Come nasce la Costituzione

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POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 27 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 27 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

La Malfa                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Grilli                                                                                                                

Bertini, Presidente della Giunta delle elezioni                                                     

Giua                                                                                                                  

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Di Gloria                                                                                                          

Leone Giovanni                                                                                                

Grilli                                                                                                                

Cavallari                                                                                                        

Mastino Pietro                                                                                                

Trimarchi                                                                                                         

Nobile                                                                                                               

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

Sul processo verbale.

LA MALFA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Per cause indipendenti dalla mia volontà, sono rimasto assente dalla seduta dell’altro ieri ed anche dalla lettura del processo verbale di ieri. Dichiaro che, se fossi stato presente, avrei votato contro l’articolo 7 della Costituzione.

PRESIDENTE. A questo proposito, l’onorevole Rognoni mi ha inviato un telegramma da Padova, pregandomi di comunicare che, se fosse stato presente alla seduta di martedì, avrebbe votato favorevolmente all’articolo 7 della Costituzione.

Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella sua riunione di ieri, ha verificato non essere contestabili le elezioni dei Deputati: Carmelo Caristia, Orazio Condorelli e Umberto Fiore, per la circoscrizione di Catania (XXIX); e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida l’elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione, e salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

GRILLI. Chiedo la parola.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRILLI. Ho una curiosità legittima che vorrei sodisfare, ed è questa: se non erro, i casi sottoposti alla Giunta delle elezioni per la provincia di Catania, erano tre. Due sono stati risolti; vorrei sapere perché non è stato risolto il terzo caso ed a che punto si trova questa procedura; vorrei anche sapere, se è lecito, quanto ci sia di vero nella notizia, pervenutami in questo momento, che due membri della Giunta delle elezioni hanno, per protesta, rassegnate le loro dimissioni.

Chiedo al Presidente che si compiaccia di interrogare il Presidente della Giunta delle elezioni.

PRESIDENTE. Onorevole Grilli, io non interrogherò il Presidente della Giunta delle elezioni, perché, se mi facessi mediatore verso di lui di queste sue richieste, mi farei esecutore di un intervento presso la Giunta delle elezioni, che né il Regolamento permette, né – e lei me lo insegna da ottimo avvocato quale è – in qualunque procedura, di fronte a qualunque magistratura, sarebbe permesso ed ammesso.

La Giunta delle elezioni è una magistratura e non è permesso porle questioni prima che essa abbia deposto, di fronte all’Assemblea, le conclusioni delle indagini sui singoli casi che essa esamina. Pertanto vorrà scusarmi se non mi faccio interprete dei suoi desideri presso la Giunta delle elezioni e se non do a nessun rappresentante della Giunta stessa la parola su questo argomento.

Posso aggiungere, tuttavia, a titolo di spiegazione che può servire ai due colleghi, che si dice – lei lo afferma – abbiano voluto o intendano presentare, in forma di protesta, le dimissioni, che, a norma del Regolamento, non sono ammesse dimissioni dalla Giunta delle elezioni, come nessun magistrato può rinunciare alla sua funzione, una volta che l’ha assunta. La Giunta delle elezioni è nominata e resta in carica con tutti i suoi membri sino alla fine del suo mandato. E, se dimissioni mi perverranno, io risponderò in questo senso ai colleghi che le presentassero.

BERTINI, Presidente della Giunta delle elezioni. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTINI, Presidente della Giunta delle elezioni. Rispetto la massima stabilita dal nostro onorevole Presidente, perché è quella che regola i rapporti tra la Giunta delle elezioni e l’Assemblea Costituente. Peraltro, entro questi limiti, vorrei pregare l’onorevole Presidente di permettermi di dare ai colleghi qualche brevissima comunicazione di questo fatto; il che vorrei fare non soltanto con piena spontaneità, ma anche col desiderio che si sappia da tutti con quale indipendenza e con quale imparzialità hanno proceduto e procedono i lavori del consesso che mi onoro di presiedere. Se il signor Presidente crede, a questo solo fine, di permettermi di parlare, io assolverò con molta delicatezza e con molta brevità il mio compito.

PRESIDENTE. In questa maniera si aprirebbe la discussione. Ritengo veramente che non sia possibile, perché in fondo – diciamo le cose nei loro termini più espliciti – si tratterebbe di una discussione la quale ha in sé elementi di carattere politico, e si può comprendere facilmente come su un procedimento che ha carattere giudiziario, debba evitarsi ogni interferenza di elementi non direttamente connessi che possano esercitare sul giudizio una certa influenza. Guai a quei magistrati sulle cui operazioni potesse esercitarsi anche indirettamente una certa influenza di carattere politico! E poiché noi sappiamo quale è la caratteristica di questa controversia che attualmente affatica la Giunta delle elezioni, credo veramente che sia opportuno, onorevole Bertini, che ella non sodisfi la legittima curiosità di molti colleghi. D’altra parte, essi l’hanno già sodisfatta perché, se pongono la questione, vuol dire che sanno che esiste, e se sanno che esiste ne conoscono già completamente il contenuto.

BERTINI, Presidente della Giunta, delle elezioni. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTINI, Presidente della Giunta delle elezioni. Io non so se posso addirittura esorbitare dai limiti del mandato a cui autorevolmente ella, signor Presidente, mi richiama. Tuttavia lascio a lei la valutazione dell’opportunità e della legittimità o meno di fare queste dichiarazioni, nel senso a cui ho accennato.

PRESIDENTE. Onorevole Bertini, le riconfermo che ritengo non opportuno e, a rigore di termini, che non sia neanche legittimo che ella parli. Credo, peraltro, che non esista una particolare ragione, perché ella debba dare all’onorevole Grilli la risposta al quesito che ha posto, e penso altresì che è assolutamente da escludere un avvio alla risoluzione della questione in seno all’Assemblea, prima che essa sia stata risolta in seno alla Giunta delle elezioni. Penso poi – come d’altra parte tutti i precedenti confermano – che la Giunta delle elezioni deve giungere qui con una proposta precisa, ed è solo in quel momento che l’Assemblea può discuterla e anche eventualmente respingerla. Ma sino a quel momento ritengo che l’Assemblea non possa dire nulla sui problemi connessi alla verifica di una elezione.

GIUA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIUA. Come membro della Giunta delle elezioni, e dato l’intervento del Presidente di questa Giunta, rivolgo preghiera al signor Presidente perché chieda al Presidente della Giunta delle elezioni se egli intendeva parlare come Presidente o come membro di una minoranza che si è stabilita nell’ultima votazione avvenuta. (Commenti).

PRESIDENTE. Sono grato all’onorevole Giua del suo intervento, perché sta a dimostrare dove andremmo se l’onorevole Bertini prendesse la parola e avessimo quindi, inevitabilmente, una discussione. Pertanto, ritengo di rispondere alla convinzione della maggior parte dei membri dell’Assemblea, pregando i colleghi di rinunciare a trattare questa questione e di attendere che la Giunta delle elezioni ci dia le sue conclusioni definitive.

BERTINI, Presidente della Giunta delle elezioni. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTINI, Presidente della Giunta delle elezioni. Si è accennato, da parte dell’onorevole Giua, al dilemma se io avessi avuto intenzione di parlare come Presidente, o come membro in minoranza della Giunta: io sono Presidente, ma non so ancora se sono in minoranza nella Giunta, per la semplice ragione che non feci qualunquesiasi cosa che rappresentasse una proposta mia. Io semplicemente informai la Giunta di elementi di fatto su cui essa doveva riferire; non vi era, quindi alcun riferimento alla condizione mia di Presidente.

GIUA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa, onorevole Giua? La prego, risponda all’onorevole Bertini nel Transatlantico: penso che le darà in quella sede la migliore sodisfazione. (Si ride).

GRILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

GRILLI. Per osservare questo; non intendo fare una discussione di regolamento con l’onorevole Presidente; ho per l’onorevole Presidente una grande ammirazione ed una grande considerazione, e mi sottopongo ben volentieri ai suoi consigli ed ai suoi desideri. Ma volevo semplicemente osservare che non chiedevo al Presidente della Giunta delle elezioni che ci svelasse i suoi segreti di magistrato: per l’amor di Dio!, la Giunta delle elezioni faccia quello che vuole. Desideravo solo sapere, come deputato, se è vero che due magistrati della Giunta delle elezioni abbiano rassegnato le loro dimissioni per protesta.

A me non importa se essi lo potessero o non lo potessero fare e se, di conseguenza, le loro dimissioni abbiano ad essere accettate o meno. A me interessa il fatto in sé; mi pare che si possa chiedere se questo fatto sia vero o no, senza con questo turbare il giudizio che sarà per dare la Giunta delle elezioni, perché l’Assemblea ha diritto di sapere se questa Giunta funziona regolarmente o no.

PRESIDENTE. Onorevole Grilli, l’articolo 20 del Regolamento stabilisce che quand’anche, nonostante che non lo possano, dei membri della Giunta diano le dimissioni, il Presidente dell’Assemblea non le deve comunicare: figurarsi quindi se debba farlo il Presidente della Giunta delle elezioni! Pertanto una comunicazione ufficiale in proposito, per confermare o per smentire, costituirebbe un atto nettamente contrario al Regolamento.

GRILLI. Mi dispiace per il Regolamento. (Si ride).

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito delia discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Di Gloria. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, si è già parlato in modo abbastanza esauriente, dal punto di vista tecnico-giuridico, intorno al primo titolo della prima parte del progetto di Costituzione. Sono state fatte molte acute osservazioni su tutta quanta l’articolazione della materia e non desidero ripetere quanto è stato già detto. D’altra parte, il primo titolo, nel suo insieme, contiene delle verità inconcusse; e l’unico modo per onorare la verità è quello di prenderne atto.

Cercherò di dare all’argomento in discussione un’impostazione prevalentemente politica; tanto più che l’amico onorevole Bettiol me ne ha dato lo spunto quando ha affermato solennemente ed efficacemente che gli articoli contenuti nel primo titolo della prima parte del progetto di Costituzione sono stati scritti con il sangue del popolo italiano.

Il diritto, come è noto, è un’attività relazionale, fondata cioè sulla coesistenza di più soggetti. Il diritto, quindi, mira – come ci ha insegnato un illustre uomo di pensiero, il Del Vecchio – ad instaurare la coordinazione obiettiva delle azioni che sono possibili fra più soggetti. È naturale, quindi, che i diritti civili, ossia in senso lato le libertà personali, siano e rimangano il fondamento della società, rendendo possibile quella coesistenza di arbitri di cui parla Emanuele Kant e quella realis et personalis proportio hominis ad hominem, di cui discorre l’Alighieri nel suo «De Monarchia».

L’Inghilterra, che ha una lunga e gloriosa tradizione costituzionale – anche se non raccolta in un tutto organico – proclamò nell’Habeas corpus le guarantige della libertà personale. La Francia, che nel 1789 dichiarò solennemente i principî della democrazia politica, non ha ritenuto opportuno inserire questi principî nella sua Carta costituzionale. In Francia, evidentemente, non si può ammettere, neppure in via di ipotesi, che qualcuno debba o possa violare questi principî; e la mancata inserzione di essi nella Carta costituzionale suona come una piena fiducia della loro pratica osservanza. Felice la Francia se può contare su tanto!

Questo episodio mi ricorda quegli antichi legislatori, i quali non vollero dettare nessuna punizione per il parricidio, poiché pensavano che un simile delitto non sarebbe mai stato compiuto dai propri cittadini, dai propri sudditi. Del resto, il fatto che questi principî sono ormai acquisiti anche dal punto di vista storico, lo dimostra anche questa osservazione: tutti gli Stati, persino gli Stati totalitari, hanno sentito e sentono il bisogno di proclamare e di sancire questi principî nelle loro Carte costituzionali, più o meno mendaci.

E noi, come dobbiamo comportarci? Dobbiamo e possiamo comportarci come la Francia? L’onorevole Ruini pensa di no, ed io sono pure del suo avviso. Il fascismo, se anche ha fatto comprendere il valore di questi principî a molti italiani, li ha fatto cadere in desuetudine presso la maggioranza del popolo. Un giorno l’onorevole Nitti, parlando, in quest’aula, sulle dichiarazioni del Governo, disse che in Italia non c’è il pericolo che il fascismo ritorni. Io invece penso che in Italia ci sia il pericolo che il fascismo non se ne vada. E che cosa è il fascismo? Basta negare al popolo i diritti di cui al titolo I della prima parte del progetto di Costituzione; basta impedire il godimento di questi principî, e si è già dato vita ad una nuova forma di fascismo. Guy Mollet, socialista francese, in un mirabile articolo: «Chi sono i fascisti?», si esprime press’a poco così: «Si è fascisti quando si vuole imporre o con la forza o con l’inganno il nostro modo di pensare e di vivere agli altri. Si è fascisti, quando si auspica la scomparsa o l’annientamento di tutti coloro che non la pensano come noi, per il solo fatto che non la pensano come noi. Si è fascisti quando si applica nella nostra vita il motto machiavellico: «Il fine giustifica i mezzi».

«Si è fascisti, – prosegue il Mollet – quando si lascia ad altri la preoccupazione di pensare in nostra vece e si è, nello stesso tempo, pieni di quell’insensato orgoglio che ci fa credere di essere i detentori di tutta la verità di quella vile insufficienza che ci fa proni alla volontà dei capi.

«La storia altro non è che il racconto della lotta tra fascismo e afascismo, tra tolleranza e intolleranza. Tutte le religioni, tutte le filosofie, tutte le grandi idee hanno avuto le loro vittime del fascismo e i loro fascisti militanti. Se si vuole che il nostro pensiero sia rispettato, bisogna incominciare col rispettare il pensiero altrui. Uccidiamo, quindi, il fascista che sonnecchia in noi! Uccidiamolo!».

Se in Italia si vuol distruggere veramente il fascismo, occorre che gli articoli 12, 14 e 16, quelli che riaffermano il diritto dell’uomo alla libertà di pensiero, alla libertà di culto e di religione, alla libertà di stampa, alla libertà di organizzazione, diventino norme di vita costante del popolo, di tutti noi, e che siano integrati, completati, sostanziati da tutta la possibile giustizia economica.

Il fascismo ha fatto adorare alle masse la forza bruta; ha posto a fondamento del diritto la sola forza bruta. Noi dovremo insegnare e con la parola e con i fatti che il diritto non è la forza, anche se ha bisogno di una certa forza, e che coloro che credono nella forza, in definitiva non credono in nulla, poiché la forza è un fatto e i fatti si constatano e non possono essere oggetto di culto.

Una tipica manifestazione di fascismo l’abbiamo avuta anche alcuni giorni fa in Italia, quando molti giornalisti, facendo eco agli attacchi di Finocchiaro Aprile contro alcuni colleghi di questo consesso, hanno creduto di poter ricoprire di fango il volto della rinata democrazia. (Approvazioni).

Si ricordino questi giornalisti che la democrazia si difende e si fortifica facendo piena luce sulle malefatte, quando ci sono, e non cercando di nasconderle per una malintesa ragione di Stato.

Ad un saggio fu domandato un giorno cosa pensasse su siffatta questione. Gli fu detto: «Ci sono due paesi. In uno si sa che gli uomini commettono delle colpe, e gli uomini che commettono queste colpe possono essere chiamati a giudizio per risponderne. Nell’altro paese, invece, non si sa nulla; sembra che tutto proceda bene. In quale dei due paesi vorresti andare?».

Il saggio, che non a torlo era un saggio, rispose: «Nel primo».

Fortunati quei paesi dove avvengono gli scandali!

Anche pochi giorni fa in quest’Aula si è vista calare una tenue ombra di fascismo quando si è innalzata la tattica sugli altari della quasi generale devozione. Meglio, molto meglio, affrontare l’impopolarità di tutto il Paese per la difesa di quello che crediamo giusto, piuttosto che sacrificare il nostro intimo convincimento per fini non confessati! E poi io penso che quando si è costretti a servirci di mezzi poco onesti per raggiungere determinati fini, ci sono o ci possono essere serie ragioni da farci dubitare della bontà stessa dei fini proposti.

L’inganno e la fede sono termini contradittori.

Fra i diritti di libertà, particolarmente importante mi sembra quello proclamato dall’articolo 17, che suona così: «Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica».

In tutti i Paesi dove la democrazia non è pratica di vita cresce rigogliosa la viltà. Tutti gli uomini sono costretti a nascondere le proprie idee perché non si dia corso, a loro pregiudizio, a quello che gli americani chiamano lo spoils system.

È sommamente necessario che in Italia il carcere, l’esilio, l’estromissione dall’impiego sieno punizioni riservate solamente ai delinquenti. Non si devono più prendere a fucilate le idee perseguitando i loro onesti e coraggiosi seguaci! Nessun cittadino quindi, d’ora innanzi, dovrà temere né per sé né per i suoi nessuna rappresaglia per il solo fatto di seguire una determinata idea politica, filosofica, scientifica, religiosa.

Se ciò non sarà, non meriteremo mai il nome di popolo civile, anche se i principî di libertà figureranno, come figurano, nella nostra Carta costituzionale.

Una disposizione interessante, molto interessante, è contenuta nell’articolo 11, il quale fa dell’Italia, in determinate condizioni, un sicuro asilo per i perseguitati politici. Trovo nobile tutto questo, specialmente se si pensa alle benemerenze che si sono conquistate nella storia civile dei popoli la piccola Olanda nel Seicento e la Francia e l’Inghilterra dal Settecento in poi.

Circa gli articoli 20 e seguenti, quelli che riaffermano il principio del nullum crimen sine lege, della nulla poena sine lege, della non retroattività della legge ed altro, io penso che si tratta di materia incostituzionale e che questi articoli troverebbero meglio il loro posto nel Codice penale, nel Codice di procedura penale e nei regolamenti di diritto penitenziario.

Perciò mi associo fin da ora a coloro che faranno formale richiesta di soppressione di questi articoli. Perché non sembri esagerata la richiesta, basterà osservare che si tratta di semplici corollari dei già proclamati diritti dì libertà personale.

Rispetto poi al diritto di cui all’articolo 14, voglio sperare che la Democrazia cristiana, e parlo da cristiano sincero nonostante che io militi in campo politico avverso, dimostri tutta la sua buona volontà nell’assicurare la più ampia libertà d’azione a tutte le confessioni religiose acattoliche. Quindi sono d’avviso che si tolga dal testo dell’articolo la proposizione limitativa: «purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume».

Prima di chiudere questa mia breve esposizione, desidero fare ancora un’osservazione.

Nella vita politica si possono seguire due strade: o si segue la strada di coloro che vogliono essere sempre sinceri con se stessi e con gli altri; oppure si segue la strada di coloro che si compiacciono degli astuti e squisiti espedienti machiavellici. Chi segue la prima strada viene considerato come un ingenuo e come un predestinato alla rovina. Si può ricordare a questo proposito l’avvertimento del Machiavelli: «L’uomo che voglia fare continue professioni di onestà infra coloro che tali non sono è giocoforza che ruini».

Coloro che seguono la seconda strada sono ritenuti dei furbi e degli intelligenti. Orbene, se è una ingenuità il volere essere sempre sinceri, è spesso una maggiore ingenuità il voler fare i furbi e pensare che gli altri non se ne accorgano.

Noi cercheremo sempre di disprezzare questa specie di furberia, tanto più che osiamo convinti che il popolo italiano farà tesoro della massima aristotelica la quale dice che uno Stato è governato meglio da un ottimo uomo che non da un’ottima legge.

Quindi io auguro al popolo italiano che, d’ora innanzi, possa trovare dei reggitori che garantiscano la Costituzione, anziché dei reggitori contro i quali si debbano invocare le garanzie della Costituzione.

Se ognuno di noi, se ogni italiano considererà, e nei propri riguardi e nei riguardi altrui, la persona umana come fine e mai come mezzo, noi riusciremo a dare forza al diritto contro i diritti della forza.

A ciò giungeremo tanto più facilmente quanto più volentieri riconosceremo le ragioni dei nostri avversari quando essi avranno ragione. L’uomo deve essere sacro per l’altro uomo: questo è l’insegnamento che la commissione dei Settantacinque ci ha dato con la solenne riaffermazione dei principî della libertà personale.

La funzione dello Stato in questa materia è una funzione più negativa che positiva, di riguardosa astensione, più che di intervento facoltizzante. Anzi, se lo Stato domani dovesse essere costretto ad intervenire in questo campo, in difesa della libertà, proprio intervenendo, mortificherebbe alquanto quelle libertà stesse. Quindi dipenderà da noi, soprattutto da noi, se le parole che l’Assemblea Costituente riuscirà ad inserire in questo primo titolo non saranno state scritte sulla sabbia (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Leone Giovanni. Ne ha facoltà.

LEONE GIOVANNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io penso che del primo titolo della parte prima del progetto di Costituzione vadano segnalati quelli che a me sembrano i tre aspetti centrali.

Primo aspetto: aspirazione a fondare un compiuto equilibrio, una compiuta sintesi fra le libertà (ovvero i diritti naturali, innati, di libertà) e l’autorità (ovvero il complesso degli interessi necessari alla vita ed allo sviluppo della società organizzata).

Mi meraviglio pertanto che da due parti opposte, cioè dall’onorevole Tieri e dall’onorevole Preziosi, ieri si sia messo in evidenza che, subito dopo la proclamazione delle fondamentali libertà, il progetto si sia affrettato a stabilirne i limiti.

Quello che occorre indagare, invece, è se nell’ansia verso questa sintesi e verso questo equilibrio, si siano rispettate due esigenze. La prima è quella segnalata ieri dal collega Bettiol: la prevalenza cioè della legalità sulla discrezionalità. È a questo punto che alle osservazioni fatte dal collega Tieri agli articoli 12 e 13 circa la mancanza di una tutela del cittadino nei confronti dell’arbitrio statale si può, a mio avviso, sufficientemente rispondere che spetta alle leggi particolari, ed in concreto alla legge di pubblica sicurezza, disciplinare quel complesso regolamento di norme atte a garantire la libertà del cittadino di fronte agli eventuali arbitri della autorità.

Seconda esigenza: assodare se sia realizzato questo equilibrio, senza cioè che si ponga l’accento né eccessivamente sul concetto di libertà che, individualisticamente inteso, vuole essere fondamento del regno dell’arbitrio individuale e quindi del caos, né eccessivamente sul concetto di autorità, che potrebbe condurre alla fondazione di un ordinamento costituito sull’arbitrio e sul prepotere statali. A questo fine io penso che possono esser prese in breve esame le varie critiche che sono state prospettate ieri e stamani nei confronti degli articoli che sono sottoposti al nostro esame e alla nostra approvazione.

Per quanto concerne la critica all’articolo 8, terzo comma – mi riferisco in particolare alla osservazione del collega Preziosi per la mancata prefissione, oltre il termine minimo di 48 ore imposto all’autorità di polizia perché la misura provvisoria cautelare sia comunicata all’autorità giudiziaria di un ulteriore termine perché l’autorità giudiziaria provveda alla convalida o meno delle misure cautelari privative della libertà o di altri diritti del cittadino – io penso che questa critica non sia fondata, soprattutto per un principio di opportunità pratica. Noi dobbiamo renderci conto della difficile, complicata organizzazione attuale della vita giudiziaria. Mentre ci auguriamo che questo ordinamento della vita giudiziaria possa sveltirsi e possa soprattutto portare ad una maggiore aderenza del magistrato all’attività di polizia, dobbiamo stabilire che a questa necessità debba provvedere il legislatore futuro in sede di Codice penale o di procedura penale od in sede applicativa di questi Codici. Questo è un rilievo pratico che sottopongo alla Commissione perché, ove si stabilisse un termine all’autorità giudiziaria, ed uno stretto termine, come si chiede da altre parti, perché convalidi o meno la misura provvisoria adottata dalla autorità di polizia, noi porteremmo a questa grave conseguenza: che l’autorità giudiziaria, nell’impossibilità di rendersi conto in così breve tempo della fondatezza della notitia criminis, potrebbe introdurre la prassi, sia pure condannevole, di convalidare alla cieca l’arresto e il fermo, salvo, dopo una più meditata valutazione degli elementi di accusa, emanare un provvedimento di libertà provvisoria o di revoca del mandato di cattura.

Ed è opportuno, giacché ci troviamo ad occuparci di questo articolo 8, sottolineare l’importantissima innovazione posta nel comma tre, che cioè anche la misura dell’arresto in flagranza debba essere sottoposta a convalida del magistrato, perché il concetto di flagranza e la sua applicazione pratica non sono sempre facili a stabilire; ed è quindi necessario, per evitare che la polizia, allargando questo concetto di flagranza, possa violare la libertà fondamentale del cittadino, che il magistrato riesamini se sussistano le condizioni della flagranza e quindi la legittimità dell’arresto.

Passando all’articolo 9, io trovo che, a parte la necessità di stabilire alcuni limiti per il tempo di guerra (e qui, a tal fine, dirò in parentesi che forse è opportuno, come si delineò in sede di Commissione e poi non si attuò, stabilire una norma generale circa i limiti che si possono imporre all’esercizio dei diritti di libertà del cittadino in tempo di guerra od imminente pericolo di guerra), convenga riesaminare serenamente l’opportunità di precisare più rigorosamente la formulazione delle eccezioni alla libertà di corrispondenza mediante emendamenti da studiare. Penso pertanto, che la critica fatta ai limiti posti circa l’esercizio della libertà, consacrato nell’articolo 9, debba probabilmente dar luogo ad una revisione, ad un riesame, perché è consigliabile che, sotto tale aspetto, il limite sia maggiormente e più rigorosamente configurato mediante il richiamo alle indagini concernenti un reato. È a tal fine che io ricordo alla Commissione gli articoli 226 e 338 del Codice di procedura penale, nei quali i limiti sono configurati e delimitati nel quadro delle esigenze delle indagini attinenti ad un reato.

Forse è opportuna anche una maggiore specificazione per quanto attiene al limite imposto nell’articolo 10 in quanto concerne – ed il rilievo risale all’onorevole Tieri – il concetto di sicurezza, come limite alla libertà di soggiorno e di circolazione. Vero è che nello stesso articolo è stabilito che mai per motivi politici può essere limitato questo diritto di libertà di circolazione e di soggiorno; ma io non so se la formula giuridica possa rimanere così com’è espressa. Forse è opportuno che quel concetto di sicurezza trovi una ulteriore specificazione limitativa.

Non ha fondamento invece, a mio avviso, la critica mossa da alcuni colleghi – ed in particolare dagli onorevoli Tieri e Carboni – all’articolo 16, per quanto concerne il sequestro di polizia determinato dalla urgenza. Qui bisogna rendersi conto proprio di quello che osservavo poco fa a proposito di altre norme del progetto, cioè della difficoltà, per lo meno nell’attuale sistema di organizzazione giudiziaria, per il magistrato di stabilire un immediato contatto con le esigenze della vita collettiva, onde la necessità di stabilire la possibilità per l’organo di polizia di provvedere al sequestro. E per quanto concerne il pericolo degli arbitrî, devo a questo punto segnalare agli onorevoli colleghi la norma importantissima del primo comma dell’articolo 22, che è norma veramente nuova, originaria, rivoluzionaria direi dell’ordinamento giuridico; ed è quella norma nella quale si stabilisce che i dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici sono responsabili personalmente, in linea penale, civile ed amministrativa, degli atti di violazione di libertà.

Io penso che, a parte il fondamento giuridico nuovo della norma, questa vada segnalata come una valvola di garanzia, una valvola di sicurezza, del cittadino nei confronti dell’arbitrio del funzionario, il quale, ogni volta che si trova ad usare del potere che gli viene conferito dalla legge, deve sapere che corre il rischio, ove questo potere sia esercitato illegittimamente, cioè per uno scopo non conforme all’interesse pubblico generale, di dover rispondere anche in sede penale del suo atto illecito.

E sempre a proposito dell’articolo 16, non condivido – come mi permisi di far osservare ieri con l’interruzione, della quale chiedo scusa all’onorevole Tieri – non condivido la sua critica circa il riferimento dell’articolo 16 alla legge sulla stampa. Egli avrebbe preferito che il riferimento si volgesse verso il Codice penale. Io dirò che, a parte il fatto che il Codice penale, come la legge sulla stampa, è una legge di ordinaria produzione giuridica, vi è qualche elemento a favore della formula adottata dalla Commissione. Ed è questo: che mentre le leggi, e la legge sulla stampa in particolare, vengono prodotte attraverso un normale procedimento legislativo, cioè partecipazione di tutte le Camere all’attività legislativa, i Codici, di regola, vengono prodotti attraverso una legge delegata e, pertanto, alla formazione dei Codici il potere legislativo partecipa soltanto nel momento in cui conferisce al Governo la delega, ma non partecipa in concreto all’esame, al giudizio ed alla approvazione delle singole norme di legge.

In più, sempre per quanto riguarda l’articolo 16, va sottolineato che non si stabilisce la possibilità del sequestro per qualsiasi reato o per qualsiasi violazione amministrativa; ma questa possibilità di sequestro viene delimitata per quei reati e per quelle violazioni amministrative che siano specificatamente, tassativamente delineate e configurate nella legge sulla stampa. Una critica che ci induce, ci obbliga ad un riesame veramente sereno e legittima le nostre riserve, è quella che concerne il comma quinto dell’articolo 16. Io penso che quel comma, così come è formulato, non dovrebbe indurre in equivoci o in errori, in quanto esso sta a stabilire – come vi dimostrerò attraverso un breve riferimento ai lavori preparatori del progetto – il solo potere del Governo di assodare le fonti finanziarie e di informazioni degli organi della stampa; ma non potrebbe mai legittimare, come conseguenza di questa attività informativa, un qualsiasi provvedimento del potere esecutivo atto a reprimere o a comprimere la libertà di stampa.

A questo proposito ricorderò che quando si discusse questo comma fu proprio il Presidente della prima Sottocommissione, onorevole Tupini, che propose una nuova formula, che in sostanza è il nucleo della formula che ci viene presentata oggi, con questo intervento: «Osserva il Presidente Tupini –seduta del 27 settembre 1946 – che con una formula così ampia si corre il pericolo di superare i limiti in cui tutti si sono trovati d’accordo, col rischio di autorizzare implicitamente il potere esecutivo a destinare un funzionario di pubblica sicurezza a far parte dell’amministrazione del giornale; propone perciò che si dica »; e propose un’altra formula. E qui intervenne in sede di voto il collega Cevolotto per dichiarare di non opporsi a questa formula, ma che «desiderava che restasse a verbale che con questo non intendeva aderire ai principî esposti dall’onorevole Togliatti e che in materia di libertà di stampa restava fedele ai principî democratici dell’assoluta libertà».

Tuttavia, ad onta che, a mio avviso, quel quinto comma dell’articolo 16 non possa prestarsi a ingenerare equivoci interpretativi, penso che la Commissione si sia resa conto di questa mia riserva, di questa mia preoccupazione, di questa mia ansia. Io penso che sarebbe opportuno procedere ad una nuova formulazione, nella quale, modificandosi quella attuale, si chiarisca in maniera ancora più esplicita di quella che attualmente non sia adesso, che quella riserva, quel limite, quel potere stabilito dal quinto comma dell’articolo 16 mira soltanto a stabilire che il Governo può indicare al Paese che un certo organo di stampa attinge a certi elementi la sua consistenza finanziaria e attinge a certi circoli più o meno attendibili le sue notizie.

Il secondo di quelli, che all’inizio di questo mio breve e modesto intervento, ho chiamato gli aspetti centrali del primo titolo di questa parte del progetto, è l’ispirazione ad un’alta, umana e universale coscienza politica. Espressione di questa tendenza, di questa coscienza, in cui il senso della carità e della fraternità cristiana si salda al geloso sentimento di tutela del cittadino, sono il diritto di asilo contenuto nell’articolo 11 e la non estradabilità dello straniero per reati politici, a cui bisogna aggiungere – secondo un emendamento che sarà sottoposto al vostro esame dall’onorevole Bettiol e da me – la dichiarazione di riconsacrazione della non estradabilità del cittadino. Ora, per quanto concerne queste due garanzie, anzi, questi due magnifici riconoscimenti della libertà consacrati in questo progetto di Costituzione, mentre ritengo che non occorra la formula aggiuntiva («in nessun caso») proposta dal collega Preziosi – perché è sufficientemente palese e chiaro che in nessun caso è ammessa la estradizione dello straniero per reati politici – ritengo che non occorra neppure stabilire, come invece chiedeva il collega Tieri, la reciprocità nei confronti dello straniero, condizione questa che certamente abbasserebbe e offuscherebbe la bellezza del principio posto a base di questa norma.

Il terzo aspetto centrale di questo primo titolo è la sensibilità del progetto all’aspetto umano del problema penale. Espressione di questa ansia, di questa nobile ansia ad umanizzare il magistero penale, possono indicarsi i seguenti punti.

Innanzitutto mi riferisco alla norma che riconferma i due principî della legalità e tassatività della norma penale ed a quella che concerne l’irretroattività della norma penale. Non sono d’accordo con il collega Di Gloria, che ha testé parlato, circa la non necessità di riconsacrare nella Carta costituzionale questo che è uno dei principî fondamentali, non solo del diritto penale, democratico, liberale, ma uno dei principî fondamentali della civiltà del mondo.

Non sono d’accordo, perché, come osservava ieri il collega Bettiol, bisogna ricordare che, in altri Paesi, di recente il principio della legalità e quello dell’irretroattività sono stati solennemente violati. Vogliamo ricordare qui la massima nazista del diritto penale che si attinge solo alla sana coscienza del popolo, di cui (si soggiungeva) unico interprete era il Führer; vogliamo riferirci al principio della rispondenza ai fini configurato nel diritto sovietico; e, in contrapposto, riconsacrare il principio della legalità e della irretroattività in conformità della nostra tradizione per impedire pericolosi ritorni nostalgici verso concezioni penali che sarebbero il fallimento della nostra tradizione che è stata continuata in maniera decisa e coraggiosa da tutti i giuristi.

E qui sento il bisogno di associarmi all’elogio che l’onorevole Bettiol ha fatto della scienza giuridica italiana, la quale, con fermezza, con coraggio e talora ricorrendo anche al doppio giuoco, nel ventennio, ha resistito all’inserimento di principî politici totalitari nella legislazione positiva. Questo principio deve restare fermo nella Costituzione, come uno dei pilastri delle garanzie della libertà del cittadino.

Su questo primo punto osservo che mi pare esatto il rilievo fatto dal collega onorevole Crispo circa la necessità di tenere conto delle leggi penali eccezionali e temporanee ai fini del principio della retroattività della legge più favorevole.

Il secondo aspetto di questa aspirazione, di quest’ansia all’umanizzazione del magistero penale, è l’affermazione della non presunzione di colpevolezza dell’imputato. Di fronte a tale problema, la Commissione si è posta, con sano criterio di equilibrio, nel giusto mezzo. Di fronte, pertanto, al principio di presunta innocenza del reo, che il compianto nostro collega Giovanni Lombardi dichiarava principio esclusivamente politico, e di fronte all’avverso principio che quello aveva sostituito, non già, intendiamoci, dal punto di vista legislativo, ma soltanto da quello dottrinale, ad opera di qualche autore un po’ più degli altri sensibile alla ideologia fascista, cioè il principio della presunzione di colpevolezza, la Commissione, come ho già detto, si è posta giustamente nel mezzo, stabilendo la non presunzione di colpevolezza fino al momento della sentenza di condanna definitiva; e qui «definitiva» è ben detto, perché il principio deve investire tutto il rapporto processuale, fino a quando la sentenza sia diventata irrevocabile, sia passata in giudicato, stabilendosi quindi l’estinzione dell’azione e del rapporto processuale.

È necessario che questa presunzione si tenga ferma; presunzione necessaria, sì, perché, mentre il principio di innocenza era di natura romantica, il principio attuale costituisce un’espressione di alcune esigenze concrete; ed in particolare dell’esigenza che sia mantenuta la regola in dubio pro reo, e siano bandite le presunzioni nel campo del processo penale, e di una ulteriore esigenza diretta a delimitare la carcerazione preventiva. E a questo proposito, pur non ripresentando l’emendamento che nella Commissione dei Settantacinque non ebbe fortuna, vorrei segnalare la necessità di limitare la carcerazione preventiva che Francesco Carrara chiamava una immoralità necessaria; necessaria sì, ma immoralità che lo Stato deve limitare, deve configurare in limiti di necessità assoluta, sicché non si possa stabilire, con un arbitrio, sia pure illuminato dal senso di giustizia, degli organi di polizia e del magistrato, che un cittadino, fino a quando non sia definitivamente dichiarato colpevole, possa vedere ristretta la sua libertà personale.

Un altro aspetto di quest’ansia e aspirazione all’umanizzazione della giustizia penale è il principio della personalità della responsabilità penale, che io e Bettiol speriamo di far correggere con un emendamento che abbiamo proposto, in cui si parla di responsabilità per fatto personale. Nessun dubbio che la responsabilità sia personale; ma il dubbio può sorgere circa il fondamento della responsabilità. E qui conviene stabilire che la responsabilità penale è sempre per fatto proprio, mai per fatto altrui; così delimitandosi quell’arbitraria inaccettabile configurazione di responsabilità presuntiva in materia giornalistica, e impedendosi per le future legislazioni, sia pure coloniali o sia pure di diritto penale militare di guerra, ogni e qualsiasi configurazione di responsabilità collettive.

Un altro aspetto di questa tendenza all’umanizzazione è quello che riguarda l’esecuzione della pena. È l’affermazione dell’articolo 21 che bisogna segnalare, ponendola in relazione con l’articolo 8: «È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».

Ora, su questo punto noi vorremmo esprimere, in conformità di un emendamento che vi sarà presentato, una riserva: noi siamo convinti – come risulta anche dai lavori preparatori della Commissione – che con quella formula che ci è presentata non si è tentato neppure di risolvere il problema della funzione della pena: problema che, a parte la necessità di lasciarlo al suo naturale giudice, il legislatore penale, è quasi insolubile. Vorrei ricordarvi l’interrogativo drammatico e assillante, che pose Emanuele Kant, quando si occupò della pena. Scriveva il filosofo: «Se dopo aver commesso un delitto, l’uomo che lo commise fosse abbandonato dal suo popolo, sicché rimasto solo non ne potesse più commettere, qualcosa in noi dice che dovrebbe essere ancora punito. Ma perché? L’enigma del diritto penale sta tutto in questo perché». Ora questo enigma non l’avete inteso risolvere; voi avete voluto risolvere un altro aspetto: quello dell’umanizzazione dell’esecuzione della pena.

Io qui riaffermo la mia concezione, conseguente alla concezione cristiano-sociale, che la pena ha un duplice fine: la conservazione dell’ordine etico vigente nella società – funzione preventiva – e la restituzione dell’ordine violato –funzione vendicativa o satisfattoria –. L’emenda per noi è un fine complementare della pena, ed è un fine che nella concezione cristiana si radica nella carità, mentre il fine principale si riallaccia alla giustizia su cui si fonda una ordinata convivenza sociale. Ma noi non pretendiamo di imporre, né di far discutere la nostra concezione penale. Intendiamo, però, stabilire questo: voi non avete voluto individuare, identificare nella vostra definizione la funzione della pena. Non avete inteso risolvere – e sarebbe stato da parte vostra un atto di leggerezza – il problema della funzione della pena. Avete voluto stabilire che la pena debba sollecitare, agevolare, favorire, realizzare, se volete, il fine della rieducazione morale, del ricupero morale del delinquente. Noi siamo d’accordo con voi: questa è l’ansia di tutte le coscienze civili e cristiane. La pena, se obbedisce a criteri di giustizia, deve anche obbedire a criteri di carità, di fraternità. Ed è bene che la società, nel momento in cui toglie il più alto bene al cittadino, quello della libertà, gli possa tendere la mano caritatevole, perché sia ricuperato, restituito al consorzio umano; e sia ricuperato non solo il delinquente occasionale, come diceva l’onorevole Crispo, ma anche il delinquente per tendenza; anche il delinquente più feroce, perché, per noi cristiani, l’anima è un bene che può essere sempre recuperato e la coscienza umana può sempre risollevarsi alla visione dei problemi soprannaturali. Non vi è creatura umana che possa subire da parte della società una condanna fine a se stessa, che pertanto ripudi ogni riflesso di rieducazione.

Questo è il concetto che vogliamo esprimere e che si esprime con una formula che non pregiudichi, non risolva, non delimiti la funzione della pena, sulla quale neppure il Codice penale potrà facilmente dire una parola definitiva; perché è un problema eterno, è il problema di Emanuele Kant, che resterà forse sempre senza risposta.

Si dica, però, questa nostra ansia nella Costituzione per l’umanizzazione della pena e si esprima anche in questa sede la nostra aspirazione immediata ad un regime penitenziario più umano.

Perché tra i tanti miliardi che si dedicano alle opere pubbliche in Italia non si trova qualche miliardo per costruire case di pena più decenti, più umane? Questo è il concetto che noi vogliamo esprimere e questo avete espresso voi.

Il regolamento penitenziario italiano è già una magnifica pagina in questo senso: voglia il legislatore futuro continuare l’opera di realizzazione di questa nobile ansia. (Applausi). Altro aspetto di questa tendenza all’umanizzazione della giustizia penale è l’abolizione della pena di morte.

È vero – e lo ha dimostrato il nostro collega Paolo Rossi – è vero che la pena di morte in Italia è compagna di tutti i regimi autoritari ed è per questo che il nostro Tupini, nella sua veste di Guardasigilli, sentì l’ansia urgente e si affrettò ad abolire la pena di morte in Italia, togliendo dal corpo giuridico italiano questa espressione di una mentalità autoritaria e dittatoriale.

Noi desideriamo che sia ricordato questo: non solo è merito dell’uomo, ma merito del Governo di cui egli faceva parte. Sotto questo aspetto politico l’abolizione della pena di morte non trova riserve.

Ma consentitemi che, sotto l’aspetto tecnico o della politica criminale, io esprima non un dissenso, ma una personalissima riserva. La pena di morte è già caduta dal nostro ordinamento giuridico. Dobbiamo stabilire nella Costituzione che la pena di morte è abolita, oppure dobbiamo lasciare al legislatore di domani la facoltà – sulla quale non mi pronunzio, perché anche questo è un problema che potrebbe occupare intere sedute, intere legislature della Camera – la possibilità di poterla ripristinare? (Commenti).

Sotto questo aspetto vorrei segnalarvi solamente la questione: è un problema che pongo, è una riserva che sorge dal mio animo, di carattere personale. Io vi pongo una domanda: successivamente all’abolizione della pena di morte il Governo italiano ha sentito la necessità di ripristinarla con una legge eccezionale per alcune forme di reati, come la rapina a mano armata con arresto in flagranza (è una legge la cui procedura è la negazione del sistema giuridico italiano, perché la pena di morte è affidata ad un tribunale militare straordinario, senza nessun diritto di impugnazione dinanzi alla Corte di cassazione); ma a questo punto vorrei osservare una cosa che riguarda il Governo: la legge sta per cadere; ed è vero che il Governo si decide a prorogarla?

Il Governo ha sentito dunque questo bisogno; ma io mi auguro che domani non si debba sentire ancora il bisogno di ricorrere a questo pauroso sistema di pena. Mi auguro che l’Italia possa continuare anche in questa via il suo risanamento morale, oltre che materiale e possa veramente non sentire più la nostalgia di questa pena. Ma ove sorgesse questa necessità, questo bisogno di un popolo, perché, attraverso la Carta costituzionale, impedire che il legislatore esamini il problema?

Con ciò, non intendo criticare l’atteggiamento assunto dalla Commissione, anzi intendo esprimere il mio apprezzamento per l’alta ispirazione politica, sociale, umana, a cui hanno obbedito i compilatori del progetto; e spero ed auguro che l’Italia, risorgendo spiritualmente, non senta il bisogno in avvenire di ricorrere a tali misure tremende di prevenzione e di repressione.

Rilevo infine nel progetto, come una delle principali tendenze all’umanizzazione della giustizia penale, la norma sulla riparazione alle vittime degli errori giudiziari. Il significato di quel comma è altissimo. Io condivido col collega Preziosi l’ansia che questa tendenza si traduca in una legislazione corrispondente. Si era fatto un timido passo negli articoli 551 e seguenti del Codice di procedura penale, disciplinando la facoltà di chiedere una riparazione pecuniaria «a titolo di soccorso». Come è umiliante, come è triste, come è deprimente per la dignità della personalità umana, questa espressione consacrata in una norma di legge!

Ma si trattava sempre di un passo che stabiliva il principio della riparazione alle vittime degli errori giudiziari, a titolo di obbligo di pubblica assistenza. Un più deciso passo può farsi accettando la teoria di Santi Romano che ha, in contrapposto a questa concezione, affermato il principio della riparazione dei danni derivanti da ingiuste condanne come responsabilità dello Stato per atti illegittimi; la riparazione dei danni nascenti dalla preventiva detenzione dell’innocente, come responsabilità dello Stato per atti illegittimi.

Ma anche per questo istituto è necessario rispettare determinati limiti: non si può allargare troppo l’istituto, costringendo il magistrato a tenerne conto nelle formule del giudicato. Se il magistrato sa che dal suo giudicato consegue l’obbligo allo Stato di risarcire il danno, agirà con eccessiva cautela, forse con un ingiusto rigore, nella scelta della formula di assoluzione.

Quindi si allarghi l’istituto, ma si tenga conto della necessità di taluni limiti, si tenga conto di una necessità di equilibrio: al concetto umiliante del soccorso si sostituisca il principio della responsabilità dello Stato e la possibilità del cittadino di richiedere la riparazione in più ampi limiti.

Onorevole Presidente e onorevoli colleghi; scrisse Mario Pagano, luminoso martire della libertà: «Se ti sospinga mai la fortuna sui lidi di un popolo ignoto e se brami conoscere se il brillante giorno della cultura ivi attardi la sua luce benefica oppure se le tenebre dell’ignoranza e della barbarie lo ingombrino di errori, apri il suo Codice penale e se vi trovi le sue libertà civili garantite, la sicurezza e la libertà dei cittadini coperte dalla prepotenza e dagli insulti, francamente concludi che esso sia popolo colto e polito».

Conceda Iddio, onorevoli colleghi, che l’umanità risospinta sui lidi di questo popolo, la cui missione fu oscurata per breve periodo di tempo, possa nelle nostre leggi, e nella fondamentale fra esse, trovare espressi nella tutela e nella garanzia di tutti i diritti di libertà del cittadino i segni secolari della nostra civiltà. (Vivi applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Grilli. Ne ha facoltà.

GRILLI. Dopo la vasta dissertazione dell’onorevole Leone, se io vi prometto che sarò brevissimo me ne sarete grati. Io mi occuperò soltanto di una piccola parte di questo titolo e precisamente dell’ultimo capoverso dell’articolo 8, per il quale ho proposto, a titolo di emendamento, né più né meno, che la soppressione.

Ieri l’onorevole Carboni ha accennato alla inutilità di questo capoverso, perché lo riteneva perfettamente inutile dopo che al precedente comma si è assicurata la libertà e si sono assicurati gli altri diritti dei cittadini.

Ma io credo che si possa dire qualcosa di più: anzitutto questo capoverso, che contempla la punizione delle violenze commesse in danno di detenuti o di arrestati, contiene materia che è di esclusiva spettanza del Codice penale e perciò è inutile che sia inserita nella Costituzione. La Costituzione deve limitarsi ad enunciare un principio, a proclamare un diritto, ad imporre un divieto; spetta poi al legislatore penale di proclamare reato la violazione di quel diritto e stabilire la pena.

Questo concetto fu già espresso, davanti alla prima Commissione, dagli onorevoli Basso, Cevolotto, Lombardi, Mancini, Moro ed anche indirettamente dall’onorevole Tupini, il quale aveva proposto una formula che è molto più adatta per una Costituzione, cioè: «Alla persona fermata o arrestata è garantito un trattamento umano».

Prevalse il concetto dell’onorevole La Pira, il quale disse che bisognava specificare, data la dura esperienza fatta da gran parte dei componenti la Commissione durante il periodo fascista. Ma, onorevoli colleghi, durante il periodo fascista non soltanto il diritto all’incolumità dell’arrestato o del detenuto fu manomesso, ma furono manomessi molti altri diritti che oggi la Costituzione rivendica. Se si seguisse il concetto dell’onorevole La Pira, bisognerebbe, ad ogni articolo che proclama un diritto, aggiungere che la violazione di quel diritto è punita, nel qual caso la Costituzione diventerebbe un surrogato del Codice penale.

Per esempio, l’articolo 9 garantisce la libertà e la segretezza della corrispondenza; ma nessuno ha pensato di aggiungere un capoverso in cui si dica che la violazione della libertà e della segretezza della corrispondenza deve essere punita. All’articolo 13 si proibiscono le associazioni segrete, ma non si aggiunge che chi organizza un’associazione segreta è punito. All’articolo 16 si vietano le pubblicazioni scandalose e contrarie al buon costume, ma non si aggiunge che sarà punito chi farà queste pubblicazioni. E via dicendo fino all’articolo 38 che garantisce la proprietà privata, ma nessuno ha pensato di aggiungere che il ladro sarà punito.

Si potrebbe consentire l’inserzione di una norma penale nella Costituzione quando si trattasse di un reato nuovo, ossia di un fatto che fino a ieri non fu considerato reato e non fu punito, ma che si vuole che da qui innanzi sia punito. Sarebbe sempre un di più, un superfluo, sarebbe sempre una di quelle cose vane dalle quali bisogna ripulire le leggi secondo l’insegnamento di Giustiniano, che ci fu ricordato qui dall’onorevole Nitti. Sarebbe sempre superfluo; ma si potrebbe consentire, se non fosse altro, per impegnare più categoricamente il legislatore penale. Ma noi non ci troviamo di fronte ad un reato nuovo, perché qualsiasi violenza materiale o morale, commessa in danno di arrestati e di detenuti, costituisce vecchio reato previsto e punito dal Codice penale.

Senza fare una disamina particolareggiata di questo Codice, basterà ricordare l’articolo 605, che punisce il sequestro di persona e aggrava la pena contro il pubblico ufficiale che abusa del suo potere; l’articolo 608, che punisce l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti e le misure di rigore non consentite dalla legge nei confronti di persone arrestate o detenute; l’articolo 613, che comprende anche la suggestione ipnotica cui fu sottoposta la Fort e di cui ci parlò l’onorevole Pertini. Ma ad ogni modo tutte le violenze materiali e morali, che sono punite se commesse da un privato qualunque contro un altro privato, sono punite anche più gravemente quando sono commesse dal pubblico ufficiale contro arrestati o detenuti, perché le pene dell’articolo 581, che prevede le percosse, dell’articolo 582, lesioni, dell’articolo 594, ingiurie, dell’articolo 610, violenza privata, dell’articolo 612, minacce, sono aggravate, se commesse da pubblico ufficiale, da due precise aggravanti previste dall’articolo 61, e precisamente, al n. 5 per la minorata difesa in cui indubbiamente si trova la persona arrestata nelle grinfie della polizia, e al n. 9 che prevede il fatto commesso con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio. Sicché anche se non ci fosse che questo argomento della superfluità della ripetizione della norma, sarebbe sempre sufficiente a giustificare la mia proposta.

Ma c’è di più, ed è che io credo che questo capoverso dell’articolo 8 sia, sotto un certo aspetto, anche pericoloso. E mi spiego: le persone che non sono addentro al Codice penale – e ce ne sono tante, sebbene il Codice penale pretenda che tutti lo abbiano a conoscere – il cosiddetto uomo della strada, a cui si riferiva ieri l’onorevole Bettiol, potrebbero pensare che fino a ieri queste violenze fossero commesse perché non punite dalla legge, e illudersi che da qui innanzi non siano più possibili perché ormai vietate e punite da questo articolo 8. In questa illusione sembra che sia caduto anche l’onorevole Merlin, Sottosegretario alla giustizia, il quale, rispondendo all’interrogazione dell’onorevole Pertini, assicurava trionfalmente che la Commissione dei Settantacinque aveva già approvato il capoverso terzo dell’articolo 8. Illusione, badate, che sarebbe destinata a diventare presto delusione perché, se queste violenze contro gli arrestati e i detenuti si sono commesse fino a ieri, nonostante il Codice penale, non c’è ragione che non possano essere commesse anche domani, nonostante questo capoverso dell’articolo 8, perché il male non sta nella mancanza di una legge punitiva, ma nel difetto del costume.

Alcuni commissari hanno fatto un esperimento personale di violenze durante il fascismo, il che ha giustamente commosso l’onorevole La Pira. Questa commozione giustissima mi convince sempre più come sarebbe opportuno quel tal provvedimento proposto da un illustre giurista, che cioè si sottoponessero tutte le persone che aspirano a diventare magistrati o funzionari di pubblica sicurezza ad un certo periodo di carcerazione perché costatino, loro che son destinati a mandare la gente in prigione, che cosà sia veramente la prigione, perché gli esperimenti personali insegnano più dei libri e delle lezioni e non si dimenticano più.

Noi avvocati vi possiamo dire che questa famosa tortura, non la tortura dei tempi barbari, non la tortura del Santo Uffizio, ma un avanzo di quella tortura, una specie di ultimo rampollo di quell’aborrito sistema, si adoperava in parte anche prima del fascismo, la si è adoperata durante il periodo fascista, ma quel che conta è che si continua ad adoperare anche oggi che il fascismo dovrebbe essere finito da qualche anno.

Io uso fare il novanta per cento di tara alle dichiarazioni degli imputati; ma qualche volta mi è accaduto di constatare coi miei occhi i segni della violenza sul corpo dell’imputato. Gli avvocati penalisti possono controllare se esagero. Da un pezzo in qua, specialmente nei casi in cui bisogna far presto, come nei processi annonari, gli arrestati confessano immediatamente. In troppi processi noi avvocati troviamo che l’imputato, non appena arrestato, ha confessato. I non arrestati non confessano, l’arrestato confessa immediatamente. È strano, perché urta contro il senso della difesa, che è istintivo nell’uomo. E spesso accade che, quando sono interrogati dal Giudice istruttore o al processo, ritrattano la prima confessione e la spiegano colla tortura: interrogatori estenuanti, percosse, schiaffi, inganni, come quello del «se tu confessi ti rimetto in libertà» e, giù, giù, fino allo scarafaggio di cui ci ha parlato l’onorevole Gallo.

Ricordo un processo dinanzi alla Corte d’assise di Firenze, e l’onorevole Targetti che era con me nel collegio di difesa può confermare, nel quale risultò che certi fratelli Torricini avevano finito per confessare di aver ucciso una guardia regia, dopo un interrogatorio durato 48 ore da parte di funzionari che si succedevano dinanzi ai due fratelli ritti al muro, in piedi, senza mangiare, senza bere e con condimento di schiaffi e pugni. Io voglio anche ammettere che ci sia dell’esagerazione, ma c’è anche tanta verità! Ebbene, a me non è mai accaduto di vedere un funzionario sotto processo per violenze commesse in danno di un detenuto o di un arrestato. Ho voluto domandarne ad un illustre avvocato romano che di processi ne ha fatti più di me, e mi ha risposto che in tutta la sua carriera professionale, due volte soltanto gli era accaduto di leggere nella sentenza che non si credeva alla prima confessione dell’imputato perché vi era ragione di credere che fosse stata estorta con la violenza; ma nemmeno lui aveva mai visto un funzionario sotto processo per queste violenze.

A me è successo invece questo: che il presidente del tribunale, ascoltato l’imputato che diceva di essere stato costretto alla confessione, e mostrava sulla faccia i segni delle violenze, domandò: chi è stato il funzionario che vi ha battuto? L’imputato rispose: quello là e indicò un poliziotto che si trovava nell’aula. Il presidente chiama il poliziotto e gli chiede: Avete sentito? È vero quello che dice l’imputato? E il poliziotto: Signor presidente, ma le pare che io possa fare queste cose! E il presidente allora rivolto all’imputato: Ringraziate Iddio che il pubblico ministero non proceda contro di voi per calunnia. L’imputato che era accusato di furto, mi chiamò e mi disse: Io sarò un ladro, ma questa gente è peggio di me. E io non potei dargli torto.

Non è dunque la norma penale che è mancata o che manca, ma è l’applicazione di essa e l’applicazione dipende dalla polizia e dall’autorità giudiziaria che, in questa materia, non funzionano a dovere. I commissarî di pubblica sicurezza non si scandalizzano troppo di certi sistemi adoperati dai loro agenti; i questori non si scandalizzano dei loro commissarî e i procuratori della Repubblica – una volta procuratori del regno – che hanno sempre i fulmini pronti quando si tratta di colpire il privato cittadino, ritirano questi fulmini, quando si tratta di colpire gli agenti di polizia giudiziaria, per timore di screditarne la funzione.

Quell’avvocato, di cui vi parlavo dianzi, mi raccontava anche di un procuratore generale di una delle più importanti Corti d’appello, che non nomino perché è morto, che, parlando del famoso scarafaggio applicato sull’ombelico dell’accusato per farlo cantare e, badate, o signori, non per fargli confessare la verità vera, ma per fargli confessare quello che al funzionario interrogante sembra essere la verità, diceva che si trattava di una piccolezza che non merita tanto scalpore. Come vedete, è tutta una mentalità, è tutta una educazione che bisogna rifare, è tutto un costume che bisogna modificare, è una malattia che bisogna curare. Il legislatore ha fatto tutto quello che poteva fare; ha dettato gli articoli del Codice penale.

Non c’è bisogno di incomodare la Costituzione. Spetta al potere esecutivo richiamare l’attenzione degli organi che debbono applicare la legge.

L’onorevole Scelba, rispondendo all’interrogazione dell’onorevole Pertini, diceva di considerare barbarici il sistema e la concezione secondo cui, purché il reo non si salvi, periscano il giusto e l’innocente. Il rispetto della personalità umana, egli soggiungeva, deve essere tenuto nel massimo ossequio dalla polizia; egli assicurava inoltre che disposizioni perentorie erano state date in tal senso. Egli raccomandava infine che è necessario però creare intorno alla polizia un’atmosfera di fiducia. Ebbene, onorevole Ministro dell’interno, questa atmosfera di fiducia è anche nell’aspirazione del popolo italiano, il quale non attende altro se non che la polizia meriti questa fiducia. E la potrà meritare soltanto quando la storia e la cronaca di queste violenze commesse nel segreto delle caserme e delle questure saranno definitivamente liquidate. E sarà bene che venga richiamata anche l’attenzione dei procuratori della Repubblica, ai quali non basta ricordare l’articolo 83 dell’ordinamento giudiziario, come ha promesso l’onorevole Merlin; ma occorre ricordare il Codice penale che punisce le violenze dei pubblici ufficiali.

Io ho finito. Qualunque sia per essere la fortuna che sarà riserbata alla mia proposta, sono lieto di aver potuto affrontare la realtà di questo problema che è, ripeto, problema di costume, non problema di norma giuridica, ed è anche un problema importantissimo, perché possiamo fare quante Costituzioni democratiche vogliamo; ma finché il cittadino non sarà tranquillo per la sua incolumità personale quando è chiamato a render conto alla giustizia, non avremo il diritto di appellare il nostro Paese un Paese civile. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cavallari. Ne ha facoltà.

CAVALLARI. Per entrare nel vivo dell’argomento, così come si conviene a chi, come me, ha deciso di rimanere a tutti i costi entro i limiti di mezz’ora opportunamente fissati dall’onorevole Presidente di questa Assemblea, io debbo dichiarare che, in complesso, le norme, così come sono state compilate nel primo titolo del progetto di Costituzione, mi sembrano buone sia nella forma che nella sostanza.

Ritengo però che sia utile ed anzi necessaria una discussione generale su tutto il primo titolo di questo progetto, per poter mettere in luce quelli che sono i punti più salienti ai quali aderiamo e per sollevare anche quelle critiche che per noi è doveroso sollevare.

Dichiaro subito che io non farò qui una disquisizione di carattere giuridico; non mi lancerò in speculazione di carattere filosofico e filologico: noi abbiamo, da parte di alcuni oratori che ci hanno preceduto, assistito a bellissime lezioni di procedura e di diritto penale, lezioni fatte con oratoria travolgente; abbiamo ascoltato con grande interesse i concetti scientifici esposti con termini così appropriati. Però io ritengo prima di tutto che non sarei capace di fare una lezione di diritto penale, di procedura civile o penale; e poi suppongo che vi saranno certamente coloro che si dilungheranno in questo argomento, perché giuristi non mancano nella nostra Assemblea. Anzi, se potessi fare un’osservazione in merito a questo argomento, direi quasi che vi è qui un’inflazione di giuristi, in quanto dal giovanissimo laureato in giurisprudenza fino al più autorevole professore di Università nelle materie di diritto, tutti qui noialtri, per il fatto di essere deputati, molto spesso, veniamo chiamati con l’eufemismo di giuristi.

Ma non è questo lo scopo che io mi prefiggo, né voglio fare questa indagine di carattere scientifico. Io penso che il metro col quale noi potremo misurare questa parte del progetto di Costituzione – che del resto è anche il metro col quale potremo misurarne anche le altre parti – è il metro politico; è cioè un’indagine politica quella che dobbiamo compiere sopra il primo titolo del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. E questa indagine politica come dobbiamo compierla? La dobbiamo compiere dando uno sguardo a quelle che sono state le nostre esperienze passate, considerando l’attuale momento politico e avendo di mira quelle che sono le mète alle quali la democrazia italiana e la Repubblica italiana vogliono arrivare.

Quali sono i precedenti storici dell’attuale momento politico? Da quale periodo usciamo noi in queste giornate, in questi mesi? Noi usciamo da un periodo di schiavitù; usciamo da un periodo di oscurantismo, nel quale tutte le libertà furono conculcate, ma specialmente quelle di cui oggi discutiamo nel primo titolo della Costituzione. Noi usciamo da un periodo terribile, che trasse a rovina il nostro Paese, rovina dalla quale riuscimmo a rialzarci, oscurantismo dal quale riuscimmo a trarci fuori, per mezzo e per merito della lotta partigiana, della lotta popolare, della lotta delle classi lavoratrici italiane contro il fascismo e contro i tedeschi.

Questa lotta ci ha dato modo di conseguire determinate mète; ci ha dato modo di attuare finalmente quelle che sono state le aspirazioni di tutti i cittadini italiani durante quegli anni tristissimi: quello cioè di poter dire finalmente di vivere in un clima di libertà. Qual è il compito, rispetto a questo passato, che attende noi che dobbiamo compilare questa Costituzione? È quello di perfezionare, attraverso i lavori della nostra Costituzione, questa lotta che da parte del popolo italiano è stata condotta contro il fascismo e contro i tedeschi, di consolidare quelle conquiste che mercé questa lotta noi abbiamo conseguite, di scolpire nella Carta fondamentale della Repubblica italiana i principî che nel modo qui accennato sono stati conquistati.

È per questa ragione, onorevoli colleghi, che noi approviamo in larga misura il dettato degli articoli che stiamo esaminando.

Noi pensiamo che effettivamente debba essere nella misura più larga possibile concesso ai cittadini il diritto alla libertà personale, alla libertà di riunione, alla libertà di religione, alla libertà di associazione. Noi di questo ci facciamo paladini convinti e sostenitori convintissimi, come abbiamo dimostrato in passato, allorquando il nostro partito, proprio per queste libertà, si gettò nella lotta e sacrificò i suoi uomini migliori. Noi oggi su ciò possiamo esigere di essere creduti; possiamo asserire che nessuno può essere più di noi convinto della santità di queste garanzie e della necessità che esse vengano proclamate lapidariamente nella Costituzione italiana.

Ma l’inserzione di questi articoli nella Costituzione italiana è sufficiente, perché ci riteniamo sodisfatti? È questo l’unico scopo al quale noi pensiamo si debba arrivare mediante i nostri lavori?

Penso che questo non sia l’unico scopo; penso che non basti, in altre parole, enunciare queste libertà, fissare anche lapidariamente questi risultati e queste mète che abbiamo raggiunto. Non basta fare questo, ma occorre invece fare in modo che le libertà così restaurate non possano più venire conculcate. Noi vogliamo che nella Costituzione siano sanciti dei principî per cui coloro che vogliono, per mezzo della libertà loro immeritatamente concessa grazie all’opera eroica di altre persone, sopprimere la libertà altrui, vengano dichiarati al di fuori e contro la legge costituzionale dello Stato italiano.

Noi, in particolare, vogliamo che la libertà sia concessa a tutti, ma non vogliamo che si conceda la libertà di restaurare in Italia un altro movimento fascista.

Ieri, da parte di un collega, è stata fatta una critica a questi articoli di Costituzione: è stato rilevato come essi comincino bene e, invece, finiscano male. È stato cioè rilevato che questi articoli contengono all’inizio una dichiarazione di un principio di libertà, ma nel contesto dello stesso articolo si avanzano tali riserve da far temere che rimanga vuota di senso l’enunciazione stessa.

Ebbene, a parte l’esagerazione contenuta in queste parole, noi diciamo che in un certo senso così deve essere. Noi diciamo che così deve essere, perché il principio di libertà personale, il principio di libertà di corrispondenza, di circolazione, tutti questi principî – nessuno escluso – devono essere condizionati al rispetto delle libertà democratiche. Noi vogliamo la libertà che tenda alla riaffermazione ed al rafforzamento continuo e progressivo della democrazia italiana.

Non vogliamo che la libertà vada contro la riaffermazione, contro il rafforzamento della democrazia italiana. (Applausi a sinistra).

Non siamo chiamati, onorevoli colleghi, a fare la Costituzione per la Città del Sole o per un’altra Repubblica dell’Utopia; siamo chiamati a fare la Costituzione dell’Italia in questo particolare momento storico, coi precedenti che abbiamo avuti nella nostra storia, con tutto quell’insieme di condizioni sociali ed economiche proprie di questo periodo.

E allora queste considerazioni che sono andato esponendo finora vorranno sempre più confermate nella nostra mente e anche, io penso, nella mente di molti di voi che mi ascoltate, se pensiamo che cosa succede proprio in questi giorni in cui parliamo di queste libertà.

La libertà di circolazione, per esempio. In questo momento in Italia molto spesso la libertà di circolazione serve per riannodare le sparse file del movimento fascista. L’asilo agli stranieri molto spesso in questo momento serve proprio per dar modo agli stranieri e ai fascisti venuti nel nostro territorio dalle più svariate parti d’Europa di ritrovarsi e di congiurare contro la libertà dell’Italia, la libertà delle altre potenze europee e del mondo.

La libertà di riunione in questi giorni, purtroppo, ha dato luogo ad episodi, per i quali abbiamo visto manifestazioni pubbliche per le strade, nelle quali non si è esitato ad esaltare idee, uomini, date della storia fascista e del regime fascista.

La indipendenza della magistratura: cosa santa e altissima. Noi in questi giorni, però, abbiamo visto a che cosa ci ha portato. Abbiamo visto in alcuni casi, da parte di alcuni magistrati, che indegnamente indossano la toga, che ci si è serviti di questa indipendenza della magistratura per liberare i fascisti che invece meritavano, per le loro azioni passate, di rimanere in istato di detenzione, mentre invece sono stati arrestati, per un motivo o per un altro, gli antifascisti, che non avevano fatto nulla per incappare nelle norme del Codice penale.

Nel procedere alla breve indagine particolareggiata dei molti articoli contenuti nel titolo 1° del progetto di Costituzione, io desidero riferirmi specificatamente al 2° capoverso dell’articolo 8, nel quale è detto che non è ammessa «forma alcuna di detenzione, ispezione o perquisizione personale o domiciliare, se non per atti, ecc.».

Ora in questo secondo comma si unisce, si fa tutto uno della detenzione, della ispezione e della perquisizione personale e domiciliare. Io penso che sarebbe stato forse più opportuno fare due articoli, in modo da mettere giustamente in evidenza e bene in risalto l’importanza della libertà di domicilio, alla quale, in questo secondo comma, ci si riferisce solamente parlando delle perquisizioni, ma ignorando che la libertà di domicilio può essere violata anche in altre occasioni che non siano quelle nelle quali la forza pubblica ha un mandato per compiere una perquisizione in casa del cittadino.

Sull’ultimo capoverso dell’articolo 8 molte parole sono state ormai spese. Tutto ciò che c’era da dire, penso che sia stato detto; ma qui vorrei far notare solamente una cosa. Da parte di alcuni oratori che mi hanno preceduto è stato dichiarato che l’ultimo comma è pleonastico, cioè che non importa metterlo nell’articolo 8, in quanto è un corollario logico del principio di libertà che emana da tutto l’articolo 8, anzi da tutta la Costituzione italiana.

Orbene, io penso che, dati gli episodi ai quali abbiamo assistito ed assistiamo continuamente, episodi che con parola così viva sono stati messi in risalto da parte dell’onorevole Grilli, e dato questo malcostume che è invalso nel nostro Paese da parte di molti agenti, che dovrebbero essere agenti tutori dell’ordine ma che molto spesso non lo sono, penso che sia opportuno mantenere questo articolo, anche se può essere pleonastico, in modo da consacrare solennemente, altamente e senza possibilità di equivoci, questa aspirazione del popolo italiano, sì che ci si astenga finalmente dall’uso di quelle violenze che non disonorano solamente coloro che le compiono, ma tutta una civiltà e tutto un popolo.

L’articolo 11, nel secondo capoverso, contiene una norma che ha una notevole rilevanza: «Lo straniero al quale siano negate nel proprio paese le libertà garantite dalla Costituzione italiana ha diritto di asilo nel territorio italiano».

Orbene, onorevoli colleghi, io richiamo la vostra attenzione su questo argomento. Tutti siamo persuasi e convinti, che il diritto di asilo sia uno dei più alti e sacri. Tutti lo sanno, ma lo sanno bene specialmente molti componenti del nostro partito, dei partiti di sinistra, i quali hanno passato all’estero lunghi anni, i quali andando all’estero hanno potuto sottrarsi alla cattura o alla morte o alla lunga detenzione da parte del regime fascista, i quali dall’estero hanno potuto continuare a dirigere il movimento di resistenza contro il fascismo, con un’attività della quale noi siamo loro immensamente grati. Essi hanno dovuto all’estero condurre spesso una vita dura, ben lontana da quella vita comoda che mendacemente alcuni giornalisti del nostro Paese hanno voluto descrivere.

Sanno quindi, i comunisti, quanto sia prezioso e quanto sia nobile il diritto di asilo; ma non sembra che sia opportuno configurare questo diritto di asilo, così come è stato configurato nel secondo comma di questo articolo, perché in tal modo un giorno o l’altro, allorché per esempio, dalla Spagna franchista il regime di soggezione e di dittatura se ne sarà andato, speriamo il più presto possibile, correremmo il rischio di vedere arrivare nel nostro Paese tutti i fascisti spagnoli, tutti coloro che nel loro Paese hanno congiurato ed hanno operato contro le libertà degli spagnoli, contro le libertà dei loro concittadini.

Orbene, noi vogliamo evitare questo articolo che arrecherebbe anche del danno al nostro Paese.

Una voce a sinistra. La nuova Costituzione spagnola garantirà tutte le libertà.

CAVALLARI. La Costituzione spagnola garantirà tutte le libertà; però potrà darsi che il Governo spagnolo perseguiterà coloro che sono stati seguaci di Franco come in Italia sono stati perseguitati coloro che sono stati seguaci faziosi di Mussolini; e come dall’Italia sono usciti i seguaci faziosi di Mussolini, così pensiamo che dalla Spagna usciranno i seguaci faziosi di Franco e verranno in Italia.

Perciò io ritengo che questo capoverso sarebbe più indicato concepirlo in questo modo: «Ogni persona la quale è perseguitata a causa della sua azione a favore della libertà, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica».

Queste sono le persone alle quali noi italiani dobbiamo dare tutto il nostro asilo e tutta la nostra solidarietà. Coloro che hanno combattuto per la libertà del loro Paese noi dobbiamo riceverli con animo fraterno, con animo da compagni, e dobbiamo riceverli prodigando loro tutta l’attenzione e tutte le cure che si possono prodigare; ma non dobbiamo ricevere nel nostro suolo coloro che si sono schierati contro la libertà di altre persone anche se queste persone non sono italiane e sono spagnole o appartenenti a qualsiasi altro Paese.

L’articolo 19 mi fornisce materia per una brevissima osservazione: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento». Questa è una formulazione ottima, ma che io ritengo incompleta, in quanto non dice esplicitamente che tale principio vale anche per i tribunali militari, per quei tribunali militari nei quali tuttora non è permessa durante la fase istruttoria l’assistenza da parte del difensore. Ed effettivamente non si vede come mai vi debba essere questa differenziazione, questa ingiustizia, questa iniquità, per la quale colui che viene accusato a norma del Codice penale ordinario deve avere, sia pure limitata, anche durante la fase istruttoria, l’assistenza del difensore, mentre invece, colui che cade sotto l’inquisizione dei tribunali militari deve essere sfornito di questo suo legittimo diritto.

TUPINI. È inesatto; intendiamo riferirci a tutte le giurisdizioni, compresa quella militare. Se lei leggerà quello che ha formato oggetto di discussione, vedrà che ci si è preoccupati anche di questo. Comunque, per sua tranquillità, le dico che intendiamo riferirci a tutte le giurisdizioni.

CAVALLARI. Prendo atto.

L’ultimo articolo sul quale intendo brevemente soffermarmi è l’articolo 22, articolo che per parte mia approvo in quanto nella mia carriera professionale ho avuto modo di constatare che numerosissime e gravissime sono state le ingiustizie, le iniquità commesse da parte di enti e di amministrazioni. Noi sappiamo che diverse persone sono state condannate innocentemente. Ebbene, queste persone – che io non vorrei far credere che siano troppe, ma che esistono – hanno sofferto anni di galera e si sono trovate nell’impossibilità di mantenere le proprie famiglie e di mantenere il posto nel quale lavoravano. Costoro, da questo errore hanno avuto un nocumento indiscutibile, nocumento che speriamo possa venire riparato in base all’articolo 22. Molti danni sono stati arrecati anche in circostanze meno gravi, per esempio nei casi di sequestro di beni deperibili, prolungato anche oltre quel termine che comporterebbe lo svolgersi ordinario dell’azione giudiziaria.

Questo sequestro prolungato ha portato a molte persone dei danni sensibili. E, poi, in ultimo, onorevoli colleghi, voglio riferirmi anche ad una categoria di persone alle quali giustizia sarebbe stata resa, per lo meno in una certa piccola parte, se già fosse stato in vigore questo articolo 22 del progetto di Costituzione della Repubblica italiana, cioè agli antifascisti, i quali hanno lottato contro il fascismo e sono stati condannati ingiustamente, iniquamente. Non vi è stata una iniquità maggiore della sentenza che ha condannato gli antifascisti che lottavano per il bene, per la giustizia e per la libertà del Paese, cioè coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro famiglie, a far mancare alle loro famiglie i mezzi di sussistenza più indispensabili, coloro che sono stati costretti ad emigrare all’estero, coloro che hanno sopportato lunghi anni di confino. Queste persone che oggi sono ritornate in Italia, che non hanno potuto certamente specializzarsi in un mestiere, che hanno lavorato ora qui ora là, dove potevano, perché la vita dell’esule non è una vita facile e non dà garanzie di lavoro continuo, sono persone che oggi si trovano molto spesso in condizioni economiche disagiate ed alle quali si sarebbe dovuto venire incontro per mezzo di questo articolo 22,

Io finisco con questo articolo in quanto sono sicuro che esso interpreta il sentimento di gratitudine che promana da tutto il popolo italiano verso coloro che hanno dato modo al nostro Paese di liberarsi dal nemico, verso coloro che hanno dato modo a noi di sedere oggi qui per discutere e dibattere la Costituzione della Repubblica italiana. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, io penso che sia miglior discorso in questa materia quello che, abbandonando le disquisizioni sui criteri filosofici, tenti di portare un contributo concreto di chiarificazione di idee e di precisione nella formulazione degli articoli, in rapporto alla Costituzione della Repubblica italiana.

Noi non abbiamo bisogno di definire i diritti di libertà, di stabilire in che consista l’inviolabilità della persona umana. Ciascuno di noi, durante il recente ventennio, ha personalmente sentito che cosa, in concreto, la violazione di quei principî abbia rappresentato. Ed io mi permetto di dire che oggi la discussione su questa materia ha un’importanza speciale, per le violazioni di libertà dall’Italia patite nel ventennio.

In una delle ultime sedute taluno accennò a Francesco Ruffini, ed io credo opportuno ricordare una pagina veramente fulgida del suo volume sui diritti di libertà; quella pagina in cui egli già dal 1926, nel volume allora pubblicato da Piero Gobetti, vaticinava una Italia in cui, superato il periodo fascista, l’amore per la libertà risorgesse forte e violento, violento in ragione diretta dei patimenti subiti, degli avvenimenti passati. La discussione di oggi ha, quindi, anche una speciale solennità; ma noi non abbiamo bisogno di fissare i concetti dei diritti di libertà, di domicilio non violabile, di circolazione, di soggiorno, di libertà di stampa. Sono concetti sui quali penso siamo tutti d’accordo. Piuttosto è necessario che alla discussione e poi, soprattutto, alla formulazione, degli articoli si provveda, partendo da un presupposto chiaro, di fronte al quale non vi possano essere incertezze o tentennamenti e il presupposto deve essere questo: che l’Assemblea si propone di impedire la possibilità di nuove violazioni dei diritti di libertà della persona umana. È una conquista che noi riaffermiamo non nel campo filosofico o nel campo giuridico, ma nel campo politico. In questo specialmente sta la necessità dell’odierna discussione, e della formulazione degli articoli della nuova Costituzione della Repubblica.

Io ho presentato, onorevoli colleghi, degli emendamenti al progetto, i quali affermano soprattutto questo fondamentale concetto: come sia bene indicare nella Costituzione le libertà individuali che non possono essere menomate; ma che la loro regolamentazione debba essere, poi, contenuta nei singoli codici: Codice penale, Codice di procedura, e anche la legge e il regolamento di pubblica sicurezza. Mi è parso che lo stesso concetto e lo stesso criterio abbiano affiorato nei discorsi di taluni di quelli che hanno parlato prima di me, e soprattutto oggi nel discorso tenuto dall’onorevole Grilli. Certo si è questo che – se anche voi non riteniate opportuno giungere alla conclusione cui io sono giunto e che ha determinato la presentazione di questi emendamenti, secondo i quali si dovrebbero indicare i principî generali nello Statuto e si dovrebbe invece passare la regolamentazione alle leggi specifiche – se anche, dicevo, questo concetto non dovesse valere e prevalere, parecchi degli articoli contenuti nel progetto attuale non possono essere inclusi nella Costituzione. Basti per tutti indicare l’articolo 12, nel suo primo e nel suo secondo capoverso, in cui si dice che le riunioni in luogo aperto al pubblico non richiedono necessità di preavviso e che delle riunioni in luogo pubblico deve esser dato preavviso alle autorità che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. Si trascrive nella Costituzione un disposto preciso non solo dell’attuale legge di pubblica sicurezza, ma dell’apposito regolamento. Si abbassa – direi – il tono del nostro Statuto fondamentale, il quale, a mio avviso, dovrebbe contenere dei principî chiari, non equivocabili, espressi possibilmente in una forma priva di retorica e direi, lapidaria, sì che costituiscano veramente i principî sui quali si innestino poi tutte le leggi successive.

Questo è l’importante. I Codici integreranno e completeranno lo Statuto; Statuto e Codici costituiranno veramente l’insieme fondamentale di quelle regole che presiederanno alla nostra vita pubblica e regoleranno i rapporti fra i cittadini e lo Stato.

Ciò premesso, io debbo però anche partire dal concetto che i miei emendamenti non vengano presi in considerazione ed intraprendere perciò l’esame degli articoli con un criterio pratico. Debbo però, prima, far mio un accenno dell’onorevole Grilli, il quale ha detto che le disposizioni della nuova Carta costitutiva furono violate, per quanto già contenute nello Statuto albertino e per quanto il Codice penale già punisca quanti usino violenze verso i sottoposti a misure di sicurezza che ne restringano la libertà personale.

Diceva l’onorevole Grilli come l’inanità, la mancata pratica applicazione di quelle disposizioni contenute nei Codici penali, renderebbe, in certo senso, vano ed inutile lo sforzo cui siamo intenti quest’oggi. Dico all’onorevole Grilli che questa sua affermazione contiene una parte di verità amara, ma non ci deve scoraggiare ad avere fiducia nella vita della nuova Italia repubblicana.

Non basterà certo lo Statuto a mutare l’ambiente: è negli spiriti che si deve verificare la riforma; nel costume e nella vita, tutto, dal basso verso l’alto, dev’essere innovato. Quando parliamo di Italia nuova, quando parliamo di Repubblica, noi dobbiamo pensare che non basta intitolare la forma dello Stato dalla repubblica anziché dalla monarchia, ma occorre pensare e volere uno Stato reso più alto nelle coscienze e nella vita dei cittadini.Posso quindi passare, onorevoli colleghi, senz’altro, all’esame dei singoli articoli. È così che, parlandovi dell’articolo 8 dovrò ripetervi alcune cose che già sono state dette da altri. Tenterò però servirmi di quella esperienza, la quale non mi deriva solo, come altri per proprio conto hanno detto, dall’esercizio professionale, ma dall’avere condotto quell’esercizio in un ambiente ben diverso.

Quando io leggo, nell’articolo 8, che, in determinati casi di necessità e di urgenza, l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie, da comunicare, entro 48 ore, all’autorità giudiziaria e sento dire che questo termine è eccessivamente lungo, io concordo mentalmente con questo argomento che è una specie di protesta di chi vorrebbe che neanche un minuto possa trascorrere prima che l’autorità giudiziaria intervenga; ma quando penso poi al desolato mio ambiente, in cui le possibilità telefoniche mancano spesso, in cui spessissimo l’autorità è rappresentata da un posto fisso di carabinieri sperduti nelle campagne, riconosco che questo termine di 48 ore diventerà un’affermazione platonica che rimarrà come tale nella legge.

Non è – badate – onorevoli colleghi, che io intenda, proporre un allargamento del termine sopradetto; intendo unicamente presentare alla Commissione e a quelli che dovranno ancora in materia discutere e decidere, una difficoltà di indole pratica, perché l’articolo 8 sia formulato con riferimento preciso alla sua pratica applicazione. Solo se in pratica potranno essere vitali, gli articoli dello Statuto meriteranno approvazione. È, quindi, necessario riferirsi alla possibilità della loro applicazione in tutti gli ambienti delle varie regioni.

Nel secondo capoverso dello stesso articolo invece che «l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie», io scriverei: «la polizia giudiziaria», termine più comprensivo.

Nell’articolo 9 è stabilita la libertà e la segretezza di corrispondenza e la necessaria limitazione, nei casi stabiliti dalla legge, con provvedimento motivato dall’autorità giudiziaria. La frase «casi stabiliti dalla legge» è troppo generica. L’autorità giudiziaria può essere troppo corriva a stabilire e praticare eccezioni nel campo del segreto epistolare animata dall’onesto proposito di conseguire fini di giustizia. Ed io non voglio contrastare a tali fini. Ma occorre trovare una formula, per quanto ciò sia molto difficile, che concilii l’interesse e le necessità delle istruttorie penali col concetto di libertà e segretezza della corrispondenza; si potrebbe tentare di fare un passo innanzi, aggiungendo un avverbio, dicendo cioè all’articolo 9 che la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria nei casi «rigorosamente» stabiliti dalla legge.

Nell’articolo 10 è detto che ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano; e poi si aggiunge che ha anche, come cittadino, diritto di emigrare. A me non piace quel termine «circolare»; mi dà l’impressione che un commissario di pubblica sicurezza inviti quanti affollano una piazza, costituendo quello che, comunemente, si dice un assembramento, a sfollare, ripetendo il verbo circolare. Non è facile trovare un altro termine. Si potrebbe forse dire: «ogni cittadino può viaggiare nel territorio dello Stato».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È un’altra cosa.

MASTINO PIETRO. È un argomento dia esaminare. Ogni cittadino ha diritto di emigrare, si dice e si è voluto per l’appunto riconoscere il diritto all’emigrazione. Ma, se l’andata all’estero fosse determinata non dal proposito di emigrare, ma da una ragione di altro genere? Penso che nessuno di noi possa interpretare l’articolo 10 come diretto alla esclusione di cotesto diritto; ma è un fatto che l’aver usato il termine «emigrare» unicamente in rapporto alla possibilità del trasferirsi all’estero per ragione di lavoro limita la portata dell’articolo, che bisogna formulare in modo più chiaro e comprensivo.

L’articolo 20, che riguarda la libertà di Stampa sarà sottoposto ad esame da un altro collega del gruppo autonomista e, quindi, io non ne devo parlare. Osservo solo che, in base a tale articolo, nei casi d’assoluta urgenza, l’autorità di pubblica sicurezza può sostituirsi all’autorità giudiziaria, che non possa intervenire, sequestrando il giornale, e che però tale disposizione si manifesterà insufficiente in qualche altro caso. Si potrà, ad esempio, ingiuriare ed oltraggiare altrui con un’insegna luminosa senza che il disposto dell’articolo 20, così com’è ora formulato, consenta alcuna facoltà d’intervento. Presento il caso all’attenzione della Commissione.

Sopprimerei l’articolo che stabilisce la libertà di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi; nessuno ha mai pensato a negare la possibilità di agire in giudizio. Nessuna delle disposizioni fasciste ha nemmeno mai pensato a ciò. Importante sarebbe, invece, rendere veramente pratico ed attuabile il contenuto del capoverso dello stesso articolo; secondo il quale: «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»; intendendo questo non nel senso che ciascuno abbia diritto ad essere assistito e difeso, ma che anche il povero abbia la possibilità di essere effettivamente assistito e veramente difeso. Le attuali norme in materia di gratuito patrocinio non ci danno questa garanzia; e lo scrivere «tutti possono agire in giudizio» potrebbe avere quindi un sapore, direi, di amara ironia; non ultimo motivo, questo, perché l’articolo 19 venga eliminato dal progetto della nuova Costituzione.

Pena di morte. Io sono rimasto sorpreso nel sentire quanto l’onorevole Leone ha detto oggi all’Assemblea in materia di pena di morte, perché egli ha premesso di essere contrario a tale pena. Quindi avrei creduto che, se non avesse sciolto un inno all’articolo che ne consacra l’abolizione, lo avrebbe, per lo meno, approvato. Senonché egli ha continuato dicendo che sarebbe opportuno che su una così importante materia non ci pronunciassimo, perché nuove situazioni e casi speciali potrebbero consigliare la pena di morte.

Noi non possiamo seguire una linea amletica, ma dobbiamo ricollegarci con la scuola e col pensiero italiano.

L’insegnamento luminoso di Cesare Beccaria ci ammonisce a respingere la pena di morte. Ciò che è strano però nell’onorevole Leone è che egli ha sciolto un inno alla riparazione degli errori giudiziari. Relativamente alla pena di morte, mi sono sempre chiesto, onorevoli colleghi, se uno dei maggiori argomenti contro di essa non sia dato proprio dalla possibilità dell’errore giudiziario. Quando una condanna alla pena di morte sia stata eseguita, qualunque pretesa riparazione dell’errore sarebbe un’ironia raccapricciante.

La rieducazione del reo. Io ho in materia le mie idee e penso che molti dei colpevoli possano veramente essere capaci di umana redenzione. Ma nego che tutti, assolutamente tutti, siano in grado di redimersi. Quando leggemmo nei giornali, poco tempo fa, un fatto accaduto a Milano che fece rabbrividire ciascuno di noi, l’eccidio d’una intera famiglia consumato da una donna, noi pensammo ad una pazza o ad una criminale nata: ed in verità la distinzione fra le due situazioni è difficile. Ora, io non vedo come si possa parlare di una possibilità di redenzione in un caso di questo genere. Ma l’onorevole Leone parla in ogni caso dell’anima del colpevole, che merita di essere rieducato, e che merita una pena umana La pena dev’essere umana certo, per rispetto a noi stessi, per la dignità del nostro consorzio civile. Ma la motivazione non può essere quella data dall’onorevole Leone.

Miglioriamo le carceri ed i penitenziari. Spendiamo quel che è necessario per le carceri e anche per gli agenti di custodia, e allora potremo avere praticamente l’applicazione dei principî contenuti in questo articolo.

Si dice all’articolo 22 che i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Qui si codifica quanto già la giurisprudenza prevalente nel campo civilistico e amministrativo aveva riconosciuto.

Si aggiunge: «Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti».

Sono d’accordo soprattutto in quest’obbligo fatto allo Stato di garantire il risarcimento dei danni. Si stabiliranno così un legame e un rapporto, soprattutto di vigilanza, assidua, quotidiana, fra Stato e dipendenti.

L’onorevole Cavallari ha accennato, in ultimo, ad un argomento che è presente a tutti noi, e precisamente al pericolo che la libertà, interamente intesa e il diritto di asilo, riconosciuto senza eccezioni, possa riempire l’Italia di elementi che un tempo si dicevano indesiderabili.

Preoccupazione giusta, sentita da quanti paventano le conseguenze alle quali l’onorevole Cavallari ha accennato in modo specifico.

Io penso però che nell’articolo 11 sia detto in certo senso quanto è necessario dire per ovviare al pericolo; si specifica in esso che è concesso asilo allo straniero al quale siano negate nel proprio Paese le libertà garantite dalla Costituzione italiana. Questi, e questi solo, avrà diritto di asilo in Italia. Quando sia uno straniero che non abbia rispettato quelli che sono i principî di libertà contenuti nelle nostre norme statutarie, quello straniero non avrà diritto di asilo in Italia.

Penso d’altra parte che si possa venire ad una formulazione giuridica di norme di diritto internazionale, che riguardino tutti i criminali di guerra. Sotto questo punto di vista, a mio parere, la questione dovrà essere esaminata e dobbiamo augurarci possa essere decisa.

Ho finito. Nel chiudere una discussione di questo genere non possiamo che inspirarci al concetto religioso della libertà; concetto da noi sempre nutrito nell’animo, il cui ritorno abbiamo sempre auspicato e che, oggi, praticamente, viviamo; quello stesso che inspira e presiede questi nostri lavori: una libertà in cui i diritti dell’individuo trovino un limite nei diritti dello Stato e questo esplichi la propria vita senza violarla. Dalla vita armonica degli uni e dell’altro, la Repubblica italiana potrà avere quel sicuro avvenire che è nei nostri cuori e che ciascuno di noi le augura. (Applausi).

(La seduta, sospesa alle 18,50, è ripresa alle 19,15.)

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Trimarchi. Ne ha facoltà.

TRIMARCHI. Onorevoli colleghi, una delle caratteristiche fondamentali di questa Costituzione che ci stiamo accingendo a preparare per la nostra Nazione è quella dell’aver riconosciuto in modo esplicito, chiaro, i diritti fondamentali della persona umana, è quella di voler che la Costituzione abbia il suo fulcro sulla persona umana, sulla sua dignità, sui suoi diritti essenziali.

Ed è con piacere che vediamo nelle singole parti, nei singoli titoli, affermati in tutta la loro portata, i più importanti diritti della persona umana.

Nell’articolo 8 del titolo primo vediamo garantita in modo chiaro e preciso dalla Costituzione la libertà personale, e nei successivi articoli 26 e 32 vediamo sanciti gli altri due diritti fondamentali della persona umana, cioè il diritto all’integrità corporale dell’individuo ed il diritto al lavoro.

Qualcuno dei giuristi si è domandato: è opportuno inserire nella legge e nelle costituzioni questi diritti, che sono più propriamente gli attributi della persona umana, o non è meglio che la definizione di questi attributi sia lasciata alla scienza sociale? Ciò sarebbe stato possibile, onorevoli colleghi, se nella nostra società non ci fossero pericoli di attentati a queste fondamentali libertà, se non uscissimo purtroppo da una dolorosa esperienza che ci ha detto come certe dottrine moderne sullo Stato e sulla concezione sociale hanno menomato, calpestato, eliminato del tutto, talvolta, i diritti della persona umana.

Ed è per questo che noi vogliamo che in questa Costituzione che si va facendo in un periodo così triste per la nostra storia, questi diritti vengano riconosciuti e garantiti, che il principio della libertà personale sancito nell’articolo 8 resti nella sua formula precisa, a garantire la libertà contro gli attacchi che certe dottrine, che certi Stati, che poggiano le loro concezioni sociali su esse, possano fare.

È bene che i diritti della persona vengano definiti nella Costituzione, per evitare che domani, in una collisione fra la persona e lo Stato, la persona non abbia la sufficiente garanzia dei suoi diritti, che sono diritti primarî, fondamentali, giustamente diceva il collega Bettiol, naturali della persona umana. Dicevo che corriamo il pericolo di gravi dottrine e correnti sociali moderne che vorrebbero conculcare e menomare questi diritti. Intendo riferirmi principalmente a quella nefasta dottrina del collettivismo di Stato che fu applicato, fin nelle sue estreme conseguenze, nella Germania nazista. Voi ricorderete che nel 1939 Hitler in un discorso affermò che ogni anno la Germania era costretta a spendere centinaia di milioni di marchi per mantenere alcune migliaia di esseri ammalati, di esseri ammalati di malattie incurabili, di esseri socialmente pericolosi, perché delinquenti abituali o delinquenti per tendenza. Hitler applicando rigorosamente la dottrina collettivistica, trasse queste conseguenze: questi esseri importavano allo Stato una forte spesa, questi esseri erano improduttivi e distoglievano dai fini fondamentali della Nazione, della collettività, una somma notevole; ebbene, per eliminare tali spese improduttive era necessaria la soppressione di questi esseri ritenuti socialmente pericolosi, e ammalati di malattie incurabili. Hitler non esitò a ordinarla.

Fu allora la dottrina sociale cristiana, fu allora la Chiesa, che ha sempre sostenuto l’inviolabilità, la naturalità dei diritti della persona, la loro primarietà di fronte allo Stato, che denunciò Hitler come assassino, come omicida. E ricordo le nobili parole del vescovo di Münster che allora disse, insorgendo contro questo grave delitto della umanità, che l’uomo non può essere considerato dallo Stato alla stregua di un aratro che quando è inservibile si getta via, o alla stregua di una vacca che quando non produce più latte si manda al macello, perché l’uomo non è mezzo per i fini dello Stato, ma è fine a sé stesso, salva la dipendenza da Dio, è persona a sé stante soggetto di diritti primari che lo Stato deve riconoscere e garantire, e che mai può violare, menomare, impedire.

Noi vogliamo che questo principio sia chiaramente definito e plaudiamo di tutto cuore alla Commissione che ha voluto esplicitamente sancire i diritti fondamentali della persona umana, perché noi diciamo che al di sopra di tutti gli interessi economici, contingenti dello Stato, al di sopra di tutti i fini della collettività, vi è la persona, questo essere perfettissimo, come lo definì San Tommaso, questo microcosmo, come lo definirono gli antichi pagani, in una parola questo spirito immortale che per noi, anche se esso è in un corpo malato, in un corpo improduttivo ai fini della Nazione, vale in sé più che tutti gli interessi economici di questo mondo, vale più che tutti gli interessi collettivi, economici o sociali, contingenti di una determinata società.

Ed è perciò che plaudiamo pure a quella parte dell’articolo 8, che sancisce la punizione di ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Noi vogliamo che anche quando l’individuo debba essere fermato per motivi di pubblica sicurezza, per essere sospetto di un reato gli venga usato quel trattamento che comporta la dignità dell’essere umano, la nobiltà di questo essere superiore a tutti gli esseri della natura, la nobiltà di una persona che ha un cuore e un’anima.

Consentitemi adesso di dire una parola sugli articoli che trattano delle libertà politiche: libertà di stampa, libertà di propaganda, libertà di pensiero, libertà di associazione, libertà di religione. È stato qui detto che questa parte della Costituzione, mentre da un lato riconosce questo diritto alle libertà politiche, dall’altro, con le limitazioni che pone, in pratica, restringe e menoma le libertà stesse.

Onorevoli colleghi, è bene che noi abbiamo ben chiaro il concetto della libertà, ben chiaro il fine per cui la libertà è concessa e deve essere consentita nell’ambito sociale. Certo, noi vogliamo che la libertà individuale concepita come libertà dell’individuo di poter liberamente pensare, di poter seguire liberamente l’ascesa del suo pensiero, di poter seguire liberamente la determinazione della sua coscienza, sia intesa in senso assoluto. Nessuno può inibire la libertà dell’intimo pensiero dell’individuo, nessuno può penetrare nel santuario della coscienza. Ma quando la libertà si riferisce alla propaganda, alla stampa, alle manifestazioni comunque del pensiero umano nell’ambito sociale, quando cioè il pensiero dell’individuo va a trasferirsi negli altri membri della società attraverso la propaganda, della parola e della stampa, attraverso le manifestazioni pubbliche, allora, onorevoli colleghi, è necessario – dico è necessario – che venga posto un limite chiaro e preciso per salvaguardare i beni morali della società, per impedire che l’uso di questa libertà possa pervertire le coscienze, portare al male, condurre al vizio; perché, onorevoli colleghi, se questa libertà dovesse essere consentita per il male, consentitemi di dirlo, non potrebbe, non dovrebbe essere concessa. Perciò è bene che il limite ci sia e il limite è quello della morale, del buon costume, dell’ordine pubblico, limite che risponde – come dicevo – a questa esigenza: di salvaguardare il complesso sociale dal male. Ci sono alcuni che dicono che nella libertà di tutte le opinioni si raggiunge più facilmente la verità, si formano meglio gli istituti sociali. Ebbene, onorevoli colleghi, quando si tratta di materia opinabile, cioè quando si tratta di discutere su verità che non toccano la morale e che non sono sicuramente acquisite, onde si richiede l’apporto degli ingegni migliori della Nazione e delle varie opinioni, perché dal contrasto nasca meglio quello che possa essere comunemente accettato, allora, siamo perfettamente d’accordo, la libertà deve essere assoluta. Ma quando si tratta di stampe, di parole, di spettacoli che contrastano con l’ordine morale, con le più certe verità morali, in modo da ingenerare male nelle coscienze, allora la libertà deve essere limitata, perché, se il male, se l’idea cattiva si diffonde in mezzo a coscienze sicuramente formate, allora è chiaro che queste coscienze sono in grado di farvi fronte; ma quando il male si diffonde in mezzo a coscienze non sufficientemente preparate, in mezzo a coscienze giovanili le quali non hanno ancora l’esperienza della vita e la necessaria maturità, allora il male agisce, le perverte e rovina, perché trova il terreno adatto.

E noi l’abbiamo visto con la stampa immorale e pornografica che, dopo questa triste guerra, è una delle cose più deplorevoli che dobbiamo oggi constatare. Giovani, giovanette, ancora non completamente maturi, leggendo questa stampa che esalta il vizio e si compiace delle più oscene turpitudini, hanno procurato alle loro anime, alle loro coscienze inesperte mali irreparabili.

Se noi crediamo che sia compito dello Stato impedire la diffusione del male e la propagazione del vizio, è necessario appunto che la stampa abbia questo limite del buon costume.

Una parola sul sequestro. L’articolo 16 parla di questo benedetto sequestro. Effettivamente, quando noi leggiamo «sequestro», pensiamo facilmente al regime fascista che si servì di quest’arma, insieme con la censura preventiva, per togliere le libertà politiche.

Quando il fascismo, infatti, introdusse nella stampa il sequestro e la censura preventiva, intese, con questi due mezzi, impedire la libertà politica, togliere la libertà di stampa. E da allora in Italia non vi fu più opposizione. Pertanto, noi dobbiamo richiedere che di quest’arma si faccia l’uso giusto; vogliamo che il sequestro sia usato semplicemente per prevenire il buon costume, per prevenire la propaganda immorale, la propaganda pornografica.

In questi soli casi è legittimo usare questi mezzi che sono purtroppo tanto odiosi. In questi casi perché, onorevoli colleghi, quando si rifletta bene, vediamo che allora il sequestro è assolutamente necessario.

Si dice: Ma non vi sono le leggi penali che puniscono il reato di stampa? Non bastano le leggi penali per punire coloro che diffondono oscenità e idee contro il buon costume? Ebbene, io vi faccio questa domanda: ritenete voi che, quando il male si possa prevenire con un provvedimento preventivo, oppure si possa contemporaneamente reprimere quando sia stato commesso, non sia più conveniente reprimerlo sul nascere, anziché prima consentirlo per punirlo più tardi?

La risposta è ovvia. Oltre la pena che si commina al responsabile del reato di stampa, vi deve essere questo mezzo preventivo, onde far sì che il reato venga impedito. E crediamo che in tal modo si sodisfi interamente all’esigenza, al diritto che ha l’anima, che ha la coscienza di vedere salvaguardati i suoi valori morali e sociali.

Poche parole per l’articolo 21. Questo articolo sancisce, come hanno opportunamente notato altri onorevoli colleghi, il principio che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, e non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Ebbene, onorevoli colleghi, io mi rendo perfettamente conto di questa esigenza, che sentiamo tutti, di vedere umanizzata la pena, di vedere attuato nel sistema penitenziario italiano un trattamento più umano, più confacente alla dignità della persona umana che viene condannata. Ma è bene che le idee su questo punto siano ben chiare. Io non vorrei che dalla dizione, quale risulta attualmente dell’articolo 21, si possa trarre un’interpretazione restrittiva di tale articolo. Infatti, tale articolo dice semplicemente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. A noi sembra che questa dizione, in questa forma, possa domani prestarsi ad un’interpretazione restrittiva, che potrebbe portare come conseguenza l’applicazione nel nostro sistema penale della cosiddetta teoria positivistica della pena, che è una teoria rispettabilissima, ma per la scienza giuridica non risponde completamente alle vere esigenze, alle vere finalità della pena. Sì, noi ammettiamo che la pena ha, tra i suoi fini, l’emenda, ma vi sono altri fini, quali quello della giustizia, della prevenzione generale, della remunerazione, ecc., che esigono che le pene siano giuste e agiscano come controspinta al delitto.

Ove si ritenesse esclusivo il fine della emenda, noi creeremmo uno strumento di pena che invece di agire per il bene della collettività, potrebbe agire per il male della collettività; perché, onorevoli colleghi, io mi domando che cosa avverrebbe se invece delle carceri, che servono appunto ad attuare il primo fine della pena, quello dell’espiazione nei limiti di giustizia, noi approntassimo semplicemente delle case di cura, dove il condannato sarebbe sicuro che invece di soffrire le privazioni che la pena necessariamente comporta, verrebbe rieducato, verrebbe trattato con tutti i riguardi. Io credo che in questo caso la pena, piuttosto che agire come controspinta al delitto, potrebbe agire come spinta al delitto. Ed è, perciò, bene che nella Costituzione, risulti chiaramente che la pena deve prima sodisfare alle esigenze della giustizia, della remunerazione, della prevenzione generale, e debba anche tendere alla rieducazione del reo, dopo che la giustizia sia stata sodisfatta; perché solo allora la pena risponde alle esigenze per cui essa si giustifica negli ordinamenti civili.

TUPINI. L’un fine non esclude l’altro, onorevole collega.

TRIMARCHI. Sì, onorevole Tupini, l’un fine non esclude l’altro; ma io desidererei che la formulazione dell’articolo 21 fosse più esplicita nel dichiarare, nell’affermare che questo fine non esclude gli altri, perché potrebbe sembrare dalla dizione letterale: «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato» che unico fine debba ritenersi l’emenda. Perciò preferirci una formula che chiarisse bene che l’emenda è solo uno dei fini della pena.

Onorevoli colleghi, ho finito. Voglio semplicemente ancora rilevare quello che ho detto al principio di questo mio breve discorso, cioè che opportunamente la nostra Costituzione ha stabilito che i diritti della persona sono il fulcro dei diritti del nostro ordinamento sociale moderno. Se noi vogliamo costruire una società migliore in un ordine più giusto, più umano, più cristiano di quello in cui attualmente si vive nel mondo, è necessario che da noi venga sancito questo principio del rispetto dei diritti della persona e che noi, soprattutto, attuiamo nella pratica questi diritti in modo che ai cittadini siano garantiti la libertà, l’integrità corporale, il diritto al lavoro, che consentano all’individuo una vita conforme alla sua dignità di persona.

Perciò appunto vogliamo che questi principî vengano proclamati ed attuati; perché crediamo che così solo si potranno risolvere integralmente i problemi sociali che attualmente travagliano la nostra esistenza. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Einaudi e Zotta, la loro iscrizione a parlare s’intende decaduta.

È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevoli colleghi, mi spettava di parlare nella seduta di sabato, ma non ho avuto difficoltà ad aderire alla preghiera rivoltami dal Presidente di parlare questa sera, prendendo il posto dell’amico Targetti, perché le cose che ho da dire si riferiscono a questioni concrete e non richiedono, perciò, speciale preparazione. Del resto la mia mentalità ed educazione di tecnico mi fanno rifuggire da discorsi aventi carattere troppo generale. Dopo le dotte disquisizioni giuridiche di alcuni dei nostri colleghi, ascolterete da me solo alcune brevi osservazioni, dirette più che altro ad illustrare concisamente gli emendamenti che ho proposto.

Comincio dall’articolo 10 che nel primo comma proclama il diritto di ogni cittadino a circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano.

Appare veramente strano, a prima vista, che un tale elementare diritto, che nessuno oserebbe porre in dubbio. debba essere affermato con tanta solennità nella Costituzione, quasi si temesse che esso possa venire negato. Ancora più strano deve apparire a quelli della mia generazione che ricordano come, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, si poteva liberamente circolare, non solo in Italia, ma in tutta Europa, senza bisogno di passaporto.

La verità è che oggi, coll’ordinamento regionale che malauguratamente si vuol dare alla Repubblica italiana, il pericolo che sorgano ostacoli alla libera circolazione dei cittadini e delle cose perfino entro il territorio nazionale, sussiste realmente; tanto vero che la seconda Sottocommissione sentì il bisogno di inserire un apposito articolo per vietare alle Assemblee legislative regionali di porvi ostacoli. È giustificata, quindi, pienamente la disposizione dell’articolo 10. Ma, a mio avviso, essa non è sufficiente: bisogna completarla, aggiungendo che ogni cittadino ha il diritto di esercitare la propria professione, arte o mestiere in qualsiasi parte del territorio nazionale. Quest’aggiunta non apparirà superflua, quando si rifletta che già oggi in qualcuna delle regioni mistilingue di confine si manifesta la tendenza ad allontanare i professionisti originari di altre regioni che, già da anni, vi esercitavano la professione. L’emendamento aggiuntivo da me presentato servirà ad impedire così mostruosi attentati all’unità nazionale.

Un emendamento restrittivo ho proposto per il diritto di asilo contemplato nell’articolo 11. Affermare che i perseguitati politici hanno il diritto di rifugiarsi nel nostro Paese è cosa nobilissima; ma un tale diritto non può venir concesso senza alcun limite. Le osservazioni fatte in proposito dall’onorevole Cavallari mi sembrano giuste; ed a me piacerebbe vedere emendato l’articolo in questione, nel senso che la Repubblica italiana garantisce l’asilo a tutti coloro che, per aver combattuto in difesa di quelle stesse libertà che la Costituzione italiana garantisce ai propri cittadini, siano stati costretti ad abbandonare il loro Paese di origine. Con ciò una restrizione già vi sarebbe; ma se il comma dì cui parlo non sarà emendato in quel senso, sarò costretto a mantenere l’emendamento con cui ho proposto che il diritto di asilo sia subordinato alle restrizioni della legge sull’immigrazione. Un paese povero come il nostro ha ben il diritto di imporre qualche limitazione, quando paesi ricchi e prosperi quali gli Stati Uniti d’America pongono tanti ostacoli alla immigrazione anche di rifugiati i politici.

L’articolo 14 stabilisce che tutti hanno diritto di esercitare in privato od in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari al buon costume o all’ordino pubblico. Sono, naturalmente, d’accordo; però badate, onorevoli colleghi, che vi sono sètte religiose, i cui riti, pur non essendo contrari all’ordine pubblico od al buon costume, costituiscono, per la loro stravaganza, intollerabili aberrazioni. Sètte di tal genere sono numerose specialmente in America. A me stesso è capitato di assistere a taluni dei loro riti. Nulla in essi vi era che offendesse il buon costume o potesse turbare l’ordine pubblico; ma erano per se stessi talmente ridicoli che mi sembrerebbe davvero inconcepibile che, in un paese di antica civiltà come il nostro se ne potesse tollerare l’esistenza. Mi sembra, perciò giusto che l’articolo 14, insieme con i riti che offendono la morale, proscriva anche quelli stravaganti. (Interruzione dell’onorevole Tonello).

Mi spiegherò, caro Tonello, con esempi concreti. Ho vissuto alcuni anni negli Stati Uniti, e mi è capitato varie volte di sentir parlare di alcuni strani culti che colà allignano. Una volta presso Chicago ho assistito, sebbene di lontano, ad una cerimonia religiosa in cui gli adepti si contorcevano, come fra convulsioni, sul pavimento della cosiddetta chiesa fra le alte grida dei fedeli. Nulla contro il buon costume, nel senso che ordinariamente si dà a questa espressione, ma non credo che in un paese civile si debbano tollerare siffatti degenerazioni del sentimento religioso. L’America del Nord, purtroppo, abbonda di tali culti stravaganti. Basti citare per tutti quello del Father Divine, di cui forse avrete sentito parlare non fosse altro che per la villa che, a spese di suoi creduli seguaci, riuscì a costruirsi sulle rive dell’Hudson di fronte a quella di Roosevelt. Nel Tennessee esiste una setta religiosa, i cui ministri celebrano i loro riti maneggiando serpenti che portano cinti al collo. Solo in questi giorni, e lo apprendiamo dalle riviste americane, una legge di quello Stato ha proibito l’uso dei serpenti, dopo che due ministri erano morti a causa dei loro morsi.

Dopo il contatto che abbiamo avuto con truppe straniere di ogni razza e colore, non mi par fuor di luogo che siano prese misure per impedire che culti stravaganti del genere che ho accennato possano propagarsi anche fra noi. Mi direte che ciò è estremamente improbabile, e sono di accordo; ma altrettanto improbabile è, allora, che possano attecchire fra noi culti che offendano il buon costume. Perciò, visto che nella Costituzione si parla di questi, ritengo necessario aggiungere nel divieto anche quelli.

All’articolo 16 non ho da fare alcuna osservazione. Alcuni colleghi si sono scandalizzati della disposizione contenuta nel quinto comma, che dà facoltà al legislatore di stabilire controlli per accertare i mezzi di finanziamento nella stampa periodica, facoltà che a me pare, invece, indispensabile. Mi sarà permesso in proposito richiamarmi al pericolo che è derivato, e tuttora deriva, dalla stampa che è asservita all’industria degli armamenti. Questa stampa, speculando sui sentimenti nazionalistici, ed eccitando questi in tutti i modi, spinge l’opinione pubblica verso gli armamenti, additando quelli degli altri Stati. Con ciò essa costituisce uno dei pericoli più gravi alla pace tra i popoli, e perciò il controllo anzidetto è oggi indispensabile.

Un’osservazione ancora vorrei fare circa l’ultimo comma dell’articolo 16, concernente il divieto delle pubblicazioni a stampa, degli spettacoli e di tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume.

Sono perfettamente di accordo; e mi piace ricordare, che a tale divieto ho io stesso contribuito con un emendamento presentato alla Commissione dei Settantacinque, che anche porta la firma del nostro caro Presidente.

In quell’occasione ricordai che in questi anni di dopoguerra si è avuto in Italia un dilagare di stampa pornografica (giornali, riviste, libri), il cui successo commerciale è basato sull’attrazione maggiore o minore che essa esercita sugli istinti umani più bassi. Una parte della cellulosa che importiamo dall’estero è destinata a tale ignobile industria, mentre la valuta necessaria per acquistarla potrebbe adoperarsi per altre cose essenziali alla nostra ricostruzione, come il carbone, o alla nostra alimentazione, come il grano. Ricordavo in quell’occasione che è davvero mortificante per un Paese di millenaria civiltà, quale il nostro, dover prendere in questo campo lezioni da altri paesi di più recente storia, come la Russia sovietica, dove (e ne feci io stesso l’esperienza) nessuna pubblicazione o manifestazione del genere è permessa. È assurdo pensare che i fautori della libertà di iniziativa industriale o commerciale vogliano estenderla al punto da permettere che loschi speculatori si arricchiscano corrompendo la gioventù. La Costituzione della Repubblica deve con le sue disposizioni proclamare la necessità di un profondo rinnovamento anche nel campo morale.

Da ultimo, onorevoli colleghi, permettetemi una breve osservazione circa il terzo comma dell’articolo 21, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

Su questo alcuni colleghi giuristi hanno espresso il loro avviso in senso contrario. In materia sono, assolutamente incompetente, ma a me pare che una Costituzione moderna non possa non contenere un accenno alla necessità che il sistema penitenziario venga riformato nel senso che debba tendere alla rieducazione dei detenuti. È il meno che si possa fare. In questo campo vi è molto da innovare, e consentitemi notare che anche qui l’esempio ci viene dalla Russia, dove ai criminali comuni si dà la possibilità di una completa riabilitazione, che annullando completamente il loro passato li mette in condizioni di aspirare alle più alte posizioni sociali. Ben per questo, in sede di Commissione plenaria, l’onorevole Terracini ed io presentammo un emendamento, che tendeva a limitare le pene restrittive della libertà personale a 15 anni. L’emendamento fu respinto. La maggioranza della Commissione non credette di poter introdurre nella Carta costituzionale un principio così rivoluzionario che, in misura anche più ampia, è già in atto nell’Unione sovietica. Ma un progetto di Costituzione che, come quello che abbiamo davanti, contiene giustamente tanti riferimenti ai diritti della persona umana, deve, sia pure con un’espressione generica, garantire quei diritti anche a chi ha violato la legge, violazione la cui responsabilità pur ricade in gran parte sul nostro cattivo ordinamento sociale.

Un’ultima parola, ed ho finito, circa la pena di morte di cui si propone la soppressione. Per mio conto la vorrei abolita perfino nei codici militari di guerra. Ma, allora, perché conservare quella morte in vita che è la pena dell’ergastolo? (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16.

Avverto che domani si terrà seduta anche alle 10.

La seduta termina alle 20.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.