Assemblea, il Governo lo fa proprio e lo rivolge ai Deputati, ai Partiti e al Paese. In questo momento di turbamento economico, quando il disagio economico, largamente diffuso, è già motivo sufficiente per determinare uno stato di agitazione nel Paese, non aggiungiamo a questi elementi di turbamento politico, altri elementi di carattere politico, che vanno evitati; e non soltanto per l’interesse contingente, ma per affermare di fronte al Paese e di fronte all’estero, che ci guarda, che l’Italia ha finalmente rinunciato al fascismo, concretamente, nelle sue manifestazioni peggiori, che sono le manifestazioni di intolleranza e di violenza settaria, che tendono a togliere la libertà di parola alle altre correnti politiche. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.
Presidenza del Presidente TERRACINI
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Iniziamo l’esame dell’articolo 14:
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume».
Sono stati presentati numerosi emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Mastino Pietro ed è stato già svolto:
«Sopprimerlo in relazione all’emendamento sostitutivo dell’articolo 9».
Segue l’emendamento dell’onorevole Binni:
«Sostituirlo col seguente:
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto.
«Le confessioni religiose sono eguali di fronte alla legge e hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano».
L’onorevole Binni ha facoltà di svolgerlo.
BINNI. Durante la discussione dell’articolo 7, se vi fu una lunga e dura battaglia, tutti però, mi sembra, concordarono nel riconoscimento generale della libertà di religione e della libertà di culto; e, anzi, proprio i colleghi democratici cristiani affermarono la loro volontà di non legare, in alcun modo, l’inserzione dei Patti lateranensi ad una qualsiasi, possibile menomazione o violazione della libertà generale di religione. E proprio l’onorevole De Gasperi accennò esplicitamente alla buona volontà con cui il suo partito sarebbe venuto incontro a tutte le possibili modifiche, in sede legislativa, contro ogni limitazione o violazione possibile di questa libertà.
Ora io penso che qui, in sede di Costituzione, sarebbe il caso di attuare questa buona volontà generale e di attuarla soprattutto e anzitutto col togliere dalla nostra Costituzione quelle limitazioni che, secondo me, sono o inutilmente offensive o realmente dannose: e accenno all’ultima parte del primo comma dell’articolo 14, là dove si parla di «atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume».
È vero che l’onorevole Mortati, nel suo intervento nella discussione generale, fece rilevare che in effetto queste limitazioni sarebbero pur sempre rimaste valide nei decreti, nella legge comune e nei provvedimenti di polizia. Ma questo non mi pare un buon motivo per inserire queste limitazioni nella nostra Carta costituzionale; anzi mi sembra che, appunto perché si tratta di provvedimenti contenuti in decreti, in testi di polizia, appunto per ciò noi dovremmo risparmiare la loro inserzione nel testo della Costituzione, che deve avere massima sobrietà e solennità e, secondo me, non deve portare neppure l’ombra di qualsiasi irrispettosità, di qualsiasi offesa per culti o religioni delle quali noi abbiamo il massimo rispetto. Anche qui è il caso di ricordarci dell’ambiente storico in cui viviamo; ricordiamo che non siamo nell’Africa centrale, ma siamo in Italia; siamo una nazione in cui direi che perfino il più rozzo senso del numinoso ha trovato sempre la maniera di sublimarsi, in qualche modo, in forme comunque innocenti, entro il cerchio potente della religione tradizionale e non ha dovuto sceglier nessun culto di quelli che l’onorevole Nobile potrebbe chiamare forme e riti stravaganti. Anzi mi pare che questa proposta, onorevole Nobile, indichi ancora più questo carattere che mi pare sia offensivo e che può anche allargare l’arbitrarietà di una definizione di questi culti. Tra l’altro, a parte il fatto che a me sembra impossibile che ci siano fra noi questi culti stravaganti, questa adorazione, per esempio, dei serpenti o simili, sarebbe molto difficile dare una definizione di questo carattere di stravaganza. Se colui che giudica partisse da una mentalità arretratamente illuministica o strettamente razionalistica, dove si arriverebbe nella definizione di queste stravaganze? Mi pare che se anche questo punto del buon costume non sia così grave come l’altro punto dell’ordine pubblico, noi dovremmo rendere comunque in questo caso un comune omaggio allo spirito religioso che tutti ci può legare, al carattere serio della parola religione e della parola culto quale dobbiamo volere nella nostra Costituzione.
Quanto poi al punto dell’ordine pubblico, questa formula mi pare ancora più pericolosa, più rischiosa. È una di quelle formule che, pure essendo consuetudinarie in alcune Costituzioni – per quanto non si trovi nelle Costituzioni dei più grandi paesi democratici – appare estremamente pericolosa e direi ricca di tentazioni per chi ha il potere e può servirsene per i suoi scopi particolari.
L’onorevole Preti, nel suo intervento, ha portato numerosi esempi dello zelo inopportuno che durante il passato alcuni ministri di culto, sia pure periferici, sia pure dei bassi strati ecclesiastici, hanno dimostrato servendosi di questa formula dell’ordine pubblico per impedire la libertà di culto di alcune denominazioni protestanti. E, anche se questo non è il caso preciso, noi non possiamo dimenticare che con questa formula così generica e così insidiosa anche ad un uomo, che tutti ricordiamo con rispetto e alcuni di noi con venerazione, cioè ad Ernesto Buonajuti, fu impedito più volte di tenere delle pubbliche conferenze di carattere religioso, che non erano atti di culto, ma erano certamente una manifestazione di libertà di pensiero.
LABRIOLA. È il Concordato!
PRESIDENTE. Non interrompa, onorevole Labriola.
BINNI. Con la formula dell’articolo 14 si può impedire una manifestazione di libertà di pensiero, di libertà di religione. Epperciò io credo che questi pericoli ci siano veramente e che noi potremmo dare prova di generosità e di coraggio moderno, escludendo dalla nostra Costituzione quelle due limitazioni.
Quanto poi al secondo comma dell’articolo 14, esso risulta – come tutti sappiamo – dal trasferimento, proposto dall’onorevole Lucifero, dall’articolo 7 all’articolo 14. È evidente – ed io l’ammetto senza altro – che questo trasferimento porta con sé dei grossi inconvenienti dal punto di vista dell’armonia generale dell’articolo; porta degli inconvenienti, in quanto si può sentire una incongruenza, una certa contraddittorietà fra l’affermazione generale che qui noi facciamo (e che vogliamo fare, senza equivoci, perché questo è il nostro spirito ed è anche lo spirito per cui abbiamo votato contro l’articolo 7), cioè l’affermazione generale che le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge, e l’inserzione dei Patti lateranensi che si è avuta con la votazione dell’articolo 7.
Ora, in verità, se questa contradizione c’è – né potrebbe essere diversamente sanata – essa ad ogni modo non dipende certamente da noi che abbiamo votato contro l’articolo 7 e che prevedevamo questo caso e forse anche altri casi che potessero avvenire, cioè che lo strascico di questo articolo si sentisse anche in altre occasioni. Ad ogni modo, non spetta a noi di abbandonare un principio generale, e secondo noi essenziale ad uno Stato moderno, come quello della libertà e dell’uguaglianza delle confessioni religiose. Anzi, vorrei dire che in questo caso noi offriremmo alla Democrazia cristiana l’occasione di dimostrare praticamente quella volontà da essa enunciata di non legare l’inserzione dei Patti ad una limitazione delle altre confessioni religiose. Anche se, come ripeto, ci potrebbe essere qualche formulazione più adatta – e fin d’adesso mi dichiaro disposto, anche a nome del gruppo che qui rappresento, ad accettare una formulazione che potesse essere più adatta, e che secondo me potrebbe essere quella che so esser stata proposta dall’onorevole Cianca – quello che a noi preme, malgrado le formulazioni leggermente differenti che si possono adottare, è l’affermazione chiara e recisa dell’uguaglianza delle confessioni religiose, dell’eguaglianza dei culti. Ciò costituisce per noi un aspetto essenziale della nostra libertà, affinché la libertà scenda un po’ da quell’Olimpo di buone intenzioni, da quegli appelli magnanimi che risuonano più volte, di derivazione cristiana, o illuministica, o risorgimentale, e si precisi in garanzie per tutti i cittadini, affinché essi possano vivere e svolgersi in condizioni effettivamente libere ed effettivamente democratiche. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Pajetta Giancarlo e La Rocca:
«Sostituirlo col seguente:
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di riti contrari all’ordinamento giuridico dello Stato o al buon costume.
«Tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge e si reggono sulla base dei propri statuti. I loro rapporti con lo Stato sono regolati, ove sia richiesto, per legge, mediante intese con le rispettive rappresentanze».
Non essendo presente l’onorevole Pajetta, l’onorevole La Rocca ha facoltà di svolgerlo.
LA ROCCA. Credo che non sia il caso di svolgere questo emendamento, già ampiamente prospettato dall’onorevole Pajetta. Ritengo che qui si tratti di trasportare sul piano religioso un principio già affermato, riconosciuto e sancito sul piano politico. D’altra parte credo che non si possa in alcun modo contestare questo: che vi sarebbe veramente libertà religiosa, soltanto se tutte le organizzazioni religiose fossero poste sul medesimo piano, in condizioni di perfetta eguaglianza.
Io so, peraltro, che è stato proposto all’emendamento dell’onorevole Pajetta e mio un altro emendamento, dell’onorevole Laconi, che accetto in pieno, e al quale mi rimetto, aspettando che l’onorevole Laconi svolga questo concetto.
PRESIDENTE. Sono stati poi presentati, i seguenti emendamenti:
«Sopprimere le parole: principî o.
«Basso, Nobili Tito Oro, Giua, Pieri, Costantini, Grazi, Merighi, Tonello, Tega, De Michelis».
«Sopprimere le parole: all’ordine pubblico.
«Basso, Nobili Tito Oro, Giua, Pieri, Costantini, Grazi, Merighi, Tonello, Tega, De Michelis, Tomba».
«Aggiungere come secondo comma il terzo comma dell’articolo 5 del progetto, con i seguenti emendamenti:
«Soppressione della parola: altre, e delle parole: in quanto contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
«Sostituzione dell’ultima proposizione con la seguente: i loro rapporti con lo Stato sono regolati, se del caso, per legge, previa intesa con le rispettive rappresentanze.
«Basso, Nobili Tito Oro, Giua, Pieri, Costantini, Grazi, Merighi, Tonello, Tega, De Michelis».
Essendo dei firmatari presente l’onorevole Nobili Tito Oro, egli ha facoltà di svolgerli.
NOBILI TITO ORO. Mi pare, onorevoli colleghi, che la lettera del primo emendamento da noi proposto spieghi sufficientemente lo spirito e la portata delle modifiche che noi tendiamo ad apportare al testo del progetto. Esse mirano a rendere concreta, operante ed effettiva la libertà di culto che si garantisce a tutti i cittadini e partono dalla preoccupazione che questa garanzia non sia sufficientemente accordata dal testo del progetto; il quale riconosce bensì la libertà a tutti i cittadini di compiere pubblicamente e privatamente tutti gli atti del loro culto, ma la subordina alla condizione che non si tratti di principî e di riti contrarî all’ordine pubblico ed al buon costume.
Qui è da domandarsi quale sarà l’organo che dovrà decidere del concorso degli estremi per l’attuazione di questa eccezione al diritto della libertà di culto. Non v’è dubbio che dovranno essere necessariamente gli organi di polizia; ma noi rimetteremo agli organi di polizia, onorevole Tupini, il decidere e il giudicare intorno ai principî di una fede religiosa? Ammetteremo noi che i principî di una fede religiosa, i quali si consustanziano con la fede stessa, possano costituire oggetto di esame da parte di elementi estranei a quella fede? Questo è assurdo e contraddice all’essenza della stessa libertà religiosa e pertanto mi pare che l’espressione «principî» debba essere senz’altro esclusa dalla formula del testo.
Ma questo soggiunge che principî e riti non debbano essere contrari all’ordine pubblico. Senonché, quello dell’ordine pubblico è criterio troppo evanescente e troppo spesso preso a pretesto da funzionarî di polizia per non permettere quelle manifestazioni che ad essi fa comodo di non permettere, e che potrebbero essere anche sconsigliate e non volute dai Governi del tempo.
È dunque troppo soggettivo, troppo elastico e troppo facilmente invocabile questo criterio, perché si possa ad esso affidare il regolamento di una libertà che interessa la grande maggioranza dei cittadini. Noi crediamo pertanto che debba essere soppresso anche il criterio discriminativo dell’ordine pubblico.
Ho visto che in altro emendamento si propone di sostituire al criterio dell’«ordine pubblico» quello dell’«ordinamento giuridico»; ma la situazione non verrebbe migliorata, in quanto resterebbe sempre in potere del Governo promuovere riforme legislative atte a impedire manifestazioni di culti ad esso non accetti.
Io ho svolto l’emendamento proposto dal nostro gruppo, ma il fatto di aver trasferito in questa sede l’ultimo comma dell’articolo 5, oggi 7, del progetto di Costituzione, mi pone innanzi ad un’altra considerazione, che io sottopongo ora al giudizio dell’onorevole Commissione: l’ultimo comma dell’articolo prevede che i rapporti tra lo Stato e le chiese siano regolati da leggi. Basteranno dunque queste leggi ad eliminare tutti i dubbî che possano sorgere in ordine ai riti, così che, presentandosi casi di riti ritenuti contrari al buon costume, possano in tale sede esser presi gli accordi al riguardo necessari fra Stato e chiese interessate.
Parmi, pertanto che si possa sopprimere addirittura l’intero inciso che riguarda l’eccezione e fermare il testo del progetto alla parola: «culti». Questa è la mia personale proposta. (Applausi a sinistra).
Resta il secondo emendamento; la sua portata è evidente. Per rispetto al principio che alla libertà di culto debba corrispondere la libertà della Chiesa, si propone che la regolazione dei rapporti collo Stato mediante la legge prevista avvenga soltanto «se del caso»; ossia, o a richiesta della chiesa interessata, o per gravi ragioni lasciate alla valutazione del Governo.
PRESIDENTE. L’onorevole Lucifero ha presentato il seguente emendamento:
«Al terzo comma dell’articolo 7 (già articolo 5 del Progetto), divenuto secondo comma dell’articolo 14, sostituire le parole: Le altre confessioni, con le parole: Tutte le confessioni».
Ha facoltà di svolgerlo.
LUCIFERO. Io non ho da insistere sul mio emendamento, che fu semplicemente una correzione di forma allorquando proposi lo spostamento del capoverso, che era quello che mi premeva e che l’Assemblea ha ritenuto di accogliere. Oggi, l’unico concetto che fondamentalmente mi interessa è l’affermazione di uguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge. Quindi, il mio emendamento non ha ragione di essere e voterò per uno di quegli emendamenti che mi sembrerà meglio corrispondente al mio pensiero in questo senso.
PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha già svolto il suo emendamento: «dopo la parola: riti, aggiungere la parola stravaganti». Egli però ha successivamente proposto di modificare come segue l’ultima proposizione dell’articolo 14: «purché non si tratti di principî o riti contrari alla civiltà, all’ordine pubblico o al buon costume».
Chiedo all’onorevole Nobile se intende svolgere questa modificazione apportata all’emendamento già presentato.
NOBILE. Non avrei nulla da aggiungere. Convengo perfettamente con le ragioni addotte poco fa dai colleghi che mi hanno preceduto, per quanto riguarda forse la opportunità di fermarsi alle parole «buon costume»; ma se si mantiene, come è stato proposto dalla Commissione, questo inciso, quest’ultima proposizione, cioè di escludere i riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume, in questo momento a me sembra indispensabile che si considerino anche quegli altri riti, e ce n’è una quantità enorme, soprattutto nell’America del Nord, che sono delle vere e proprie aberrazioni, e sono contrarie al buon senso, all’intelligenza, alla civiltà.
Io potrei mostrare proprio qui, in una rivista che è giunta qualche settimana fa dall’America, delle fotografie dove si vedono delle giovani donne che sono ministri di questo culto, che già da molti anni si osserva nello Stato del Texas, e che portano recinti al collo dei serpenti. Questo Stato, soltanto in questi giorni, ha sentito la necessità di reprimere l’uso dei serpenti; ma ricordo di avere assistito in America ad altre manifestazioni più stravaganti di queste.
Coi contatti avuti in questi ultimi tempi con gli americani e soprattutto con i negri, non ci sarebbe da meravigliarsi che si ammettessero queste aberrazioni! Ecco perché io mantengo il mio emendamento.
PRESIDENTE. L’onorevole Laconi ha presentato un emendamento al quale l’onorevole La Rocca ha detto di aderire, rinunciando al proprio:
«Sostituire l’articolo col seguente:
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di riti contrari all’ordinamento giuridico dello Stato o al buon costume.
«Tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge.
«Le confessioni religiose si reggono sulla base dei propri statuti, e i loro rapporti con lo Stato sono regolati, ove sia richiesto, per legge, mediante intese con le rispettive rappresentanze, salvo quanto disposto dall’articolo 7».
L’onorevole Laconi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.
LACONI. Come è stato giustamente rilevato, il mio emendamento riprende essenzialmente i motivi dell’emendamento degli onorevoli Pajetta Giancarlo e la Rocca, ed inoltre tiene conto di alcune preoccupazioni emerse durante la redazione del testo in seno alla Commissione.
Per quanto riguarda le variazioni introdotte con l’emendamento Pajetta Giancarlo, ne dirò le ragioni, dato che l’onorevole La Rocca vi ha rinunciato.
La prima di queste modificazioni è quella relativa alla soppressione della parola «principî». Io non credo di dover esporre diffusamente i motivi di questa variazione, perché già lo ha fatto l’onorevole Nobili Tito Oro. Qui si tratta, in sostanza, di precludere la possibilità all’Autorità di pubblica sicurezza di intervenire in una valutazione, che dovrebbe essere puramente ideologica, del contenuto delle diverse religioni e della loro aderenza o meno ai principî generali che informano l’ordinamento dello Stato. Un’indagine di questo genere uscirebbe dalla possibilità e dalla competenza dello Stato.
La seconda modificazione consiste nel trasportare la frase «contrari all’ordinamento giuridico» nella prima parte dell’articolo. Tutti hanno infatti rilevato che non può mettersi in una parte «ordinamento giuridico» e in un’altra parte «ordine pubblico».
Vi è finalmente il punto sostanziale, cioè l’affermazione nuova che viene introdotta in questa formulazione e che concerne l’eguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge.
Tutti conoscono la storia di questa nuova introduzione. Una richiesta in questo senso è stata avanzata dalle principali confessioni religiose che vi sono oggi in Italia oltre quella cattolica; particolarmente è stata avanzata dagli israeliti e dagli evangelici. Noi riteniamo che questa richiesta sia giusta e che abbia la sua ragion d’essere. Io vorrei rilevare che quando noi abbiamo disciplinato i rapporti con la Chiesa cattolica nell’articolo 7, abbiamo inteso disciplinare dei rapporti giuridici con un’organizzazione giuridica. Qui noi siamo in tutt’altra sede: siamo nella parte che concerne i diritti e i doveri dei cittadini in ordine ai rapporti civili, e si tratta di stabilire quale sia il riconoscimento o meno che lo Stato dà alle diverse confessioni religiose, in quanto tali e non ancora in quanto organizzazioni giuridiche. Per questo mi pare che l’affermazione dell’eguaglianza di tutte le confessioni religiose, senza distinzione di sorta, valga ad affermare quel principio di laicità dello Stato che noi non crediamo compromesso dai riconoscimenti fatti all’articolo 7.
Nell’emendamento Pajetta vi è un’altra modificazione ed è la frase «i loro rapporti con lo Stato sono regolati, ove sia richiesto, per legge». Anche questa modificazione è stata richiesta da determinate confessioni religiose, le quali intendono e desiderano considerarsi come delle associazioni private.
Queste sono le modificazioni introdotte dall’emendamento Pajetta. Nel corso della discussione in seno al Comitato di redazione sono state avanzate delle preoccupazioni.
Si è osservato – e con una certa legittimità – che lo spostamento dall’articolo 7 all’articolo 14 di questa parte, verrebbe a stabilire principî che appaiono in contradizione con altri stabiliti con l’articolo 7. Si è detto che con l’articolo 7 si sono disciplinate le relazioni con una particolare confessione religiosa, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, e che questo regolamento potrebbe costituire una contradizione con quanto disposto nell’articolo 14.
Io non credo che questa contradizione ci sia, o per lo meno non credo che ci sia del tutto. Perché mi pare che quanto è stabilito dall’articolo 7 riguardi la Chiesa cattolica come ordinamento giuridico. Infatti, si stabilisce che lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Si badi: la Chiesa cattolica, non la confessione cattolica, e alla Chiesa cattolica, si fa anche riferimento più sotto là dove si riconoscono i Patti lateranensi, alla Chiesa cattolica e alla Città del Vaticano che è uno Stato sovrano.
Non credo dunque che vi sia contradizione tra l’articolo 7 e l’articolo 14. Perché nell’articolo 14 non siamo ancora, per quanto riguarda le confessioni religiose, al momento giuridico in cui le comunità dei fedeli si organizzano e, quindi, richiedono che siano regolati i loro rapporti con lo Stato. Ci troviamo invece ancora nel momento originario, quando gli individui come singoli costituiscono una comunità di fedeli. Ed a questo punto la nostra affermazione di eguaglianza di tutte le confessioni religiose nei loro rapporti con lo Stato deve essere piena e totale.
Su questa materia non possiamo stabilire diversamente, perché dobbiamo renderci conto del grave significato che avrebbe ogni limitazione. Se noi, infatti, introducessimo una eccezione per la Chiesa cattolica, questa eccezione significherebbe voler costituire un privilegio per una determinata confessione religiosa, il che si tradurrebbe nella confessionalità dello Stato.
Si è detto che lo Stato italiano non può disconoscere che differenze di fatto esistono fra una confessione religiosa e l’altra. Ma queste differenze esistono per tutte le confessioni egualmente. Mentre, se un’eccezione si facesse per la Chiesa cattolica in questo articolo, noi stabiliremmo una distinzione particolare per una confessione, a cui si verrebbero a riconoscere, in quanto tale, particolari diritti.
Giusta è l’eccezione per quanto riguarda la seconda parte di questo comma. È esatto che vi è una coincidenza d’argomento quando si abbandona il terreno della confessione religiosa e si entra nel terreno della confessione già organizzata. A questo punto noi non possiamo ignorare che in altri articoli della Costituzione abbiamo stabilito delle eccezioni a favore della Chiesa cattolica, ed è quindi giusto che a questo punto sia stabilito un richiamo all’articolo 7. È per questo che io propongo la seguente formulazione:
«Le confessioni religiose si reggono sulla base dei loro Statuti, e i loro rapporti con lo Stato sono regolati, ove sia richiesto, per legge, mediante intese con le rispettive rappresentanze, salvo quanto disposto dall’articolo 7».
Per tutte queste ragioni ho presentato l’emendamento.
PRESIDENTE. È stato presentato il seguente emendamento, a firma degli onorevoli Cianca, Calamandrei, Foa, Schiavetti, Giua, Lombardo Ivan Matteo, Bonomi Ivanoe, Paris, Buffoni, Cevolotto, Vischioni, Conti e Natoli:
«Sostituire l’articolo col seguente:
«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato e in pubblico atti di culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
«Tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge.
«Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti. I rapporti con lo Stato, ove esse lo richiedano, sono regolati per legge sulla base di intese con le rispettive rappresentanze».
L’onorevole Cianca ha facoltà di svolgerlo.
CIANCA. Nella prima parte dell’articolo noi proponiamo di sopprimere le parole «principî» ed «ordine pubblico».
Ci rendiamo perfettamente conto delle ragioni esposte dai colleghi onorevoli Binni e Nobili Tito Oro, circa l’opportunità che l’articolo termini con le parole «atti di culto».
Per questo aderiamo all’emendamento, più comprensivo, da loro proposto.
In quanto alla seconda parte dell’articolo, appare evidente il nostro sforzo di conciliare le diverse tendenze ed esigenze che si sono manifestate in questo dibattito. Per le ragioni dette dall’onorevole Laconi, abbiamo voluto ed intendiamo riaffermare il principio dell’eguaglianza di tutte le fedi religiose; principio contro il quale nessun oratore in quest’Aula ha osato levarsi. Chi avesse fatto una eccezione di questo genere, avrebbe dato la sua adesione al principio dello Stato confessionale.
D’altronde, l’affermazione dell’eguaglianza delle confessioni scaturisce dalla prima parte dell’articolo 14, il quale afferma che ogni cittadino ha diritto di esercitare liberamente la propria professione religiosa.
Noi ci preoccupiamo, però – e qui rispondo anche all’osservazione dell’onorevole Laconi – di tener conto di uno stato di fatto.
Lo abbiamo detto durante il dibattito svoltosi per l’articolo 7 e lo ripetiamo oggi. Questo stato di fatto mostra che la maggioranza degli italiani professa la religione cattolica.
L’articolo 7 riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, in una formulazione risultante dalla volontà della maggioranza.
Noi abbiamo esposto le ragioni per le quali siamo contrari all’articolo 7; il quale include, a nostro giudizio, un pericolo contro la eguaglianza delle fedi religiose, che, in linea teorica, è qui da tutti accettata.
È perché teniamo conto del fatto storico, per cui la religione cattolica è professata dalla grande maggioranza degli italiani, che nel nostro emendamento prendiamo atto del trattamento che la maggioranza di questa Assemblea ha fatto alla Chiesa cattolica votando l’articolo 7. E, per quel che riguarda le altre confessioni religiose, proponiamo di disciplinare la materia secondo la formula contenuta nell’ultima parte del nostro emendamento.
Siamo d’accordo con l’onorevole Laconi: bisogna prima affermare in linea di principio l’eguaglianza di tutte le fedi religiose; quanto all’organizzazione giuridica di tale principio, mentre da un lato si riconosce l’opportunità del regime concordatario nei rapporti fra la Chiesa cattolica è lo Stato italiano, d’altro lato si deve assicurare a tutte le altre confessioni religiose il diritto di organizzarsi secondo i proprî statuti. In conclusione, noi crediamo che (salvo a concordarci con i colleghi per un unico emendamento che esprima in una formula più opportuna il pensiero comune a tutti) votare contro il nostro emendamento, cioè contro il principio informatore di esso, significhi votare contro l’eguaglianza e la libertà di cui parlava il collega Lucifero, significhi votare per lo Stato confessionale ai danni della pace religiosa. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle ore 16.
La seduta termina alle 12.20.