Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente                                                                                                        

Sui poteri di una Commissione:

Presidente                                                                                            Rubilli      

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                               

Lucifero                                                                                                           

Selvaggi                                                                                                           

Nenni                                                                                                                

Gronchi                                                                                                            

Persico                                                                                                             

Dugoni                                                                                                              

Orlando Vittorio Emanuele                                                                         

Gullo Rocco                                                                                                    

Tonello                                                                                                            

La Malfa                                                                                                          

Corbino                                                                                                            

Russo Perez                                                                                                     

Molè                                                                                                                 

Grassi                                                                                                               

Togliatti                                                                                                          

Interrogazioni (Svolgimento):

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Gabrieli                                                                                                            

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa:

Presidente                                                                                                        

La Rocca                                                                                                          

Ciampitti, Relatore                                                                                            

Scalfaro                                                                                                          

Presentazione di un disegno di legge:

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Interrogazioni ed interpellanza con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Martino Gaetano                                                                                           

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

Congedo.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati De Caro Raffaele e Mentasti.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che la Commissione incaricata di esaminare il fondamento dell’accusa rivolta, nella seduta del 26 febbraio 1947, dall’onorevole Finocchiaro Aprile all’onorevole Parri, ha proceduto alla propria costituzione, nominando Presidente l’onorevole Reale Vito, Vicepresidente l’onorevole Della Seta, Segretario l’onorevole Corbi.

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Li Causi, per il reato di diffamazione a mezze della stampa.

Sarà stampata, distribuita e inviata alla Commissione competente.

Sui poteri di una commissione.

PRESIDENTE. Prima d’iniziare l’esame degli argomenti all’ordine del giorno, chiedo all’Assemblea di volersi trattenere sulla questione relativa all’attività della Commissione nominata su proposta dell’onorevole Natoli alcune sedute or sono.

Ho ricevuto dal Presidente della Commissione stessa, onorevole Rubilli, il testo di un ordine del giorno che la Commissione, sin dalla sua prima seduta, ha approvato, e che successivamente ha confermato, avendo sentito la necessità di riesaminare questa sua prima decisione, in conseguenza di alcune osservazioni che erano state mosse.

Devo comunicare all’Assemblea il testo di questo ordine del giorno ufficialmente, sebbene in realtà a tutti i colleghi, dai giornali di stamane, e anche da quelli di ieri sera, sia stato già offerto integralmente. Ora, tale ordine del giorno, essendo stato comunicato personalmente a me come Presidente dell’assemblea, avrebbe dovuto trovare soltanto attraverso le parole mie comunicazione ai membri dell’Assemblea stessa.

I poteri della stampa sono grandi e noi li rispettiamo. Riconosco che i giornalisti hanno diritto di attingere ogni volta che possono alle fonti di notizie. Certe volte, tuttavia, occorrerebbe che le fonti non offrissero troppo facilmente, a coloro che sono assetati, la possibilità di togliersi la sete.

Comunque, in via ufficiale l’Assemblea ignora l’ordine del giorno votato dalla Commissione, e ufficialmente lo comunico in questo momento.

L’ordine del giorno è stato trasmesso a me, ma evidentemente è destinato all’Assemblea, perché se, come Presidente, ho proceduto alla designazione dei componenti della Commissione, ho assolto in questa maniera al mandato che avevo ricevuto. Dopo di che i rapporti tra Commissione e Assemblea si devono svolgere direttamente, e io non posso essere che un semplice tramite per qualsiasi comunicazione.

L’ordine del giorno è il seguente:

«La Commissione, nominata dal Presidente dell’Assemblea Costituente nella seduta del 19 febbraio 1947, in seguito all’approvazione della proposta Natoli;

considerato che la proposta stessa assegna alla Commissione tre ordini d’indagini:

1°) esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e dalla Presidenza dell’Assemblea, concernenti i deputati i quali «coprano una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato»; ovvero facciano parte «di istituii finanziari, economici o imprese private»;

2°) riferire alla Presidenza dell’Assemblea le «proposte circa eventuali casi d’incompatibilità morale e politica»;

3°) riferire circa «l’opportunità di stabilire nel regolamento della futura Camera o nella legge elettorale norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità»;

ha espresso all’unanimità l’avviso che, mentre per formulare le proposte di legge sulle future incompatibilità, potranno essere sufficienti gli elementi che il Governo e la Presidenza dell’Assemblea si sono impegnati di fornire alla Commissione, per adempiere invece al compito, assai più delicato e che più vivamente interessa l’opinione pubblica, previsto dal n. 2, è necessario che la Commissione disponga dei poteri per indagare sulla fondatezza delle accuse, lesive dell’onorabilità, formulate contro deputati nella pubblica discussione dell’Assemblea».

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente della Commissione. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho domandato la parola per chiarire ancora meglio, e con maggiore precisione, il concetto della Commissione, e per eliminare eventuali equivoci che potrebbero creare anche delle difficoltà o legali o regolamentari.

Posso garantire all’Assemblea che questo ordine del giorno che ha letto il Presidente venne votato all’unanimità e dopo ampia e serena discussione. Posso anche riferire che il pensiero della Commissione è questo: di non fare di più, ma neanche di meno di quello che l’Assemblea, la sola competente a decidere, vuole e prescrive. Io ero momentaneamente lontano dall’aula allorché venne votata – e credo anche all’unanimità – la proposta Natoli.

Non ho elementi, quindi, per sapere se l’Assemblea, in uno di quegli scorci di seduta, che spesso sono anche confusi e tumultuari, abbia ben ponderato la portata di quella proposta e ne abbia considerate quelle che forse ne possono essere le inevitabili conseguenze.

La proposta Natoli senza dubbio chiede che si indaghi sulla incompatibilità morale e politica, ed è certo altresì (questa è la seconda osservazione che bisogna soprattutto tener presente) che non derivò per considerazioni astratte o da un pensiero momentaneo sorto nella mente dell’onorevole Natoli, ma rappresentò la conseguenza e la conclusione immediata di quello che si era verificato in quest’Aula per le allusioni fatte in rapporto ad alcuni Deputati e per le risposte che da questi Deputati vennero, più o meno efficaci e convincenti.

Ora, se è così, se si considera il concetto informativo della proposta Natoli, se si considera lo scopo per cui essa venne presentata (perché le cose acquistano anche valore dal momento in cui si verificano), è indiscutibile che sarebbe una ingenuità credere che si tratti di un esame puramente giuridico delle incompatibilità presenti o future. Le incompatibilità, le quali non hanno né carattere morale né carattere politico, ma non possono avere che un carattere esclusivamente giuridico, sono esaminate e decise, se attuali, dalla Giunta delle elezioni; se future vanno proposte dalla Commissione che si dovrà occupare della prossima legge elettorale.

Quindi, senza dubbio, si tratta di ben altro, e la parola incompatibilità è servita solo ad ammorbidire il concetto dell’onorevole Natoli accolto poi e fatto proprio dall’Assemblea; bisogna perciò consentire che la Commissione sia posta in grado di espletare intero e con coscienza il compito che ad essa è stato affidato.

In fondo, noi non domandiamo niente di più di quello che si può ritenere di già consentito; non è esatto, come ho sentito sospettare da qualcuno, che noi intendiamo mutarci sin da ora in una Commissione di inchiesta. Noi domandiamo soltanto, per tranquillità della nostra coscienza, che sia meglio chiarito il pensiero dell’Assemblea. È implicito nella stessa proposta Natoli che delle indagini debbano essere fatte e che accertamenti dovranno aver luogo. Noi, quindi, se non possiamo d’un tratto mutarci in una Commissione di inchiesta, non possiamo neanche considerarci una semplice Commissione di studio, perché, per l’indole del nostro compito, riteniamo essenziali le più ampie indagini. Ma desideriamo un’autorizzazione più chiara, più precisa ed esplicita da parte dell’Assemblea.

Occorre innanzi tutto stabilire la sussistenza dei fatti riferiti in quest’Aula e che sono ormai di dominio pubblico (è inutile dissimularlo); quando poi sia stato definito se le accuse siano fondate o meno, occorre esaminare quale valore e quale portata possano avere dal punto di vista giuridico, morale e politico.

Questo a noi sembra il compito affidato alla Commissione; e sarà indispensabile, se tali accertamenti debbono pure essere fatti, che venga dall’Assemblea un’autorizzazione che permetta tra l’altro di sentire parti interessate e testimoni, di chiedere informazioni e documenti. Se noi non siamo a tanto regolarmente ed esplicitamente facoltati, non possiamo farlo, e non sappiamo in che modo ci sia dato emettere un giudizio veramente consapevole.

Come vedete, adunque, ho sentito il bisogno, anche a nome dei miei colleghi, di chiarire la portata della nostra richiesta; niente di nuovo o di inutile noi domandiamo, ma vogliamo soltanto i mezzi, i poteri, la possibilità di espletare il compito che dall’Assemblea ci è stata affidato.

Onorevoli colleghi, in questo compito, che potrà essere, come si spera, assai lieto, se si potrà, ancora una volta, ribadire e riaffermare la più pura illibatezza di tutti i Deputati, senza distinzione di partito, ma che potrà anche essere assai increscioso, se per lo meno il più lieve appunto, il più tenue dei rilievi potrà esser fatto in rapporto anche ad un solo dei nostri colleghi; in questo compito che, senza dubbio e senza esagerare, è seguito appassionatamente dalla pubblica opinione, di fronte alla prima e più grande Assemblea creata dalla nuova Repubblica, noi non abbiamo che un solo desiderio, cioè che le eventuali manchevolezze, le eventuali delusioni non siano mai attribuite a colpa o deficienza della Commissione, la quale, comunque l’Assemblea si pronunzi, nei limiti che ad essa saranno assegnati, saprà compiere intero e con serena obbiettività il proprio dovere. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha Chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Debbo fare, a nome del Consiglio dei Ministri, la seguente dichiarazione votata dal Consiglio stesso ad unanimità:

«Il Governo accetta, da parte sua, l’ordine del giorno presentato dalla Commissione, nella sua interezza.

«Per quanto riguarda le accuse mosse dall’onorevole Finocchiaro Aprile ad alcuni suoi componenti, il Governo ha già accertato che nessun addebito può essere ad essi fatto, così come risulta dalle dichiarazioni qui pronunziate dal Presidente del Consiglio, le quali hanno raccolto la fiducia dell’Assemblea Costituente.

«Tuttavia, il Governo fa espressa e formale richiesta che anche per gli addebiti mossi a Ministri la Commissione inviti l’onorevole Finocchiaro Aprile a produrre gli elementi, che egli considera come prove delle sue affermazioni (Vivi generali applausi), affinché si possa valutarne l’attendibilità e trarne un giudizio, che valga, anche nei confronti di chi ha lanciato l’accusa, come tutela della dignità e del decoro dell’Assemblea». (Vivissimi, generali applausi).

Dovrebbe bastare, perché la dichiarazione è molto chiara. Tuttavia, poiché nella stampa, e forse anche in qualche collega può essere nato il dubbio, in modo particolare dal mio atteggiamento, che fosse nel mio proposito di nascondere qualche cosa o di rifugiarmi dietro il voto di fiducia dell’Assemblea, sento il personale bisogno di aggiungere alcune parole di commento ad illustrazione di questo ordine del giorno.

PERTINI. Speriamo che il commento non guasti il testo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non lo guasterà. Ricordo che l’onorevole Finocchiaro Aprile il 17 febbraio ha espresso il senso delle sue accuse con queste parole:

«Non ci si deve avvalere del mandato parlamentare per andare all’arrembaggio di cariche largamente remunerative». Così egli stesso ha indicato lo scopo, la mèta, la finalità, il sapore del suo attacco e delle sue accuse».

Egli ha inteso di porre una questione generale di dignità e di moralità pubblica.

Di fronte a che io devo osservare che nella preparazione stessa dell’ordine del giorno, nelle conversazioni avvenute in quell’occasione, il Governo non ha mai inteso di porre limitazioni agli accertamenti che vorrà fare la Commissione intorno al problema delle incompatibilità, generiche o personali, parlamentari.

Se a tale scopo la Commissione non troverà sufficienti i dati che il Governo ha trasmesso o che, su richiesta della Commissione, trasmetterà, esso è pronto a mettere a disposizione della Commissione tutti i mezzi di cui dispone.

La Commissione, per quanto dipende dal Governo, è completamente libera ed efficiente nelle sue indagini e nei suoi apprezzamenti. In quanto alle attività ministeriali, il Governo, di fronte alle accuse dell’onorevole Finocchiaro Aprile, ha assunto solidalmente le sue responsabilità e l’Assemblea, col suo voto di fiducia, ne ha preso atto. Tuttavia la dignità e il decoro dell’Assemblea – finalità dell’ordine del giorno dell’onorevole Natoli, unanimemente accolto – vanno salvaguardati anche nei confronti del Deputato che ha mosso le accuse dirette all’attività ministeriale. Il Governo pensa perciò che la Commissione debba chiedere all’accusatore i suoi elementi di prova. Se da questi essa traesse la convinzione che fosse necessaria una inchiesta parlamentare sull’opera dei Ministri, la proporrà; in caso contrario, il decoro dell’Assemblea dovrà essere salvaguardato nei confronti dell’accusatore. (Vivissimi, generali applausi).

Il Governo, di fronte a una campagna che dilaga nel Paese, deve pur dirlo: il Governo ha la coscienza tranquilla. Dopo il ventennio dell’immensa corruzione fascista, durante il quale non funzionò né il controllo parlamentare né quello della stampa… (Applausi).

TOGLIATTI. Barzini esaltava il fascismo allora (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. …il Governo democratico non ha posto altro limite alla critica che la difesa del proprio onore e di quello dei funzionari dell’Amministrazione. Il Governo ha accolto ed accoglie, come elemento indispensabile del regime democratico, il controllo, la discussione, la critica dell’Assemblea; e la stampa usa oggi di una libertà che, in qualche caso – io non voglio qui generalizzare, ché ho il massimo rispetto per la stampa onesta – non ha sempre corrisposto ad un senso obiettivo di responsabilità. (Vivi applausi).

Il Governo ha proceduto, esso stesso, come accennai altra volta portando anche delle cifre, senza riguardo, contro funzionarî indiziati di corruzione, avanzo di abitudini di un tempo, e intende ora, con il vostro concorso, di intensificare la sua vigilanza. Ma non è giusto che tutta l’Amministrazione venga avvolta come da una nube di sospetti e di accuse che non merita, né è giusto che uomini i quali hanno assunto le più pesanti responsabilità per servire il Paese in un’ora difficile, si vedano accusati con avventatezza di colpe che non hanno.

Qui vi è un patrimonio comune a tutti i partiti che viene messo in pericolo; qui si tocca, consapevolmente o no, il regime, il sistema di Governo, (Vivissimi generali applausi); insinuando nella coscienza spesso ignara del popolo che nulla è mutato, che la corruzione fascista continua, che la morale democratica vale quella dittatoriale. (Vivi applausi).

Come Ministro, e a nome anche dei miei colleghi, dichiaro all’opinione pubblica che noi non isfuggiremo, che noi non temiamo, ma anzi desideriamo ogni controllo possibile. Come uomo ad uomini, dico che sono umiliato, che anni di povertà o, comunque, di resistenza ad ogni lusinga dei potenti non bastino ad affrancare dalle insidie della calunnia i galantuomini che servono con sacrificio il proprio Paese. (Tutta l’Assemblea si leva in piedi Vivissimi generali prolungati applausi).

E termino facendo appello alla Camera tutta, in modo particolare alla Commissione, di voler collaborare, cosicché questa campagna di calunnie possa aver fine e non più ripetersi. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ho chiesto la parola, benché dopo le esplicite dichiarazioni del Presidente del Consiglio, che ha dissipato i sospetti che erano stati messi in giro dalla stampa, poteva essere inutile, perché mi trovo in una situazione particolare. Cioè, io sono il solo Deputato che, dopo aver votato a favore della sospensiva proposta dall’onorevole Reale, giustificando il fatto appunto con l’osservare che certe decisioni vanno prese con ponderatezza, poi votò contro la costituzione della Commissione d’inchiesta, perché mi sembrava nebulosa tutta la procedura attraverso la quale si era arrivati a questa nomina, e ritenevo che si sarebbero avute le perplessità, le discussioni, i commenti che successivamente si sono avuti. E ciò dissi allora nella mia dichiarazione di voto.

Io penso – e in questo concordo col Presidente del Consiglio – che gli uomini i quali hanno la responsabilità della cosa pubblica, siano su questi o su quel banco, debbano essere veramente come la moglie di Cesare. Noi dobbiamo accettare che la Commissione abbia tutti i poteri, per dare al Paese, non solo, come noi speriamo e siamo certi, la sicurezza che gli uomini che lo guidano sono moralmente degni di farlo, ma che non potrà più accadere in Italia che uomini indegni possano sedersi a questi o a quei posti. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Credo che possiamo adesso precisare, per quanto sia dal commento fatto dall’onorevole Rubilli all’ordine del giorno votato dalla Commissione, sia dalle dichiarazioni dell’onorevole Presidente del Consiglio appaiano già ben chiari quegli elementi che, almeno fino a poco fa, apparivano, magari non a tutti, alquanto oscuri e non ben comprensibili.

La Commissione può, quindi, d’ora innanzi, lavorare per portare rapidamente a termine l’incarico che l’Assemblea le ha affidato. Essa ha chiaro di fronte a sé il mandato del quale è stata investita: da una parte quella ricerca sopra le incompatibilità, che la Commissione stessa ha con molta chiarezza precisato nei punti elencati dall’ordine del giorno che ha votato, e del quale l’Assemblea ha preso oggi conoscenza. Pertanto, la Commissione dovrà esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo alla Presidenza dell’Assemblea. Rileggo le parole dell’ordine del giorno della Commissione, perché in tal modo equivoci o dubbi non potranno più sorgere: «Esaminare gli elementi che saranno comunicati dal Governo e dalla Presidenza dell’Assemblea, concernenti i Deputati i quali coprano una carica retribuita e affidata dal Governo presso enti parastatali, economici, finanziari o in altri organismi che abbiano relazione con lo Stato», ovvero facciano parte di «istituti finanziari, economici o imprese private». Ecco il primo incarico dato alla Commissione. 2°) Riferire alla Presidenza dell’Assemblea le «proposte circa eventuali casi di incompatibilità, morale e politica»; 3°) riferire circa «l’opportunità di stabilire nel Regolamento della futura Camera o nella legge elettorale norme riguardanti il problema generale delle incompatibilità».

La Commissione invita coloro che hanno presentato accuse a fornire alla Commissione stessa elementi probatori o comunque che siano parsi sufficienti per potere elevare le accuse stesse. La Commissione indagherà sopra l’attendibilità di queste accuse, traendo poi, alla fine di questa ricerca che chiamerei pregiudiziale, le conseguenze che essa riterrà del caso e che eventualmente presenterà all’Assemblea.

V’è il problema dei poteri. Questi poteri consistono non soltanto nell’esaminare e analizzare gli elenchi che saranno forniti, e che anzi sono stati già trasmessi sia dalla Presidenza del Consiglio, sia dalla Presidenza dell’Assemblea – questi ultimi sulla base delle dichiarazioni che sono state fornite dai singoli membri dell’Assemblea – ma anche nel fare quegli altri accertamenti che essa riterrà necessari in relazione all’incarico che ha ricevuto.

Fin dal primo momento avevo assicurato il Presidente della Commissione che, qualunque richiesta in questo senso fosse stata fatta dalla Commissione alla Presidenza dell’Assemblea, sarebbe stata pienamente sodisfatta; ed oggi il Presidente del Consiglio ha, a sua volta, dichiarato che il Governo stesso darà alla Commissione tutto quel sostegno e quell’ausilio che è nelle sue facoltà di dare sulla base delle richieste che la Commissione stessa gli presenterà. I poteri della Commissione, quindi, non sono così limitati, come qualcuno aveva inizialmente inteso, a fare una pura indagine che si sarebbe risolta, secondo una parola adoperata un po’ nei giorni scorsi, a degli accertamenti di carattere statistico. Anche la statistica c’è, ma in quanto strumento per andare più in là e dare indicazioni su ciò che si vuole raggiungere.

Fissato in questo modo il mandato che l’Assemblea aveva già dato e che oggi, con gli applausi con i quali ha salutato alcune dichiarazioni fatte, riconferma; e chiarito che i poteri della Commissione sono ampi, così come essa richiede, credo interpretare il desiderio dell’Assemblea stessa, pregando la Commissione di fare ciò che essa, d’altra parte, ha desiderato fare fin dall’inizio, svolgere cioè il più rapidamente possibile il suo lavoro, in modo che questo episodio spiacevole della vita della nostra Assemblea possa sollecitamente esser chiuso e noi possiamo, quindi, con piena tranquillità d’animo e di coscienza, applicarci interamente al compito che il Paese ci ha affidato. (Vivissimi, generali applausi).

Ha chiesto di parlare l’onorevole Rubidi. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Penso molto modestamente che gli applausi non rappresentino una forma di votazione. Quindi, pregherei l’onorevole Presidente, se crede, di mettere in votazione quello che è stato ormai quasi deliberato ed accolto col consenso del Governo.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli ed egregi colleghi, mi pare che le parole che si sono dette qui avevano uno scopo ed un significato di chiarimento. Noi abbiamo dato tutti insieme un’interpretazione ad una decisione che l’Assemblea aveva preso. Ritengo che quella decisione non ha visto aggiungersi nulla di nuovo e di diverso, e d’altra parte la Commissione stessa, nelle parole dell’onorevole Rubilli, all’inizio di questa seduta, aveva detto che essa chiedeva di avere dei chiarimenti e delle delucidazioni sopra il significato ed il valore della decisione presa dall’Assemblea su proposta dell’onorevole Natoli. Ripeto che ciò che è stato detto da alcuni ha avuto appunto questo scopo. Gli applausi non sono certamente una forma di votazione normale, per quanto alcune volte siano una forma di votazione implicita. Ma, evidentemente, questi applausi hanno un significato, cioè che i chiarimenti, le delucidazioni e le spiegazioni che sono state date non soltanto sodisfano oggi l’Assemblea, ma riecheggiano quello che essa pensava nel passato.

Infine, onorevole Rubilli, la Presidenza può mettere in votazione delle proposte che le vengano trasmesse, non può presentare per la votazione dei documenti che essa stessa elabora. (Commenti a destra).

Dico che la proposta fatta deve trovare una forma. L’ordine del giorno della Commissione non può di per so stesso diventare l’ordine del giorno dell’Assemblea, ma l’Assemblea può fare una proposta nella quale dica che l’Assemblea fa proprio l’ordine del giorno.

LUCIFERO. Lo faccio mio, e lo propongo all’Assemblea come ordine del giorno da votare alla fine di questa discussione.

PRESIDENTE. Siamo già alla fine della discussione, onorevole Lucifero.

Gli onorevoli Tupini, Molè e Molinelli hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione degli Undici».

Inoltre gli onorevoli Togliatti, Nerini e Gronchi hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, approvando le comunicazioni del Governo e l’ordine del giorno della Commissione, passa all’ordine del giorno».

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Delle comunicazioni del Governo noi possiamo prender atto, ma esse non hanno nulla a che fare con l’ordine del giorno della Commissione. Cosa ha che fare il Governo con la Commissione? (Vivi commenti al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Io ho fatto un fugace accenno nel mio precedente intervento ad una questione politica che sembrava si adombrasse in questa questione che politica non è, non può e non deve essere.

Qui non si tratta di stabilire se si approvano le dichiarazioni fatte dal Presidente del Consiglio. Del resto la Camera ha unanimemente dimostrato di approvare quello che nobilmente ha detto l’onorevole De Gasperi.

Ma qui si tratta di chiarire di che cosa decidiamo. Noi decidiamo d’un fatto interno dell’Assemblea, di una questione che riguarda i Deputati e i Ministri soltanto in quanto Deputati, non in quanto Ministri.

Il Governo è completamente estraneo alla questione, tanto è vero che, pendendo questa discussione, il Governo ha avuto il voto di fiducia. Qui non si tratta di riprendere una discussione su terreno politico.

«Udite le dichiarazioni del Governo», significa dare un voto politico. Onorevoli Colleghi, l’onorevole De Gasperi lo sa, e voi tutti lo sapete: se io potessi votare la sfiducia al Governo due volte al giorno lo farei volentieri. (Commenti).

UBERTI. Si capisce, lei fa l’opposizione!

LUCIFERO. Questa è la vera opposizione, e se volete la democrazia in Italia, imparate a rispettare l’opposizione, imparate ad amare l’opposizione, tutela, palladio e primo interprete della democrazia. (Applausi a destra).

Qui si tratta semplicemente di chiarire che nelle decisioni che riguardano se stessa, l’Assemblea non conosce che se stessa, e, quindi, prende le sue decisioni nei propri riguardi, con la propria responsabilità.

In queste decisioni i signori membri del i Governo sono dei Deputati come noi e niente più di noi; quindi io sono del parere che voler introdurre una questione politica dove una questione politica non c’è, significa non solo alterare il significato profondo della decisione che noi prendiamo, ma voler spostare tutto il piano di una discussione e di una deliberazione; ed io sono convinto che se rifletteranno attentamente a quello che io ho detto gli onorevoli colleghi, compresi quelli del Governo, si convinceranno che bisogna separare completamente quella che può essere la decisione e l’attività politica, da quella che è semplicemente una questione di dignità e di vita interna del Parlamento. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, mi sembra che il problema, così come è stato posto dal collega Lucifero, non si presenti logicamente. Noi abbiamo avuto in questa Assemblea una richiesta della Commissione degli Undici sui poteri di indagine che, siamo tutti d’accordo, la Commissione deve avere.

Abbiamo udito il Presidente del Consiglio fare una dichiarazione di carattere politico, alla quale noi desideriamo di dare la nostra piena ed intera approvazione, e desideriamo di dargliela non per il fatto in sé dell’intervento del Governo in questo dibattito, ma per il significato che le parole del Presidente del Consiglio hanno assunto di protesta contro il tentativo politico di diffamare, e l’Assemblea Costituente e il Governo, per cercare di coprire le responsabilità del vecchio regime e quanto del vecchio regime persiste nell’attuale società. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Sembra a me che, accordando alla Commissione degli Undici i poteri che essa chiede (che ha il diritto di chiedere, e direi anche il dovere di chiedere, perché è eletta non per soffocare un eventuale scandalo, ma per dimostrare dov’è lo scandalo, se scandalo di diffamazione o scandalo di indegnità) (Approvazioni), noi dobbiamo nel contempo affermare la nostra solidarietà politica col Presidente del Consiglio per le parole così degne e così ferme che egli ha pronunziato qualche istante fa in quest’Aula. Questo è il significato del nostro ordine del giorno e aggiungo che nell’apprezzamento che intendiamo dare delle parole pronunziate dal Presidente del Consiglio mi pare che nulla possa urtare i colleghi della destra, giacché il Presidente del Consiglio ha parlato qui più che nella sua qualità di Capo del Governo, in quella di tutore del decoro e della onorabilità di tutta la democrazia italiana. (Applausi a sinistra e al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Desidererei aggiungere una sola osservazione, che è questa: nella dichiarazione del Presidente del Consiglio si fa esplicito invito alla Commissione a considerare anche la posizione di coloro che lanciano accuse senza avere elementi probanti di qualche serietà. Ora è evidente che questa specie di invito, che il Governo giustamente fa alla Commissione, di sanzionare almeno moralmente coloro i quali, cogliendo dicerie e insinuazioni, si fanno perturbatori della dignità e della solennità di questa Assemblea, offendendo per ciò stesso il suo decoro, deve essere approvato esplicitamente dall’intera Assemblea, ed è perciò che non è fuor di luogo che noi abbiamo incluso nell’ordine del giorno, presentato dai colleghi Togliatti e Nenni, anche l’approvazione delle dichiarazioni del Governo. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, abbiamo presentato, a nome del Gruppo parlamentare del Partito socialista dei lavoratori italiani, un ordine del giorno puro e semplice, nel quale si dice testualmente così: «L’Assemblea, udite le richieste della Commissione degli Undici, le approva e passa all’ordine del giorno».

Vogliamo dire subito all’onorevole Presidente del Consiglio che questa formulazione non ha nessun significato contrario alle sue dichiarazioni, che noi abbiamo applaudite e approvate, ma rimette la questione nei suoi veri termini di fatto e di diritto. Che cosa ha chiesto l’onorevole Rubilli nel discorso, col quale si è iniziata questa discussione? Ha chiesto che alla Commissione d’indagine (non d’inchiesta, perché non è tale, ma una Commissione che potrà preparare eventualmente l’inchiesta) fossero dati i poteri che non aveva. E perché tale richiesta? Perché tutta questa procedura è nata attraverso un errore di tecnica parlamentare. Rispondendo ad una interrogazione dell’onorevole Natoli, il Presidente del Consiglio ne ha accettato il contenuto ed allora dalla interrogazione è nata una proposta, il che è veramente assai strano e credo che non ci sia nessun precedente parlamentare in proposito. La proposta fu formulata lì per lì, e, alla fine di seduta, lo stesso onorevole Natoli, presentò la sua frettolosa conclusione. Ecco perché la Commissione, e per essa l’onorevole Rubilli, ha chiesto a noi di specificare e di determinare. Il Governo ha fatto una dichiarazione che noi abbiamo ascoltata ed approvata, e tutti riconosciamo la nobiltà dell’intervento del Capo del Governo nella discussione. Ma la discussione è demandata all’Assemblea: il Governo è estraneo in questo momento alla stessa. Il Governo è rappresentato qui da un numero ragguardevole di degnissimi Deputati, ma non ha interesse diretto alla questione. La discussione si svolge nell’ambito parlamentare tra il Presidente dell’Assemblea, la Commissione e i singoli Deputati; abbiamo quindi un solo dovere, quello di ritenere giusta la richiesta fatta dall’onorevole Rubilli a nome della Commissione e di approvare la estensione temporanea dei suoi poteri; dico temporanea, perché voi vedrete, successivamente, che si dovranno dare altri più estesi poteri alla Commissione, la quale attualmente ha soltanto dei poteri direi quasi storico-statistici e non ha altro compito che quello di fare indagini preliminari.

Del resto, questa è la prassi parlamentare. Nel suo libro sulle inchieste parlamentari lo stesso Arcoleo sostiene appunto che in questi casi in un primo tempo bisogna nominare una Commissione di indagine e, solo quando vengano portati innanzi all’Assemblea risultati positivi, viene nominata la vera Commissione di inchiesta.

Ed allora, sembra che il Governo debba accettare il nostro ordine del giorno, perché non v’ha nulla di offensivo per lui, né viene posta alcuna questione di fiducia. Sarebbe strano che, appena pochi giorni dopo il voto di fiducia, fosse presentata una nuova questione in un caso in cui la fiducia non c’entra. L’Assemblea ha ascoltato le dichiarazioni del Governo, le ha applaudite: ecco il caso in cui l’applauso è un voto. L’Assemblea ha acclamato il Capo del Governo che vuole sia tutelata la dignità dei membri del Governo e quella di tutta l’Assemblea. Siamo anche concordi nel volere che, alla luce dei fatti, questa pesante nebbia che grava sull’Assemblea sia una volta per sempre allontanata. Per questo l’Assemblea ha delegato ad undici dei suoi membri una facoltà d’indagine e vuole che questi undici egregi colleghi esercitino il loro mandato nel modo migliore per la tutela della dignità dell’Assemblea. Non mi sembra che si debba aggiungere a questa, che è una situazione di fatto, una questione di fiducia, che è estranea al fatto stesso.

Quindi ritengo che l’Assemblea debba rimettere veramente sulla giusta via quella discussione – nata male per le osservazioni che ho fatto in precedenza – e dar vita ad una vera e propria Commissione di indagine, approvando le proposte dell’onorevole Rubilli intese ad aumentare, per il momento, i poteri per poter giungere ad un risultato positivo. (Applausi).

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Mi associo completamente a quanto ha dichiarato l’onorevole Persico. Desidero aggiungere solo una osservazione circa quanto ho sentito dire in merito al voto politico chiesto dagli onorevoli Togliatti, Nenni e Gronchi. Il voto politico il Governo lo ha già avuto a maggioranza quando è stata discussa la politica del Governo e quando già questo problema morale esisteva. Non vedo quindi perché oggi, senza nessuna ragione, debbano essere mischiati un problema essenzialmente morale…

UBERTI. Non c’è un problema morale! (Commenti Proteste a destra).

SELVAGGI. Se c’è una Commissione di inchiesta per decidere sulla onorabilità di tutti noi, per me c’è un problema morale. (Commenti).

È necessario che questo problema sia chiarito; è un problema morale che investe alcuni di noi. (Commenti Interruzione dell’onorevole Uberti). L’onorevole Uberti lo chiami come vuole, io lo chiamo problema morale. Non vedo, quindi, perché bisogna mettere insieme una questione morale e una questione politica con un voto che riguarda una semplice procedura interna dell’Assemblea Costituente.

Il Governo questa mattina poteva anche non fare delle dichiarazioni; ad ogni modo le ha fatte, ha interferito, in certo senso, nell’attività interna dell’Assemblea. Comunque noi abbiamo dato atto, da tutti i banchi, con il nostro applauso, delle intenzioni del Governo ed abbiamo applaudito in modo particolare alle parole dette personalmente dall’onorevole De Gasperi, considerandone tutto il valore. Ci siamo tutti alzati in piedi per applaudire perché egli si è fatto difensore della dignità della democrazia in Italia e del rispetto che è dovuto alle persone che in questo momento la rappresentano.

Tuttavia, ripeto, non vedo perché bisogna mettere insieme una questione politica con una questione che ha carattere semplicemente interno dell’Assemblea e che nulla ha a che fare con il Governo; il voto politico il Governo lo ha avuto al termine della discussione sulle dichiarazioni del Governo stesso. Non vedo perché il voto debba essere ripetuto oggi: il problema è soltanto questo; dare alla Commissione degli Undici i poteri che essa richiede. Non c’è altra via di uscita e sul tappeto non c’è un altro problema. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Dugoni. Ne ha facoltà.

DUGONI. Noi eravamo d’avviso che non fosse necessario un voto, dopo il consenso manifesto che l’Assemblea aveva dato, tanto alle dichiarazioni del Presidente della Commissione, quanto alle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

Tuttavia, giacché un voto è richiesto, è sembrato a noi che non fosse possibile disgiungere le dichiarazioni della Commissione da quelle del Governo.

Il Governo aveva ampliato il dibattito, portandolo anche dal piano puramente riservato all’Assemblea e agli accusati, al più ampio campo dell’accusa nei confronti dell’onorevole Finocchiaro Aprile. Cioè, l’onorevole Finocchiaro Aprile, che aveva portato qui delle accuse riguardanti Deputati e Ministri, dovrebbe e deve essere chiamato a rispondere di fronte alla Commissione.

Questa dichiarazione del Presidente del Consiglio noi vogliamo consacrare con questo ordine del giorno presentato.

SELVAGGI. Allora, è inutile che vi sia la Commissione degli Undici.

DUGONI. Malgrado ciò, diciamo: votiamo per divisione: cioè, prima la parte dell’ordine del giorno, in cui si approvano le dichiarazioni e le proposte della Commissione d’inchiesta; poi l’altra parte in cui votiamo, non la fiducia al Governo (Interruzioni), ma le dichiarazioni del Governo, in quanto allarghino il dibattito.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io non ho ben capito la questione, forse – chissà? – a causa degli altoparlanti. Quando l’oratore comincia a parlare, io sento; appena l’altoparlante entra in funzione, io non sento più. (Ilarità). Non capisco, dicevo, la questione.

Prima di tutto, pare che si contesti da quella parte (Accenna a destra) l’aggiungere, nella qualsiasi votazione che faremo, l’inciso: «Udite le dichiarazioni del Governo». Ora, da un punto di vista generale, direi: Come è possibile, qui, nell’Assemblea, prescindere dal Governo e dal suo intervento nelle discussioni e deliberazioni di essa? Ed anzi, poiché viene a proposito, dirò che non ho approvato è non approvo l’assenza del Governo da quei banchi durante la discussione della Costituzione. Come può un’Assemblea squisitamente politica, che ha riposto la sua fiducia in una direzione politica, qual è quella che deriva dal Gabinetto, in un momento così solenne, come questo in cui si vota la Costituzione dello Stato, prescindere affatto dal Governo e – se mi si permette l’espressione – manovrare in libertà? Un’Assemblea politica separata dal Governo non la concepisco se non in casi eccezionalissimi, quando è lo stesso Governo che, per sue ragioni, dichiara di volersi astenere, come accade in materia di convalidazione di elezioni, per rispetto alle prerogative della Camera. Il Governo dichiara di astenersi; ma ciò non vuol dire che sia da ammettersi una possibilità normale di una sua assenza in qualsiasi discussione politica.

Mi pare che l’onorevole Selvaggi abbia detto: «È una questione morale, non politica».

Prima di tutto, la distinzione – in questa sede e su questa materia – fra morale e politica la intendo difficilmente.

In secondo luogo, una questione che tocca l’onoratezza di questo corpo sovrano dello Stato non è, per ciò stesso, politica? Ed in quanto uno degli aggrediti fa parte del Governo, non diviene la questione politica per eccellenza? Se le dichiarazioni del Governo non sono essenziali per la votazione, che dovremo fare?

In verità, mi pare che sarebbe fuor di luogo, anzi addirittura strano, se non si aggiungesse: «Udite le dichiarazioni del Governo». Bisogna che ciò sia espressamente detto.

Viene poi la questione del chiarimento dei poteri; ma su di essa mi pare che il discorso del Presidente dei Consiglio abbia bastantemente chiarito. Rimane, tuttavia, un aspetto delicato ed arduo di tale questione, che può meritare qualche spiegazione di più.

Per quanto riguarda i poteri, io ho sentito il mio amico Persico fare una distinzione fra poteri di indagine e poteri di inchiesta. Or, a prima vista, può sembrare che sia la stessa cosa. Però, una differenza in concreto c’è, ed ecco in qual senso.

Se i poteri riguardano la Camera, perché è dalla Camera che è partita l’offesa e dalla Camera muove l’iniziativa, essa ha tutti i poteri, compreso quello di dire al collega che ha accusato se egli sia un diffamatore o un calunniatore. Non occorre, quindi, un trasferimento di poteri. Se poi i poteri toccano gli uffici pubblici, cioè a dire qualora, per avventura, la Commissione senta il bisogno di avere contatti con uffici pubblici, di prender visione di documenti pubblici, di sottoporre funzionari ad interrogatori, anche per tutto ciò i poteri ci sono; e ci sono per il fatto stesso di queste dichiarazioni del Governo. Vedete, tutt’al più, se sia necessario riconoscerli; ma, poiché il Governo ha consentito, questi poteri li avete. (Commenti).

Dove invece i poteri mancherebbero, è per quanto riguarda il cittadino. Il cittadino, infatti, non obbedisce che alla legge. Oh, badiamo: il cittadino può prestarsi volontariamente, e credo che in fondo, dopo tutto, egli si presterebbe. Ma se vi fosse bisogno di un intervento coattivo, di un atto di sovranità, allora occorrerebbe una Commissione di inchiesta, allora occorrerebbe una legge. Ora, a me pare che, allo stato delle cose, data la sensibilità che il nostro popolo ha dimostrato riguardo a queste accuse, non sia necessario ricorrere alla procedura di un disegno di legge.

Di fronte anche alla consistenza delle accuse mosse, qui troverebbe luogo la distinzione dell’onorevole Persico. In un primo tempo, si presenta sufficiente un periodo di indagini con i poteri che ho detto: cioè, nei riflessi parlamentari e nei riflessi dell’Amministrazione pubblica e del Governo; dopo di che, la Commissione trarrà le sue conclusioni. Io ritengo ed auguro che ciò possa bastare perché l’Assemblea sia in grado di formarsi un giudizio su queste accuse. Che se si rendessero, in seguito, necessari altri poteri, i quali potrebbero essere diretti anche contro l’accusatore – ben inteso, dobbiamo supporre tanto il caso che le accuse risultino fondate quanto il caso contrario – giudicherà allora l’Assemblea se e come quei poteri vadano estesi e rafforzati. Quindi, a me pare che, approvando l’ordine del giorno, così com’è stato proposto, la questione sia sufficientemente chiarita. (Applausi).

GULLO ROCCO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO ROCCO. Sembrava, un’ora fa, che non valesse la pena di intervenire in questo dibattiti; ed anzi, da parte di molti di noi, si aveva l’impressione che si fosse drammatizzato su ciò su cui non era opportuno drammatizzare, perché, in fondo, fin dal primo momento siamo stati tutti d’accordo. Anche il presidente della Commissione, onorevole Rubilli, se mi consente questa modesta osservazione, ha parlato forse un po’ più a lungo del necessario, quasi che contro la richiesta della Commissione vi potessero essere opposizioni da parte di qualcuno. Per fortuna non vi furono opposizioni, e le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, sono servite per far finire in un bicchiere d’acqua la tempesta profetizzata dalla stampa. E allora, dopo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio, accolte da un applauso unanime, sembrava che non ci dovesse essere altro. Ma giustamente il Presidente della Commissione ha voluto ché l’applauso, che in fondo era l’applauso alla richiesta della Commissione, si traducesse in un voto. E a questo punto occorreva puramente e semplicemente votare l’accoglimento delle richieste della Commissione. Invece si è voluto inserire un elemento nuovo che ha complicato quello che era necessario semplificare; anzi, che era già stato semplificato sia dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, sia dall’opinione unanime espressa da tutti noi.

MOLINELLI. L’applauso andava al Presidente del Consiglio e alle sue dichiarazioni.

GULLO ROCCO. Ma l’applauso era un applauso personale. (Interruzioni Commenti). Esso esprimeva la speranza che c’è in tutti gli uomini onesti, che non vi sia nulla di vero nelle accuse che sono state fatte. (Applausi a destra). Ma quando noi diciamo che abbiamo questa speranza e che vogliamo credere che nessuna delle accuse pronunciate da qualsiasi banco e contro qualsiasi dei membri di questa Assemblea o del Governo risponda a verità, questa speranza, che si è poi concretata in questo applauso, non dice già che fin dal principio vogliamo, non dico tagliare le indagini, ma dare semplicemente l’impressione che attraverso un voto di fiducia si voglia tagliare le indagini. (Commenti).

Onorevoli colleghi, le questioni a volte assumono un aspetto procedurale, un aspetto più rigido. Ora, quando intervengono fattori morali, anche noi avvocati dobbiamo dimenticarci di essere dei giuristi; soprattutto non dobbiamo essere dei causidici. Qui la questione è semplice, e non riguarda il Governo; il Governo in questo momento è estraneo alla questione. La Commissione di inchiesta ha proposto di avere quei poteri, che di fatto essa non aveva avuto con la nomina fatta di questa Commissione il 18 del mese scorso. E allora a noi non resta, lasciando da parte ogni voto di fiducia (Commenti Interruzioni), ogni voto di approvazione, che accettare puramente e semplicemente le richieste della Commissione.

E badate, onorevoli colleghi, che questo voto che si chiede complica, anziché semplificare, la discussione, perché potrebbe dare l’impressione ad una parte che vi sia una maggioranza che voglia sopraffare una minoranza (Approvazioni a destra); mentre da parte di chi non è disposto a votare neanche per divisione – come ha proposto l’onorevole Dugoni – quella parte dell’ordine del giorno, questo gesto potrebbe essere interpretato come sfiducia al Governo in questa particolare occasione. E in noi non c’è nulla di questo; non c’è che un solo desiderio: il desiderio già manifestato dalla Commissione, cioè che la luce sia fatta e la verità accertata; aggiungo, il desiderio che questa verità possa rivelarci che non c’è nulla di losco, che non c’è nulla di guasto nel nuovo regime democratico repubblicano. Ma noi, col nostro voto puro e semplice, semplifichiamo; voi, con l’aggiunta che avete fatto, complicate la situazione. Da parte nostra dichiariamo di votare semplicemente e puramente l’accoglimento delle proposte della Commissione. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Tonello. Ne ha facoltà.

TONELLO. Onorevoli colleghi, io non sono un giurista, ma nel considerare le cose vado a cercare quella che è la voce della mia coscienza di galantuomo.

Era stata concessa questa Commissione di indagine, che non è una Commissione d’inchiesta, e va bene. Ad un certo momento gli amici e colleghi di questa Commissione hanno detto: sarà bene che l’Assemblea precisi meglio quali sono le nostre possibilità di indagini. Ed allora hanno votato un ordine del giorno. Era naturale che questo ordine del giorno fosse dall’Assemblea accolto; ma intanto voi non dovete dimenticare che attraverso la stampa e attraverso talune dichiarazioni di uomini politici, pareva che gli uomini del Governo, alcuni dei quali sono anche indicati nelle accuse, non vedessero di buon occhio questa estensione di indagini sul loro operato.

E allora perché mi venite a dire che il Governo non c’entra, che il Governo è estraneo? Ma il Governo era direttamente interessato e quando noi abbiamo applaudito poco fa, abbiamo applaudito a De Gasperi il quale ha detto: si faccia l’indagine su tutto, perché io non ho nulla da rimproverarmi. Ora non è giusto che noi che sanzioniamo questa nostra determinazione, non diciamo che il Governo non è contrario a questa indagine, perché il Governo è anzi il primo a dire che sia fatta la luce. Anche se io fossi un oppositore – va bene che non sono neanche tanto un sostenitore del Governo – (Si ride) sentirei nella mia coscienza il bisogno di dire: De Gasperi ha detto che non è contrario. De Gasperi, che fino a prova contraria deve difendere i suoi compagni di lavoro, oggi, di fronte alla domanda della Commissione e di fronte alla realtà delle cose, dice: Sì, la Commissione questo diritto l’ha e noi non ci opponiamo.

Volete sollevare obiezioni, voi della destra, e fare gli oppositori dove non occorre farlo! In questo terreno noi dobbiamo dare ragione al Governo e dire che prendiamo atto anche delle dichiarazioni del Governo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole La Malfa. Ne ha facoltà.

LA MALFA. Non vorrei che l’Assemblea, che ha trovato l’unanimità sulla sostanza della questione (e questa unanimità è quella che importa di fronte al Paese) si dividesse su questioni secondarie. Mi pare che l’unanimità dell’Assemblea sia stata raggiunta su questo punto che, a mio giudizio, è stato convenientemente illustrato dall’onorevole Persico e convalidato dall’autorità dell’onorevole Orlando.

In sostanza, è esatto quanto dice l’onorevole Persico, che noi diamo oggi alla Commissione i poteri di una Commissione di indagine, non di una vera e propria Commissione di inchiesta. Io credo che questa procedura sia la più corretta e direi la più seria.

In questa Assemblea, sono state lanciate delle accuse. Prima di procedere alla nomina di una Commissione di inchiesta è giusto che si accerti l’attendibilità di queste accuse, perché altrimenti la vita politica del nostro Paese sarebbe alla mercé di qualsiasi avventata accusa.

Quindi, Commissione di indagine con tutti i poteri che alla Commissione sono necessari per accertare l’attendibilità delle accuse mosse. Naturalmente, è stato stabilito che la Commissione, dopo aver vagliato le accuse, potrà richiedere all’Assemblea la costituzione di una Commissione di inchiesta. Questa mi pare la posizione raggiunta sul problema dall’Assemblea.

Ora, al Gruppo repubblicano pare che nessuno degli ordini del giorno abbia messo a punto la questione sostanziale; quindi, chiedo alla Presidenza di sospendere per dieci minuti la seduta in maniera che l’Assemblea possa raggiungere l’unanimità sulla questione. (Commenti).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevoli colleghi, ho l’impressione che non si capisca più niente. Noi avremmo qui un interesse, che per me è preminente, sia per l’Assemblea che per il Governo, cioè che la deliberazione sia unanime. Ora, perché rendere impossibile questa unanimità, facendo entrar in una questione in cui la politica, come si è detto, non ci deve entrare, un elemento politico? Quando voi volete che il voto abbia anche significato di fiducia del Governo (Commenti al centro), bisogna che allora il Governo esplicitamente dica che al voto non annette nessun significato di fiducia, non perché da parte nostra vi possa essere il più lontano dubbio che le accuse involgano più o meno seriamente membri del Governo (io personalmente ho avuto occasione di fare al Presidente del Consiglio delle dichiarazioni in questo senso), ma perché, non più tardi di otto giorni fa, noi abbiamo votato contro la fiducia del Governo, ed a così breve distanza non mi pare che ci sia, né nella situazione generale, né nel fatto concreto, un complesso di mutamenti tale che ci induca a mutare il nostro atteggiamento politico.

Ecco perché io ritengo che votare l’ordine del giorno puro e semplice che concede i poteri di indagine richiesti dalla Commissione sia quello che, dalla maniera con cui si è svolta la discussione, potrebbe chiudere la discussione medesima con quella unanimità che, a mio giudizio, sarebbe necessaria in un problema come quello che è stato posto di fronte all’Assemblea. (Commenti).

UBERTI. Sicché per essere unanimi dobbiamo accettare il vostro punto di vista. (Commenti).

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi pareva di essermi collocato in una posizione superiore a quella del presente Governo. Mi pareva che la mia tesi e le mie conclusioni riguardassero il regime democratico e la difesa che a questo regime noi dobbiamo. (Applausi).

Se l’Assemblea desidera onestamente e francamente esprimersi su tale questione, senza che ciò implichi un voto di fiducia generale nel consueto senso parlamentare, accetto tale desiderio. Non richiedo, pertanto, che questo voto di fiducia, dato alla democrazia e all’antifascismo, implichi anche un voto di fiducia parlamentare che, del resto, il Governo ha già ottenuto. (Vivi applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Sembra anche a me che l’aggiungere all’ordine del giorno la frase «udite le dichiarazioni del Governo». ci faccia incorrere in un equivoco. Il Governo vuole o non vuole che siano concessi alla Commissione i poteri che essa richiede? Sembra di sì. (Commenti). Però nelle dichiarazioni del Governo, che noi non possiamo naturalmente aver imparato a memoria per averle soltanto ascoltate, c’è una parte, diremo così, ufficiale, quella che il Presidente ha letto e nella quale, in fondo, si dice questo: per quanto riguarda quelli tra gli imputati che appartengono al Governo, noi consideriamo la questione chiusa e decisa. Poi ha aggiunto, se mal non ricordo: «E adesso aggiungo delle dichiarazioni personali». (Commenti).

In queste seconde dichiarazioni di carattere personale egli disse di non aver niente in contrario a che la Commissione abbia i poteri richiesti.

E, se anche io abbia capito male, ciò prova che includere la frase «Udite le dichiarazioni del Governo», può far incorrere in equivoci; quindi, chiedo che sia votato l’ordine del giorno puro e semplice! (Commenti).

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ; Insieme con gli onorevoli Tupini e Molinelli avevo presentato un ordine del giorno, che avrebbe evitato gli equivoci di una discussione assolutamente inutile e dannosa.

Perché è sorta questa discussione? Perché ci sono alcuni che dicono: «Il Governo chiede un voto di fiducia. E noi non intendiamo di darlo, pregiudicando il nostro atteggiamento futuro».

Tutti infatti dichiarano di approvare quanto l’onorevole De Gasperi ha detto in difesa della democrazia contro il tentativo di menomarne gl’istituti, coinvolgendo tutti gli uomini rappresentativi in una sola atmosfera di discredito complessivo. Ma alcuni non intendono, nella questione che attualmente si dibatte, pregiudicare la loro posizione, in attesa delle indagini degli Undici, con un voto di fiducia preventiva. E questo pensano che avverrebbe, accettando l’ordine del giorno che contiene l’approvazione delle dichiarazioni del Governo.

Ma l’ordine del giorno che noi abbiamo presentato toglie di mezzo la ragione del dissidio, ricomponendo l’unanimità dell’Assemblea. Perché la sua dizione è chiara: «L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione degli Undici». Ora se si può evitare di approvare le dichiarazioni del Governo, non si può non prenderne atto. Onorevoli colleghi, se voi non prendete atto delle dichiarazioni del Governo, voi negate implicitamente alla Commissione i poteri per agire, perché, in tanto la Commissione può interrogare i funzionari e richiedere i documenti che si trovano negli uffici, in quanto il Governo ha dichiarato di metterli a sua disposizione. Se il Governo nobilmente si è messo a disposizione della Commissione, potete non prendere atto di questo impegno solenne, che dà un contenuto concreto ai poteri della Commissione? Sarebbe un non senso. Io penso che, al di sopra e al di fuori di ogni preoccupazione di parte, l’Assemblea debba, con un voto unanime, dimostrare il suo proposito così di fare la luce, che di troncare la ignobile speculazione scandalistica, che non risparmia ormai più nessuno, dando al Paese la precisa sensazione che essa affronta le questioni che attengono al suo prestigio e al suo decoro, in piena concordia d’intenti.

Io dichiaro pertanto, anche a nome degli onorevoli Tupini e Molinelli, di mantenere il nostro ordine del giorno e penso che l’Assemblea farebbe bene a votarlo all’unanimità. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Grassi. Ne ha facoltà.

GRASSI. Onorevoli colleghi, ho presentato un ordine del giorno molto semplice:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Governo, approva l’ordine del giorno della Commissione e passa all’ordine del giorno».

Mi pare che in questa maniera si sintetizza la situazione presente, in quanto è necessario, al di fuori di ogni interesse di parte, di prendere atto delle dichiarazioni del Governo. La questione è squisitamente giuridica e politica, perché l’Assemblea, per quanto riguarda l’organismo politico, deve vivere sulle basi regolamentari che sono il fondamento della sua essenza e della sua funzione.

Ora, non c’è dubbio che in questo caso non pensiamo a Commissioni d’inchiesta che avrebbero altre direttive ed altre procedure; noi siamo sempre nei limiti regolamentari dell’articolo 80-bis per cui, di fronte ad accuse formulate da un membro dell’Assemblea contro membri dell’Assemblea, questa trova la maniera, sulla stessa richiesta di coloro che sono stati colpiti, di dare un giudizio attraverso una Commissione nominata dalla Presidenza. Quindi la Commissione è una Commissione presidenziale. Questi sono i limiti politici e giuridici della questione. Ora, di fronte ai membri dell’Assemblea i quali facciano richiesta al Presidente perché si indaghi sulla accusa lanciata, non v’è dubbio che la Commissione può e deve operare mettendo allo stesso livello l’accusato e l’accusatore, per stabilire nettamente se ci sono colpe o calunnie; ma, di fronte alla situazione particolare in cui un membro dell’Assemblea è anche membro del Governo, sorge la questione specifica.

Potrebbe il membro del Governo essere sciolto dalla responsabilità collettiva del Gabinetto ed essere messo sotto indagine la parte dell’Assemblea? Ecco la necessità della frase «udite le dichiarazioni del Governo», perché il Presidente del Consiglio, appunto per poter dire una parola decisiva su questa tendenza scandalistica, la quale ha cercato di colpire anche membri del Governo, poteva trincerarsi dietro il voto politico, che è il mezzo con cui le Assemblee possono censurare e colpire il Gabinetto o parte del Gabinetto. Il Presidente del Consiglio non ha creduto di trincerarsi dietro questo voto, ma ha detto: metto anche i membri del Governo, i quali sono stati accusati nell’Assemblea, da un membro dell’Assemblea, nelle stesse Condizioni degli altri.

Ora questa situazione alla quale ha fatto cenno l’illustre Maestro onorevole Orlando poco fa, stabilisce la possibilità che la Commissione vada oltre quei limiti ai quali non poteva andare col suo ordine del giorno precedente. Quindi l’Assemblea, prendendo atto delle richieste della Commissione, non può fare a meno di dire «udite le dichiarazioni del Governo», perché sono le dichiarazioni del Governo che stabiliscono la possibilità che si indaghi anche sui membri dell’Assemblea investiti delle funzioni ministeriali. Noi speriamo che le indagini possano essere rapidamente avviate da parte della Commissione, in modo da mettere la parola fine a questa ondata scandalistica che investe la nostra Assemblea. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, parlo come uno dei presentatori dell’ordine del giorno intorno al quale si sta discutendo, ma non voglio ripetere cose che già sono state dette, e per questo sarò brevissimo. Desidero fare osservare all’onorevole Lucifero due cose: la prima è che in un’Assemblea politica non vi è nessuna questione la quale non sia politica, in qualunque modo essa venga sollevata. Desidero inoltre fare osservare all’onorevole Lucifero e agli altri colleghi che hanno sostenuto un’opinione differente dalla nostra, che occorre guardare alla realtà: non possiamo giocare a mosca cieca, non possiamo ignorare che attorno a questa questione è stata scatenata una campagna la quale non ha investito soltanto Tizio, Caio o Sempronio, ma ha investito tutti gli istituti democratici, tutto il metodo democratico che noi stiamo attuando qui per rinnovare l’Italia. (Vivi applausi a sinistra).

Ora, si dice, il Presidente del Consiglio vuole un voto di fiducia. L’onorevole De Gasperi lo ha già precisato e ben precisato, secondo me. Se l’onorevole De Gasperi parlando qui avesse ripetuto le cose che ha detto dieci giorni or sono a chiusura del dibattito sulle dichiarazioni da lui fatte in sede di presentazione del nuovo Governo, la vostra opinione sarebbe giusta; egli sarebbe venuto qui a chiedervi un secondo voto di fiducia. Ma egli non vi ha nemmeno alluso e non ci ha chiesto un secondo voto di fiducia. Effettivamente egli ha posto qui soltanto la questione generale del metodo democratico, che deve essere seguito quando si presentano questioni di questo genere, ed ha aggiunto: voi chiedete poteri di indagine; benissimo, avrete i poteri d’indagine che sono necessari per fare piena luce sulle accuse e sulle diffamazioni, e, se sarà necessario e quando sarà necessario, su coloro che appaiono colpiti da accuse che abbiano il menomo fondamento. Questo ha detto il Presidente del Consiglio; egli soprattutto, poi, non ha qui difeso la onorabilità di Tizio, Caio o di Sempronio, ma delle istituzioni che noi rappresentiamo e di cui siamo una parte; ha difeso la democrazia contro un attacco ingiustificato, non onesto, che viene da parte di forze le quali, per quanto grande sia l’abilità con cui si riescono a mascherare, sappiamo che cosa rappresentano e che cosa sono. (Applausi a sinistra ed al centro).

Onorevoli colleghi, mettiamoci pure d’accordo per trovare un ordine del giorno che raccolga il massimo dei voti.

PERTINI. L’unanimità.

TOGLIATTI. Comunque sia ben chiaro che il voto del nostro Gruppo significa approvazione delle dichiarazioni del presidente del Consiglio. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Tupini, Molè e Molinelli hanno così modificato il loro ordine del giorno, affinché su di esso si possa raccogliere l’adesione unanime dell’Assemblea:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie la richiesta della Commissione e passa all’ordine del giorno».

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI Desidero dire una sola cosa: qui avviene proprio l’imprevedibile. Si era di già votato, se non nella forma, almeno nella sostanza. Tante volte noi creiamo degli equivoci la cui colpa può essere attribuita non alla stampa o all’opinione pubblica, ma a noi stessi, Deve ritenersi certo che dopo le semplici mie dichiarazioni, e dopo le autorevoli dichiarazioni del Presidente del Consiglio, si era avuto il consenso unanime di tutta l’Assemblea. (Commenti). Ora, frazionare un voto e dire che non è unanime, significa distruggere questo accordo e questa intesa che si erano già verificati. (Commenti). Noi non possiamo sopprimere le dichiarazioni mie né quelle del Presidente del Consiglio: vi sono state e bisogna prenderne atto. Soltanto il Presidente, interpretando ed intuendo l’unanimità di consensi, ha detto che bastavano gli applausi ad esprimerla. Io mi sono permesso di pregare che si degnasse anche di chiedere a norma e con le forme previste dal Regolamento, almeno una votazione per alzata e seduta, che maggiormente avvalorasse questa unanimità di consensi determinatasi con gli applausi generali dell’Assemblea. La discussione che ne è seguita poteva anche non verificarsi. Dichiaro ad ogni modo che, qualunque sia l’ordine del giorno prescelto, la Commissione si asterrà dalla votazione per doverosa delicatezza.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, tutta questa discussione mi sembra che l’abbia procurata lei! (Si ride Applausi).

RUBILLI. La colpa è del Regolamento, ed il Regolamento non l’ho fatto io.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, non sono stato io a dire che l’applauso non è votazione. È stato lei a chiedere che l’applauso fosse tradotto in votazione formale.

Io avevo proposto che la votazione avvenisse per l’appunto sull’ordine del giorno, che, forse, un’ora fa, se fosse stato immediatamente accolto, avrebbe evitato questa lunga discussione.

Comunque pongo ai voti l’ordine del giorno Tupini, Molè e Molinelli, del quale ho dato lettura.

CORBINO. Chiedo la parola per dichiarazione di voti.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro che, dopo le parole del Presidente del Consiglio, ed accolta la mia preghiera di spogliare questa questione di qualunque significato di fiducia nel Governo, noi voteremo a favore dell’ordine del giorno presentato, desiderando che l’unanimità dell’Assemblea dia al Paese la certezza che non c’è nessun settore, in cui la sensibilità personale e la sensibilità politica siano poste in discussione di fronte ad attacchi di qualsiasi natura, da qualunque parte essi vengano. (Applausi).

SELVAGGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Dichiaro, a nome del mio gruppo, che voteremo a favore dell’ordine del giorno, così come è stato presentato, dichiarando, però, che interpretiamo le dichiarazioni del Presidente del Consiglio come una difesa, come una riaffermazione della dignità di questa Assemblea, in tutti i suoi membri, e della dignità della democrazia italiana. (Commenti).

PERSICO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Dichiaro, anche a nome dei colleghi del Partito socialista dei lavoratori italiani, di votare a favore dell’ordine del giorno, col significato che esso valga a snebbiare ogni situazione di sospetto verso i membri dell’Assemblea.

NENNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Devo dichiarare, come presentatore del primo ordine del giorno in discussione, che, giacché sull’ordine del giorno Tupini, che per noi ha lo stesso significato, si forma l’unanimità dell’Assemblea, non abbiamo nessuna obiezione a ritirare il nostro ordine del giorno.

PRESIDENTE. Rileggo l’ordine del giorno posto in votazione:

«L’Assemblea, udite le dichiarazioni del Presidente della Commissione degli Undici e quelle del Presidente del Consiglio, accoglie la richiesta della Commissione e passa all’ordine del giorno».

(L’ordine del giorno è approvato all’unanimità, astenendosi la Commissione – Vivi generali applausi).

Sono certo che la Commissione, investita dei poteri, che essa giustamente richiedeva, si porrà all’opera in modo da potere rapidamente comunicare all’Assemblea il risultato dei suoi lavori.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Candela, al Ministro dell’interno e all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, «per conoscere perché da cinque mesi (1° ottobre 1946) i dispensari antitracomatosi pubblici e scolastici della provincia di Messina sono chiusi; se non ritiene opportuno farli riaprire con ogni sollecitudine, dato il carattere endemico ed anche epidemico del tracoma in quella provincia».

Non essendo presente l’interrogante, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Gabrieli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del lavoro e previdenza sociale, «per conoscere le ragioni per cui il Governo è rimasto indifferente dinanzi al gravissimo fenomeno della disoccupazione agricola nel Salento, ove la piccola e media proprietà terriera, essendo costretta da oltre un anno ad assorbire la mano d’opera disoccupata in lavori improduttivi, se non dannosi, si è venuta a trovare in condizioni quasi disperate. L’interrogante segnala l’opportunità politica e sociale di disciplinare il fenomeno con un provvedimento legislativo che metta a carico dello Stato, e quindi della generalità dei cittadini, l’onere dei veri disoccupati e bisognosi».

L’onorevole Sottosegretario per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Prima di entrare nel merito della proposta interrogazione sembra opportuno premettere talune considerazioni di carattere generale perché il problema possa essere inquadrato nella sua giusta luce.

Il Salento è una zona quasi esclusivamente agraria. Le colture prevalenti sono le cerealicole e quelle dell’ulivo, delle viti e del tabacco.

La forma di conduzione prevalente nella zona è quella in economia.

Si ha quindi un’altissima cifra di bracciantato agricolo, quale non trova riscontro neppure in altre provincie della Puglia, che notoriamente è una regione dove nel settore agricolo l’attività bracciantile è sempre stata di gran lunga prevalente.

Giovi al riguardo l’esame dei seguenti dati:

Provincia di Bari: di fronte ad una popolazione addetta a lavorazioni agricole di circa 60.000 unità, si hanno 5000 salariati fissi, 54.000 braccianti o giornalieri di campagna:

Provincia di Foggia: di fronte ad una popolazione addetta ai lavori della terra di circa 70.000 unità, si hanno 8000 salariati fissi, 5000 mezzadri e coloni e 54.000 braccianti:

Provincia di Lecce: di fronte ad una popolazione addetta a lavori agricoli di circa 100.000 unità, si hanno 1200 salariati fissi, 1500 coloni e mezzadri, ivi compresi i piccoli coloni, e ben 95.000 braccianti.

Se si estende poi l’esame alle altre provincie dell’Italia meridionale, vediamo come la provincia di Lecce presenta di gran lunga il maggior numero di giornalieri di campagna, come risulta dal presente prospetto:

Provincie di:

Lecce                        95.000 giornalieri di campagna

Bari                          56.000

Foggia                      54.000

Catanzaro                  53.000           

Catania                     52.000           

Reggio Calabria         46.000           

Brindisi                     44.000

Taranto                     40.000

Sotto questo profilo la situazione del Salento si presenta quindi particolarmente grave, anche in considerazione del fatto che per il passato molta manovalanza agricola emigrava nella stagione invernale nelle provincie limitrofe, mentre questo fenomeno di migrazione interna è venuto, ora, quasi completamente a cessare a causa, molto probabilmente, delle generali difficoltà economiche e del conseguente rallentamento delle attività produttive.

Si è quindi determinata una preoccupante situazione di disagio per la categoria per la quale il prefetto della Provincia, analogamente a quanto avvenuto in altre provincie della Puglia, ha ritenuto necessario disciplinare il collocamento della mano d’opera agricola con norme che impongono a ciascun proprietario terriero l’assorbimento di un determinato quantitativo di giornalieri di campagna, non peraltro in modo indiscriminato, tenendo conto della sola estensione dei fondi, ma proporzionando l’assunzione obbligatoria di mano d’opera agricola alle singole colture praticate, e distinguendo la mano d’opera che deve essere assorbita direttamente dai conduttori dei fondi, siano essi proprietari o affittuari, da quella che deve essere assunta a carico dei proprietari come tali per compiere lavori di miglioria e di trasformazione fondiaria.

A questo punto è bene fare le seguenti precisazioni. L’onorevole interrogante ha affermato che il Governo sia rimasto indifferente dinanzi al gravissimo fenomeno della disoccupazione agricola del Salento. Non sembra al riguardo che tale asserzione corrisponda alla situazione di fatto, in quanto in un primo tempo, attraverso l’azione delle autorità prefettizie locali tuttora in atto, e successivamente mediante l’invio di una apposita Commissione di studio che recentemente ha presentato le sue conclusioni, si è cercato di risolvere il problema in via generale.

Si deve accennare anche, al riguardo, che presso il Ministero del lavoro è in corso lo studio per l’approntamento di un opportuno decreto legislativo diretto a disciplinare la materia sul piano nazionale, in modo da conciliare la necessità di ridurre la disoccupazione della mano d’opera agricola con quella di ottenere una migliore coltivazione delle terre e quindi un incremento della produzione.

L’onorevole Gabrieli ha altresì affermato che «a seguito della imposizione di mano d’opera la piccola e media proprietà terriera, essendo costretta da oltre un anno ad assorbire la mano d’opera disoccupata in lavori improduttivi se non dannosi, si è venuta a trovare in condizioni quasi disperate».

Si deve premettere al riguardo che l’imponibile di mano d’opera recentemente disposto nelle provincie pugliesi per fronteggiare una situazione che presenta, senza dubbio, caratteri di gravità dovuti anche a motivi contingenti ed eccezionali, oltre che intrinseci, è già da diversi decenni in applicazione, ad esempio, nelle provincie di Ferrara, di Rovigo e di Mantova, dove pure si riscontrano analoghe situazioni di esuberanza di mano d’opera bracciantile e dove è stato possibile conseguire con questo mezzo notevoli risultati, sia ai fini della sensibile riduzione del fenomeno della disoccupazione stagionale, sia ai fini di un effettivo miglioramento fondiario, che ha portato le dette provincie all’avanguardia della intensità produttiva e del perfezionamento colturale.

Il sistema è quindi già passato, sia pure in diversi ambienti, attraverso il vaglio di una lunga esperienza, con risultati più che favorevoli e che superano di gran lunga gli eventuali immancabili inconvenienti.

Ciò premesso, in linea di principio giova esaminare se, nel caso specifico, il decreto prefettizio che ha stabilito il collocamento obbligatorio della mano d’opera nella provincia di Lecce, abbia carattere di eccessiva ed ingiustificata onerosità, tale da riuscire insopportabile specie per le piccole e medie aziende.

Il decreto prefettizio fissa il quantitativo medio di mano d’opera che le aziende debbono annualmente assorbire per ogni ettaro a coltura; i dati presentano carattere di attendibilità, sia perché in linea tecnica generale non sembrano eccessivamente elevati, sia perché sono stati determinati su parere dell’Ispettorato dell’agricoltura.

L’applicazione del decreto è inoltre affidata ad apposite commissioni comunali miste, in cui gli interessi degli agricoltori siano garantiti dalla presenza di due propri rappresentanti.

Inoltre è stato disposto che l’agricoltore possa distribuire nel corso dell’anno, con suo criterio discrezionale, l’assorbimento del quantitativo di mano d’opera impostagli, così da consentire l’utilizzazione nella maniera più appropriata, secondo le esigenze della tecnica colturale e delle necessità di miglioramento di fondi.

Per quanto si riferisce in particolare alle piccole proprietà terriere, il decreto prefettizio ha disposto che nell’imponibile aziendale siano detratte le giornate lavorative del conduttore della azienda e dei suoi familiari in ragione di 200 giornate all’anno per ogni unità uomo dai 14 ai 65 anni.

Il senso di equilibrio cui si è ispirata tale disposizione risulta chiaramente dal seguente esempio.

L’imponibile di mano d’opera annualmente previsto per un ettaro di seminativo arborato e di oliveto promiscuo è di 27 giornate lavorative; ad una famiglia di coltivatori diretti composta di tre unità lavorative uomo vengono detratte 600 giornate. Ciò significa che nessun imponibile di mano d’opera viene addossato al predetto coltivatore per i primi 22 ettari di terreno ([200 x 3]: 27 = 22.2).

Ma anche a prescindere dal diretto esame delle disposizioni localmente adottate, occorre tener presente che il Governo ha già affrontato il problema sul piano generale con il decreto 1° luglio 1946, n. 31, diretto appunto a favorire la ripresa dell’efficienza produttiva delle aziende agricole e l’utilizzazione della mano d’opera agricola disoccupata. Come è noto, ai sensi del predetto decreto, il Ministero dell’agricoltura e delle foreste è stato autorizzato a concedere sussidi che vanno dal 35 per cento al 67 per cento della spesa occorrente per lavori agricoli di carattere straordinario, ciò che riduce ancora in misura sensibile l’onere derivante agli agricoltori dall’imposizione di mano d’opera agricola per far fronte ai lavori predetti.

Non si nega che nella pratica applicazione di tutte le predette disposizioni si siano potuti verificare taluni inconvenienti e soprattutto talune sperequazioni, per l’eliminazione delle quali le autorità locali, d’accordo con le organizzazioni sindacali interessate, pongono la loro cura costante.

L’onorevole interrogante ha ritenuto infine di segnalare «l’opportunità politica e sociale di disciplinare il fenomeno con un provvedimento legislativo che metta a carico dello Stato, e quindi della generalità dei cittadini, l’onere dei veri disoccupati e bisognosi».

Si deve preliminarmente osservare che il citato decreto 1° luglio 1946, n. 31, sia pure in via indiretta, risponde già all’esigenza prospettata dall’onorevole Gabrieli.

Ogni altro provvedimento di carattere generale da adottare in sede di finanziamento della estensione del sussidio di disoccupazione alle categorie agricole non sembra attuabile allo stato della legislazione vigente, sia perché, secondo le norme in vigore, gli oneri assicurativi gravano per ora direttamente sui singoli settori della produzione a cui appartengono i lavoratori assicurati, sia perché, come è noto, finora i lavoratori agricoli sono esclusi, per un complesso di ragioni, dal beneficio dell’assicurazione contro la disoccupazione.

Altra questione è che i gravissimi problemi sopra indicati siano sollecitamente posti allo studio ed a questo riguardo si possono fornire le più ampie assicurazioni che da parte del Ministero del lavoro non si tralascerà di svolgere ogni possibile concreta attività per raggiungere una soluzione organica e definitiva.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GABRIELI. Apprezzo lo sforzo, di cui mi ha dato atto la dichiarazione dell’onorevole Sottosegretario, che ha compiuto il Governo per venire incontro alle esigenze veramente allarmanti della disoccupazione nel Salento; ma allo stato dei fatti non posso dichiararmi soddisfatto.

La situazione è talmente grave in quella zona che la Commissione composta dai rappresentanti di tutti i Comuni e di tutte le categorie interessate ha raggiunto Roma per essere ricevuta dagli organi governativi e per esporre direttamente le proprie necessità al Presidente del Consiglio.

Da oltre un anno i proprietari agricoli del Salento subiscono il peso di una disoccupazione in gran parte fittizia, che li ha letteralmente esauriti. Né il decreto prefettizio ha potuto sanare e legalizzare la situazione, perché già dopo il primo mese di attuazione, onorevole Sottosegretario, è stato completamente violato a danno dei proprietarî agricoli, in quanto il carico di mano d’opera imponibile, previsto in quel decreto, è stato completamente sostenuto dai proprietari, sicché restano ancora dieci mesi ed il decreto rimane scoperto, e gli aventi diritto invocheranno non più il decreto, ma la forza delle loro ragioni per essere occupati e per richiedere quelle mercedi che i proprietarî non sono più in grado di pagare.

Attualmente il fenomeno ha assunto forme allarmanti e insostenibili. Molti onesti agricoltori sono costretti a vendere i loro beni, frutto di decenni di lavoro; altri, in numero rilevante, sono stati messi nella necessità dolorosa di allontanarsi dal Comune di origine per liberarsi dall’incubo quotidiano che finisce per ridurli alla disperazione. Si è costretti ogni giorno a pagare alte mercedi per lavori inutili ed anche dannosi. I disordini e le agitazioni sono frequentissimi. Sono stati sequestrati sindaci di alcuni Comuni importanti, e fra questi un deputato, l’onorevole Vallone.

Il problema ha due aspetti: da un lato la così detta disoccupazione o non esiste, o esiste in proporzioni molto ridotte. Essa viene creata ed ingrossata dagli agenti del disordine che hanno finito per togliere ogni tranquillità alle popolazioni salentine, che sono state sempre amanti del lavoro e della operosità. E così, ai varî disoccupati bisognosi, ai quali mai è stato negato e sarà negato quel compenso e quell’aiuto che è doveroso, si mischiano i disoccupati di professione, i quali si improvvisano braccianti nelle campagne, ed altra gente, che, pur non avendo bisogno, trova modo, per approfittare della generale confusione, di percepire un salario cui non corrisponde un effettivo rendimento. In tal modo, molte aziende sono in rovina. Lo Stato ha l’obbligo di intervenire per disciplinare il fenomeno, riportandolo sulle vie della legalità. Esso deve istituire uffici statali, allo scopo di controllare e di accertare l’effettivo stato di disoccupazione dei richiedenti. Lo Stato ha il dovere di intervenire introducendo il sussidio a favore dei disoccupati e sottraendo in tal modo il singolo ad un obbligo che la legge ed i civili ordinamenti non impongono. Lo Stato deve curare che la legge e l’ordine pubblico siano rigorosamente osservati a difesa della pace sociale. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni inscritte all’ordine del giorno di oggi.

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio all’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente». (Documento I, n. 3).

La Commissione all’unanimità propone all’Assemblea di negare la chiesta autorizzazione. Pongo ai voti tale proposta.

(È approvata).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

La Commissione conclude proponendo di concedere l’autorizzazione.

Ha chiesto di parlare l’onorevole La Rocca. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. A me pare che la richiesta autorizzazione debba essere negata dall’Assemblea per un duplice ordine di motivi: in fatto e in diritto, e per la tutela dell’esercizio della libertà di critica e di controllo da parte dei membri di questa Assemblea.

Non ho il privilegio di essere un anziano di questa Assemblea e mi si dice che la vecchia prassi abbia stabilito che l’autorizzazione a procedere si nega unicamente quando vi è il sospetto di una persecuzione politica. Mi pare che questo criterio non possa essere adottato nel caso attuale, innanzitutto perché questa prassi si riferisce ad una situazione politica e storica già superata, alla situazione esistente prima dello stabilirsi della dittatura, in un’epoca di stagnazione e di quiete, in cui pure uno starnuto era un gran caso. D’altra parte, la teoria è grigia, mentre l’albero della vita è perennemente verde, come diceva il poeta. Bisogna giudicare non già con un criterio strettamente giuridico, ma porre una questione di principio, sul piano politico.

Qual è il fatto che ha dato luogo alla risposta dell’onorevole Colombi, per cui si chiede l’autorizzazione a procedere?

C’è stata una campagna continua da parte di un giornale dell’Emilia, campagna che arroventava l’atmosfera, avvelenava gli animi e speculava sulla situazione politica generale, alimentando intrighi e manovre nel campo internazionale e auspicando quasi una nuova guerra, mentre la disfatta aveva ridotto il paese a due tronchi sanguinanti, aveva rovinata la nostra economia, distrutte le città, devastate ed arse le campagne, diroccate le fabbriche e le case, stroncato il fiore della nostra giovinezza, sconvolta la famiglia. A questa campagna, che appariva ed era un crimine ai danni della Nazione, l’onorevole Colombi rispose che il giornalista, autore degli articoli incendiari, avrebbe fatto molto meglio a tacere e a ritirarsi sulle montagne, dove era stato, camuffandosi da partigiano.

Il che significava, a giudizio della maggioranza della Commissione, quasi intaccare il patrimonio morale, ledere quel diritto alla tutela della propria persona, volendo giudicare con la bilancia dell’orafo.

Ora qui si solleva un’altra questione, che cioè il criterio politico debba prevalere su quello giuridico, e che l’uomo politico italiano, nell’esercizio della sua attività, quando veda in giuoco i sovrani interessi del Paese, che devono naturalmente superare quelli individuali, abbia anche il diritto, nella polemica, di mettere un po’ in soffitta l’avversario, di ridurlo al silenzio.

Con un criterio diverso, rischiamo d’imbavagliare tutta la stampa, di soffocare la polemica politica.

D’altra parte, la molla, la spinta, nella questione, è essenzialmente politica. Il motivo determinante della polemica ha la sua radice nella ragione politica. L’individuo non c’entra: si colpisce la corrente che tende a mettere il Paese un’altra volta sul piano inclinato dei conflitti internazionali.

Noi siamo stati per vent’anni la forza motrice della rinascita del Paese e col nostro sacrificio e con la nostra lotta abbiamo cercato di difendere, insieme con gli altri antifascisti, l’onore e la dignità della Nazione di fronte alla storia e in faccia all’avvenire, Siamo stati chiamati provocatori di torbidi, assassini, antinazionali. E nessuno di noi ha mai pensato di uscire dal terreno politico e mettersi sul binario giudiziario, per udire il magistrato pronunciare la condanna a una multa.

Pur col massimo rispetto per le tradizioni giuridiche, credo che non dobbiamo farci guidare dai giudizi dei vari Papiniani e Labeoni e Giustiniani, se non vogliamo che lo spirito dei morti continui a guidare i vivi.

Né accade richiamarsi, con pedanteria e con angustia mentale, al fatto, in sé e per sé, come Shylok rivendicava la libbra di carne, in base al contratto. L’onorevole Colombi, nella polemica, ha interpretato lo spirito nazionale ed ha cercato di difendere la pace, l’ordine e gli interessi supremi della Nazione di fronte ad un giornalista che, esercitando il diritto della libertà di stampa, ma abusandone, cercava di buttare il Paese in quello abisso in cui si è frantumato e dal quale lavoriamo a risollevarlo.

Credo che l’Assemblea debba, nel caso concreto, subordinare il criterio rigorosamente giuridico a quello preminente politico e – sovvertendo la vecchia prassi, se è esistita – stabilire che quando non si è mossi dall’intenzione di colpire altri per il gusto di colpire, e fare dell’immunità parlamentare un privilegio per rompere gli schemi della legge; che quando, sul terreno della lotta politica, si tratta di difendere interessi superiori, che sovrastano e debbono far tacere quelli individuali, bisogna negare l’autorizzazione a procedere, per la tutela della libertà di critica e di controllo, per la tutela di quei diritti che potrebbero dirsi, con l’immagine del grande tragico greco, il «flore del bottino», se per bottino intendiamo quell’insieme di diritti e di libertà, riconquistati con tanto sangue sul cadavere del fascismo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Relatore onorevole Ciampitti. Ne ha facoltà.

CIAMPITTI, Relatore. Come Relatore della Commissione per le autorizzazioni a procedere, devo difendere l’opera, non tanto mia, quanto della maggioranza della Commissione per le autorizzazioni a procedere contro le critiche e gli addebiti che sono stati mossi dal collega che mi ha preceduto. È bene che l’Assemblea conosca, sia pure brevissimamente, di che cosa si tratti.

È stata sottoposta al giudizio della Commissione una domanda di autorizzazione a procedere contro l’onorevole Arturo Colombi in base a querela sporta con ampia facoltà di prova, in data 9 agosto 1946, dal giornalista Tullio Giordana, direttore del Giornale dell’Emilia, il quale ha ritenuto di ravvisare gli estremi della diffamazione a mezzo della stampa in un articolo pubblicato il 3 agosto 1946 nel giornale La lotta, organo della Federazione provinciale bolognese del Partito Comunista Italiano, articolo firmato con le iniziali A.C., corrispondenti al nome e cognome dell’onorevole Arturo Colombi, che, del resto, è direttore responsabile del giornale stesso, e che in una dichiarazione che ha reso alla Procura della Repubblica di Bologna, ha ammesso esplicitamente di essere l’autore dell’articolo. Il querelante Tullio Giordana fa consistere il reato di diffamazione nelle frasi «fanfarone», la «sua lurida pellaccia» nonché nella attribuzione del fatto specifico e determinato di «essersi durante la lotta partigiana rifugiato comodamente in un albergo di montagna, allo scopo di mettersi al sicuro».

In una prima seduta la Commissione per le autorizzazioni, a procedere, per un eccesso di scrupolo, credette opportuno di richiamare i precedenti giornalistici, sia in rapporto al giornale di cui è direttore il Tullio Giordana – Il Giornale dell’Emilia – sia in rapporto al giornale La Lotta di cui è direttore l’onorevole Colombi, per l’eventualità che si potessero trovare in questi precedenti gli elementi per escludere o per mettere in dubbio l’esistenza del delitto di diffamazione, di cui il Giordana si lamentava. Questo materiale giornalistico fu fornito alla Commissione, per il tramite dell’autorità giudiziaria di Bologna, e la Commissione ha portato il suo esame sopra questo materiale, pervenendo alla conclusione che neanche l’articolo specificamente invocato dal Colombi dal titolo «Shylok e la realtà» pubblicato il 28 luglio 1946 nel Giornale dell’Emilia, potesse dare l’appiglio alla giustificazione della diffamazione che si conteneva nell’articolo incriminato.

Intanto la Commissione, dopo maturo esame, perveniva a queste conclusioni specifiche:

1°) che nessun dubbio potesse sorgere che autore dell’articolo incriminato fosse l’onorevole Colombi, per le ragioni che ho già accennato poco fa, perché egli è il direttore responsabile, perché egli aveva firmato con le proprie iniziali l’articolo, perché egli esplicitamente lo aveva ammesso davanti al Procuratore della Repubblica di Bologna;

2°) che, tenuto conto delle funzioni di delibazione assegnate alla Commissione per le autorizzazioni a procedere, per negare o concedere l’autorizzazione a procedimento penale, contro chi è protetto da garanzie parlamentari – (il che non implica naturalmente un giudizio di merito che è riservato al magistrato) – non si possa non riconoscere la necessità di concedere la chiesta autorizzazione;

3°) che l’articolo querelato sembra contenere gli estremi della diffamazione. Il fatto materiale è contenuto nell’articolo, già acquisito agli atti, e che sia offensivo è evidente, non occorrendo dimostrare che costituiscano un’offesa all’altrui onore e all’altrui reputazione le espressioni «fanfarone», «lurida pellaccia» e simili e più specialmente non si può mettere in dubbio che costituisca offesa alla reputazione e all’onore di una persona l’attribuzione del fatto determinato che durante la lotta partigiana essa si sia allontanata e si sia rifugiata in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la propria pelle.

Una voce a sinistra. È vero. (Commenti).

Una voce a destra. Non è vero, e lo sapete bene che non è vero. (Commenti).

CIAMPITTI. Tanto più era rilevante la cosa, in quanto il giornalista Giordana ha assunto e ha dimostrato di essere stato tra i partigiani col grado di ufficiale superiore, sicché l’attribuirgli che durante la lotta partigiana egli si fosse rifugiato in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la sua pelle, era un’affermazione più che lesiva dell’onore, del patrimonio morale e della reputazione di questo giornalista;

4°) d’altra parte resta sempre salvo e impregiudicato il diritto dell’onorevole Colombi di provare davanti al Magistrato, in periodo istruttorio o in pubblico dibattimento, la propria incolpevolezza, sia in fatto che in diritto, e di ottenere l’esenzione dalla pena se, avvalendosi dell’ampia facoltà concessagli dal querelante, riuscisse a dare la prova della verità del fatto addebitato al Giordana;

5°) né vale, a mutare l’opinione della Commissione, il risultato dell’esame da essa portato sul materiale giornalistico esibito dalla parte avversa e nemmeno di quello di cui all’articolo «Shylok e la realtà» al quale l’onorevole Colombi fa particolare riferimento, e che invoca specificamente per giustificare il proprio operato.

Difatti l’onorevole Colombi come si è difeso davanti al Procuratore della Repubblica di Bologna? In questa maniera: l’articolo incriminato fu scritto a seguito di un atteggiamento nazionalistico, guerrafondaio, antipartigiano e anticomunista assunto dal Giornale dell’Emilia, in un complesso di pubblicazioni culminate nell’articolo di fondo dal titolo «Shylok e la realtà» apparso su detto giornale il 28 luglio 1946. Ora la Commissione non poteva entrare nel merito, se cioè fosse giustificata la reazione, se così si può chiamare, dell’onorevole Colombi; se mai la questione può interessare il Magistrato del merito, sia nel periodo istruttorio, sia nel pubblico dibattimento, in quanto che la funzione della Commissione per le autorizzazioni a procedere è limitata semplicemente ad una delibazione sommaria, nel senso di stabilire se sia o non il caso di autorizzare il procedimento penale. Con questo né si condanna, né si assolve, perché questo compito è riservato al Magistrato.

Ora, l’onorevole collega, che ha mosso appunti e critiche alla decisione della Commissione per le autorizzazioni a procedere, faceva appello alla tutela della libertà di critica e di controllo, sostenendo che tale diritto fosse incondizionato nel senso che si potesse anche ingiuriare ed offendere impunemente a mezzo della stampa. La Commissione ha rilevato che, se pure l’articolo «Shylok e la realtà» avesse potuto dare appiglio all’onorevole Colombi per replicare e confutare quello che Tullio Giordana aveva scritto, questo si sarebbe potuto fare senza ingiuriare e diffamare. Comunque, ci troviamo di fronte ad un fatto specifico attribuito dal Colombi al Tullio Giordana, cioè che durante la lotta partigiana il Giordana si sarebbe rifugiato, per paura, in un albergo di montagna, per mettere al sicuro la propria pelle. Ed allora una delle due; o questo è vero, o non è vero. Se è vero, il Colombi potrà fornirne le prove nel periodo istruttorio o nel pubblico dibattimento ed allora andrà esente da pena ed il Giordana pagherà anche le spese di giudizio; se invece non è vero, resta il fatto che il Giordana è stato diffamato ed ha querelato legittimamente l’onorevole Colombi, e questi dovrà subirne le conseguenze. Se il Colombi ha altri mezzi per giustificare la mancanza del dolo o di altri elementi costitutivi dal reato, può farlo in periodo istruttorio o in pubblico dibattimento, ma venire a discutere oggi della libertà di critica e di controllo, quando ci troviamo di fronte ad un delitto di diffamazione, a me pare che sia un fuor d’opera. D’altra parte se ne vuol fare una questione politica? Io ammetto che possano esserci stati precedenti giornalistici, cui si appella l’onorevole Colombi, ma non è detto che in una polemica anche di natura politica, anche quando c’è eccitazione di animi, sia consentito di diffamare e di ingiuriare un galantuomo, perché se questo si fa, allora si tradisce veramente la finalità della disposizione che richiede la autorizzazione a procedere contro chi è rivestito del mandato parlamentare. Negando, sempre ed in ogni caso, l’autorizzazione a procedere, si creerebbe la falsa convinzione che basta esser deputato per poter violare impunemente la legge, perché la qualità di deputato esime dal rispondere davanti al magistrato delle violazioni di legge.

L’onorevole collega, sostenitore della tesi opposta, ha sentito il bisogno di deformare e minimizzare il fatto specifico attribuito dall’onorevole Colombi al Giordana, asserendo che dopo tutto il Colombi avrebbe detto: «Faresti meglio a tacere ed andartene in montagna dove sei stato». Questa è la prova migliore della onesta convinzione dell’onorevole collega della sussistenza del reato, dal momento che ben diversa fu l’espressione adoperata e tale da rappresentare una grave offesa al patrimonio morale del Giordana. Una cosa è dire: vattene in montagna e taci, va in montagna dove sei stato; altro è dire: tu che ti vanti di essere stato un combattente, anzi un comandante durante la lotta partigiana, non è vero che hai combattuto con i partigiani; tu te ne sei scappato in montagna, ti sei rifugiato in un albergo per mettere al sicuro la pelle.

Per queste ragioni, e per quelle che per brevità si omettono, a me pare che il giudizio della Commissione, che non è, del resto, e non dev’essere né di affermazione, né di esclusione di responsabilità, limitandosi a stabilire se concorrano le condizioni per concedere o negare l’autorizzazione a procedere, debba essere accolto.

E confido che l’Assemblea delibererà negli stessi sensi, compiendo un atto di serena giustizia.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Scalfaro. Ne ha facoltà.

SCALFARO. È soltanto per una ulteriore chiarificazione.

Mi pare sia indispensabile porre chiara «una affermazione; che, cioè, nell’istituto della immunità parlamentare quello che conta, oserei dire, è un contenuto eminentemente negativo; cioè, noi abbiamo il compito – l’avevamo prima nella Commissione e l’abbiamo oggi come Assemblea – di vedere se sotto accuse o denunzie o comunque sotto parvenze giuridiche siano mascherate delle ombre o delle realtà di persecuzione politica.

Quando abbiamo compiuto questo, si è esaurito il nostro compito. Non possiamo entrare nel merito.

Per sintetizzare, vi è da una parte un articolo di Tullio Giordana che a noi non interessa nel suo contenuto, ma che certo non ha alcuna offesa personale per nessuno; dall’altra la risposta del collega Colombi, che scende a delle accuse o ingiurie nei confronti del Giordana («quel botolo di Giordana», «scriba fascista» ed altro).

È quindi il fatto preciso diffamatorio, il fatto concreto. Si dice: «tu che ti sei vantato di essere stato in montagna, quando in montagna non sei stato; sei stato in albergo».

Attraverso l’istruttoria della Commissione siamo venuti a conoscenza di altri elementi: che, cioè, altra volta il Giordana fu accusato nello stesso senso; ed il Giordana ebbe a pubblicare la documentazione delle sue attività partigiane, il che eventualmente porterebbe ad incidere maggiormente nel lato soggettivo, perché esistano gli elementi del reato.

Ma questo a noi non può interessare; non possiamo assolutamente entrare nel merito.

A noi basta che vi siano questi elementi; basta che escludiamo un contenuto di persecuzione politica; basta inoltre che vediamo un cittadino italiano, il quale chiede di poter ottenere una dichiarazione pubblica, formale, circa le sue attività e chiede, in altri termini, di passare da querelante ad imputato, perché questo è l’atteggiamento di chi dà querela con ampia facoltà di prova. Non possiamo votare contro la autorizzazione a procedere, perché – mi si consenta – daremmo l’impressione alla Nazione che l’istituto della immunità parlamentare è uno scudo, dietro il quale ci si può nascondere, in nome del quale noi, qui dentro, abbiamo diritto di criticare e di trascendere in ingiurie e diffamazioni, mentre gli altri questo diritto non hanno.

In altri termini, l’istituto della immunità parlamentare, anziché essere un istituto di tutela non di noi singoli, ma della veste nostra di deputati, rappresentanti del popolo, finirebbe per avere i caratteri di un istituto di ingiustizia. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta dell’onorevole La Rocca di non accogliere le conclusioni della Commissione e negare quindi l’autorizzazione a procedere contro l’onorevole Colombi.

(Non è approvata).

Pongo ai voti le conclusioni della Commissione.

(Sono approvate).

Il seguito dello svolgimento dell’ordine del giorno è rinviato a domani alle ore 10.

Presentazione di un disegno di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Mi onoro di presentare il seguente disegno di legge:

«Approvazione dell’accordo per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro degli affari esteri della presentazione di questo disegno di legge. Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Interrogazioni ed interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Pacciardi ha presentato, con richiesta di risposta urgente, la seguente interrogazione:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, sul senso e la portata delle sue strabilianti dichiarazioni ai giornalisti stranieri, relative alla stabilità del regime repubblicano».

Gli onorevoli Angelucci e Dominedò hanno pure richiesto che sia risposto d’urgenza alla interrogazione circa la sospensione, presso gli Uffici del Genio civile del Lazio e presso il Provveditorato delle opere pubbliche di ogni attività tendente a predisporre i lavori pubblici già in programma ed il relativo finanziamento.

Gli onorevoli Condorelli, Benedettini, Colonna, Penna Ottavia, Perrone Capano, Miccolis hanno presentato la seguente interrogazione urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere: a) in base a quali disposizioni di legge l’onorevole Ministro si è inteso autorizzato a vietare con una circolare telegrafica «l’esposizione in pubblico o in luoghi aperti al pubblico della bandiera con lo scudo sabaudo e di altri emblemi della decaduta monarchia», scudo ed emblemi che sono anche insegne e distintivi di partiti e associazioni politiche; b) se ritenga che ciò, oltreché arbitrario ed illegale, non sia, comunque, contrario ai principî fondamentali e più certi della libertà politica; c) se non creda necessario revocare d’urgenza la denunciata circolare telegrafica, che costituisce un palese eccesso di potere, una flagrante violazione della libertà politica, una grave offesa al sentimento di milioni di italiani, un oltraggio alla storia».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Domani i Ministri interessati comunicheranno quando intendono rispondere.

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha presentato la seguente interpellanza con carattere d’urgenza.

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per restituire il dovuto prestigio all’Istituto orientale di Napoli, riportandolo alla sua missione di custode, diffusore e incrementatore del patrimonio di cultura e civiltà, merito degli orientalisti italiani».

Chiedo al governo quando intenda rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Il Ministro della pubblica istruzione comunicherà domani quando intende rispondere a questa interpellanza.

MARTINO GAETANO. Ricordo di aver presentato una interrogazione con carattere di urgenza all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica.

PRESIDENTE. Avverto che il Governo ha già fatto sapere che risponderà quanto prima.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per cui non si è dato corso alla pratica relativa alla statizzazione della Scuola d’arte di Enna, tanto utile per l’interno della Sicilia.;

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere i motivi per cui non si eleva a sede di Pretura la sezione staccata di Pietraperzia dipendente da Barrafranca.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere i motivi per cui non si eleva a sede di Pretura la sezione staccata di Biancavilla, dipendente da Adrano.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali siano i proponimenti del Ministero dei lavori pubblici relativamente alla ferrovia che dovrebbe congiungere Catania a Nicosia, già quasi completa fino a Regalbuto, in considerazione anche che i lavori eseguiti sono in completo stato di abbandono.

«Romano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere – essendo noto che le condizioni economiche dei pensionati diventano ogni giorno più disagevoli e preoccupanti – quali provvedimenti si intendano adottare in merito ad una equiparazione ai trattamenti di contingenza concessi agli altri impiegati, mediante la corresponsione:

1°) del premio della Repubblica;

2°) della tredicesima mensilità;

3°) degli aumenti, per effetti della scala mobile, sulle indennità caro viveri.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se risulti che, malgrado il disposto del decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1946, n. 19, che prevede l’esecuzione del lavoro straordinario da parte dei dipendenti dello Stato – civili e militari – il Ministero della difesa – Esercito – abbia ancora giacenti numerose richieste di pagamento per lavoro effettuato sin dal mese di giugno 1946 da parte di impiegati civili degli enti periferici;

2°) le ragioni per le quali, malgrado le disposizioni generiche sopracitate, non sia stato ancora autorizzato l’inoltro al Ministero della difesa – Esercito – delle proposte di compenso per lavoro straordinario eseguito dai militari degli enti periferici;

3°) se risulti che non è stato ancora autorizzato il pagamento del lavoro straordinario effettuato dai militari e civili degli enti periferici nel 1946, mentre tutti gli ufficiali ed i civili del Ministero della difesa – Esercito – lo hanno da tempo riscosso, in base al lavoro svolto, coi criteri fissati dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 19;

4°) se non sia indispensabile, per un complesso di ovvie ragioni, usare una maggiore cautela nel concedere beneficî solo al personale delle Amministrazioni centrali, lasciando che quello addetto agli enti dipendenti raggiunga poi la parità dei diritti attraverso manifestazioni che contribuiscono a minare la disciplina dei dipendenti statali.

«Perugi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle finanze e tesoro, per segnalare che attraverso la scarsità delle dotazioni concesse, si raggiunge la soppressione di istituti di ricerca scientifica e di difesa delle piante dalle malattie.

«Tale è il caso della gloriosa stazione di patologia vegetale di Roma, cui si assegnano lire 600 mila, con il carico di tre avventizie.

«Rivera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare in materia di Commissariati alloggi (rivelatisi assai spesso inutili o addirittura dannosi) e, in particolare, quali provvedimenti siano stati adottati in seguito alle gravi ammissioni fatte dal prefetto di Roma in merito alle irregolarità burocratiche e giudiziarie verificatesi nel Commissariato alloggi di Roma.

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda revocare il divieto, posto nel 1940, al bando ed all’espletamento dei concorsi a primari, aiuti ed assistenti ospedalieri. Si tenga presente che in realtà, ancor prima del divieto per lo scoppio della guerra, da un biennio, cioè dal 1938, perché alla legge di tale anno le Amministrazioni non avevan fatto seguire i regolamenti relativi, non si bandivano più concorsi: quindi quasi da dieci anni il personale, ospedaliero non è più rinnovato, ed è scelto unicamente con criteri, che non dànno sempre garanzia di serietà e di ossequio alla giustizia.

«Ora, siccome non si intende né abolire né ripristinare la legge del 1938 e neppure si vuole modificarla, l’interrogante chiede se non sia il caso, in attesa che modifiche vengano apportate alla legge o che nuova legge sia preparata ed approvata – il che importerà non breve periodo di tempo – di permettere che le singole amministrazioni, applicando i loro regolamenti interni, bandiscano concorsi valevoli per un biennio.

«Così il Governo avrebbe la possibilità di compilare una legge ed un regolamento rispondenti ai nuovi concetti della funzione ospitaliera, e sarebbe nel contempo eliminato l’inconveniente, che turba assai la vita delle istituzioni preposte alla cura ed all’assistenza degli ammalati.

«L’interrogante crede non conforme a ragioni di sana amministrazione il dilazionare ancora tali concorsi.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se il più volte annunciato progetto di legge riguardante quei dipendenti dagli enti locali che, sottoposti a giudizio di epurazione e discriminati, trovano ostacolo, nell’avversione e nelle proteste dei colleghi, ad essere rimessi in servizio, stia per essere approvato, ed ancora se sia esatto che da tale progetto siano esclusi i dipendenti dalle opere pie, così che queste vengono a trovarsi in difficoltà, non sapendo come sistemare non pochi dipendenti conforme a serietà ed a giustizia.

«L’interrogante non nasconde la propria meraviglia per la lentezza del provvedimento ed anche per la sua incompletezza.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere esattamente la natura degli accordi intervenuti per la costituzione delle linee aeree civili italo-americana ed italo-inglese, in relazione anche alla assunzione del personale.

«Geuna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se risponde a verità che l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica abbia disposto, con sua circolare ai Prefetti ed agli Uffici sanitari provinciali, che venga sospesa la rigida applicazione delle norme del Codice penale e del testo unico delle leggi sanitarie, le quali vietano l’esercizio abusivo della professione di medico-odontoiatra. E per conoscere, nel caso affermativo, quali ragioni abbiano ispirato tale provvedimento.

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per conoscere di urgenza lo stato attuale dell’organico dei vigili del fuoco (dall’interrogante prospettato in precedenti interrogazioni e colloqui) e per invitarli a soprassedere a qualsiasi riduzione di personale, non solo per le benemerenze di guerra da questo Corpo acquisite, ma per l’importanza medesima del servizio contro gli incendi e contro tutti gli altri imprevisti dannosi della vita. Esso merita una più ampia applicazione, anche ai centri urbani minori, anziché intempestive riduzioni in antitesi con la tutela degli uomini e delle cose sancita dal progetto della nuova Costituzione italiana. L’interrogante richiama inoltre l’attenzione degli onorevoli Ministri perché vogliano, in linea subordinata, rinviare ogni variazione di organico alla formazione della nuova Camera dei Deputati, cui è devoluta la responsabilità delle riforme fra le quali, non ultima, quella del servizio contro gli incendi e gli altri eventi dannosi improvvisi ed imprevisti della vita.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quale provvedimento riparatore intenda adottare a favore degli ufficiali effettivi che hanno partecipato al Corpo nazionale di liberazione, i quali si troverebbero in uno stato d’inferiorità di fronte alla pur giusta immissione di partigiani nell’Esercito col grado di capitano (decreto n. 304 del 16 settembre 1946), e se non ritenga doveroso equiparare moralmente ai partigiani, mercé qualche avanzamento straordinario o altro vantaggio di carriera, tutti coloro che, con la spontanea adesione al Corpo nazionale di liberazione, hanno fervidamente e valorosamente contribuito ad esaltare l’onore e le altre virtù civili e militari dell’Esercito italiano.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sull’ingiusta sentenza emessa recentemente dalla la Sezione del tribunale di Lecce contro sei giovani di Maglie, appartenenti al Fronte della Gioventù, e con la quale essi furono condannati a ben 18 mesi di carcere, per aver semplicemente tentato di prendere possesso di un locale, che era stato loro promesso dalla Prefettura come sede della propria organizzazione.

«Trattandosi di sei giovani, tutti onesti lavoratori e di buonissima condotta, la detta sentenza ha offeso il senso di giustizia della popolazione ed è stata generalmente interpretata come un atto fazioso.

«L’interrogante chiede quale provvedimento intenda prendere l’onorevole Ministro per riparare sollecitamente alla ingiustizia di cui sono vittime i sei giovani in questione, al fine di calmare il vivo e giustificato malcontento che la sentenza ha suscitato nelle masse del popolo.

«Di Vittorio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere quali provvidenze intenda assumere nei confronti dei dipendenti dell’Amministrazione delle poste e telegrafi che versano in precarie condizioni finanziarie: il commesso di ruolo, sia celibe che sposato, percepisce lire 11.000 al mese; l’ausiliario lire 9000; il diurnista lire 8400; il responsabile notturno, con tutte le responsabilità che tale sorveglianza comporta, percepisce lire 7,25 per notte in più dello stipendio. Qualsiasi operaio, specie se lavora di notte, è meglio retribuito. Per sapere ancora per quali motivi non siano stati concessi i richiesti aumenti.

«Badini Confalonieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se ritenga opportuno emanare apposita disposizione legislativa che stabilisca la riammissione in termine dei contribuenti già ammessi al godimento della temporanea esenzione dell’imposta di ricchezza mobile per gli opifici tecnicamente organizzati, per il periodo in cui non hanno potuto godere di tal beneficio per la distruzione totale o parziale o per danneggiamento dei detti opifici causato dagli eventi bellici.

«Castelli Avolio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno modificare il decreto legislativo luogotenenziale 4 agosto 1945, n. 453, nel senso di estenderne l’applicazione anche agli orfani della guerra 1915-1918, affinché possa esser connesso anche ad essi il collocamento nelle graduatorie speciali sia per il conferimento di provvisoriati, sia per i prossimi concorsi.

«Non appare, infatti, equa una discriminazione tra gli orfani dell’una o dell’altra guerra, essendo identica la privazione da essi sofferta con l’immolazione dei propri genitori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga assolutamente inadeguato il contributo assegnato alla provincia di Treviso in base alla legge 1° luglio 1946, n. 31, per favorire la ripresa produttiva delle aziende agricole con la esecuzione di lavori di miglioramento agrario, anche a sollievo della disoccupazione, contributo finora limitato a quindici milioni (che si dovrebbe almeno quadruplicare), in una provincia che conta un centinaio di comuni che insieme sommano oltre 600 mila abitanti, con circa 40 mila braccianti disoccupati e molti centri gravemente danneggiati dalla guerra; ché, soltanto nella zona dell’aeroporto di Treviso si richiederà la disponibilità di una cinquantina di milioni, per ottenere di restituire le terre di una modesta zona alla produttività. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per richiamare la sua attenzione sulla situazione di una benemerita categoria di personale della scuola.

«Con la revisione dello stato giuridico ed economico dei segretari economi e dei vicesegretari degli istituti e delle scuole d’istruzione media tecnica, contemplata dal decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1947, n. 107, si è finalmente resa giustizia ad una benemerita classe d’impiegati che, a differenza di quanto avveniva nei ruoli delle altre amministrazioni, iniziavano e terminavano la loro carriera rispettivamente nei gradi 11° e 12° del gruppo B.

«Eliminato così un evidente stato di disagio morale e materiale del personale suddetto, occorrerebbe completare l’opera di giustizia iniziata, dando a quei segretari e vicesegretari degli istituti e delle scuole d’istruzione media tecnica, i quali da anni aspettano una sistemazione definitiva prestando servizio da supplenti o incaricati, la possibilità di una carriera.

«Trattasi di personale che, nella quasi totalità, è degno di ogni benevola considerazione sia per il servizio encomiabile da molto tempo prestato, sia per le capacità dimostrate nell’espletamento delle proprie mansioni, rendendosi certamente degno di ricoprire un posto di ruolo nell’amministrazione dello Stato.

«Detto personale attende finalmente di avere la sicurezza del proprio lavoro in modo da continuare a prestare la propria opera con maggiore serenità, senza l’assillo della sua futura sorte e con la certezza di potere percepire, dopo avere spese le proprie energie in una vita di lavoro, una modesta pensione nella vecchiezza.

«L’interrogante chiede di sapere se il Ministro intenda adottare in favore di esso i seguenti provvedimenti:

1°) passaggio in ruolo, su proposta dei rispettivi capi d’istituto o mediante concorso interno, dei segretari e vicesegretari che, in possesso del prescritto titolo di studio o di altro titolo equipollente, abbiano prestato per lo meno un quinquennio di lodevole servizio;

2°) riconoscimento agli effetti della carriera di tutto o, in tesi subordinata, di parte del servizio prestato da supplente o incaricato, applicando, a seconda dei casi particolari, gli articoli del decreto legislativo presidenziale del 27 giugno 1946, n. 107;

3°) conseguente modificazione delle piante organiche, su proposta dei capi d’istituto, tendente a trasformare in posti di ruolo i posti previsti per incarico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Firrao».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se la Direzione generale della pubblica sicurezza abbia indagato sulle notizie date dal Risorgimento Liberale del 28 dicembre 1946, in una corrispondenza da Firenze a firma Emanuele Farneti, nella quale si parlava di traffici d’armi tra agricoltori toscani e del Mezzogiorno e della esistenza in Toscana di gruppi armati organizzati dagli agricoltori; e quali risultati ha dato la eventuale inchiesta di polizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Grieco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per conoscere i motivi per i quali non ancora si è ritenuto di estendere ai maestri elementari insegnanti in Napoli, ma costretti a risiedere fuori del centro urbano, le indennità stabilite per le città sinistrate;

«Le spese notevoli che tale categoria di impiegati deve sostenere per il viaggio quotidiano ed una refezione fuori casa; il servizio effettivamente prestato nella città più duramente colpita dalla guerra; le particolari condizioni di disagio in cui essa si dibatte, rendono legittima l’aspirazione in oggetto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Falco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’agricoltura e foreste, per sapere come mai nella provincia di Bologna non sia stata accolta la richiesta dei braccianti, perché sia loro riconosciuto il prezzo politico per il grano ritirato e da ritirare. Tale prezzo si pratica nelle finitime provincie di Modena, Ferrara e Ravenna; e la condizione dei suddetti lavoratori dopo quasi tre mesi di ininterrotta disoccupazione è così dura da determinare fra essi una grave agitazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle finanze e tesoro, per conoscere se abbiano ricevuto la commovente e ben motivata istanza degli abitanti delle frazioni di Lotte, Mortola Superiore ed Inferiore, San Lorenzo, Ville, Calandri, Scalza, Sant’Antonio, Grimaldi, Carletti, Villatella, tutte del comune di Ventimiglia, tendente ad ottenere un temporaneo esonero dalle imposte sui beni immobili e dalla complementare sul reddito; e quali provvedimenti intendano prendere per venire incontro a quelle sventurate popolazioni, sulle quali gravano in modo eccezionale – pur nella comune sventura – i danni e le conseguenze in genere della non voluta guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se non ritenga necessario, in considerazione dell’alto numero di senzatetto che ha la città di Foggia, in conseguenza dei noti bombardamenti sulla città, di cedere a quel comune – sia pure provvisoriamente – le cosiddette «casermette», attualmente non utilizzate e dove comodamente potrebbero trovare alloggio ben 400 famiglie;

2°) se non ritenga opportuno disporre per il trasferimento della Infermeria presidiaria nei propri locali di via Manzoni in Foggia, da quelli attualmente occupati, ove avevano sede l’Ospedale provinciale di maternità ed il Brefotrofio provinciale, i quali furono costretti a sfollare a causa dei noti bombardamenti sulla città.

«Detta sistemazione è tanto più urgente in quanto un numero rilevante di piccoli nati del Brefotrofio vive in inadatte corsie del Preventorio di Manfredonia con un’alta percentuale di mortalità; né l’Ospedale di maternità, l’unico in provincia della specialità di ostetricia e ginecologia, può dare ricovero alle gestanti per la ristrettezza dei locali nei quali è attualmente ospitato (Ospedale oftalmico di Lucera). (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Imperiale, Allegato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se e quali provvedimenti intenda assumere il Governo nei riguardi di quegli ufficiali della Marina militare che, già appartenendo al «ruolo speciale di complemento», parteciparono ai concorsi per il passaggio nel «ruolo speciale in servizio permanente effettivo» indetti a norma dell’articolo 6 della legge 3 dicembre 1942, n. 1417, e tuttora attendono di conoscere l’esito dei concorsi stessi; ciò in relazione al diverso trattamento di quiescenza previsto per gli ufficiali in servizio permanente effettivo e per quelli del « ruolo speciale di complemento» dagli articoli 4 e seguenti del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 490. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bibolotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, in merito all’occupazione delle miniere del Valdarno, da parte di quelle maestranze, ed alla conseguente gestione delle miniere stesse da parte di un cosiddetto «Comitato provvisorio di gestione» degli operai.

«In particolare, l’interrogante chiede di conoscere se e quali misure erano state prese preventivamente per impedire tali atti di violenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se sono stati concessi alla Cooperativa «Il Cavatore», Cava di Villa Inglese in Torre del Greco, i carri ferroviari occorrenti per il trasporto di pietrisco ed altri materiali alle Ferrovie dello Stato, Sezione lavori di Napoli, poiché, essendosi saturato ogni spazio disponibile, si è dovuto sospendere il lavoro con gravissimo disagio economico per circa 400 operai rimasti disoccupati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere:

1°) se conviene nel principio che i magistrati, essendo direttamente investiti dell’esercizio indipendente di uno dei poteri dello Stato – principio, questo, accolto anche negli articoli 94 e 97 del progetto di Costituzione – debbano godere di un trattamento economico adeguato, indipendentemente da quello riservato agli impiegati dello Stato;

2°) se, in relazione a quanto premesso, intenda aderire od opporsi ai provvedimenti intesi a tradurre in atto, per ora almeno in parte, l’adeguamento della situazione economica della Magistratura alla sua posizione istituzionale;

3°) in particolare, se intenda aderire od opporsi alla istituzione di una cassa nazionale magistrati, da alimentarsi con il gettito di apposita tassa.

«A quanto risulta, il relativo schema di decreto trovasi fin dal settembre 1946 presso il Tesoro, che non ha ancora dato alcuna risposta al Ministero della giustizia.

«Si chiede, in particolare, di conoscere se intenda opporsi allo schema, benché esso implichi non un onere per l’erario, ma solo la istituzione di una speciale tassa giudiziaria; istituzione alla quale aveva già aderito il precedente Ministro delle finanze;

4°) si chiede di conoscere, altresì, se è vero che per le gravose funzioni di giudice istruttore e di presidente di Assise vengano corrisposte indennità mensili nette di lire 41 e di lire 23 rispettivamente per i giudici istruttori dei grandi e dei piccoli tribunali e di lire 59 per i presidenti di Assise e se l’onorevole Ministro del tesoro giudica adeguate tali misure, o ritiene invece di aderire all’aumento di esse, richiesto da tempo dal Ministero di grazia e giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere per quale ragione non è intervenuto per risolvere, sullo stesso piano dello stabilimento Ilva di Piombino, con lo stanziamento di fondi per la predetta Società, la situazione dello Stabilimento siderurgico di Portoferraio, intorno al quale gravita tutta la vita dell’Isola e per cui sono stati proposti alcuni progetti di ricostruzione ritenuti sconsigliabili, per ragioni contingenti, dalla Commissione governativa. E per conoscere, altresì, se non sia possibile effettuare l’assegnazione di parte delle somme richieste a titolo di indennizzo di guerra, che si aggira su «un miliardo e duecento milioni» o somministrando l’aiuto governativo sotto forma di assegnazione mensile, per esempio, di lire 50 milioni, per un periodo di 14-18 mesi, richiesto dal completamento dei lavori di ricostruzione.

«Tale ricostruzione consentirebbe una ripresa generale della vita economica dell’Isola in un complesso di attività, che oggi rimangono allo stato latente, perché non ci si accinge ad iniziative, ritenute poco prudenti in uno stato di abbandono e di miseria, e risolverebbe il problema gravissimo della disoccupazione locale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non intendano adottare delle misure di sgravio fiscali e di contribuzione da parte dello Stato, previste dalle vigenti norme, per venire incontro alle popolazioni dei seguenti comuni della provincia di Savona: Andora, Alassio, Stellanello, Testico, Garlenda, Villanova di Albenga, Onzo, Vendone, Casanova Lerrone, Erli, Zuccarello, Cisano sul Neva, Toirano, Balestrino, Arnasco, Albenga, Laigueglia, Ortovero, Nasino, Castelbianco, Castelvecchio di Rocca Barbena, e dei seguenti della provincia di Imperia: Chiusavecchia, Chiusanico, Borgomaro, Caravonica, Cesio, Rezzo, Vessalico, Borghetto d’Arroscia, Pieve di Teco, Pornassio, Cosio d’Arroscia, che ebbero a subire, in seguito alle eccezionali nevicate del decorso mese di febbraio, danni ingentissimi alle colture e specialmente alle zone olivate, ove una grandissima quantità di piante venne distrutta. Detti danni sono tanto più gravi in quanto sono necessari parecchi anni per la ricostituzione degli oliveti danneggiati o distrutti. Le misure invocate sono urgenti e indispensabili, in quanto l’olivo rappresenta per tutti i comuni indicati la principale coltura e per molti, anzi, l’unica fonte di lavoro e possibilità di occupazione della popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare i Ministri dell’interno e della pubblica istruzione, sul grave problema della tubercolosi infantile. Sta per iniziarsi la terza estate dalla liberazione d’Italia: le cifre constatanti la tubercolosi infantile diventano sempre più paurose. Se l’iniziativa privata fa qualcosa, ma sparsamente ed inorganicamente e senza collegamento, l’iniziativa statale e quella comunale è nulla, o quasi. Obbedendo a vecchi concetti ed a distinzioni ormai superate si crede che l’assistenza all’infanzia e la profilassi infantile siano spese straordinarie facoltative, e perciò si tollera dai Comuni che i ragionieri del Ministero dell’interno cancellino dai bilanci tutte le somme impostate a tali scopi.

«L’interpellante chiede di sapere se, in vista di un alto interesse nazionale – quale è l’assistenza all’infanzia misera e la sua protezione contro gli assalti del male più fiero – a difesa della ricchezza fisica – ed anche morale – della generazione di domani, non si creda opportuno, nell’attesa che una moderna legislazione sistemi tutta questa vasta materia, in ossequio agli articoli 25 e 26 del progetto di Costituzione, accogliere le proposte seguenti di cui l’interpellante a sé non dissimula l’azione rivoluzionaria:

  1. a) siano momentaneamente raccolte sotto l’amministrazione comunale delle città capoluogo di provincia tutte le istituzioni di assistenza all’infanzia ed alla fanciullezza;
  2. b) del pari si concentrino nell’amministrazione comunale tutte le proprietà dell’ex G.I.L., ora rette da Commissari, delle quali proprietà è già cominciata la dispersione, ché cessioni temporanee son già avvenute e di tali cessioni hanno avvantaggiato gli enti e gli individui più pronti a gettarsi sulle proprietà comuni.

«Tale concentrazione dovrebbe avvenire provincia per provincia.

«Cesserebbero così le gestioni commissariali, cesserebbe ogni ragione di spesa e s’otterrebbe la garanzia della conservazione intatta del patrimonio;

  1. c) il prefetto, con i suoi organi adatti, provveda all’attuazione di queste concentrazioni nel Comune capoluogo di provincia e secondo il disposto dell’articolo 58 della legge 1890;
  2. d) tutte le lodevoli iniziative di enti, di partiti, di individui siano collegate con queste istituzioni a cui si riferisce la presente interpellanza;
  3. e) un Comitato di poche persone adatte nominate dal Consiglio comunale del Comune capoluogo di provincia dirigerà ed amministrerà l’insieme di istituti per l’infanzia che verrà in tal modo a costituirsi.

«Longhena».

«I sottoscritti chiedono d’interpellare il Ministro della difesa, sulla situazione presente delle Forze armate italiane e sulle linee programmatiche del nuovo ordinamento delle Forze stesse.

«Bozzi, Reale Vito».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro della difesa, per conoscere come egli intenda valorizzare il patrimonio di eroismi e sacrifici compiuti dall’Esercito durante le operazioni belliche, a partire dal 1940 fino al termine della guerra, al fine di farne base morale per la ricostruzione dell’Esercito.

«Per avere, inoltre, assicurazioni che la selezione politica negli alti gradi della gerarchia non infirmi il principio democratico di un Esercito a servizio nella Nazione ed allontani il sospetto di diventare uno strumento di parte capace di porre in pericolo le libertà civili; che tale selezione non allontani dall’Esercito capi che hanno dimostrato il loro valore sui campi di battaglia e soprattutto uomini di carattere; che il piccolo Esercito che ci è concesso mantenere possa riscuotere la fiducia dell’intera Nazione, sicché costituisca l’intelaiatura della Nazione in armi, qualora deprecabili eventi lo richiedessero.

«Per chiedere, infine, se, a rassicurare il Paese, al riguardo di quanto sopra, non ritenga opportuno portare alla discussione in Parlamento leggi e decreti, riguardanti le Forze armate, anteriori al 2 giugno 1946, emanati da Governi non investiti di quell’autorità che deriva dalla fiducia di una Camera elettiva ed in clima politico diverso dall’attuale.

«Bencivenga».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte nell’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.45.

MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

L.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 5 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana:

Presidente                                                                                                        

Tupini                                                                                                                

Della Seta                                                                                                       

Lucifero                                                                                                           

Mastrojanni                                                                                                    

Laconi                                                                                                              

La seduta comincia alle 15.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Mazzoni.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendendo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana, desidero rivolgere l’invito ai colleghi componenti dell’ufficio di Presidenza della Commissione per la Costituzione e ai membri del Comitato di redazione a prendere posto ai banchi normalmente occupati dai membri del Governo.

Questo invito è giustificato da due ragioni: la prima, di carattere molto modesto e banale, riguarda la comodità stessa della discussione, poiché, specialmente dal momento in cui comincerà la discussione più specifica, è evidente che sono i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione che dovranno rispondere a tutte le obiezioni, a tutte le sollecitazioni, accogliere o no le proposte; ed è più che naturale che essi si trovino di fronte, non dirò a quelli che saranno i loro contradittori – ché forse saranno invece i loro collaboratori e sostenitori – in una posizione più comoda per poter discutere. La seconda è una ragione di carattere sostanziale, a mio giudizio. È stato notato ieri, ed oggi su tutti gli organi di stampa è stato largamente sottolineato, il fatto che i banchi del Governo sono vuoti; ciò che è un’affermazione della sovranità dell’Assemblea nel corso di questo suo specifico lavoro costituente. Orbene, io credo che, se a questo aspetto negativo della nostra apparenza esteriore si aggiunge anche l’aspetto positivo, cioè se questi banchi non resteranno orfani di ogni ospite, ma accoglieranno invece coloro che rappresentano il momento iniziale di impulso di questi nostri lavori, il concetto che l’Assemblea Costituente risolve in sé in questo momento tutta la sovranità popolare, riceverà una maggiore evidenza.

D’altra parte, i membri della Presidenza della Commissione e i membri del Comitato di redazione sono andati un po’ all’avanscoperta per tutti noi in questo terreno nuovo e inesplorato dei problemi costituzionali; ed è naturale che essi, anche per i banchi che li accolgono ricevano un segno del merito particolare che hanno acquistato dinanzi a noi e in definitiva, quindi, anche dinanzi ai risultati del nostro lavoro.

La nostra Assemblea non è un complesso inarticolato; ma nel suo interno ha un sistema di rapporti non soltanto fra gruppo e gruppo politico, ma anche fra gruppo e gruppo in relazione ai lavori che svolge. Ritengo che nell’articolazione la Presidenza della Commissione e il Comitato di redazione debbano rappresentare come il ganglio nervoso centrale del nostro lavoro, ciò che credo sarà ancora una volta sottolineato se i loro membri accettano il mio invito – e credo sia l’invito dell’Assemblea nel suo complesso – a prendere posto in quei banchi, in cui possano svolgere più liberamente il loro lavoro. (Applausi).

(I membri della Presidenza della Commissione ed i membri del Comitato di redazione prendono posto al banco del Governo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tupini. Ne ha facoltà.

TUPINI. Onorevoli colleghi, il nostro Presidente ci ha indicato ieri la via della discussione, non tanto per gli elementi tecnici che dovranno guidarla, quanto per il tono e lo stile che dovranno animarla, e che non potranno non essere, come del resto già lo sono stati, alti e sereni come il Paese attende la dignità del nostro consesso richiede.

Gli accenti risuonati ieri in quest’aula, anche se qua e là discordi da quello che vi dirò, si sono mantenuti a simile auspicata altezza e sono sicuro che vi si manterranno nella presente e nelle prossime sedute e fino all’esaurimento del nostro mandato, che non esito a definire storico, non per vana e abusata jattanza di parola, ma per un profondo senso di trepida preoccupazione.

Protagonisti d’una grande pagina di storia, spetta a noi, onorevoli colleghi, di aprire un varco alle nuove fortune della Repubblica fra le macerie del passato e di porre le premesse e le garanzie di un avvenire di libertà e di giustizia. L’Assemblea Costituente saprà scrivere degnamente questa pagina, interprete consapevole e fedele delle aspirazioni e della nobiltà del popolo che qui ci ha mandato.

Cade opportuno un richiamo al passato: è un monito ed un incitamento di Giovanni Bovio: «È fiorente un popolo che è solcato da grandi idee e quando ha partiti convinti e discussioni libere. È cadente un popolo quando i partiti si corrompono in sette e la discussione si fa muta o pettegola».

Gli onorevoli colleghi che hanno ieri parlato – Lucifero, Bozzi e Calamandrei – hanno pronunziato tre discorsi che oserei giudicare, se pure da punti di vista diversi e con avverse motivazioni, di opposizione talvolta generale e, in alcuni tratti, specifica al progetto che ora è sottoposto al nostro esame.

L’onorevole Calamandrei l’ha giudicato calvo, mentre altri, nella stampa o in giudizi pubblici o privati, lo qualifica perfino troppo zazzeruto. (Ilarità).

La verità, onorevoli colleghi, sta sempre nel mezzo ed io vorrò esaminare il progetto proprio da questo punto di vista, annunciandovi senz’altro che mi pronunzierò in via di massima favorevole ad esso e che, per quanto mi sarà possibile, lo difenderò.

Critiche non sono mancate e certo non mancheranno, ed io stesso avanzerò qualche riserva; ma poiché, insieme a valorosi e non dimenticati colleghi della Commissione per la Costituzione, vi ho lavorato su con una discreta assiduità, sento di doverlo difendere nel suo assieme e di dovere fare onore ai voti espressi nel corso della sua elaborazione.

Intanto, un’osservazione preliminare va fatta. Il progetto è la risultante feconda degli sforzi dei componenti delle varie Sottocommissioni che hanno sempre cercato, come dissi ieri interrompendo cortesemente l’amico e collega onorevole Lucifero, di intendersi, di comprendersi ed hanno coltivato il proposito di giungere, quando potevano, all’accordo e all’intesa.

I contrasti, quando si sono delineati, non sono stati mai messi in sordina e la stampa li ha, volta a volta, sottolineati e resi noti alla pubblica opinione. Ogni deputato ha voluto tener fede alla concezione che rappresentava. L’ha esposta, l’ha puntualizzata in formulazione di articoli, ma non sono mai venute meno la volontà di conciliazione e la convinzione responsabile che la Carta fondamentale di un popolo non può riflettere l’intransigente pensiero del minimo numero possibile di cittadini, uniti da una medesima fede, sibbene il pensiero del maggior numero di essi, consenzienti su una sostanza comune di pensiero e di vita. Ciò dimostra come sia ingiusto affermare che il nostro è un progetto o comunque sarà uno statuto di compromesso. A me sembra invece che se un rilievo va fatto al riguardo esso deve unicamente riferirsi allo sforzo durato da ciascuno di noi per superare molte delle troppe divisioni che separano i cittadini e i partiti, per trovare, al di là e al di sopra dei motivi contingenti di attrito e di divergenze, un minimo comune denominatore, un cemento comune alla gran parte del popolo italiano.

Se questo spirito di consapevole conciliazione informerà anche la discussione dell’Assemblea, il progetto della Costituzione sarà, sì, perfezionato e migliorato, ma non potrà mutarne i tratti caratteristici e i motivi ispiratori fondamentali.

Tra questi ve n’è uno che differenzia da ogni altro il progetto di nostra Costituzione e ne annuncia la nota caratteristica e dominante: è il senso umano che intimamente e profondamente lo pervade. È stato, questo, onorevoli colleghi, il punto d’incontro, faticosamente cercato e trovato, dei programmi diversi di cui i colleghi delle Sottocommissioni erano portatori; punto d’incontro felice e provvidenziale nella confusione delle idee e nella varietà dei partiti. L’uomo, dico l’uomo, ha agito da criterio uniformatore e da principio coordinatore.

Se ci fosse consentito di indagare al di là della storia i motivi che la determinano, noi dovremmo domandarci per quale fortunato disegno si siano trovate d’accordo concezioni che hanno sempre posto l’uomo al centro di ogni ordinamento sociale e concezioni che tali preoccupazioni hanno mostrato o mostrano di non avere. Come mai, ad esempio, la concezione cristiana della vita si sia trovata vicina a concezioni che tali non sono o come tali non si pongono.

La ragione è che nella memoria di tutto il popolo italiano è ancora viva una storia recente, che deve essere una volta tanto, almeno, maestra di vita: è la storia della dittatura del fascismo, con le note conseguenze di guerra e di disfatta che hanno colpito al cuore l’uomo nelle sue libertà personali, nella sua famiglia, in tutta la sua vita.

Se ogni Costituzione è il prodotto e l’interprete delle situazioni di fatto e delle aspirazioni prevalenti di una nazione nel momento in cui si attua il processo costituente, il nostro progetto non poteva non tener conto della profonda avversione determinata da quel passato nell’animo del popolo italiano verso ogni forma statale e verso ogni regime politico che minacci di vulnerare di nuovo la sfera dei naturali diritti della persona umana.

Per questo, e per l’apporto che talune concezioni, basate sull’uomo, hanno dato alla elaborazione del progetto, esso è tutto intriso di una visione umana della vita, e se un nome dovrà ricordare la futura Costituzione, io mi auguro che sia questo: «La Carta dell’Uomo». (Approvazioni).

La Democrazia cristiana ha impresso un po’ il crisma della sua ampia e costruttiva collaborazione al progetto di Costituzione. Quanti hanno dato il 2 giugno la loro fiducia alla Democrazia cristiana non devono ritenersi ingannati. Essa aveva promesso di garantire al Paese una Costituzione imperniata sui cardini fondamentali della libertà e della giustizia ed ispirata al Cristianesimo. Questa promessa è stata e, per quanto dipende da noi, sarà mantenuta. L’impegno assunto verso più di otto milioni di cittadini non è stato e non sarà tradito. Naturalmente non tutto il programma spirituale, morale, politico, civile, non tutta la Weltanschauung della Democrazia cristiana ha trovato in questo progetto il suo adeguato riflesso. Ciò non poteva essere per le ragioni che ho detto da principio. Possiamo però con tranquilla coscienza affermare che non uno dei postulati essenziali della nostra concezione democratica è stato da noi e non sarà da noi, nel corso di questa discussione, abbandonato.

La Democrazia cristiana si è preoccupata subito di impostare e di incentrare l’intelaiatura del nuovo edificio costituzionale sulla persona umana. Questo dovrà essere, a nostro avviso, il termine di riferimento di tutta la Costituzione. Occorre salvare l’uomo dalla morsa in cui gli Stati totalitari lo afferrano, dalle ruote in cui le dittature lo macinano. Si trattava e si tratta soprattutto di avere e di concretare nel progetto una visione integrale dell’uomo. Integrale, ho detto, perché le passate e le presenti Carte costituzionali hanno anch’esse una visione dell’uomo, ma parziale e unilaterale. Era stata a lungo la preoccupazione della libertà dell’uomo il criterio ispiratore delle Carte del XVIII e del XIX secolo; poi l’èra del liberalismo e della democrazia individualistica è andata man mano cedendo alle istanze dei nuovi processi produttivi ed ai rapporti sociali che ne derivano.

Le dichiarazioni dei diritti e lo spirito delle Carte hanno cominciato a scorgere nella trama dei rapporti tra cittadini e cittadini e tra i cittadini e lo Stato un vincolo sempre più stretto di solidarietà; ma la sintesi di libertà e di solidarietà sociale, di libertà e di giustizia sociale, non è stata quasi mai raggiunta e dall’eccesso di autonomia si è passati presto, in alcune Carte, all’eccesso delle costrizioni statali e del collettivismo gregario.

Fare la sintesi: ecco, onorevoli colleghi, il compito che la Democrazia cristiana si è assunto in questa Costituente; attuare cioè una visione integrale della persona umana, superando la contesa che è al fondo del dramma del nostro tempo tra libertà e giustizia sociale, tra autonomia dell’uomo e autorità dello Stato. In fondo è proprio qui il problema della democrazia contemporanea. Esso non può essere risolto in un senso ad esclusione dell’altro. Integrale dovrà essere la sua soluzione o non sarà.

La Democrazia cristiana si è impegnata a fondo per questa soluzione, perché, cioè, la Costituzione ponga tra i suoi fini il presidio e il potenziamento della persona e degli enti sociali nei quali essa si integra e progressivamente si espande. C’è stato e forse ci sarà ancora qualche contrasto su questo punto e sull’attuazione dei principî direttivi della Costituzione. Noi crediamo infatti che non basti, onorevole Togliatti, non basti definire la democrazia, come ella ha fatto in questa Assemblea, un regime in cui le istituzioni politiche e sociali devono avere per scopo il miglioramento sociale, morale, intellettuale e fisico della classe più numerosa e più povera della Nazione, cioè dei lavoratori; noi riconosciamo anche questo. Per noi democrazia vuol dire anche questo. Toniolo dava una definizione della Democrazia cristiana molto simile alla sua, onorevole Togliatti; ma la democrazia vuol dire per noi anche difesa e attuazione della libertà in tutti gli istituti politici sociali e familiari dell’uomo. Democrazia significa, sì, miglioramento della classe più numerosa e più povera, ma, occorre aggiungere, con l’esclusione di ogni regime totalitario. Significa, sì, liberazione completa dell’uomo e del lavoratore dall’oppressione economica e politica insieme, ma all’infuori di ogni dittatura paternalistica e tutoria. (Applausi Commenti).

Il Cristianesimo, cui guarda con speranza rinnovata l’attesa di milioni di uomini, può veramente offrire il punto d’incontro, la base per questo sforzo fecondo. Noi abbiamo ferma fede nell’affermazione di Ozanam, che acquista oggi sapore di profezia: la democrazia o sarà cristiana o non sarà. (Approvazioni al centro Commenti all’estrema sinistra).

L’esame particolareggiato del progetto dà conferma del profondo e integrale senso umano che ne costituisce la caratteristica distintiva in confronto delle altre Costituzioni anche più recenti; ma di fronte ad esso un’altra particolarità deve essere sottolineata: la nuova Costituzione non è, né sarà frutto di arbitrio o del colpo violento di una ondata rivoluzionaria che spazzi via indiscriminatamente il vecchio ordine e indiscriminatamente fondi il nuovo.

La futura Carta fondamentale sarà, come io mi auguro, come noi tutti ci auguriamo, il risultato di un atto consapevole e libero di un popolo che democraticamente si dà i propri ordinamenti. Ad essa spetterà anche di innestare su una tradizione giuridica e costituzionale la nuova realtà repubblicana scaturita dal referendum popolare.

Nelle disposizioni generali del progetto che ne costituiscono la introduzione solenne è racchiuso lo spirito informatore della Costituzione: Repubblica democratica, l’Italia ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dello Stato, il quale si fonda, dunque, sull’uomo socialmente attivo, sul cittadino che ha nel lavoro lo strumento della sua fatica e della sua redenzione.

In omaggio a questa concezione umana della vita, che fa contrasto con superate «mistiche» basate sullo spirito di imperialismo e di oppressione, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa e consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli in condizioni di reciprocità e di eguaglianza. E Dio voglia che questa non sia soltanto una generosa utopia del nostro popolo, ma una aspirazione comune a tutta l’umanità, dopo la tremenda lezione dell’ultimo conflitto.

Pace fra i popoli, ma anche pace fra il popolo italiano.

Se i Patti Lateranensi saranno inseriti nella nuova Costituzione repubblicana, un nuovo e definitivo passo potrà essere compiuto verso il consolidamento della pace religiosa nel nostro Paese. Sarà questo un atto opportuno e giusto, perché riconsacrerà nel piano democratico la fine del dannoso divorzio tra la coscienza cattolica e la coscienza nazionale del nostro popolo, che nella sua quasi totalità rimane fedele alla religione dei Padri. (Approvazioni al Centro e su vari banchi).

È appunto l’appartenenza della grande maggioranza dell’Italia alla religione cattolica che giustifica appieno la nuova posizione di natura costituzionale che si dovrebbe fare e che, io spero, si farà ai Patti del Laterano.

L’onorevole Togliatti ha detto in un suo recente discorso all’Assemblea che i comunisti e i democratici cristiani hanno collaborato senza eccessiva difficoltà nelle varie Commissioni per la Costituzione, fino a che non si venne alla discussione di un grave problema, quello dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa, cioè dei Patti lateranensi.

Questo modo di porre la questione già delinea, onorevoli colleghi, in modo sufficientemente chiaro la diversità di posizioni fra i vari gruppi. Vi era infatti e vi è tutt’ora la tendenza da parte di taluni a passare oltre questi rapporti, senza affrontarli. La Democrazia Cristiana invece ha creduto e crede di doverli affrontare ed ha portato e porterà nella discussione in proposito il peso di questo suo atteggiamento.

Per altri questo era ed è un problema che non interessa o che si preferisce evitare. Per noi involge la libertà spirituale dei cattolici italiani. Nessuna meraviglia, onorevoli colleghi: non per nulla sono diverse le dottrine che individuano, sul piano ideologico, i vari partiti e che sono alla base della dinamica delle competizioni democratiche. Io non trovo di meglio per raffigurare questa diversità di dottrine che appellarmi a quanto scriveva qualche mese fa il giornale dell’onorevole Nenni: «La differenza fra noi socialisti ed i democristiani (scriveva press’a poco l’articolista) è questa: noi, cioè il socialismo, accompagniamo l’uomo dalla culla alla bara; loro, cioè i democristiani, lo accompagnano pure come noi dalla culla alla tomba, ma non lo lasciano senza speranza oltre la tomba».

Esatto, onorevoli colleghi; per questo, altri si disinteressano dei Patti Lateranensi o li avversano, e per questo noi li difendiamo. Il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma… (Interruzioni a sinistra Commenti).

Mi spiace di non poter sentire le vostre interruzioni, perché altrimenti risponderei volentieri.

TONELLO. Il Patto lateranense è però di questa terra.

TUPINI. Mira però a finalità superiori e tutt’altro che materialistiche, come pensa l’onorevole Tonello. (Approvazioni al centro). Dicevo, dunque, al momento in cui sono stato interrotto, che il segretario generale del Partito comunista ha auspicato che alla firma del fascismo, che è in calce ai Patti, si sostituisca la firma della Repubblica italiana.

Noi non desideriamo altro, onorevoli colleghi. I Patti firmati dal fascismo non sono nati come funghi sotto la pioggia della dittatura, ma furono preparati nell’attesa ansiosa di tutto il popolo italiano e dall’opera lenta e lungimirante di statisti egregi, tra i quali vedo ancora con soddisfazione in mezzo a noi gli onorevoli Nitti e Orlando, che con la loro presenza conferiscono prestigio e decoro alla nostra Assemblea. Inserendoli nella Costituzione, la Repubblica vi apporrà la sua firma solenne, che sarà la firma di una nazione credente, che vede nella pace religiosa la premessa e la garanzia della sua unità politica e della sua ricostruzione democratica. Non bisogna vedere in essi tutto nero, come avete fatto voi, onorevole Calamandrei, attraverso le lenti affumicate del vostro, non dirò bizzarro, ma arguto spirito fiorentino. (Ilarità).

Questi Patti hanno segnato la fine di un dissidio tra la coscienza cattolica e quella nazionale del Paese. Hanno cancellato – bisogna ricordarlo – una ipoteca, prima di essi sempre accesa, sull’unità del nostro territorio; e poiché sono due, Trattato e Concordato, di cui uno condiziona l’altro, non credo che debba essere così pesante, anche per uomini come voi, che vi mostrate contrari ad uno solo o a qualche parte di uno di essi, quella che chiamate – e vorrei che non fosse – la «sopportazione dell’ospitalità di entrambi nella Carta costituzionale». (Approvazioni).

D’altra parte, onorevoli colleghi, essi non costituiranno mai alcuna anchilosi o cristallizzazione di posizioni. Lo abbiamo detto molte volte in sede di discussione alla prima Sottocommissione: la Chiesa cattolica è sempre talmente saggia che, intransigente nella difesa del suo patrimonio spirituale e religioso, mostra, come ha sempre dimostrato, di tenere esatto conto della varietà successiva o progressiva delle condizioni storiche dei vari Paesi, con uno spirito di adeguamento che desta sorpresa e meraviglia nei profani e, comunque, negli estranei alla dinamica della sua perenne vitalità.

Se ciò dovrà verificarsi a proposito dei Patti lateranensi. nessuna difficoltà di ordine costituzionale potrà opporvisi, in quanto l’articolo 5 del nostro progetto prevede che qualunque eventuale modificazione dei Patti bilateralmente negoziata ed accettata, esclude il procedimento di revisione costituzionale.

Né essi contraddicono, onorevole Calamandrei, alla libertà religiosa degli altri culti e delle altre confessioni, che avete ieri ricordato a proposito dell’incontro tra l’onorevole De Gasperi e i gruppi protestanti di America, perché i loro diritti sono ampiamente assicurati dall’articolo 16 del progetto, mentre, secondo l’articolo 5, viene anche ad esse data la possibilità di trattare con lo Stato italiano e di stabilire i reciproci rapporti in apposite intese. Si attua così sul terreno costituzionale quello che Jacques Maritain ha definito un pluralismo anche nel campo religioso.

Ma torniamo, onorevoli colleghi, al motivo dominante del mio discorso e cioè alla persona. Noi abbiamo voluto che di essa fossero affermate e garantite le caratteristiche peculiari: la libertà e la dignità. È vero che in una Costituzione non possono esservi solo delle norme da cui scaturiscono diritti azionabili. Dal secolo XVIII in poi hanno finito per avere la supremazia le dichiarazioni dei diritti. Ma è noto che quelle platoniche dichiarazioni hanno ben scarso valore, quando da esse non si facciano derivare istituti concreti e diritti azionabili.

Non potevamo, dunque, accontentarci – in ordine a ciò che attiene alla persona umana, e ai valori di cui essa è portatrice – di generiche dichiarazioni, come quella che da opposte e pur discordanti parti vorrebbero i sostenitori del preambolo. Se questo, onorevole Lucifero, dovesse unicamente servire per invocare sulla nostra Costituzione il nome e la protezione della divinità, ben più solenne sarà il sostegno di questa, se sapremo indicare in termini positivi l’avviamento alla realizzazione della volontà divina, che associa l’avvento del suo regno all’assicurazione del pane quotidiano, al perdono, al bene che vince il male, secondo la divina e umana e sempre perenne poesia del Pater noster. (Applausi al centro).

TONELLO. Ma questo è Catechismo. (Rumori).

TUPINI. È vero, onorevole Tonello, questo è Catechismo, ma il Catechismo è sempre il libro insuperato e insuperabile della più alta sapienza dei secoli. (Applausi al centro e in altri settori).

Ecco perché noi preferiamo istituti concreti e diritti azionabili, come quelli previsti dal nostro progetto.

Cito, tra gli altri, gli articoli in cui si assicurano libertà fisica, libertà di corrispondenza e di circolazione, di riunione e di associazione, e, sovratutto quello in cui, sulle orme della gloriosa scuola penale italiana, si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e l’altro ancora, per il quale sono addirittura vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana,

Ma due norme vogliono essere qui sottolineate, anche se per motivi diversi. La prima è quella che riconosce espressamente il diritto e il dovere della resistenza alla oppressione; norma, che può essere variamente apprezzata, ma che è opportuna, che è cristiana, perché furono i primi martiri e poi i nostri pensatori ad affermare, attestare e a testimoniare colla vita il diritto e il dovere di resistenza all’ordine contrario alla legge naturale e alla legge di Dio.

Nessuna apprensione, però, nessun allarme per questa disposizione.

Il pericolo che il cittadino abusi di quest’arma, che la Costituzione gli pone nelle mani, in Italia non vi sarà; perché, in ultima istanza, sarà sempre il giudice a decidere se il singolo ha fatto buon uso del suo potere ed ogni ordinamento giuridico trova la sua messa a punto nell’opera costante della giurisprudenza.

L’altra norma, sulla quale mi preme richiamare l’attenzione dei colleghi dell’Assemblea, è quella che prevede l’abolizione della pena di morte, idea che è vanto del nostro pensiero e della nostra storia e che, per noi italiani, ha un nome immortale ed universale: Beccaria; idea che è cristiana, perché non l’uomo ha diritti sull’uomo; idea che l’Italia aveva dovuto accantonare e non già dimenticare per volontà di una tirannide ventennale, idea che chi vi parla sentì di dover affermare mediante apposito decreto legislativo come uno dei primi atti del primo Governo libero e democratico formatosi all’indomani della liberazione di Roma.

Esaminata così la posizione che il progetto fa alla persona umana nell’ambito che trascende la materia e i confini stessi dello Stato, consideriamola ora in se stessa e in quella delle minori comunità naturali. La Repubblica italiana prenderà cura della salute e dell’igiene del popolo, della sua educazione e della cura degli indigenti. Speriamo, onorevole Calamandrei, che la situazione economica italiana si liberi presto dalle stretture che oggi la comprimono; noi ci proiettiamo nel futuro e dobbiamo adoperarci perché le attuali condizioni di miseria siano superate e il futuro legislatore possa fare onore all’impegno che la nuova Costituzione si prepara ad assumere. Lasciamo, dunque, libero il passo ai non possidenti e proclamiamo in termini chiari e precisi la volontà di redimerli dal male fisico, che spesso è anche causa di quello morale e spirituale. Il nostro progetto li ha voluti sempre presenti, anche se non li nomina, e predispone gli ordinamenti degli istituti politici e giuridici in vista della loro redenzione. Per essi si delineano attività e funzioni capaci di condizionare il progresso della società umana; per essi la legge stabilisce degli obblighi e dei vincoli alla proprietà terriera e limita il latifondo. Non dunque per la porta di servizio, né per un gesto di degnazione, i proletari entrano nella Costituzione d’Italia. Ma la libertà e la dignità dell’uomo non saranno mai sicure se non si darà al lavoro la preminenza su ogni altro valore economico e se il lavoro non sarà il fondamento stesso della Repubblica. Né qui si deve intendere il solo lavoro manuale, alla stregua di una concezione piatta e materialistica della vita: l’articolo primo, infatti, si integra con l’articolo 31, in cui il lavoro è considerato come condizione dei diritti politici e in cui si precisa che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività e una funzione che non è quella onorevole Calamandrei, del dolce far niente, ma di concorrere allo sviluppo materiale e spirituale della Società. È lavoratore, dunque, per una espressa norma statutaria, non solo l’operaio manuale, l’artigiano, ma anche il maestro, ma anche il sacerdote, ma anche il missionario: chiunque concorra alla potenza della tecnica e della cultura, della civiltà e della morale italiana, comprese anche, onorevole Lucifero, le cosiddette suore di clausura che, secondo la legge divina della compensazione, pregano e con le loro preghiere ristabiliscono l’equilibrio turbato dai nostri e dai vostri peccati. (Applausi al centro Interruzioni a destra Commenti a sinistra).

Una volta che la civiltà del lavoro fa il suo ingresso trionfale nella Costituzione è logico che la proprietà debba esservi da un lato riconosciuta e dall’altro limitata. Riconosciuta innanzitutto: perché se è titolo di nobiltà il lavoro, bisogna pur difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore…

TONELLO. E il disonesto?

TUPINI. Il disonesto sarà perseguito e condannato. Non è d’accordo con me, onorevole Tonello, che bisogna difendere l’onesto frutto della fatica del lavoratore? TONELLO. Sì.

TUPINI. E allora, perché mi contraddice? Pretende forse al monopolio socialista di questi principî? (Approvazioni al centro Rumori a sinistra).

TONELLO. Parlo del frutto del lavoro dogli altri…

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, per favore, non interrompa.

TUPINI. …tutelandone il risparmio, nonché la piccola e media proprietà che rappresentano la proiezione e l’integrazione della stessa sua personalità. Ma oltre ciò non è lecito andare, onorevoli colleghi. Il latifondo, la proprietà che giace sterile, che non serve al bene comune, non può trovare diritto di cittadinanza in una cristiana Repubblica, ove il cittadino non vive isolato ed ha invece vincoli di solidarietà con i propri simili.

Così, per il bene comune, deve essere possibile e lecito espropriare e trasferire allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti, determinate imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni monopolistiche di preminente interesse generale. Ciò, naturalmente, previo il giusto indennizzo. Secondo il nostro pensiero – che è il pensiero della scuola sociale cristiana – l’espropriazione è un atto necessario quando serve al bene della comunità, quando rappresenta un vantaggio economico superiore a quello prodotto dall’iniziativa privata; ma non può mai avvenire senza adeguato indennizzo della proprietà espropriata. (Approvazioni).

Sono altresì raccomandate e previste nel nostro progetto la cooperazione e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Questo punto di vista noi difenderemo, poiché esso rappresenta il riconoscimento e l’attuazione di una civiltà, di un ordinamento giuridico e sociale in cui il lavoratore è posto al centro e sottratto alla speculazione, alla miseria, alle cause insomma che feriscono la sua libertà e la sua dignità.

Quale pilastro naturale della società è concepita da noi anche la famiglia, e come tale riconosciuta e tutelata nella sua indissolubilità, nella sua saldezza e nella sua missione. La donna vi trova eguaglianza e parità di fronte all’uomo, che pur dovrà sempre essere – ricordatelo, onorevoli colleghi – il primus inter pares. La prole legittima vi è educata, nutrita, istruita, mentre i figli nati da colpa, senza loro colpa, dovranno anche essi avere un trattamento di giustizia, ma che non si risolva a detrimento dell’unità e dell’integrità della famiglia legittima. I termini del progetto a questo riguardo non si presentano abbastanza chiari e dovranno essere perciò, nel corso della discussione, approfonditi e chiariti.

E, accanto alla famiglia, il Comune, che è tanta parte della storia d’Italia, e fra il comune e lo Stato, intermediaria, la regione.

Bisogna dire che questo è un postulato tipicamente e prevalentemente nostro, anche se sostenuto con forza, con energia e con efficienza da esponenti di altre correnti politiche che siedono su questi banchi. Essa è tale, la regione, che garantisce un effettivo «self-government», senza frammentare lo Stato stesso.

Peraltro, la sua attività, anche quando è di competenza esclusiva, primaria, anche quando è di natura legislativa, resta infrenata nel rispetto dei limiti costituzionali con opportuni eventuali interventi della Corte Costituzionale.

Si è da taluno accennato, a questo riguardo, al pericolo di salti nel buio, di ritorni al feudalesimo ed al campanilismo, e, addirittura, di nuovi indugi che si frapporrebbero alla soluzione degli stessi gravi e cogenti problemi meridionali.

Il pessimismo, onorevoli colleghi, non ha mai creato e non crea nulla di concreto. E questa volta la prova del suo torto è nel fatto che il regionalismo, così come noi lo concepiamo e che ci auspichiamo venga realizzato nel nostro statuto, è qualche cosa di ben lontano e diverso dal federalismo, mentre è proprio dal Mezzogiorno che ci giungono istanze di maggiori autonomie.

Anche il problema del Mezzogiorno va impostato e risolto in termini di libertà. L’accentramento si paga sempre in moneta di libertà. Il decentramento è ragione e fonte di autonomia. La difficoltà di trovare il punto in cui l’autonomia si concilii con l’unità e la saldezza dello Stato mi pare di vederla felicemente superata in quelle norme del progetto, in cui si dispone che, sotto il controllo della Corte Costituzionale, la regione non può essere avulsa dalla compagine economico-sociale del tutto, in quelle in cui si vietano dazi d’importazione e di esportazione regionale e in quelle ancora in cui, riconoscendosi la potestà legislativa della regione, si stabilisce che quella attività non può essere mai discordante con la Costituzione e gli interessi dello Stato e delle altre regioni. La regione sarà così il tramite per avvicinare, non per allontanare, la periferia e il cittadino al centro; la regione non sarà considerata causa di discrasia e di lacerazione, ma costituirà il più grande baluardo contro la suggestione e l’avvento delle dittature. E se taluno pensasse che, allontanato il pericolo di una dittatura nazionale, si favorisce, con la regione, quello di dittature locali, l’articolo 118, prevedendo in loco un commissario del Governo e l’articolo 117 lo scioglimento della regione per gravi violazioni di legge, fugano ogni timore al riguardo.

Onorevoli colleghi, l’ordinamento della Repubblica, previsto dal progetto, è lo strumento di attuazione di principî che ho avuto l’onore di richiamare nel corso del mio intervento in questa discussione. Qui si passa dal piano teorico a quello concreto dell’articolazione della organizzazione costituzionale, delle garanzie e dei limiti di libertà.

Punto centrale e fulcro di tutto l’ordinamento è il Parlamento. Noi auspichiamo che il Parlamento possa, in avvenire, rappresentare per il nostro popolo come il palladio delle sue libertà e l’istituto senza del quale la democrazia è nome vano e artificioso. Anche il regime fascista parlava di democrazia, ma il Parlamento era ridotto a una smorfia ed a una contraffazione di se stesso. E così, ovunque il Parlamento non sia espressione di libero voto ed autore di libere determinazioni, la democrazia è la maschera e non il volto di un regime democratico. (Approvazioni).

A chi spetterà, onorevoli colleghi, il compito di rendere vitale ed efficace il nostro sistema parlamentare? Soprattutto, e direi esclusivamente – non si scandalizzi nessuno – ai partiti. Contro di essi si appuntano e si appunteranno molte critiche, in parte anche giustificate; ma è illusione o ipocrisia affermare o anche pensare che un regime democratico possa oggi funzionare senza partiti, senza i partiti politici. Non è il sistema dei partiti che va criticato, ma sono le colpe specifiche, sono le concezioni eterodosse dal punto di vista democratico di alcuni partiti che vanno combattute; altrimenti si combatte la stessa democrazia che non può funzionare al di fuori di essi e della loro realtà.

Il giorno in cui i partiti cessassero di esistere e al loro posto subentrasse il partito unico, sarebbe, signori, l’atto di morte della democrazia e sulle sue rovine insorgerebbe prepotente e tirannica una nuova dittatura.

Naturalmente altri sono i partiti ed altri i gruppi e i gruppetti che esprimono piuttosto aspirazioni e ambizioni di singoli che vaste esigenze di collettività. Noi vogliamo parlare delle formazioni politiche basate su una fede, unite da un comune sentimento, sollecitate da legittimi interessi, espressioni di idee più che di uomini singoli. In questo senso i partiti sono necessari e salutari alla democrazia. Quando manca un partito, ammoniva il Minghetti, si resta a discrezione dei gruppi, ed aggiungeva: non è possibile un Gabinetto forte, autorevole, parlamentare, senza indicazioni di voti, compagini di idee, base di partiti. Se le vecchie Camere italiane hanno avuto i loro torti, questi ebbero causa, in modo preminente, nell’assenza di grandi partiti, che fece decadere il Parlamento nel parlamentarismo. I partiti saranno invece di grande aiuto alla giovane democrazia italiana, a condizione però:

1°) che attuino sinceramente il metodo democratico, a cominciare dal loro interno, e che si propongano di attuarlo nel Paese;

2°) che non si ingeriscano indebitamente nella pubblica Amministrazione;

3°) che svolgano fra il popolo una vasta funzione educatrice di libertà, suscitatrice di civili competizioni politiche.

Noi crediamo che la democrazia potrà realizzarsi in Italia nella misura in cui potrà realizzarsi l’educazione popolare e potrà essere contenuta la demagogia, nemica irriducibile di ogni educazione. Ripetendo esattamente le parole di Mazzini, noi potremmo dire: l’educazione è la grande parola che racchiude tutta quanta la nostra dottrina.

Il progetto prevede, onorevoli colleghi, che il Parlamento sarà composto della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori. La Democrazia cristiana, come sapete, si è battuta e si batterà a favore del bicameralismo. Perché? Per motivi attinenti al perfezionamento tecnico dell’ordinamento statale e per profondi motivi politico-giuridici che si riassumono nell’alta opportunità politica di costituire saldi presidi alle libertà costituzionali.

Le accuse fatte alla seconda Camera non sono, a mio avviso, esatte e spesso scambiano l’istituto con qualche tipo storicamente determinato di Camera alta. Ma è facile dimostrare che la seconda Camera prende significati e funzioni diverse a seconda del suo modo di composizione e delle forze politico-sociali che essa rappresenta. Se vi sono, e vi sono stati, precedenti tipi di Senati rappresentativi di forze politico-sociali privilegiate, vi sono, negli ordinamenti contemporanei di alcuni Stati, delle seconde Camere che rappresentano invece forze popolari espresse attraverso il metodo elettivo e che integrano la rappresentatività dell’altro ramo del Parlamento.

Non dunque, onorevoli colleghi, per spirito «reazionario», come è stato detto da alcuni, noi abbiamo difeso e difendiamo il bicameralismo, ma proprio per l’opposta concezione di integrare e rendere più sicura la democrazia. Se reazione vuol dire antilibertà, noi, invece, sosteniamo la Camera dei Senatori come garanzia di libertà ed insieme elemento di progresso sociale.

Attraverso la elezione a base regionale che, secondo me, dovrà essere meglio approfondita in sede di discussione generale, essa potrà infatti radunare e rappresentare ceti e forze che non troverebbero altrimenti il loro riflesso nello Stato. La Camera dei Senatori contribuirà al perfezionamento tecnico della funzione legislativa ed al consolidamento del nuovo ordine repubblicano.

Un’altra obiezione è stata fatta: cioè che la seconda Camera sia la sopravvivenza di una tradizione monarchica incompatibile con la Repubblica. Io rispondo con le stesse parole con cui Duverger de Hauranne rispondeva alla medesima obiezione della Costituente francese del 1848: «Quanto a me, egli diceva, sono di avviso completamente opposto. Credo che bisogna parlare di tradizioni delle repubbliche ben più che delle monarchie. Ed ecco perché le Costituzioni, se non sbaglio, hanno per scopo quello di introdurre nelle diverse forme di Governo le qualità che loro mancano e di preservarle da vizi che potrebbero prendere. Quale è il vizio delle monarchie? «La routine» e l’immobilità. Qual è il vizio delle repubbliche? La mobilità e la precipitazione. Io concludo che se noi facessimo una Costituzione monarchica dovremmo premunirci contro la «routine» e l’immobilità; ma quando noi facciamo una Costituzione repubblicana è, soprattutto contro la precipitazione e la mobilità che noi dobbiamo metterci sempre in guardia». Sono parole ancora attuali, onorevoli colleghi, e sulle quali dobbiamo tutti meditare. Guai, io dico, se gli ordinamenti che stiamo per dare non dovessero dimostrarsi stabili e sicuri. Il popolo, abituato alla stabilità secolare del vecchio statuto, perderebbe la fiducia nel nuovo Stato che deve, invece, sorgere forte e al riparo da ogni insidia.

Onorevoli colleghi, ho l’impressione, per finire, che questo progetto costituisca, anche se imperfetto, una prova della capacità del nostro popolo ad elevarsi a più alte concezioni di vita, verso nuove e umane istituzioni giuridiche e sociali. Ho la convinzione che il mio partito abbia degnamente assolto finora al suo compito, a presidio dei valori eterni dell’uomo. La Democrazia Cristiana vuole essere la trincea avanzata ove si combattono le buone battaglie contro la disumanizzazione della vita e l’asservimento dell’uomo all’uomo. Difendendo la persona umana nelle sue aspirazioni secolari e nelle sue necessità vitali, sappiamo per ciò stesso di difendere la libertà, la democrazia e i valori eterni della civiltà cristiana.

L’Italia ha subito una disfatta fra le più grandi della sua storia; ha visto distrutte parte delle sue città, dei suoi comuni, delle sue navi, dei suoi cantieri, delle sue strade; tuttavia l’Italia dimostra di essere sempre viva e operante nel campo del pensiero, della civiltà e del diritto. Questo progetto, quando attraverso le nostre discussioni sarà stato completato nelle sue parti manchevoli, depurato delle sue imperfezioni, raffinato nella sua struttura, dovrà esserne la prova evidente.

L’applicazione della pena come mezzo di rieducazione, l’abolizione della pena di morte, la sollecitazione verso una comunità internazionale valida ed effettiva, la proclamazione della civiltà del lavoro, la libertà conciliata con l’autorità, auspice la legge che ne è il punto vitale d’incontro e di compenetrazione, il regionalismo temperato e ancorato alle esigenze dell’unità nazionale, il presidio parlamentare della democrazia, la indipendenza delle funzioni giudiziarie, garantita su basi di sicurezza economica della Magistratura e su una ben congegnata autonomia di poteri: ecco, onorevoli colleghi, in sintesi, i pilastri fondamentali di questo progetto, che trae gran parte della sua ispirazione dalle istanze sempre vive dell’umanesimo cristiano. Ma noi sentiamo che questa è anche la vera voce d’Italia, voce che di continuo si leva dalla tradizione del nostro popolo, e alla quale seguitano a fare eco le voci sorelle di tutte le nazioni ove, al di là delle lingue particolari, si parla il comune grande linguaggio del Cristianesimo. Quella voce è il filo antico e nuovo che ci collega al nucleo vitale della comunità civile, europea e mondiale. Rafforzare quel filo e annodarvi saldamente la nuova democrazia italiana, questo è il compito storico che l’Assemblea Costituente dovrà assolvere. (Vivissimi, prolungati applausi al centro e in altri settori Molte congratulazioni).

TONELLO. Richiamandomi al Regolamento, desidero osservare che i discorsi non dovrebbero essere letti.

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, penso che lei sia ben sicuro che io, approssimativamente, conosco il Regolamento. Pertanto, se avessi avvertito l’esigenza di fare questa osservazione, l’avrei fatta. Ma io credo che nell’occasione di questa discussione speciale, nella quale ritengo ed auguro che non si dicano cose non troppo bene meditate, si possa anche largheggiare nell’interpretazione delle disposizioni regolamentari. (Applausi al centro).

È ora iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, conforme alla topografia ideologica o alla ideologia topografica di questa Assemblea, dovrei cominciare col dichiarare che io parlo a nome del Gruppo parlamentare repubblicano.

Ma, nell’ora storica nella quale questa Assemblea si accinge ad espletare il compito per cui è stata espressamente convocata, nell’ora storica nella quale per la prima volta la Costituente italiana è chiamata a discutere una Costituzione repubblicana, mi si permetta di dire che la parola «gruppo» mal risponde alla solennità del momento. Preferisco dire che per la mia modesta parola il gruppo parla a nome non di un partito, ma di una scuola, di quella scuola repubblicana italiana la quale, attraverso una lotta secolare, col pensiero e con l’azione, affermò il principio della sovranità del popolo, della sovranità nazionale, di quella scuola che, con la voce di Giuseppe Mazzini, costantemente, ardentemente, lanciò il grido: «Costituente e patto nazionale».

Oggi quanto i Padri sognarono si è in parte realizzato.

Il primo momento è stato segnato dal referendum, cioè dall’esercitato diritto del popolo per dare a se stesso il proprio civile ordinamento; il secondo momento è stato segnato dalla prescelta forma repubblicana; il terzo momento, il più solenne, è questo nel quale noi ora siamo qui raccolti per discutere la Costituzione, per fissare i principî basilari del nuovo ordinamento repubblicano.

Parole di colore oscuro sono state pronunciate ieri in quest’aula. L’onorevole Lucifero si è doluto ieri di non avere potuto portare in questa discussione il contributo dei propri studi. Certo deve essere un appassionato cultore di archeologia. L’onorevole Lucifero ha detto che questa Costituzione ha un carattere provvisorio, interlocutorio; che questa Costituzione è l’ombra di un sogno, che la Nazione non la sente, che c’è un vuoto e su questo vuoto non c’è un ponte, ed ha aggiunto che l’ideale della Costituzione dovrebbe essere una Costituzione, sintesi – d’accordo in questo con l’onorevole Togliatti – di tutte le ideologie.

La Costituzione dovrebbe quindi essere da un lato un amalgama ibrido di tutte le tendenze politiche; e dall’altro, anche se repubblicana, una Costituzione solo in difesa della minoranza monarchica.

L’onorevole Calamandrei ieri ha anche tenuto a rilevare che, se in questa Costituzione ci sono dei difetti, è che questa Costituzione non è un epilogo, ma è un prologo, non segna il risultato di una rivoluzione, ma l’inizio di un lungo cammino che ancora è da percorrere. Ora, onorevole Calamandrei, quello che lei ha detto, in parte è vero; ma mi lasci rispondere all’onorevole Lucifero che se oggi siamo qui a discutere una Costituzione repubblicana, una tale Costituzione non è il risultato esclusivo di date contingenze, di contingenze che possono riassumersi nelle colpe di una monarchia complice del fascismo; ma per noi questa Costituzione è il risultato di tutto un processo storico, in piena rispondenza con la evoluzione della coscienza morale. Il problema che noi oggi poniamo, il patto che noi oggi discutiamo, non costituiscono un fatto semplicemente politico, economico o sociale; è un fatto anzitutto per noi di ordine morale. C’è nella Costituzione un titolo che parla dei poteri del Presidente. Orbene, questa Costituzione repubblicana sta a significare che noi riteniamo che alla sommità dello Stato non si può, non si deve più ormai ascendere per il diritto ereditario, feudale, di nascita, ma ci si deve ascendere per la dignità della mente coronata dalla virtù. Questo non si vuole intendere; e questo invece è il punto che bisogna mettere in particolare rilievo.

Ora, non rileverò quelli che sono i pregi di questa Costituzione. Non siamo qui per fare l’apologia o il panegirico del testo. Riconosciamo le sue innegabili benemerenze; e ampia lode va data ai membri delle Sottocommissioni.

Le libertà fondamentali sono riconosciute; la sovranità del popolo è affermata; consacrato il diritto di referendum e di petizione; la responsabilità dei pubblici poteri è sancita; le autonomie locali sono riconosciute; i nuovi rapporti economici e sociali, i diritti di gestione, le organizzazioni sindacali, la eventuale socializzazione di dati complessi industriali sono ammesse; la indipendenza della magistratura è stata riaffermata; la pena di morte è stata abolita e tante e tante altre norme e tanti e tanti altri istituti che innegabilmente imprimono all’attuale progetto il carattere di una Costituzione essenzialmente democratica.

Il merito principale di questa Costituzione è questo: in essa non si parla semplicemente di diritti, ma anche di doveri. In questa Costituzione troviamo la sintesi tra il principio individuale e il principio collettivo. In questa Costituzione, inspirata al sentimento della solidarietà sociale, è giustamente riconosciuta la preminenza del fine collettivo sul fine individuale, pur affermando in pieno il valore della personalità umana.

Ma io non posso soffermarmi su questo. Devo fare delle considerazioni di ordine generale. Non intendo fare ciò che qualche collega ha già fatto, cioè una sintesi di tutto il progetto, né tanto meno intendo soffermarmi su questo o su quel problema particolare; perché allora questa non sarebbe più una discussione generale. Io debbo attenermi alla norma che il nostro Presidente ci ha ricordato. Mi limiterò a valutare il progetto di Costituzione nelle sue linee generali, riferendomi ad un qualche articolo, ad una qualche norma solo per avvalorare il problema generale che è in discussione.

Sarò aridamente schematico; sarò scandalosamente breve.

Primo punto. Sono lieto che l’onorevole Calamandrei abbia cominciato il suo discorso proprio con una osservazione che, parecchi giorni or sono, in data 20 febbraio, feci in una intervista che fu pubblicata dalla Voce Repubblicana, col titolo: «Estetica della Costituzione».

Una Costituzione è una Costituzione. Non è questo che enuncio un giudizio tautologico. Esso significa che una Costituzione non è una legge qualsiasi, né tanto meno è un Codice. Una Costituzione è un documento storico, solenne, nel quale, con i diritti e con i doveri del cittadino, è disciplinato, nei principî basilari, tutto l’ordinamento dello Stato. Orbene, non è esagerato il pensare che in rispondenza con questa storicità, in rispondenza con questa solennità, una Costituzione debba avere uno stile, tanto più quando si voglia fare una distinzione fra una Costituzione che è semplicemente elargita, fra una Costituzione che è data dal potere già costituito – quali i famosi statuti del nostro Risorgimento – e una Costituzione che è dettata dal potere costituente, cioè dal popolo nel pieno esercizio della sua sovranità.

Una tale Costituzione deve, ripeto, deve avere uno stile; uno stile incisivo, lapidario; uno stile nel quale veramente, virilmente, si esprima il sentimento repubblicano di tutto un popolo, quel sentimento che non è semplice lealismo, è fede civile costante e profonda.

Vi potrei dire: leggete, ad esempio, la Costituzione repubblicana della Roma del 1849; preferisco dirvi: seguite l’esempio di Roma antica, di quella Roma che, in uno stile veramente lapidario, scolpì la sapienza delle sue leggi, ond’essa nei secoli è rimasta, e rimarrà, immortale.

Secondo. Più volte ho letto, nei resoconti delle sedute delle Commissioni, che una Costituzione ha anche un valore pedagogico. Giustissimo. Una Costituzione politica ha un valore pedagogico, in quanto addita una norma, in quanto segna un orientamento alla coscienza morale e civile del cittadino. Quindi, perché questa Costituzione possa possedere, veramente, questo valore pedagogico bisogna anzitutto che sia chiara. Chiara non solo nella dizione, onde essa sia facilmente accessibile anche alle comuni intelligenze, ma chiara anche nel senso che non contenga una qualche espressione equivoca, onde poi non dia luogo ad esercizi di ermeneutica legale e non si debba discutere se una norma legislativa sia o no incostituzionale.

Diamo un esempio, senza troppo addentrarci nei problemi particolari.

L’articolo 5 del progetto dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Giusto. Ma perché nel progetto non si è inserito quanto troviamo nella relazione dell’onorevole Ruini? Ordine interno ovvero ordine esterno? Bisogna ben chiarire se questa indipendenza, se questa sovranità concernano, semplicemente, l’ordine interno dello Stato e l’ordine interno della Chiesa ovvero concernano per ciascuno anche l’ordine esterno; il che porterebbe uno di questi poteri ad invadere illegittimamente la sfera dell’altro.

Bisogna precisare dunque che la Chiesa e lo Stato sono indipendenti, ciascuno, nel proprio ordine interno.

Altro esempio: all’articolo 28 è detto che i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento.

Noi ben comprendiamo cosa con questo si è voluto dire. È sancita una giusta norma democratica cui non possiamo non consentire incondizionatamente; però l’espressione è equivoca. Sembra che gli incapaci e gli immeritevoli, se non privi di mezzi, abbiano il diritto di raggiungere i gradi più alti dell’insegnamento. Sarebbe più chiaro dire che solo i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, ecc….

Terzo: una Costituzione è la espressione sintetica, non la espressione analitica del pensiero giuridico.

Più sobrio nelle sue norme è un articolo, minore è il numero degli articoli e la Costituzione avrà una maggiore efficacia esplicativa e persuasiva.

Il progetto pecca alquanto di prolissità. L’articolo 28, ad esempio, dice: «La scuola è aperta al popolo».

Ma è inutile dirlo; è pleonastico.

Basta dire, come poi è detto: «L’insegnamento inferiore, impartito per almeno otto anni, è obbligatorio e gratuito».

Occorre, per un qualche articolo o per taluni articoli, compiere quest’opera di raggruppamento, di sintesi; per conferire al testo una maggiore snellezza bisogna sfrondarlo del troppo e del vano.

Ma, in rapporto a questa esigenza di una maggiore sobrietà, dobbiamo soprattutto osservare che il progetto pecca, come già scrissi, di elefantiasi costituzionale. Si è voluto travasare nella Costituzione tutto il travasabile, quasi usurpando il campo dell’attività legislativa.

Si trovano, così, ad esempio, nel progetto, delle norme che riguardano il matrimonio e i figli naturali e la scuola privata e il diritto al riposo e le ferie retribuite: tutte norme che potranno essere diversamente apprezzate, ma che certo, anziché in una Costituzione, trovano il loro riconoscimento in un Codice civile e nella legislazione scolastica e sociale.

Voler conferire a certe norme il carattere della costituzionalità potrebbe anche nascondere l’insidia di voler fare della Costituzione un impedimento a previste riforme legislative che non si vogliono accettare.

Quinto: importante, in una Costituzione, è la sistematica; non è indifferente, in una Costituzione, la logica distribuzione delle parti; non è indifferente che una norma sia precedente o susseguente ad un’altra. Per esempio, nella parte prima i rapporti politici (titolo quarto) seguono i rapporti economici (titolo terzo). Io invertirei. Prima i politici, dopo gli economici. Non certo per disconoscere i valori di questi. Ma solo perché è attraverso un sano ordinamento politico che noi potremo attuare una vera democrazia del lavoro, una vera democrazia sociale.

Si è parlato molto, a proposito di sistematica, del famoso preambolo. L’onorevole Lucifero ed anche l’onorevole Tupini vogliono anzi un preambolo al preambolo, vogliono l’invocazione all’assistenza di Dio. Noi non abbiamo nulla in contrario a questo; noi comprendiamo tutta la grande importanza che, tra i problemi dello spirito, ha il problema religioso. Non poco della mia vita ho dedicato e dedico, filosoficamente parlando, allo studio del problema religioso. Ma non potremmo non domandarci: di quale Dio si deve parlare? Noi della scuola repubblicana abbiamo ereditato da Mazzini la formula «Dio e Popolo», non la formula panteistica «Dio è popolo». Il grande problema non è se Dio sia con noi, come tanti pazzi criminali affermarono, ma se noi siamo con Dio, cioè se sappiamo ascendere, individualmente e collettivamente, nella condotta individuale, nelle leggi e nelle istituzioni, a quel senso di spiritualità, a quell’anelito al bene, al giusto, all’onesto, senza di cui le repubbliche non si fondano, le repubbliche non si reggono. (Applausi). Noi respingiamo quel Dio che, pur consacrato in una Costituzione, pure untuosamente invocato, viene poi ateisticamente bestemmiato, facendolo complice necessario di ogni insania e di ogni delitto; facendolo talvolta anche sacrilego strumento di speculazione elettorale.

L’onorevole Lucifero vuole che nel preambolo ci sia una parola nuova: ma niente è nuovo sotto il sole; neppure il sentir dire che l’Italia oggi non ha bisogno di una nuova Costituzione, perché non la sente, e perché tutto si potrebbe ridurre a qualche ritocco dello Statuto albertino. Io comprendo il ritocco nel ritratto; comprendo, senza approvarla, l’arte del ritocco sul volto non bello di certe signore; ma, in fatto di Costituzione certi ritocchi non si ammettono, non si possono ammettere. Bisogna, gradualmente, rinnovare, con ben altri orientamenti, dalle fondamenta.

L’onorevole Lucifero, monarchico, parla dei diritti inalienabili e imperscrittibili del popolo; e quale diritto più inalienabile e più imperscrittibile di quello per cui un popolo non vuole abdicare la propria sovranità nelle mani di un monarca, cioè del privilegio ereditario dinastico?

L’onorevole Calamandrei vorrebbe che nel preambolo fossero inserite non delle vere e proprie norme giuridiche, ma delle norme etiche, che rappresentino un indirizzo, un orientamento, proiettate verso il futuro. Ora, io mi permetto di osservare che la Costituzione è quella che è; la Costituzione è una Costituzione; la Costituzione – la parola lo dice – è uno status. Le norme, anche se etiche, non possono essere norme vaghe, proiettate come un ideale verso il futuro. Una Costituzione, se non vuole ridursi ad un catechismo morale, se non vuole peccare di antistoricità, deve contenere norme precise, rispondenti, in una data ora, al reale stato delle coscienze.

Nel preambolo – se un preambolo ci deve essere – io scolpirei quei principî che scolpiscono, per così dire, lo spirito di tutta la Costituzione; nonché quei principii che oggi, non in quanto riconosciuti dallo Stato, ma in quanto, pur se conquista morale di tutto un processo storico, sono di diritto naturale, fanno parte del patrimonio spirituale dell’uomo e del cittadino e costituiscono, nell’ordinamento dello Stato, l’essenza della vera democrazia.

E quale principio più democratico, quale quello che riconosce la eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, che non disconosce, in rapporto a date funzioni, date prerogative, ma nega ogni privilegio, soprattutto il privilegio dinastico, il privilegio razziale, il privilegio teologale?

Tornando alla sistematica, per continuare negli esempi, io riporterei l’articolo 27, che riconosce la libertà dell’insegnamento lì dove si parla delle pubbliche libertà. Raggrupperei tutti gli articoli che concernono il referendum. Il conferimento della grazia e della commutazione di pena da parte del Capo dello Stato, come l’amnistia e l’indulto da parte dell’Assemblea, tutto questo lo riporterei là dove, nella parte seconda, si parla della magistratura. Al modo stesso che, come parte ultima della Costituzione, raggrupperei tutte quelle norme che hanno aderenza con l’ordinamento internazionale.

Ma c’è un’altra esigenza, un’esigenza logica, che non si limita alla razionale distribuzione delle parti, ma bensì esige quella logicità interiore che non permette in una Costituzione la contradittorietà. Comprendo una Costituzione retrograda; non comprendo una Costituzione contradittoria. La contraddittorietà, disautorandole, toglie valore morale alle norme stesse. La contraddittorietà, nella legge, specie in una Carta costituzionale, si può esplicare, non legittimare.

Ci si consentano taluni esempi. Non per entrare nel merito, ma per avvalorare il principio.

Noi troviamo, nella Costituzione, all’articolo 7, solennemente sancito il principio della eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, senza distinzione di opinioni religiose. E troviamo, all’articolo 48, non meno esplicitamente, sancita la eguaglianza dei cittadini nell’accedere ai pubblici uffici.

Molto giuste, giustissime, ad esempio, tutte quelle disposizioni che, nella Costituzione, sottraggono la donna a quelle condizioni di inferiorità morale, giuridica, politica ed economica nelle quali è vissuta da secoli.

Ma, sia lecito il domandare, come armonizzare il suddetto conclamato principio dell’eguaglianza sancito nella Costituzione con quanto è stabilito nei Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione e con quanto si trova in altri Codici, in altre leggi, come logica esplicazione dei Patti stessi?

Primo esempio: l’articolo 5 del Concordato dice che un ecclesiastico, se irretito da censura, se apostata e quindi non più appartenente alla Chiesa e quindi tornato ad essere un cittadino italiano qualsiasi, non può concorrere a pubblici impieghi nei quali sia messo a contatto col pubblico, non può concorrere ad una cattedra, non può aspirare al pubblico insegnamento, anche se fosse un’arca di scienza, ponendolo così al bando dal mondo civile, condannandolo alla miseria, infliggendogli la pena della interdizione perpetua dai pubblici uffici, quella pena che il Codice penale contempla come appendice alla pena dell’ergastolo, per i più gravi reati infamanti.

Una tale disposizione, in una tale Costituzione che si vuol chiamare umana e cristiana, non solo contradice col principio dell’eguaglianza, ma è in contradizione anche con l’articolo 27 che nella Costituzione stessa sancisce la libertà dell’insegnamento.

Secondo esempio: l’articolo 36 del Concordato. Dice questo articolo che anche nella scuola pubblica tutto l’insegnamento – non solo l’insegnamento religioso – deve avere per fondamento e per coronamento la dottrina cristiana secondo la prassi cattolica.

Quindi delle due, l’una: il cittadino non cattolico, o dovrà rinunziare, pure avendone le attitudini, a concorrere al pubblico impiego come insegnante, oppure dovrà essere reticente, dovrà insegnare contro la sua coscienza; e parimenti un alunno non cattolico o dovrà rinunziare a frequentare la scuola pubblica, oppure contro coscienza dovrà subire un insegnamento conforme alla prassi cattolica. Anche questo non è eguaglianza.

V’è di più. Vi sono alcune disposizioni nel Codice penale che sono il risultato logico dei Patti Lateranensi, del carattere della confessionalità dello Stato. Tali disposizioni vogliono punire, e giustamente, il delitto di offesa al sentimento religioso. Giusto, perché chi offende il sentimento religioso è un cittadino che mostra di non essere un cittadino, in quanto manca degli elementi primi della educazione civile.

Ma che cosa si deve punire? Il fatto immorale per se stesso dell’offesa al sentimento religioso, ovvero deve esservi nel Codice penale una discriminazione confessionale per cui, se il maleducato offende il sentimento religioso di un appartenente alla religione della maggioranza, la pena sarà tanto, cioè più grave, mentre se offende un cittadino appartenente alla minoranza religiosa, allora la pena sarà minore?

Voglio lusingarmi che molti cattolici, molti demo-cristiani sentano la incongruenza, sentano la non moralità, la non giuridicità di tali disposizioni. Ciò che si deve punire è il fatto immorale dell’offesa per se stessa, non può essere un criterio di giudizio il contenuto teologale della religione dell’offeso.

Nelle leggi, in tutte le leggi, e specialmente nel Codice penale, non vi possono, non vi debbono essere discriminazioni di carattere confessionale. Se queste discriminazioni vi sono, non parliamo più di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

È proprio un democristiano, l’onorevole Cappi, che, prendendo la parola sulle comunicazioni del Governo e rivolgendosi all’onorevole Togliatti, ebbe giorni or sono, a dire: quando ci troviamo dinanzi ai grandi problemi dello spirito, quando è in giuoco il grande problema della giustizia, allora queste distinzioni, in nome della democrazia, fra maggioranza e minoranza non contano, non valgono, perché altri sono i criteri, cioè i criteri morali con i quali tali problemi debbono essere posti e risoluti.

Quindi, concludo: a proposito di questa logicità interiore che deve animare una Costituzione, vi sono ancora in questo progetto delle incongruenze, delle illogicità, per cui, se si vuole realmente affermato il principio dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, bisogna togliere alcune disposizioni che si trovano nel Concordato e nel Codice penale, tuttora vigente.

Un’ultima osservazione: una Costituzione non deve essere reticente, deve dire esplicitamente quello che afferma.

Noi potremmo distinguere le Costituzioni pavide dalle Costituzioni coraggiose. Parlo come se fossi un cattolico fervente. Non qui è questione di problemi religiosi. All’articolo 5 del progetto si dice che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi. Io conosco tanti, anche fra gli onorevoli colleghi, ed anche fra gli uomini di legge, che sono venuti a dirmi: hai letto i Patti Lateranensi? Io non li conosco.

Orbene, mettete questa Costituzione nelle mani di un cittadino qualsiasi, il quale ha pure il dovere di conoscere la legge fondamentale dello Stato. Cosa potrà apprendere e comprendere nel leggere che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono disciplinati dai Patti Lateranensi? Nulla, assolutamente nulla.

Bisogna distinguere (parlo, ripeto, come se fossi un convinto e fervente cattolico) bisogna distinguere, in questi Patti, quelle norme che disciplinano dati rapporti particolari, da quelle, più generali, che scolpiscono, per così dire, la stessa fisionomia dello Stato, quelle che ci dicono se lo Stato ha o non ha una sua religione, se è o non è confessionale. Si comprende che, in una Costituzione, la norma, cioè il principio basilare, si riferisca alla legge posteriore che, nei particolari, avrà il compito di esplicarla e di disciplinarla; non si comprende che in una Costituzione, un principio basilare, taciuto, si riporti, per la conoscenza, ad una legge, ad una convenzione anteriore, di cui si ignori, all’istante, il contenuto.

Se dunque si vuole che il nuovo Stato abbia il carattere confessionale, se si vuole che esso abbia una sua propria religione, se si vuole che questa religione sia la cattolica apostolica e romana, ebbene, si abbia il coraggio di consacrare tutto questo in un esplicito articolo della Costituzione.

Una Costituzione reticente non è una Costituzione convincente.

Bisogna che il cittadino, senza riferimenti sibillini, possa conoscere immediatamente i principî basilari cui s’informa la costituzione.

Bisogna che una costituzione, sin dal suo primo articolo, riveli, lealmente, quale sia il suo reale volto, la sua propria fisionomia.

Bisogna che una Costituzione – come espressione della educazione civile e politica di tutto un popolo – possa esporsi al libero giudizio delle nazioni.

Lo spirito, purtroppo, che pervade questa Costituzione – lo avete udito già tante volte e lo udrete ancora – è, per quanto si cerchi di negarlo, lo spirito del compromesso. Nessuna meraviglia: esso è la risultante logica, non dirò del modo col quale è stata composta la Commissione, ma della situazione politica che ha portato a tale composizione.

Il compromesso è nei partiti, è nel Governo, è nella Commissione, è nella Costituzione. Si è voluto tra le due forze divergenti, evitare quel contrasto che avrebbe portato ineluttabilmente a due soluzioni, a due progetti: uno di maggioranza ed uno di minoranza. Ma il contrasto è rimasto indiscutibile ed irriducibile.

Si ha in questo progetto una Costituzione bifronte; è progressiva e retriva. Da una parte, per la costituzione repubblicana, per le fondamentali libertà, per le autonomie regionali, per le norme economico-sociali essa va oltre il liberalismo, va verso la democrazia; dall’altra, per lo Stato confessionale, pel ritorno allo Statuto albertino, cioè, su questo punto, allo Stato fascista (Rumori al centro); dall’altro, nelle menomazioni morali e giuridiche delle minoranze religiose, essa assume posizioni anacronistiche ormai superate dalla coscienza moderna, perché più non rispondenti alla ragione storica dei nuovi tempi.

Sarà superato questo dualismo? Auguriamocelo. Noi non dubitiamo che, attraverso un’ampia, libera e degna discussione, molte dissonanze potranno essere eliminate. Ma, qualunque sia per essere il risultato, noi della scuola repubblicana rimaniamo imperturbabilmente sereni. Noi ci affidiamo alla legge morale che non può mai essere violata impunemente; noi ci affidiamo alla legge della storia, il cui cammino, senza tragiche esperienze, non può mai essere ripercorso a ritroso.

Sul terreno morale noi educheremo i cittadini a rispettare la Costituzione, che è pur stata sempre una grande conquista della libertà, a prezzo di tante lagrime e di tanto sangue; ma li educheremo anche al senso della storia che porterà i futuri cittadini, i futuri legislatori, a ricorrere a quel diritto di revisione che sta a ricordare che – ferma restando la forma repubblicana – le stesse istituzioni democratiche sono suscettibili, nel tempo, di essere corrette e perfezionate. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero per fatto personale. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Ho chiesto di parlare per rispondere ad una domanda rivoltami dall’onorevole Della Seta al principio del suo discorso. L’onorevole Della Seta ha detto, circa il mio discorso di ieri, alcune cose alle quali non rispondo perché non le ho dette. C’è il resoconto stenografico a sua disposizione, come di qualunque altro, per poterlo constatare.

L’onorevole Della Seta mi ha domandato a quale Dio io mi riferivo nel mio preambolo. Rispondo all’onorevole Della Seta che quando si parla di Dio, ognuno di noi si riferisce a quel Dio nel quale crede. Per me, Dio è uno solo. Ma vi è un Dio che vive anche in coloro che in Dio non credono, che vive attraverso gli impulsi e i richiami della loro coscienza, cioè quel Dio che è la parte migliore dell’uomo; anche a quel Dio io mi riferivo. (Commenti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastrojanni. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Onorevoli colleghi, ritenevo, in vero che a me spettasse di parlare domani. L’assenza di alcuni colleghi mi impone, invece, di prendere la parola innanzi tempo. Vi chiedo quindi venia preventivamente se, mancandomi le cartelle indicatrici dell’ordine del discorso, seguirò involontariamente un ordine non ortodossamente predisposto. Le critiche e le osservazioni che mi propongo di svolgere al progetto di Costituzione saranno serene ed obiettive e spero che non vorranno essere considerate come l’opera nefasta che la mitologia attribuisce a Saturno. Dico questo perché, avendo fatto parte della prima Sottocommissione per il progetto di Costituzione, mi devo ritenere in qualche modo coautore della Costituzione stessa. Ma se gli onorevoli colleghi avranno seguito i resoconti dei lavori della Sottocommissione, attraverso il resoconto a stampa che tempestivamente è stato distribuito, dovranno darmi atto che il mio dissenso non è di oggi, ma è stato contestuale alla discussione e all’approvazione dei diversi articoli.

Io non dirò che la Costituzione sia da respingersi, ma dirò anzi che essa è stata profondamente meditata ed elaborata, ed anzi fin troppo meditata, se essa ci viene presentata, nella complessità spesso eufemistica delle sue formule, le quali sono sapientemente congegnate ed organicamente distribuite, talché in esse io vedo uno stile coerente, al contrario di quanto ieri l’onorevole Calamandrei ha rilevato in ordine allo stile stesso.

Mi riferisco logicamente non allo stile soggettivo, ma allo stile obiettivo, quello che è insito cioè, secondo la definizione di Buffon, nella cosa stessa, e che rileva, in questo progetto una sapiente organica struttura, coerente dal suo esordio, contenuto nelle disposizioni generali, fino al suo epilogo. Si nota, infatti, attraverso tutto lo svolgimento, una elaborazione logica, rispondente ai principî informatori della stessa Costituzione, nella quale è possibile individuare una caratteristica particolare che non sfugge al controllo di un esame approfondito. Se apparentemente il progetta rappresenta l’ideale delle Costituzioni, in quanto sembra, ma solo apparentemente, che i sacri, inalienabili e imprescrittibili diritti dell’uomo siano stati esaltati fino all’esasperazione, sostanzialmente – come mi propongo di dimostrarvi – le incrinature, le vulnerazioni proprio dei diritti sacri della persona umana sono di sostanziale contenuto.

Onorevoli colleghi. La prima domanda che logicamente ed elementarmente vien fatto di rivolgere a se stessi, allorché si esamina l’organico congegno della Costituzione, è quella che si riferisce al miracolo raggiunto ed esaurito in pochi mesi, durante i quali le antitesi più inconciliabili ed i contrasti ideologici e programmatici dei diversi partiti, hanno trovato soluzioni apparentemente soddisfacenti per tutti, talché sembra impossibile che si sia potuto, attraverso i compromessi, storicamente affermare il presente e politicamente impegnare l’avvenire.

Se questa realtà storica è evidente, se queste antitesi inconciliabili esistono e permangono, se i diversi partiti che hanno concorso alla formazione di questa Costituzione devono prossimamente render conto, ai propri elettori, delle conquiste consacrate per il presente e di quelle proiettate nel futuro, io mi domando come potranno questi partiti di massa, egualmente servirsi delle stesse formule consacrate nella Costituzione, per potere soddisfare le opposte ideologie che costituiscono il fondamento della fortuna politica dei diversi partiti di massa. La ragione deve esserci: i colleghi che mi hanno preceduto, hanno dimostrato ed hanno esaltato questo spirito conciliativo, ed anzi da questo spirito conciliativo, consacrato nelle formule della Costituzione, hanno tratto auspicî per la possibilità di una pacifica collaborazione nell’avvenire.

Io penso invece che non a compromessi debba attribuirsi questo miracolismo conciliativo, ma debba invece ritrovarsi nella perspicacia e nella speculazione filosofica e politica dei diversi esponenti dei partiti che hanno concorso alla formazione del progetto di Costituzione. Se le stesse formule consentono ai partiti di massa di esaudire egualmente i loro programmi e di soddisfare le loro ideologie, ciò deve dipendere dai metodi diversi, dei quali nella Costituzione non vi ha traccia, ma che egualmente consentono di pervenire ai rispettivi obbiettivi. Ed è qui il punto basilare, ma non è qui il segreto del successo; al contrario, è nella reticenza dei diversi coautori della Costituzione, i quali hanno avuto per fermo il risultato finale, l’epilogo conciliativo delle tendenze, ma non si sono curati di domandarsi, vicendevolmente, attraverso quali metodi e quali sistemi hanno o avevano, intenzione di perseguire le stesse finalità.

Onorevoli colleghi, io voglio sommariamente esaminare le caratteristiche di questa Costituzione: altri, dopo di noi, interverranno per intrattenersi più profondamente in ordine ad ogni istituto, per rilevarne i difetti ed evitare le incongruenze, per proporre emendamenti, per far sì, insomma, che da questo lavoro grezzo possa uscirne qualche cosa di organico e di completo, nell’interesse di tutti o di alcuni partiti; ma è ovvio che per poter ritrarre dalla Costituzione quelli che sono i caratteri somatici, le caratteristiche salienti e decisive, io debba soffermarmi brevissimamente sui diversi istituti, dai quali ritrarrò esclusivamente le parti essenziali che dimostreranno e la organicità della Costituzione, e la finalità particolaristica che è in essa impressa in modo indelebile ed in modo perfettamente identificabile nello spirito informatore di tutta la Costituzione.

I partiti, però, non hanno tenuto conto – e questo è un errore gravissimo di ordine storico e di sensibilità psicologica e politica, non hanno tenuto conto, dico, che la Costituzione è carta fondamentale che deve garantire, non in situazioni contingenti, ma attraverso il tempo (collaudatore perfetto della bontà dei principî espressi) – e deve rappresentare in ogni tempo, la garanzia per tutti i partiti, per tutte le tendenze, per tutte le ideologie e programmi politici, deve garantire quelli che sono i diritti della libertà essenziali di tutti e specie quelli delle minoranze.

La Commissione non ha tenuto conto che l’equilibrio e lo schieramento dei partiti politici non è statico, ma mutevole e che i mutamenti delle organizzazioni politiche, subiscono fenomeni imprevisti ed imprevedibili, talché quella che oggi sembra la corrente predominante e prevalente, domani potrebbe essere una minoranza e, al contrario, quelli che oggi sembra, od è, una sparuta minoranza può, attraverso le incontrastate vie della libertà democratica, affermare e propagandare i suoi principî, estenderli in ogni settore, sicché può essa divenire maggioranza prevalente e la maggioranza di oggi divenire minoranza. Se ciò è vero, onorevoli colleghi, perché imprimere ad una Costituzione i crismi e le caratteristiche fondamentali ed inscindibili di un determinato orientamento politico, attraverso forme eufemistiche ed apparentemente conciliabili, che possono domani non rispondere all’orientamento politico prevalente ed alla coscienza collettiva del popolo italiano?

Le Costituzioni servono per riconsacrare e riaffermare nel tempo e per l’infinito, quelle che sono le prerogative fondamentali della personalità umana, le quali, preesistendo, con l’uomo, ad ogni forma statuale, costituiscono, nella loro origine, gli attributi che sono inalienabili, imprescrittibili, sacri ed inviolabili e che nessun consociato ha il diritto di incrinare, per imporre un determinato orientamento politico.

Questi sono i principî sui quali non è possibile discutere né oggi né mai, ed è attraverso la inviolabilità di questi principî, che dovrebbe imperniarsi l’orientamento della Carta costituzionale, ma con schemi rigidi e non flessibili, perché non sia consentito di fare esperimenti radicali sui diritti e sulle libertà essenziali della persona umana.

Gli esperimenti attuabili attraverso l’evoluzione lenta e naturale degli uomini e delle cose e quando la coscienza collettiva è matura, per potere affrontare e risolvere determinate questioni sociali, devono sempre essere subordinati ai diritti essenziali ed alle libertà fondamentali della persona umana.

Onorevoli colleghi, passando alle caratteristiche della Carta costituzionale, io penso che noi le troviamo condensate in modo inequivoco e preciso nelle disposizioni generali talché, se noi attentamente esaminiamo queste disposizioni generali, ci accorgiamo che il resto della Costituzione è strettamente, intimamente, inscindibilmente connesso con quanto, in modo solenne e categorico, è stato espresso in esse disposizioni generali. La interpretazione della Carta costituzionale, la quale consentirebbe una critica larga e severa anche dal punto di vista etico e da quello giuridico e costituzionale, trova un limite, una strettoia, una rete insuperabile nelle affermazioni limitatrici che sono consacrate nella parte generale della Costituzione.

Infatti: l’articolo primo parla della Repubblica italiana, che «ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Questo articolo primo rappresenta la soddisfazione parziale di una proposta specificamente espressa dal partito comunista.

L’onorevole Togliatti propose, che venisse definita l’Italia come una Repubblica democratica di lavoratori; io stesso in sede di discussione davanti la prima Sottocommissione feci garbatamente rilevare che la Repubblica rappresenta lo Stato e la Nazione, rappresenta tutti i suoi consociati, rappresenta le creature di Dio, fatte a sua immagine e somiglianza, le quali, per lo stesso fatto naturale di essere stati immessi nella società umana, hanno diritto di asilo e di rispetto da parte di tutti i consociati.

Definire una Repubblica, definire uno Stato, attraverso una caratteristica, che rappresenta, sì, la più nobile delle manifestazioni della vita umana, il lavoro, ma escludere coloro che non possono essere identificati in questa nobilissima categoria (che noi esaltiamo e nella quale noi riconosciamo gli attributi più elevati dell’umanità); definire una Repubblica, attraverso la circoscritta denominazione dei lavoratori, sembrava a noi, così come sembra, escludere dal consorzio umano coloro che, per ipotesi, non avessero la possibilità di essere annoverati fra i lavoratori.

Si desistette da questa caratteristica particolaristica, ma, scendendo nella subordinata, si volle affermare il principio in modo generico nell’articolo 1, ma in modo preciso e ben definito nell’articolo 31; talché, quanto noi avevamo osservato come non opportuno nell’articolo 1, trova la sua sede nell’articolo 31, il quale recita:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività con una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Onorevoli colleghi, come vedete, se è vero che l’Italia è definita Repubblica democratica, è innegabile che in essa hanno diritto di asilo solamente coloro che sono lavoratori, ed essendo lavoratori hanno l’obbligo dell’adempimento di determinati doveri, per potere partecipare alla gestione della cosa pubblica.

Ed allora, o signori, torto aveva Aristotele che definì l’uomo animale politico; torto quando egli pensò che l’uomo, per sua stessa natura politico, avesse diritto di partecipare nell’umano consorzio e nell’umana politica società, se noi ci arroghiamo il diritto di escludere dal consorzio umano il consociato, che per sua stessa natura, individuo politico non è identificato come lavoratore.

È vero che la formula di Stalin è: «Chi non lavora non ha diritto di mangiare», formula che, sotto un certo aspetto, si attribuiva anche a San Paolo, il quale, peraltro, pur esaltando il lavoro, affermava il principio, per cui omnis auctoritas omnis potestas a Deo, quasi per significare che l’autorità, qualunque ne sia l’investitura trova fondamento nella divinità.

Di conseguenza: anche se questa autorità personifichi una dittatura. Se il concetto di lavoro è connesso con quello di dittatura, perché con la dittatura sola può il lavoro realizzare i suoi diritti economici e morali, noi dissentiamo e decisamente da queste formulazioni particolaristiche, le quali incrinano e vulnerano quelli che sono i diritti essenziali, sacri, inalienabili, imprescrittibili, della persona umana. Contro questi diritti e libertà consacrati solennemente e che l’uomo arroga a sé, indipendentemente dal riconoscimento che altri uomini possano farne, non è consentito ad alcuno di porre limitazioni; noi vediamo in limitazioni siffatte il primo ed il più sacrilego attentato alle libertà della persona umana. Ma non basta, onorevoli colleghi; le libertà umane sono state concepite, in questo progetto di Costituzione, attraverso teoriche filosofiche, assai seducenti da un punto di vista scientifico ed estetico; ma i ragionamenti filosofici posti a base dell’efficienza della personalità umana noi, da questo settore, con naturale diffidenza, lo confesso, li vediamo rappresentati ed esasperati, perché tali libertà sono in funzione esclusiva del perseguimento di finalità sociali ed economiche, che non potrebbero essere realizzate se non attraverso questa particolaristica concezione della libertà umana. Spiego: abbiamo detto che l’uomo porta in sé, inscindibilmente, connesse, le caratteristiche della sua personalità, gli attributi dei suoi diritti fin dalla nascita, ipso iure, anzi: ipsa natura; ma si è detto che l’uomo da sé non può perfezionare ed integrare la sua personalità, se non attraverso le comunità naturali e attraverso le formazioni sociali, talché, la stessa Costituzione, in un articolo, mette sullo stesso piede di uguaglianza e i diritti dell’uomo e i diritti delle comunità, e i diritti delle fondazioni sociali, nelle quali, l’uomo deve necessariamente essere inserito perché possa perfezionare ed integrare la sua personalità.

La teorica filosofica è seducente, ma, considerata da un punto di vista squisitamente politico, non vi ha chi non veda il pericolo di questa concezione, la quale dà la sensazione di un super-riconoscimento della personalità umana ed anzi dà l’impressione di un volontario intervento dello Stato per perfezionare questa personalità umana. Ma quando noi, in una Costituzione, facciamo siffatta affermazione, quando noi, con un imperativo categorico, mettendo sullo stesso piede di uguaglianza l’uomo e le comunità naturali e le formazioni sociali, contemporaneamente eccitiamo lo Stato perché provveda alla efficienza di questi organismi, noi abbiamo già affermato un principio per il quale lo Stato diventa non lo strumento dell’uomo, ma diventa il particolaristico Stato totalitario, invadente e prepotente, che si inserisce nella vita dell’uomo, che inserisce l’uomo in determinati organismi, e che tutela questi organismi. Per tutelarli deve limitare le libertà umane! È chiaro pertanto che in piena legalità costituzionale si possa scendere in regime totalitario, cioè in quel regime deletario e nefasto, di cui le conseguenze non vi è alcuno di noi che oggi non senta e non veda per le gigantesche proporzioni delle sciagure di cui è stato macabro dispensatore. Noi dissentiamo dalle concezioni liberalistiche, così come sono state congegnate, per le ragioni che sommariamente vi ho espresso; noi dissentiamo da questa organizzazione capillare, che si insinua in tutti i settori della vita umana e si inserisce persino nella famiglia, di cui la concezione non risponde alle nostre ideologie ed alle nostre convinzioni etico-giuridiche.

Un duplice orientamento si appalesa: lo Stato si preoccupa eccessivamente della famiglia; lo Stato si sostituisce ai genitori. La Costituzione definisce la famiglia in senso che per noi è ambiguo. Identifica la famiglia in «società naturale», e quindi la considera una situazione di fatto e non di diritto, talché – e conferma questo concetto successivamente – allorché parla dei figli naturali e dei figli legittimi, accomuna gli uni e gli altri; e neppure tiene conto dei figli adulterini e incestuosi, e questo ibrido consesso di gente che deriva da diverse fonti, anche peccaminose e – dal punto di vista biologico – anche dannose, dovrebbe poter convivere sotto lo stesso tetto. Se distinzione non si è voluta fare in ordine alla diversa origine dei diversi figli, noi abbiamo ragione di ritenere che la concezione della famiglia, esclusivamente come società naturale, non risponda alla coscienza collettiva del popolo italiano, e abbiamo ragione di ritenere altresì che, avendosi riguardo alla spontanea unione societaria dell’uomo e della donna, senza preventivo crisma legale o religioso, sia da prevedere l’incapacità dei nuovi nuclei naturali ad esercitare la loro missione nella vita, e pertanto provvede lo Stato col suo intervento a colmare le lacune. Non solo, ma la incapacità morale od economica dei genitori consente allo Stato di sostituirsi ai genitori; non solo, lo Stato interviene per la protezione dell’infanzia e della maternità.

Ciò altamente onora lo Stato e siamo tutti perfettamente d’accordo; ma quando lo Stato, oltre alla protezione alla maternità e all’infanzia, s’ingerisce anche nell’educazione e nella protezione della gioventù, attraverso gli organismi che lo Stato a tal uopo crea o favorisce, esorbita dalle sue funzioni, per modellare sulle sue concezioni politiche particolaristiche la gioventù che a tale dominio ha diritto di non essere assoggettata.

Ma che cosa significa tutto ciò in una Carta costituzionale? Perché si è voluto in modo inequivoco, in modo categorico, impegnare lo Stato a creare persino gli organismi dove la gioventù trova la sua protezione?

Onorevoli colleghi, noi siamo preoccupati da queste affermazioni le quali, ripeto, possono essere determinate da fini nobilissimi, da un concetto etico della vita, da una religiosità e da una spiritualità che può anche commuovere, ma non dimentichiamo che noi non scriviamo un libro di filosofia o di morale, scriviamo la Costituzione, la quale impegna il legislatore futuro. Il legislatore futuro deve uniformarsi agli imperativi categorici della Costituzione e gli imperativi categorici rappresentano la legge fondamentale alla quale deve essere orientata tutta la futura legislazione e se, per ipotesi, onorevoli colleghi, domani un partito politico prevalente, che ha determinati orientamenti, determinati programmi filosofici, materialistici, economici o idealistici, intenderà di perseguire quelle finalità che la Costituzione gli consente, ed attua praticamente quanto la Costituzione afferma, noi potremmo trovarci di fronte ad uno Stato totalitario ed invadente, che vigila l’essere umano dalla sua nascita, vigila la famiglia per stabilire se adempie e soddisfa quelle esigenze sociali, economiche e morali che impone in coerenza a quegli orientamenti politici prevalenti. La stessa persona poi lo Stato controlla nella sua ascesa e nella sua formazione, la inserisce nelle comunità naturali, e poi nelle formazioni sociali che lo Stato protegge e sorveglia, e di poi gli appresta i mezzi materiali per formare la famiglia. La vicenda si ripete, di modo che questo essere vivente non ha più gli attributi della libertà, non sente le responsabilità del proprio io, non assurge alla dignità della sua persona, non sente il pungolo del bisogno, non si adopera per superare gli ostacoli, ma si adagia supinamente nella rete di provvidenze, che da un punto di vista sociale, possono soddisfare gli interessi economici dell’uomo, gli interessi materialistici dell’uomo, ma sopprimono in lui la libertà, la coscienza, la individualità, l’iniziativa e lo rendono una macchina priva di quella divina scintilla dell’intelligenza, che sola può farlo assurgere alle più alte dignità umane e consentirgli di portare il contributo della sua opera e della sua saggezza, attinta nella emulazione e nello sforzo individuale con spirito di iniziativa, che non deve essere soffocato e soddisfatto da esigenze di carattere esclusivamente materialistico. (Applausi a destra).

Onorevoli colleghi, queste le considerazioni, per quanto tratta la nostra concezione della personalità umana, che noi vogliamo vedere assolutamente garantita nei suoi diritti essenziali, ma con formule chiare, precise, apodittiche, che non consentano di filosofeggiare, né permettono interpretazioni particolaristiche, ma rispondano alla coscienza collettiva del popolo, non in un determinato periodo storico, ma nella eternità dei secoli, come eterno è l’uomo che, ricevendo da Dio il suo crisma, ha il diritto di conservarlo anche per diritto divino.

Onorevoli colleghi; fra i diritti e i doveri dei cittadini nulla rilevo di saliente che non abbia già rilevato contestualmente, attraverso l’esame del preambolo della Costituzione. Io vedo nelle disposizioni generali il preambolo, quel preambolo di cui tanto si è discusso e nel quale si era inteso di inserire quelle parti della Costituzione che, nobilissime nelle loro finalità di solidarietà umana e sociale, non potevano trovare in sede di Costituzione, la norma, diremo, giuridica per una concreta realizzazione.

Sui rapporti civili vi è una considerazione da fare, ed è quella che riguarda il diritto di asilo dello straniero in Italia, che nel suo Stato non gode di quelle garanzie costituzionali che la Repubblica italiana concede. Noi siamo consenzienti a questa nobilissima affermazione di solidarietà umana, specie quando l’uomo trova persecuzione alle libere sue finalità spirituali, ideologiche e politiche. Ma noi un’osservazione avevamo ritenuto di fare, in sede di elaborazione del progetto, ed era questa che, pur riconoscendo allo straniero il diritto del più largo asilo nello Stato italiano, si pretendesse che lo straniero si uniformasse agli ordinamenti dello Stato italiano.

Ciò non avrebbe menomamente diminuito la larghezza della nostra incondizionata ospitalità, ma ci avrebbe consentito di garantirci da interferenze o da situazioni che potrebbero risolversi in dannose conseguenze per la compagine della comunità italiana.

Passando ai rapporti etico-sociali, nulla di caratteristico per ora da rilevare in sede generale.

Due parole sui rapporti fra Chiesa e Stato. Non ne avrei parlato, se tutti indistintamente i colleghi che mi hanno preceduto, non avessero fermato la loro attenzione su questa enunciazione, che noi riteniamo felice, inserita nella Costituzione.

Per la storia, si era originariamente proposta in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione, una formula che, apprezzabilissima nella sua alta concezione, fu da me, come sempre, garbatamente non avversata, ma criticata sotto alcuni riflessi che, a mio avviso, meritavano considerazione. Si era proposto, cioè, che lo Stato italiano e la Chiesa, riconoscendosi parte della comunità internazionale, egualmente esercitavano i loro diritti di sovranità. Dimostravo allora che, con tale formula, noi Stato italiano per primi ci saremmo definiti in senso negativo, nel senso cioè di riconoscerci parte della comunità internazionale.

Premetto che, secondo le ideologie che il mio partito persegue, vi è quella, utopistica forse oggi, ma realizzabile domani, degli Stati Uniti di Europa. Considerate, pertanto, con quale entusiasmo noi avremmo aderito a quella formula per le finalità particolaristiche nostre! Ma il nostro dovere innanzitutto è quello di essere italiani, fedelissimi, fanaticamente devoti alla Patria italiana, e considerato, pertanto, che la coesistenza nello stesso territorio di due Stati, i quali derivano la loro sovranità dalla originarietà dei loro diversi ordinamenti, avrebbe potuto portare a conseguenze complesse di carattere internazionale, meglio sarebbe stato trovare una formula meno complessa. Si addivenne così a quella formula che noi pienamente approvammo ed accettammo. Siamo lieti che nella Costituzione abbia trovato posto questa solenne affermazione e siamo lieti che riconoscendo, nel suo ordinamento, la sovranità della Chiesa, il popolo italiano abbia voluto nella Costituzione darle l’onore che le compete.

Già ho pubblicamente espresse le ragioni per le quali dissentivo dalle critiche che dimostravano la opportunità di non fare menzione in Costituzione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Anche il professor Jemolo, luminare in tema di diritto ecclesiastico, assumeva che, essendosi il Trattato ed il Concordato stipulati da un Governo detestato oggi dalla coscienza collettiva, sembrava incongruente che questo atto di nascita venisse oggi riconosciuto.

Obbiettavo che non è alla forma alla quale bisogna avere esclusivo riguardo, ma alla sostanza, e che sarebbe grave errore attribuire al Governo fascista tanta grandiosa concezione negli eventi storici e nella comprensione dello spirito nazionale. Era un fatto che doveva quel Governo registrare; una situazione matura che era impellente nella coscienza collettiva del popolo italiano, il quale da tempo si dibatteva, tra l’agnosticismo dello Stato per la questione religiosa e l’intimo desiderio e la convinta necessità della manifestazione, anche esteriore e formale, di questo sentimento. Il cittadino cattolico, il credente, specie se di elevata cultura, specie se investito di pubblici poteri, si trovava costantemente di fronte al dilemma fra l’esaudimento di quello che era l’imperativo categorico della sua coscienza, per manifestare anche pubblicamente la sua fede religiosa, e gli ordinamenti agnostici e legalitari dello Stato che impedivano queste manifestazioni; impedivano, preciso, non legalmente, ma impedivano in una ipocrita consuetudine protocollare e formale.

Se, malauguratamente, un Governo, che oggi logicamente detestiamo, ebbe la ventura di registrare un evento storico-spirituale, noi dobbiamo attribuire la paternità di quello evento, come conquista della pace religiosa, al popolo italiano, che giustamente aspira di vedere riconosciuto nella sua Costituzione l’esistenza del patto fondamentale fra Chiesa e Stato italiano.

Onorevoli colleghi, ho seguito con attenzione le osservazioni dell’onorevole professor Calamandrei sulle contradizioni esistenti in tema di riferimenti ai Trattati Lateranensi; se noi, esaminando quei trattati, dobbiamo riferirci allo Statuto Albertino e, in sede di coordinamento, a situazioni che oggi non sono coerenti colle libertà individuali e politiche, l’amico e collega onorevole Tupini, poco dianzi ha anch’egli, su questo argomento, diradate le nebbie affermando che la Chiesa Cattolica, come sempre saggia e previdente, non disdegna di adeguarsi e adattarsi, per quanto può, nella sfera delle sue competenze, alle necessità storiche e ambientali. Fu detto anche in sede di discussione davanti alla prima Sottocommissione che se alcuna incongruenza esiste che possa preoccupare la coscienza di alcuno, dobbiamo essere certi che rapidamente sarà eliminata, di modo che l’inserzione dell’esistenza di questa pace religiosa tra il popolo italiano e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, rappresenta una conquista spirituale del nostro popolo che non adombra in modo assoluto alcuna coscienza, né desta in alcuno preoccupazioni di sorta.

Rapporti economici: Sui rapporti economici, onorevoli colleghi, io rilevo e dichiaro che sarei col mio partito felicissimo se finalmente in questo mondo, fatto di uomini, si potesse raggiungere la perfezione di questo Stato ideale che a me sembra di identificare nella «Città del Sole»; è il regno della felicità per tutti; quivi felicemente si nasce e senza alcuna preoccupazione ci si avvia lentamente e giocondamente a percorrere la parabola della vita senza assilli e senza preoccupazioni, procul negotiis. Ma ci siamo domandati: quando il cittadino italiano leggerà questa Carta costituzionale e porterà decisamente la sua attenzione nel settore che più intimamente lo attrae e lo interessa e i con speculazione di indagine si soffermerà sui diritti economici e sociali e, specie se ingenuo, specie se non addestrato alle speculazioni ragionative e sofistiche di retori, di giuristi e di filosofi, egli credesse di aver conquistato finalmente quanto solo nei suoi sogni e nelle sue speranze costituiva possibilità reale, e se questo cittadino, esasperato da questi diritti in modo tanto solenne qui affermati, domani venisse da noi Costituenti, o andasse da coloro che nell’esercizio dei loro poteri hanno autorità ed ascendente, a domandar conto dell’esecuzione di questi impegni d’onore che lo Stato ha preso verso i suoi cittadini, e se eccitasse la sua diligenza per l’adempimento almeno parziale di questi impegni contratti solennemente, e si sentisse rispondere che lo Stato è nell’impossibilità di soddisfare queste esigenze, io mi chiedo quale potrebbe essere la reazione di questo cittadino e più ancora quale potrebbe essere la reazione di una collettività esasperata, la quale, ritenendosi beffata nella santità della sua miseria, eccedesse, e scendesse in piazza, onorevoli colleghi?

Mi sovviene in questo momento, quanto Gino Capponi, descrivendo il tumulto dei Ciompi nella rivoluzione di Firenze, disse a proposito di coloro che «assillati dal bisogno scendono in piazza». Disse egli: «Quando tu chiami la forza del popolo a far impeto nelle vie, il vero popolo non risponde, ma vedi uscire una turba, cui si pertiene diverso nome che non puoi né dirigere né contenere, e che travalica ogni tuo disegno».

Meditiamo pertanto, onorevoli colleghi, su quella che è la psicologia della massa, verso la quale il senso della nostra solidarietà è acuto e profondo e noi per primi auspichiamo ardentemente che questa umana solidarietà possa essere, ogni giorno vieppiù, cementata e possa ogni giorno divenire più attuale e concreta. Ma nel contempo misuriamo le nostre forze e le nostre possibilità, e cerchiamo, nella serietà contenuta delle nostre possibilità presenti e future, di fare il bilancio di quanto è possibile realizzare su quello che con tanta leggerezza si afferma essere già un diritto del popolo.

Noi abbiamo affermato in Costituzione il diritto, ed altresì il dovere, del lavoro. Mi sono domandato e domando, onorevoli colleghi, qual è la ragione per far presumere che si vuol quasi coartare l’umana personalità per l’esercizio di una attività lavorativa concreta che deve rispondere a finalità determinate, quando, da che mondo è mondo, il popolo italiano si è differenziato e si differenzia, fra tutti i popoli del mondo, per la sua parsimonia, per la sua laboriosità, per la sua inventiva, per la sua intelligenza spontanea, per la sua ansia nella ricerca di un lavoro qualsiasi. Perché, domando, di fronte ad un popolo così meravigliosamente caratterizzato, che ha tradizioni politiche, storiche, etniche e culturali, per cui non è a dubitare della sua laboriosità, per quale ragione, ripeto, noi abbiamo voluto imporre in una Costituzione il dovere al lavoro, quando noi sappiamo per il presente e per il futuro che finché i ristretti confini della nostra Patria non ci consentono purtroppo di dare a tutti lavoro proficuo, noi dobbiamo ricorrere all’unica valvola di sicurezza, che è quella dell’emigrazione. Essa d’altra parte, considerata sotto determinati riflessi, costituisce anch’essa ragione di onore per l’Italia e il lavoratore italiano, perché attraverso l’emigrazione, le spiccate qualità morali e di intelligenza dei nostri lavoratori, espandiamo per il mondo (come fino ad oggi abbiamo fatto) la civiltà italiana, la civiltà latina.

Onorevoli colleghi, il dovere al lavoro a noi sembra un pleonasmo ed un pericolo: è un pericolo perché se domani, per dannata ipotesi, dovesse prevalere un orientamento politico, basato sopra una ideologia economica od una teoria materialistica, e dovesse il legislatore, nella indagine interpretativa di questa Costituzione, identificare il concetto di lavoratore, pure non contrastando quanto in Costituzione è detto, nel senso che per lavoro si intende non lo sforzo materiale dei muscoli solamente, ma anche qualunque attività spirituale, tuttavia, fra le attività spirituali potrebbe anche esistere una gamma di proporzioni e di successioni, talché quegli che oggi – filosofo meditativo o sacerdote contemplativo – può rappresentare una attività lavorativa socialmente apprezzabile e socialmente utile, potrebbe essere domani non più annoverato fra i lavoratori, perché non economicamente valutabile, non socialmente utile.

Il sacerdote contemplativo, che oggi può essere annoverato fra i lavoratori che hanno diritto di partecipare alla gestione della cosa pubblica, potrebbe domani essere considerato soltanto da chi ha particolare sensibilità e adeguata preparazione spirituale, ma non da chi, concependo la vita attraverso il materialismo economico, deve necessariamente ripudiare tutto quanto non risulta economicamente valutabile. I diritti sacri, individuali, imprescrittibili e inalienabili sarebbero quindi facilmente, ma costituzionalmente, violentati e soppressi.

Ricordo quanto ieri ha detto l’onorevole Calamandrei, che per sensibilità ai versi di Dante, a lui dall’onorevole Togliatti ricordati, fu indotto a convenire che quanto risulta congegnato nel progetto di Costituzione, lo è non solo per affermare una realtà storica di cui siamo spettatori, testimoni e protagonisti, ma per proiettare nel futuro un orientamento ai nostri figli e ai nostri nipoti che, perseguendo la strada luminosa che nella concezione sublime dell’umana società noi qui tracciamo, devono condurre, in prosieguo di tempo, questa umanità versò realizzazioni migliori.

Onorevoli colleghi, a me sembra che se questo è il concetto che noi vogliamo consacrare in Costituzione, tale concetto deve essere trasportato in sede di preambolo, come auspicio per le future generazioni, ma non come impegno per il legislatore di domani, in quanto che, per le ragioni dianzi dette e che non starò a ripetere, l’equilibrio politico e lo schieramento di forze politiche sono mutevoli e può mutare l’orientamento ed il programma economico e sociale al quale, ripeto, è stata subordinata tutta la parte relativa alla concezione delle libertà umane.

Ho avuto l’impressione che, attraverso queste enunciazioni, noi avessimo fatto come quel tale, che, dopo essersi goduta l’esistenza, fece testamento lasciando ai suoi eredi tutto il patrimonio che egli in mobili, in immobili e in preziosi possedeva è vero, ma solo nella sua fantasia; o come quel tale che nel fare testamento congegnò le cose in modo, e così complesso e caotico, da far litigare tutti i discendenti, che l’un contro l’altro armato si esaurirono in una lotta sterile ed esiziale.

Sui rapporti politici, onorevoli colleghi, non mi soffermo che sopra un punto, sul quale – se ben ricordo – i miei rilievi, già ho espressi in seno alla Commissione. Parlo del diritto di voto di cui è cenno nell’articolo 45.

PRESIDENTE. Onorevole Mastrojanni, mi perdoni; ma se lei esamina così particolarmente tante parti della Costituzione, forse posso sbagliarmi, ma credo che usciamo dal quadro di questa nostra discussione introduttiva. C’è un vantaggio: che si anticipano affermazioni che non verranno più fatte successivamente. Ma si confondono le parti successive della discussione…

Comunque, io mi rimetto a lei.

MASTROJANNI. Prendo atto delle sue esatte osservazioni. Ma, se mi consente, io vorrei identificare la Costituzione attraverso caratteristiche salienti individuate qua e là.

Comunque, obbedisco all’esortazione del Presidente e prometto che, dopo questo articolo, non farò menzione di nessun altro articolo e che, anzi, andrò rapidamente alla mia conclusione. Non voglio approfittare della benevola attenzione con la quale questa democratica e libera Assemblea Costituente fin’ora mi ha onorato.

In tema di voto, rilevo solamente che l’articolo 45 parla di voto personale, uguale, libero e segreto; il che dovrebbe soddisfare completamente le esigenze e le aspettative di tutti. Ma, come sempre – ripeto – la mia diffidenza mi porta oltre a quello che forse è stato il pensiero logicamente concreto dei redattori della Costituzione con i quali anch’io ho collaborato.

Io mi domando: perché insieme col «libero» e col «segreto» e col «personale» non si è messo anche l’inciso «diretto»?

Il voto può essere libero, può essere personale, ma, se non è «diretto», noi, o voi, attraverso quelle famose formazioni sociali e attraverso quelle famose comunità naturali, potremo rendere il cittadino, soggetto dei diritto di voto, partecipe dell’esercizio di tale diritto di voto, ma limitatamente in determinate organizzazioni, le quali, attraverso i loro rappresentanti, i grandi elettori, diverrebbero quelli che, in definitiva, completerebbero, col loro voto e solamente col loro voto, la vicenda politica del congegno elettorale. Senza l’inciso «diretto» non tutti potranno partecipare in modo «diretto» a tutte o ad alcune elezioni.

Prego gli onorevoli colleghi perché vogliano tenere nella dovuta considerazione questa realtà democratica, per non violare la democrazia stessa nella sua concezione liberale ed eguale per tutti.

Per quanto tratta la seconda parte della Costituzione, mi riservo di parlarne quando si discuterà dei singoli titoli e salto quindi tutto quanto riguarda la struttura e la funzione dello Stato e dei suoi organi, attenendomi a semplici e brevi considerazioni su quanto riguarda la elezione del Capo dello Stato. A mio avviso, meglio sarebbe, se, per la sua alta funzione di supremo regolatore, di più alto magistrato della Repubblica, e come quegli che deve conciliare le diverse tendenze dei partiti, esercitando il suo autorevole ascendente, e come quegli che rappresenta l’unità materiale e spirituale dello Stato, potesse rafforzare la sua coscienza e la forza intima della sua eccelsa funzione, attraverso il suffragio ed il conforto della diretta partecipazione alla sua nomina di tutto il popolo, attraverso il suffragio universale.

Credo che sia questione anche di carattere psicologico e per il cittadino, che nella elezione del primo cittadino dello Stato si vede direttamente partecipe della gestione della cosa pubblica, e per il Capo dello Stato, che si vede assunto a questo altissimo ministero dal voto unanime del popolo italiano, che egli tutto rappresenta, a qualunque ideologia appartenga e a qualunque partito politico possa essere inscritto.

Un’ultima osservazione ed ho finito: referendum circa la Costituzione.

Già parecchi mesi or sono espressi pubblicamente la mia opinione sull’argomento.

Da un punto di vista squisitamente giuridico, di opportunità politica e di carattere costituzionale, io penso che noi abbiamo ricevuto dal popolo un mandato specifico e determinato, quello, cioè, di formare una Costituzione, ma non abbiamo avuto il mandato di imporre o di applicare questa Costituzione. Noi, mandatari, non possiamo esorbitare dal mandato ricevuto. Il mandante ha il diritto di chiedere conto della esecuzione del mandato: abbiamo fatto bene e non abbiamo fatto bene? Sarà il popolo a giudicare.

Questo in sintesi è un accenno alla questione di diritto.

Ma, per quanto tratta la questione psicologica, sentimentale, democratica e liberale, io credo che se l’Assemblea Costituente ha la coscienza di avere bene operato e di avere esattamente interpretato la volontà del popolo, non deve temere che il popolo possa ripudiare questa Costituzione. È un atto di lealtà che io ritengo debba questa Assemblea Costituente, in regime democratico e liberale, compiere, perché, così facendo, avrà nobilmente esaudito il suo compito.

E concludo con l’auspicare che questa Costituzione, che sarà elargita al popolo italiano, possa, dopo i suoi emendamenti costruttivi, rappresentare veramente il punto di partenza perché questa umanità che tanto ha sofferto possa ritrovare nella giusta via, il suo benessere spirituale ed economico, in una migliore giustizia sociale e nell’assoluta garanzia dei diritti essenziali e delle supreme libertà individuali e collettive. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Laconi. Ne ha facoltà.

LACONI. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, io ho seguito con attenzione e con ammirazione, così come credo abbiate fatto anche voi, i discorsi degli oratori che mi hanno preceduto ed ho, come voi, sommamente ammirato la mostra di dottrina, di abilità, di acutezza, che ci è stata data; ma, nel fondo dell’animo, mi è rimasta l’impressione che qualcosa sia mancato. Ho notato che, nel corso di questi discorsi, vi è stata soprattutto una deficienza: si è avuta cioè l’impressione di un certo disorientamento diffuso sul giudizio che deve essere dato su questo progetto.

Taluni hanno confrontato il progetto a certi loro schemi astratti, a certi loro «ideali giuridici»; altri lo hanno misurato da un punto di vista di partito o da un punto di vista particolare ideologico o filosofico; altri ancora hanno comparato il progetto a Costituzioni di altri Paesi, che rispondono a situazioni lontane e diverse dalla nostra. Certo, se anche noi dovessimo usare questo metro, se ci ponessimo dal punto di vista della parte più avanzata del popolo italiano, di quella parte che ha condotto con prospettive più avanzate e più progressive la guerra di liberazione ed è stata all’avanguardia del movimento per la Costituente e per la Repubblica, certo, se anche noi ci ponessimo da un punto di vista ristretto di classe o di partito, penso che anche il nostro giudizio sul progetto di Costituzione potrebbe essere negativo.

Ma quale valore avrebbe siffatto tipo di giudizio? Io penso che non avrebbe alcun valore, perché si fonderebbe su concezioni astratte o su situazioni diverse da quella del nostro Paese. Per poter dare invece un giudizio giusto, noi dobbiamo partire da istanze concrete, da esigenze che sorgono dalla realtà italiana, e dobbiamo vedere come il progetto traduca queste esigenze.

Quali sono le istanze cui noi dobbiamo riferire questo progetto di Costituzione? Noi tutti lo sappiamo: sono le istanze che sorgono dalla lotta che tutto il nostro popolo ha condotto contro il fascismo; sono le istanze che sorgono dalla somma di sacrifici, di pene, di dolori, che si è abbattuta, e non per sua colpa, sopra il popolo italiano.

Ma se noi ci eleviamo ad una consapevolezza più alta dei nostri compiti, io penso che dobbiamo tener conto di altre istanze, e delle più remote, e di quelle che sorgono dalle lontane e fatali giornate in cui ebbe i suoi albori il nostro primo Risorgimento, dalle giornate di Milano, di Genova, di Torino, di Roma repubblicana. Dovremo tener conto delle istanze che ci vengono dalle generazioni sacrificate durante il Risorgimento, dalla serie di intelligenze pensose, di animi operosi, che hanno creato, edificato lentamente l’unità italiana, ed hanno visto sempre i loro ideali e le loro aspirazioni negati e delusi dal prevalere delle forze ritardatici che operavano nella vita politica del Paese.

Questa corrente di idee, di propositi, di aspirazioni ha trovato nell’Italia unificata una sua continuità nei movimenti politici popolari, nelle grandi forze unitarie che si sono richiamate agli ideali repubblicani, ai principî ispiratori della dottrina cattolica, ai nuovi principî del socialismo. Tutto un secolo di lotte contro lo stesso nemico noi abbiamo alle nostre spalle: di lotte contro i gruppi che hanno monopolizzato in Italia il potere economico e che se ne sono fatto uno strumento di dominio politico; di lotte contro la monarchia e contro la classe dirigente politica, che hanno sempre e costantemente soffocato le aspirazioni del nostro popolo ad un rinnovamento intimo e profondo della struttura economica, politica e sociale del Paese.

Ma certo, è in questo ultimo volgere di lustri che si è aperta la più grave e decisiva contradizione nel corpo vivo e nella struttura della nostra società nazionale, quando i gruppi dirigenti, quelli che si erano fatti portatori delle idee liberali, assertori della libertà economica e politica; quando questi gruppi dirigenti sono stati costretti dalla forza degli eventi, dalla paura degli eventi, a negare i principî stessi e i fondamenti del loro regime; a negare quegli ideali per i quali si erano battuti e per i quali avevano condotto a battersi gran parte del popolo italiano. Nella contradizione estrema del regime liberale il popolo italiano ha purtroppo esperimentato la sua stessa rovina. Ha compreso questa esperienza il popolo italiano? Io credo di sì; io credo che l’abbia compresa.

Leggevo ieri un articolo di Benedetto Croce, nel quale si ricorda che un poeta del Risorgimento italiano affermava in certi suoi versi che i tempi volgevano in meglio, visto che per ogni brigante che moriva nasceva un liberale. Croce constata che i tempi sono radicalmente mutati da allora: i liberali si estinguono e nasce gente nuova e diversa. Io non credo che sia offensivo per noi – per noi che nasciamo, amici dei grandi partiti di massa – l’esser chiamati briganti. È un prezzo; è il prezzo con cui si paga talvolta nella storia il privilegio di essere in molti e di rappresentare l’avvenire. E anche i liberali, ai loro tempi, a quei tempi, venivano chiamati briganti dai conservatori di allora. Sta di fatto che il popolo italiano ha compreso, e ben compreso, le cause profonde della rovina del nostro Paese, della sconfitta e della servitù.

Oggi, uscito da queste terribili prove, che cosa vuole il popolo italiano? Che cosa chiede a noi?

Il popolo italiano oggi vuole due cose: vuole ricostruire la propria Patria e vuole attuare nella democrazia i proprî ideali di giustizia.

Questo è quanto oggi il popolo italiano vuole; e ha dimostrato di volerlo, quando il 2 giugno, chiamato alle urne, con espressione diretta della sua volontà, ha instaurato la Repubblica in Italia. È il primo passo sulla strada del rinnovamento; su questa strada noi oggi dobbiamo camminare.

La Repubblica, giustamente diceva ieri l’onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti, perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua volontà.

A noi, altro spetta. A noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove, deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e sulla posizione preminente del lavoro.

Deve essere un regime orientato: non l’ho affermato a caso, onorevole Lucifero. Ieri lei diceva che dobbiamo creare un regime afascista. Io credo che questo non sia l’orientamento che il popolo italiano ci indica. Per chi pensa che il regime fascista sia stato soltanto una specie di crisi di crescenza, una malattia infantile o giovanile del popolo italiano, per questi il fascismo potrà essere qualche cosa di facilmente dimenticabile.

Per chi nel fascismo vede l’espressione di una contradizione finale di tutto un regime, che ha almeno un secolo di storia in Italia, per chi nel fascismo ha visto e vede la rovina del nostro Paese, io credo non si possa parlare di Costituzione afascista, si deve parlare di Costituzione antifascista. In questo senso, tenendo conto di queste istanze, noi dobbiamo quindi giudicare il progetto che ci è offerto.

Risponde esso alla volontà del popolo? Traduce queste esigenze storiche ed in quale misura le traduce?

Queste sono le domande cui dobbiamo dare una risposta, e io credo che, in questo senso, noi possiamo salutare con soddisfazione l’affermazione solenne dei diritti civili e politici del cittadino, che troviamo in testa a questo progetto: l’affermazione della libertà personale, della inviolabilità del domicilio, della inviolabilità di corrispondenza, della libertà di riunione e di associazione, della libertà di stampa, di azione in giudizio. Libertà tutte che importa riaffermare soltanto in quanto sono state negate, soltanto in quanto noi siamo chiamati a fare una Costituzione dopo il fascismo, dopo la tirannide, soltanto in quanto noi ci troviamo a dovere polemizzare con tutto un regime e con tutto un sistema. In questo senso l’affermazione di queste libertà ha oggi un valore ed un significato.

Ma io credo che a nulla servirebbe questa condanna del passato. Questa affermazione di diritti e di libertà credo si ridurrebbe a qualcosa di dottrinario e di vuoto se noi non ci proponessimo, attraverso la Costituzione, di distruggere le condizioni attraverso le quali il fascismo si è affermato ed ha potuto negare le libertà dei cittadini; se noi non ci proponessimo di consolidare nel nostro Paese uno schieramento di forze che sia interessato alla democrazia, se noi non ci proponessimo, cioè, da un lato di abbattere i nemici della democrazia, di restringere il potere dei gruppi privilegiati che vogliono sacrificare e distruggere le nostre libertà, e dall’altro di rafforzare il blocco popolare, di dare al popolo la strada aperta verso l’avvenire. Se non facessimo questo, io penso che inutilmente le tavole della Costituzione potrebbero riaffermare le libertà dei cittadini ed i principî fondamentali della democrazia. Noi siamo chiamati quindi ad un compito nuovo, che consiste nell’introdurre principî e diritti nuovi nella Costituzione italiana, e nel prevedere le forme e i metodi attraverso i quali il legislatore di domani potrà dare pratica attuazione a questi principî, potrà concretare questi diritti.

In questo senso, all’articolo 7 della Costituzione va affermato che è ufficio della Repubblica «rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e la eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». In questo senso è affermato, cioè, che lo Stato non deve limitarsi ad un riconoscimento formale delle libertà e dei diritti del cittadino, ma deve intervenire nella vita sociale, economica e politica per rendere effettivo il godimento di questi diritti. Così lo Stato interverrà a tutelare la famiglia, ad assicurarle le condizioni minime di esistenza; così lo Stato interverrà ad assicurare ad ogni cittadino, che abbia capacità e merito, l’insegnamento scolastico.

Ma vi è una parte più importante e più discussa fra questi diritti nuovi che noi dobbiamo affermare nella nuova Costituzione, ed è quella che concerne il diritto del lavoro; il diritto al lavoro appunto, il diritto ad una retribuzione adeguata, il diritto al riposo, all’assistenza, all’assicurazione; diritti che per la prima volta si trovano affermati in un documento costituzionale italiano, e non soltanto italiano.

La libertà delle organizzazioni sindacali, il riconoscimento della loro personalità giuridica la validità dei contratti collettivi, il diritto di sciopero: questo è il contenuto della parte che concerne i diritti dei cittadini in ordine ai rapporti economici.

Che valore hanno queste affermazioni? Molti hanno osservato che affermazioni di questo genere, nella situazione presente del nostro Paese, non possono avere altro che un vago valore programmatico.

Taluno ha obiettato che da molte parti e da uomini che hanno avuto esperienza di Costituzioni moderne si è osservato che le Costituzioni non sono programmi e che non conviene quindi introdurre nelle Costituzioni elementi programmatici che le facciano deviare dalla loro natura e dalla loro funzione normale. Ma io penso, onorevole Bozzi e onorevole Calamandrei, che non si tratti di elementi puramente ideali e vagamente programmatici che noi inseriamo nella nuova Costituzione italiana. Io credo che non siano dei principî e delle affermazioni che si possano affidare ad un preambolo, onorevole Mastrojanni, per rinviarle ad una lontana attuazione, quando «le condizioni del nostro Paese saranno mature».

Credo che non si tratti di questo, ma che si tratti di ben altro. L’affermazione di questi diritti oggi nella Carta Costituzionale italiana, ha, per le masse lavoratrici d’Italia, un valore preciso. Nel corpo della Costituzione italiana questa parte oggi costituisce un documento a sé: la Carta dei lavoratori italiani, onorevoli colleghi.

Io so che qualcuno potrà ironizzare sul fatto che io non usi la denominazione «Carta del Lavoro»; qualcuno potrà ironizzare su questo, ma io non ho alcuna esitazione ad usare un termine mistificato dal fascismo, ed usarlo nel suo significato vero e nella sua reale portata, oggi che la democrazia italiana si trova in grado di affermare la libertà dei lavoratori e di riconoscere i diritti del lavoro in una Carta costituzionale.

Quale valore ha questa Carta, che significato, che portata può avere oggi nel corpo della Costituzione italiana introdurre una Carta che riguardi i lavoratori, che concerna i loro diritti? Molti hanno parlato di compromesso, ed hanno detto che si tratta soltanto di tendenze diverse tra diversi partiti che son dovuti giungere ad un punto medio, ad una soluzione che riscuotesse il consenso di una maggioranza. Questo è vero, ma non è un fatto negativo; è un fatto altamente positivo.

Se oggi questi principî, queste affermazioni hanno un valore ed hanno un significato nella nostra Carta costituzionale, è in quanto dietro di essi vi è un patto fra forze sociali e politiche che si impegnano, nel corso della vita del nostro Paese, a realizzare questi principî, a rendere effettivi questi diritti.

In questo senso è possibile l’affermazione di diritti e di principîi che non possono trovare immediata garanzia, nel senso che non si tratta soltanto di speranze – come l’onorevole Tupini ha voluto benevolmente dire – ma di impegni, di impegni che sono stati assunti dai grandi partiti di massa, allorquando si sono presentati alle masse elettorali, allorquando hanno detto alle masse lavoratrici: «Noi siamo il vostro partito». Allora, onorevoli colleghi, questi impegni sono stati presi, non più tra il popolo da un lato ed il sovrano assoluto dall’altro, per riuscire a strappare determinate concessioni e determinate garanzie, ma fra gruppi e gruppi sociali, fra partiti e partiti. Questi impegni sono stati presi e, inserendoli nel quadro della nuova Costituzione italiana, noi diamo una garanzia al popolo che essi non sono cosa vana, che non sono state parole sparse al vento in un momento di eccitazione o per scopi di propaganda elettorale, ma propositi sinceri che noi abbiamo ferma intenzione di tradurre in atto.

Io penso, quindi, che sia del tutto assurdo pensare ad uno spostamento di questa parte verso il preambolo. Penso che essa debba rimanere, nel luogo che attualmente ha, e debba anzi acquistare un distacco ed un rilievo maggiori di quello che oggi non abbia.

Si è osservato che, comunque, anche se questa parte rimarrà al suo luogo, anche se l’affermazione di questi principî e di questi diritti verrà fatta nella Costituzione italiana, con tutto ciò mancano garanzie, mancano sanzioni. Domani, qualcuno diceva, quando i lavoratori italiani fiduciosi e creduli si presenteranno a chiedere che vengano attuati, che vengano tradotti in pratica i diritti affermati sulla Carta, essi rimarranno delusi perché lo Stato non potrà garantire nulla.

Questo è vero. Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione e la concretizzazione di questi diritti; ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fissare i principî, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani, possiamo aprire la strada a questo legislatore, togliere alcuni limiti alla sua azione. In questo senso possiamo introdurre alcuni elementi di una economia nuova, possiamo predisporre l’intervento dello Stato nella vita economica, possiamo prevedere la necessità e la facoltà per lo Stato di attuare determinati piani generali che possano coordinare le diverse attività economiche secondo un’unica direttiva e rivolgere l’attività produttiva del Paese verso gli interessi delle grandi masse lavoratrici. Noi possiamo introdurre nel corpo della Costituzione la facoltà per lo Stato di nazionalizzare le grandi imprese che rivestono ormai il carattere di monopolio di fatto o che interessano servizi essenziali per la collettività; noi possiamo introdurre la possibilità per il legislatore futuro di stabilire determinati limiti alla grande proprietà terriera, di abolire il latifondo. Ma non solo possiamo fare questo; possiamo – e già ve ne è cenno nel progetto di Costituzione – prevedere gli organi attraverso i quali lo Stato potrà concretare queste riforme e potrà attuare questi piani. È in questo senso che, nel progetto di Costituzione, si parla di Consigli di gestione, in questo senso si parla di cooperative, in questo senso, da parte del Relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, fu presentata la proposta d’introdurre nell’ordinamento del nostro Stato un Consiglio del lavoro, in cui le diverse categorie che partecipano al ciclo produttivo intervengano in proporzione della loro rilevanza numerica, in proporzione del loro peso effettivo nella vita della Nazione.

CAPUA. Torniamo alle Corporazioni! (Commenti).

LACONI. Ella non ha ragione di parlare di questioni corporative. Gli amici della sua parte hanno sostenuto tale indirizzo nel corso della discussione e lo hanno costantemente affermato. Il principio corporativo è legato ad altro. È legato intanto alla pariteticità delle rappresentanze, che in questo momento io escludevo, se ella è stato attento alle mie parole; è legato anche ad un criterio non democratico, come lei sa, perché la rappresentanza non era elettiva; ed è legato soprattutto alle funzioni che a questi organi si dànno. Quando noi parliamo di un Consiglio del lavoro, noi non vogliamo privare la rappresentanza politica della sua funzione e dei suoi poteri; noi vogliamo soltanto affiancare il legislatore con organi che gli portino la voce viva degli interessi delle grandi masse e gli facciano sapere quali sono le istanze e le esigenze che egli deve soddisfare. In questo senso noi abbiamo proposto un Consiglio del lavoro come organo di collaborazione col Governo e di controllo da parte dei lavoratori dell’opera e dell’attività del Governo e delle Assemblee legislative. Sono questi indubbiamente elementi nuovi, elementi di una nuova economia che si trovano fatalmente in contradizione con la vecchia. Indubbiamente ha ragione l’onorevole Calamandrei quando, leggendo passo per passo, comma per comma, un medesimo articolo, vi trova insieme principî che si riferiscono a concezioni diverse e che egli ha trovato in dottrine economiche diverse. Ma questa contradizione è nella vita e nella realtà italiana di oggi. Il problema è questo, onorevole Calamandrei: vi è oggi in Italia la possibilità di introdurre determinati elementi di una economia pianificata, coordinata in modo da poter venire incontro alle necessità delle grandi masse lavoratrici, rispettando i metodi della democrazia, rispettando la libertà?

Se questo non è possibile, ci troveremmo nella situazione che diceva l’onorevole Bozzi, dispersi fra due mondi senza avere possibilità di soluzione, senza trovare una via di uscita? Noi pensiamo di no. Noi pensiamo che non vi sia una assoluta opposizione tra questi due mondi; che non siano necessari fatalmente l’urto, lo scontro, il caos. Pensiamo che si possa attuare una rivoluzione sociale ed economica attraverso metodi pacifici e democratici. In questa fiducia confortateci, non scoraggiateci.

Ma certo, onorevoli colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell’ordinamento dello Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – come è detto nel primo articolo – alla vita sociale, economica, politica del Paese; sta nel fatto che tutto l’ordinamento dello Stato poggi sul principio della sovranità popolare.

Appunto per sottolineare questo carattere, il carattere di una democrazia progressiva che pone a suo fondamento il lavoro, abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica democratica di lavoratori.

Ho letto nella relazione dell’onorevole Ruini che molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Non so quali siano queste altre Costituzioni.

RUINI, Presidente della Commissione: Quella jugoslava, per esempio.

LACONI. A me non consta che nella Costituzione jugoslava ci sia una denominazione di questo genere, sebbene l’abbia letta attentamente. Certo questa denominazione non può riferirsi in nessun caso alla realtà economica sovietica. È noto che nella discussione che ebbe luogo per l’approvazione del progetto della Costituzione sovietica, lo stesso Relatore, Stalin, propose che venisse respinto l’emendamento col quale si definiva la Repubblica sovietica come Repubblica di lavoratori, in quanto la realtà sovietica è andata più in là, perché lo Stato sovietico si basa ormai su categorie definite, armonizzate in uno Stato senza classi. Per questi motivi l’emendamento fu respinto.

Quando noi abbiamo proposto che la Repubblica italiana venisse definita Repubblica di lavoratori, ben sapevamo che la genericità del vocabolo ci consentiva di non riferirci ad alcuna struttura classista, in quanto una struttura di questo genere non corrisponde alla realtà italiana. Abbiamo usato il termine lavoratori in quanto più comprensivo, in quanto in esso si può ritrovare chiunque partecipi col braccio o col pensiero, con attività manuali o spirituali, teoretiche o pratiche, alla vita, al progresso, alla ricchezza della Nazione. E chi è assente da questo, e chi vuol essere alieno da questo progresso, chi può dire di non collaborare a questo processo produttivo?

L’onorevole Mastrojanni ha fatto un tale giro di parole, ha mascherato talmente il suo pensiero, che io non sono riuscito a comprendere di quali gruppi egli si faccia difensore; ma indubbiamente, da una definizione di questo genere, sarebbero esclusi unicamente quei gruppi che senza partecipare in maniera alcuna, con la propria opera, col proprio lavoro, alla vita della Nazione, si accontentano soltanto di sfruttare il lavoro altrui è di vivere parassitariamente, senza partecipare in nessun modo alla vita della Nazione. Se ella vuol farsi difensore di questi ristrettissimi gruppi, ella è buon giudice. Per quanto riguarda noi, noi pensiamo che una denominazione di questo genere, la più comprensiva ma anche la più significativa, corrisponda al carattere attuale della democrazia italiana, a quello che noi vogliamo diventi, noi tutti, noi uomini delle grandi formazioni di massa, noi uomini del popolo, a ciò che vogliamo diventi la democrazia italiana.

Per questo noi abbiamo sostenuto, durante il corso del dibattito nelle Sottocommissioni e nella Commissione dei settantacinque, un tipo di organizzazione e di ordinamento dello Stato che avesse i caratteri di una assoluta democrazia, e che fosse contemporaneamente uno strumento efficace della volontà popolare; abbiamo cioè sostenuto, da un lato, che ogni organo e ogni potere deve avere il suo fondamento, la sua origine nel popolo o deve essere controllato dal popolo o da quegli organi che nel popolo trovano la loro radice.

D’altro lato, abbiamo sostenuto sempre forme di regime che siano capaci di venire incontro con decisione alle esigenze che sorgono dalle masse.

Noi abbiamo sostenuto un tipo di regime democratico non per quel piccolo calcolo politico che l’onorevole Calamandrei, mi duole ancora dirgli, ha voluto attribuirci, non perché contiamo sopra una maggioranza e solo in vista di questa maggioranza siamo fedeli assertori delle idee democratiche, ma perché noi siamo invece mossi dalla fede e dalla fiducia che abbiamo nelle istituzioni democratiche; per questo abbiamo sostenuto, in ogni momento e ad ogni passo, il regime democratico più avanzato, il più lucido, quello che traducesse in un modo più semplice e schietto la volontà popolare.

Uno sforzo considerevole in questo senso è stato fatto e trapela dalle pagine di questo progetto. È innegabile che la Costituzione della Regione, come organo di decentramento amministrativo dello Stato, consente di avvicinare tutta la macchina dello Stato al popolo e di sottoporla ad un suo più diretto ed immediato controllo. È indubbio che l’abolizione dei prefetti, e degli organi burocratici che governano oggi la vita delle nostre provincie, è un passo avanti, è un radicale passo avanti in questo senso. È anche indubbio che il potere legislativo, integralmente rimesso ad istanze di pressoché diretta origine popolare, è un altro passo avanti che noi facciamo verso la democrazia. Il riconoscimento, l’ammissione nel corpo della nostra Costituzione della iniziativa popolare e del referendum sono altri passi che noi facciamo su questa strada. Il fatto che il Capo dello Stato sia eletto dall’Assemblea Nazionale e il fatto che il Governo debba riscuotere la fiducia espressa del Parlamento, e cioè dell’istanza democratica più alta del Paese, sono elementi indubbiamente positivi e così anche il fatto che nella Carta costituzionale sia stato introdotto il principio che al Governo della Magistratura partecipa una rappresentanza del Parlamento, ed è ancora più positivo il fatto che l’Alta Corte sia anch’essa designata dal Parlamento.

Ma se tutto ciò tende ad aprire la strada al popolo, tende a consentire l’immissione della volontà popolare nelle strutture, nei congegni del nuovo ordinamento democratico e tende ad estendere il controllo dell’organo rappresentativo su tutti i settori, su tutti i gangli dell’apparato, è indubbio che nel progetto è rimasta traccia anche di un’altra tendenza, di una vecchia tendenza che si ricollega ad una dottrina di nobili ed antiche origini: la tendenza a limitare, a correggere, a bilanciare l’azione popolare, tendenza che suona sfiducia nel popolo e nei suoi organi rappresentativi, la tendenza a limitare l’azione delle istanze democratiche, a frenarla, a disperderla nel tempo, ad impedire cioè che la democrazia diventi qualche cosa di efficiente, qualche cosa di decisivo nella vita del Paese, a togliere cioè allo Stato democratico la capacità di tradurre in atto la volontà popolare.

Questa tendenza rimane nel progetto, la si vede la si sente. Si sente, da un lato, attraverso quel congegno complicato di Consigli, di Camere che si controllano l’una con l’altra, quell’ordinamento così complesso di Regioni che condividono con le Camere determinati poteri e secondo determinate forme e in limiti particolari. Si sente attraverso la lentezza prevista per il funzionamento degli organi legislativi.

Io penso che uno sforzo più in là si possa fare in questo senso e che noi dobbiamo fare questo sforzo. Dobbiamo tentare di realizzare una democrazia più conseguente, nel delineare l’ordinamento della Repubblica, e dobbiamo d’altro lato cercare di dare una vitalità maggiore, una forza maggiore allo Stato democratico che stiamo creando.

Questa tendenza si manifesta in tutte le diverse parti dell’ordinamento costituzionale previste nel progetto; è quella tendenza cui si richiamava ieri l’onorevole Lucifero, dicendo di crederci. «Io sono un credente – diceva – negli antagonismi costituzionali». Io credo che avesse un senso dichiararsi un credente nella teoria della divisione, dell’equilibrio dei poteri, nel sistema dei contrappesi, quando si dava come condizione pregiudiziale – e purtroppo ineliminabile – il fatto che uno di questi poteri avesse un’origine non popolare, quando si era nella condizione di dover bilanciare questo potere assoluto non derivato dal popolo: il potere della corona.

Ma che senso ha oggi il voler bilanciare e frenare i poteri del popolo, il voler stabilire un limite alla sovranità popolare? Questo io chiedo.

LUCIFERO. Io ho detto il contrario, onorevole Laconi.

LACONI. Può darsi che io abbia male udito; e me ne scuso, in questo caso.

Certo, limiti in questo senso non mancano. Noi vedremmo con estremo favore l’istituzione nel nostro Paese di nuove istanze democratiche che corrispondano alla Regione così come è individuata e figurata tradizionalmente, in quanto – come dicevo poco fa – il decentramento amministrativo avvicina il popolo al Governo e rende più facili i controlli del popolo sull’amministrazione.

Ma è indubbio che quando alle Regioni si attribuiscono poteri che esorbitano da quelli della semplice amministrazione, che giungono, come in questa parte del progetto, ad una potestà legislativa esclusiva, a cui segue una potestà legislativa concorrente, e a cui segue ancora una potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi dello Stato, quasi per meglio specificare e caratterizzare quel carattere pieno e primario, che ha il primo tipo di legislazione; è indubbio che in questo caso non possiamo più essere favorevoli.

Pensiamo che non si tratti più di avvicinare il popolo alle istanze della vita democratica e di sottoporre al controllo del popolo i rami e i settori della vita del Paese; pensiamo che ormai si tratti di qualcosa di più, che si giunga al frazionamento del potere legislativo, al disgregamento dell’unità organica del nostro Paese. È indubbio che domani, se vedessimo approvata questa parte del progetto, ci troveremmo ad avere in Italia, ancora una volta, a ritroso dei secoli, una miriade di staterelli, ciascuno per sé esercitante potestà legislativa, ciascuno capace di attuare, nell’ambito del proprio territorio, chissà quali riforme, differenti da quelle della vicina o lontana Regione.

Credo che in questo modo verremmo a stabilire nel corpo della democrazia italiana una serie di compartimenti stagni, che servirebbe unicamente a frenare, a ritardare, a rallentare quanto più possibile la circolazione delle idee e del progresso, la circolazione delle leggi del nostro Paese, ad impedire un’azione conseguente decisa dallo Stato democratico.

PIEMONTE. Manca la fiducia del popolo in loco.

LACONI. Questo è uno degli sbarramenti che vengono frapposti all’azione dello Stato.

Ma quante precauzioni non si sono prese, per potere rendere inoperante il potere legislativo, già con l’istituzione d’una seconda Camera accanto alla prima? Ognuno sa quale battaglia ci sia stata intorno a questa seconda Camera legislativa, che dovrebbe concorrere all’opera della prima e perfezionare l’opera della prima, ma insieme dovrebbe limitare la prima Camera, la quale, data la sua derivazione popolare, è ritenuta, per sua natura, avventata e temeraria.

Ma tutte le volte che si discuteva su questa parte, i sostenitori d’una seconda Camera non democratica si dicevano mossi dall’intenzione di porre un limite, di porre un freno all’azione della prima Camera, per ottenere una riflessione maggiore nella formazione delle leggi, quasi dimenticando che la prima Camera rappresenta nel nostro Paese, attraverso l’elezione diretta; attraverso il suffragio universale, la volontà di tutto quanto il popolo, alla quale non v’è ragione alcuna di porre dei freni e dei limiti.

Ma non soltanto in questo modo sono stati predisposti dei limiti all’attività del legislatore. Altri limiti e freni sono stati previsti nella procedura, la quale è d’una tale lentezza, onorevoli colleghi, che io vorrei, per provocare la vostra meraviglia e per stimolare lo scrupolo di coloro stessi che hanno partecipato alla stesura di questo progetto, vorrei, dico, farvi la storia, l’itinerario d’un disegno di legge, il quale partirà dal Governo un determinato giorno e giungerà un determinato giorno alla prima Camera; questa dovrà sottoporlo ad una sua Commissione e poi dovrà esaminarlo, discuterlo, approvarlo in Assemblea plenaria, e quindi dovrà rimetterlo all’altra Camera, che, a sua volta, ripercorrerà tutti i gradi della procedura, sicché entro un mese, dalla pronunzia della seconda Camera, la legge potrà finalmente essere pubblicata e venti giorni dopo entrerà in vigore, a meno che non intervenga un conflitto.

Se infatti l’altra Camera si pronunciasse in senso contrario o tacesse, si aprirebbe in tal caso tutta una procedura nuova.

Avremmo allora l’intervento del Presidente della Repubblica; ed eventualmente il referendum. E se anche non vi sia il parere sfavorevole della seconda Camera, ma la legge venga approvata con meno di due terzi dei voti, essa è sospesa quando ve ne sia richiesta di 50.000 elettori o di 3 Consigli regionali, ed entro due mesi cinquecentomila elettori o sette consigli regionali debbono pronunziarsi; soltanto dopo tale pronunzia, può mettersi in moto la macchina lenta e complessa del referendum. Io penso che tutta questa parte solleverà indubbiamente le critiche di coloro stessi che l’hanno sostenuta e ne hanno promosso l’inserimento nella Costituzione.

Ma quello che interessa è di vedere l’animo, l’intenzione con cui tutta questa parte è stata introdotta; almeno l’onorevole Fabbri, ricordo, lo diceva sinceramente: voglio che la Camera non legiferi, o faccia meno leggi che sia possibile. Ma altri non lo diceva con eguale sincerità; eppure si comportava come lei, onorevole Fabbri. Ed è per questo che sono state inserite tante more, che sono state previste tante lentezze nella procedura legislativa, che il legislatore di domani dovrà essere forzatamente inoperante, incapace di venire incontro alle esigenze che possano prospettarglisi.

Quando poi sorga un motivo di conflitto in questo faticoso congegno, sarà il Capo dello Stato ad intervenire. Io non riesco a comprendere come, essendosi concepito il potere legislativo in una sua unità, sia pure distinto in due Camere egualmente concorrenti al perfezionamento della legge; io non riesco a comprendere come debba poi intervenire un elemento estraneo per comporre il dissidio. Non abbiamo noi previsto, nell’Assemblea nazionale, l’organismo collegiale che aduna le due Camere in una e che costituisce l’organo legislativo supremo del Paese? Per quale ragione, se non per accrescere le possibilità di conflitto, noi dobbiamo fare intervenire un elemento estraneo nei conflitti delle due Camere? Ma anche questa volta si è detto che era necessario mettere dei freni a che il potere legislativo non esorbitasse dalle sue funzioni, a che noi non dovessimo cadere in una situazione in cui il Parlamento, attraverso le sue crisi e i suoi dissensi, dovesse portare ad un progressivo svilimento dell’istituto democratico. Ma ancora agli altri poteri sono stati stabiliti, nel complesso di questo progetto, limiti, condizioni, strumenti di rallentamento e di freno. Così accade per il Governo che dovrebbe patire, secondo l’attuale progetto, almeno il controllo di un Consiglio di Stato, di una Corte dei conti, il cui modo di composizione è completamente sottratto alla competenza del costituente e rinviato al legislatore ordinario.

Ora, io penso che domani, quando il Governo dovrà trovarsi a concretare, secondo lo spirito delle leggi che verranno emanate dal legislatore futuro, i principî che noi stabiliamo in questo momento nella Costituzione, esso dovrà agire e dovrà muoversi nell’ambito di una sfera di discrezionalità tale che l’organo che dovrà domani controllare i suoi atti non potrà limitarsi a controllare la pura legittimità; dovrà fatalmente sconfinare nel merito. E noi possiamo rimettere un controllo di tale portata ad un organo di cui oggi non possiamo prevedere quale sarà la composizione, quale sarà la natura? Io penso che ciò non sia possibile. Ma questo intervento di un’istanza giurisdizionale, di un corpo tecnico giudicante, nella vita e nello svolgimento dell’attività di un Governo e nell’attività legislativa del nostro Paese risponde ad un criterio, ad una tendenza che ha trovato i suoi assertori nelle Commissioni e che ha lasciato traccia – come dicevo – in tutto, il progetto di Costituzione: ed è la tendenza a inserire il giudice, il tecnico, il possessore dei criteri interpretativi della legge, come giudice e arbitro tra i poteri, come discriminatore dei loro conflitti, come il meglio adatto ad interpretare la volontà del legislatore ed a correggere l’indirizzo dell’esecutore o del legislatore stesso, quando si tratti dell’interpretazione e dell’applicazione dei principî di questa Carta.

In questo senso e rispondendo a questi principî, a questo punto di vista, si è svolta nelle Commissioni una grande battaglia per affermare l’autonomia della Magistratura. Oh! Io non polemizzerò su questo argomento; non ricorderò il caso Pilotti, che è stato già ricordato. Non è certo stata questa la ragione per cui noi ci siamo opposti ad una autonomia assoluta della Magistratura: non davamo una tale importanza al caso Pilotti, per quanto una sua importanza l’abbia; non fosse altro come sintomo. Non è stata questa però la ragione per cui noi abbiamo ritenuto che la Magistratura non debba costituire un corpo a sé, un ordine a sé, autogovernantesi in forma assoluta, indipendente e senza alcun controllo di altre istanze o di altri organi. Non è stata questa la ragione. Se fosse stata questa, e se noi dovessimo scendere su questo terreno, io ripeterei quello che dicevo ieri, interrompendolo, all’onorevole Calamandrei: se noi entriamo su questo terreno polemico e ci poniamo a considerare se la Magistratura fra cinque, dieci, fra cinquant’anni potrà diventare una Magistratura nuova, antifascista e democratica, se noi ci poniamo su questa prospettiva del domani, ebbene rimandiamo al preambolo questo principio; al preambolo in cui, secondo lei, onorevole Calamandrei, dovrebbero inserirsi quei principî che non possono trovare un’attuazione immediata. Qui sì vi sarebbe motivo, perché l’attuazione di questo principio non da noi dipende, ma dalla Magistrature stessa, dagli uomini, dalla posizione che essi assumeranno nello schieramento democratico e dall’atteggiamento che prenderanno rispetto alla realtà viva, repubblicana, del nostro Paese. Non da noi. E poiché la cosa non dipende da noi, io sarei favorevole a che la si affermasse nel preambolo.

Ma non è questo, ripeto, il motivo per cui noi ci siamo manifestati in questo senso per quanto riguarda la Magistratura. È un altro, ed è che nello Stato italiano non possono esservi poteri che siano completamente sottratti al controllo delle istanze democratiche, delle rappresentanze popolari. Noi non possiamo ammettere che i giudici, corpo qualificato, alto e selezionato quanto si voglia, possano però immettersi nel corpo della democrazia italiana, inserirsi come organo giudicante tra il legislativo e l’esecutivo, controllare la legittimità di determinati atti di Governa o la costituzionalità di determinate leggi, senza che abbiano dietro di essi una volontà popolare, che suffraghi la loro interpretazione, senza che abbiano una qualsiasi investitura che li ponga in condizione di poter interpretare la volontà del legislatore, di poter interpretare la volontà del costituente.

Per queste ragioni, noi siamo stati sostenitori del principio che la Magistratura deve essere governata e controllata da organi in seno ai quali i diversi poteri, e particolarmente il potere legislativo e le rappresentanze popolari, abbiano una loro specifica rappresentanza.

La traccia, però, dell’opinione contraria è rimasta. È rimasta in quanto si esclude la partecipazione in questi organi del rappresentante più diretto e più qualificato dell’esecutivo, del Ministro della giustizia, ed è rimasta in quanto in nessuna parte di questo progetto si prevede la eleggibilità del giudice, si prevedono dei giudici elettivi.

Noi siamo sempre pronti, o meglio talune frazioni di questa Assemblea e taluni gruppi della Commissione, erano sempre pronti a celebrare altre Costituzioni, in altri momenti e per altre ragioni; nessuno però celebrava la parte positiva delle altre Costituzioni, nessuno ha ricordato che in altre Costituzioni il principio della elettività dei giudici, almeno nei primi gradi, è ammesso e riconosciuto come uno dei fondamenti del regime.

Questa è indubbiamente una deficienza che è rimasta nella stesura del nostro progetto e che corrisponde a tutta una tendenza contro la quale noi abbiamo dovuto lottare, tendenza diretta a sottrarre al popolo e al controllo diretto del popolo, quanto fosse più possibile, i poteri dello Stato.

Un’ultima questione, che è sorta in questo ordine, è quella che concerne la Corte costituzionale. Anche della Corte costituzionale si è tentato di fare un organo avulso dalla vita della nazione e dalla volontà del popolo. Questo tentativo è caduto. La Corte costituzionale, per quanto eletta secondo particolari criteri e con particolari modalità che non sono completamente soddisfacenti, sarà sempre un organismo investito della sua autorità dal Parlamento, e noi pensiamo che soltanto il Parlamento, il quale sia pure con maggioranza qualificata può modificare la Costituzione, soltanto il Parlamento, il quale unico nella vita della democrazia italiana, è investito della facoltà di rappresentare tutto il popolo nel suo complesso, possa eleggere, sia pure entro determinate categorie, i giudici che dovranno interpretare la volontà nostra e comparare le norme legislative emanate dal legislatore ordinario alle norme emanate da noi, potere costituente. Tutti questi limiti naturalmente non sono stati introdotti senza pretesto. Si è detto e si è ripetuto che si voleva ovviare a quelli che vengono definiti i difetti del regime parlamentare. Quando si è attribuito il potere legislativo alle Regioni, si è detto che si voleva lottare contro il centralismo, contro lo Stato centralizzatore, contro il Parlamento che monopolizzerebbe la potestà legislativa e sottrarrebbe alle distanze inferiori qualsiasi possibilità di regolare secondo esigenze particolari i loro particolari problemi.

Quando si è costituita la seconda Camera con eguali poteri e si è determinata una procedura lenta e laboriosa, si è detto che si introducevano queste cautele contro le avventatezze della prima Camera; quando si è stabilito l’intervento del Capo dello Stato e quando si è attribuita al Capo dello Stato la facoltà di sciogliere le due Camere, si è detto che questo era necessario per introdurre un elemento estraneo che potesse comporre i dissidi; quando si è creato il Consiglio di Stato e si è riconosciuta la necessità di mantenere la Corte dei Conti, si è detto che questo era ancora necessario perché l’esecutivo patisse un controllo esterno ed indipendente da esso; quando si è costituita la Corte costituzionale si volevano garanzie perché la Costituzione fosse realmente osservata.

Ma se noi osserviamo quale significato e quale valore abbiano nella nostra Carta costituzionale tutte queste garanzie che io ho elencato, noi scopriremmo che la giustificazione si fonda sopra una essenziale ingenuità: si cercano le garanzie nei congegni, in particolari strutture, in particolari forme organizzative che dovrebbero impedire, che dovrebbero eliminare tutti i difetti del regime parlamentare. Si vuole risolvere con particolari congegni, con particolari strutture quello che è un problema eminentemente politico e soltanto politico. Io comprendo che impedire, frenare, limitare, trattenere hanno un significato ed hanno un valore politico in quanto frenare e trattenere vuol dire conservare, e risponde quindi all’indirizzo di una politica eminentemente conservatrice il frapporre ostacoli all’attività dello Stato, o il mettere in uno stato di crisi permanente i diversi poteri; o il predeterminare congegni di una particolare lentezza. Io comprendo che tutto ciò ha un significato politico, che significa conservare quello che vi è, impedire che le forze nuove che sono la espressione del popolo manifestino la loro volontà, esprimano la volontà di rinnovamento che pervade tutta la democrazia italiana. Ma noi dobbiamo svelare che cosa si cela dietro questo tentativo. Dietro questo tentativo e dietro questa tendenza si cela unicamente e soltanto una fondamentale paura del popolo, un timore della volontà popolare, una paura del popolo e dei partiti in cui il popolo si organizza, dai quali invece deve partire, sui quali deve fondarsi ed a cui deve tendere tutta l’organizzazione dello Stato.

L’onorevole Lombardi, se non erro, in altra discussione constatava che ormai la sostanza del potere politico è fuori di questa Assemblea, e lamentava questo fatto ricordando come in altri tempi il Parlamento era realmente centro del dibattito e della lotta politica del Paese. Ma io credo che questo accada oggi fatalmente perché il potere politico è nel popolo, e deve essere fatalmente nel popolo quando noi poniamo a fondamento della nostra Costituzione la sovranità popolare.

Non noi, non questa Assemblea è sovrana, ma il popolo che sta fuori di questa Assemblea e di cui noi siamo i genuini e legittimi rappresentanti. Nel popolo, quindi, e nei partiti in cui il popolo si organizza, risiede la sostanza del potere politico. Da chi vogliamo garantirci noi? Da questo potere politico? Dai partiti, dal popolo? Vogliamo quindi misconoscere la sovranità popolare, menomarla, limitarla quanto più è possibile? Io credo che tutti i difetti del parlamentarismo scompaiano man mano che i partiti avanzano, man mano che i partiti si consolidano e penetrano nella coscienza dei cittadini, man mano che diventano forme di organizzazione popolari e raggruppano quanto più è possibile intorno a movimenti ideali e ad indirizzi pratici le più grandi masse.

Io credo che questa forza dei partiti tenda ad eliminare i difetti del parlamentarismo. La sovranità è nel popolo, non è nel Parlamento, e noi qui contiamo unicamente per quel che rappresentiamo. È per questo che tutto ciò che è stato previsto per la difesa delle minoranze ha un valore, ma un valore limitato, nelle forme attuali in cui si sviluppa e si orienta la nuova democrazia italiana.

Lo scopo fondamentale del regime democratico non è soltanto garantire la libertà dei pochi, ma è permettere l’attuazione di quelle idee e di quei principî che sono ormai penetrati nella coscienza dei più, che sono diventati anima di grandi movimenti popolari, che ormai raccolgono il suffragio ed il consenso della più gran parte della nazione.

In questo senso, onorevoli colleghi, io credo che la Costituzione debba orientarsi e che noi dobbiamo orientarci nel giudicare la Costituzione. In questo senso moveranno le nostre critiche a questo progetto che noi accettiamo come base di discussione, come utile base di discussione.

Noi non temiamo quello che dalla Costituzione rimane escluso, quello che rimane indefinito. Noi non temiamo il popolo che sta dietro a questa Costituzione e che sarà domani al di là dell’ordinamento democratico, come presupposto dell’ordinamento democratico dello Stato. Noi non pensiamo che i congegni, che i meccanismi costituzionali che possiamo predeterminare possano essere così efficienti da poter escludere qualunque pericolo.

Io vorrei che fosse così; vorrei che la semplice istituzione di una Carta costituzionale potesse garantirci per sempre dal pericolo della tirannide; vorrei che la forza e la solennità di queste parole impresse sulla carta o sulle tavole costituzionali avessero tal peso da poter impedire domani qualsiasi tentativo contro la democrazia.

Ma non ho questa speranza, non ho questa illusione. So che la garanzia maggiore dell’orientamento democratico del nostro Paese non è in questa Carta. È, onorevoli colleghi, unicamente nel popolo; è soltanto il popolo che può garantire che i principî che noi immettiamo nella Costituzione si tradurranno domani in realtà, che può garantire che i congegni che noi predeterminiamo agiranno domani nel senso che noi oggi ci auguriamo. È soltanto nel popolo che noi possiamo trovare la nuova garanzia del domani. Ed è per questa ragione che noi ci sforzeremo in tutti i modi, nel criticare questo progetto di Costituzione, di far sì che l’ordinamento dello Stato di domani sia il più democratico possibile, che non vi siano vicoli ciechi, che non vi siano budelli, vasi ostruiti, che la volontà popolare possa penetrare tutto il congegno e giungere in ogni lato, fin nelle più remote parti, nei più remoti settori dell’ingranaggio. È per questo che noi ci sforzeremo di fare in modo che l’ordinamento dello Stato sia quanto più democratico possibile, in modo che le forze delle grandi correnti democratiche del nostro Paese possano immettervi domani quello spirito unitario, quella volontà unitaria che manca oggi forse in questi congegni così predeterminati, l’uno distinto dall’altro, l’uno all’altro contrapposto. In questa volontà unitaria dei partiti e delle grandi masse popolari noi troviamo la maggiore garanzia che l’unità politica materiale e morale del nostro Paese non verrà spezzata. Nella forza dei grandi partiti di massa noi troviamo la garanzia che domani i principî che noi immettiamo nella Costituzione verranno tradotti in realtà. In questa circolazione, in questo respiro nuovo, noi vediamo la garanzia dell’orientamento interno e internazionale del nostro Paese, onorevoli colleghi, la garanzia suprema che l’Italia di domani sarà realmente una Repubblica democratica rispettosa della libertà, avviata sulla strada del progresso, decisa ad entrare come una forza attiva e pacifica nella comunità dei popoli liberi (Vivissimi applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle ore 16. Domattina vi sarà anche seduta alle ore 10.

La seduta termina alle ore 20,5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro Michele Parise, per il reato di vilipendio dell’Assemblea Costituente (Doc. I, n. 3).
  3. – Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Colombi, per il reato di diffamazione a mezzo della stampa (Doc. I, n. 4).
  4. Discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 4 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XLIX.

SEDUTA DI MARTEDÌ 4 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Commemorazione:

Marchesi                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Presidente                                                                                                        

Lucifero                                                                                                           

Bozzi                                                                                                                 

Calamandrei                                                                                                   

La seduta comincia alle 15.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Spano, Vigorelli, Facchinetti.

(Sono concessi).

Commemorazione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.

MARCHESI. Onorevoli colleghi, è triste ufficio commemorare quei grandi che il destino ha fermato lungo la via delle più nobili fatiche ed ha strappato alle più legittime speranze. Altri in questa Aula, con autorità e conoscenza che io non ho, potrebbero ricordare Federico Nitti, facendone sentire più acuto ed angoscioso il desiderio; potrebbero ricordare il cittadino e lo scienziato grande: il cittadino che seppe lottare per la libertà della Patria e del mondo e, nell’ora del pericolo supremo, seppe dall’aula del laboratorio passare all’ombra e alla gloria dell’azione clandestina e liberatrice, nelle file di un partito di avanguardia; lo scienziato che contese l’umanità al mistero che l’avvolge e alle insidie e ai pericoli che da ogni parte la colpiscono nella perpetuità delle generazioni. Ma già, certi uomini pare non appartengano a nessuna particolare scienza: essi appartengono a tutta la scienza, e la loro indagine e il loro studio penetrano addentro in quel fluire e rifluire perenne della materia su cui poggia l’unità stessa della vita. Fra questi uomini rari, poté presto eccellere Federico Nitti.

Onorevoli colleghi, sui banchi di questa Assemblea non siedono soltanto i delegati del popolo né i testimoni delle varie fedi politiche. Qui siedono anche – e lo dico ad onore di questa prima Assemblea dell’Italia libera – i rappresentanti della sofferenza e del sacrificio. E da questi banchi, e da quest’Aula, è naturale che si levi commossa la voce di rimpianto e di riconoscenza a Federico Nitti, allo scienziato grande, di fama universale, che ai dolori dell’umanità prestò la luce del suo intelletto, il ristoro del proprio sapere e l’opera preziosa della sua troppo breve giornata.

Onorevoli colleghi, ho finito. Massimo vanto dell’uomo è non esser passato invano su questa terra: Federico Nitti ebbe altissimo e imperituro questo vanto. Possa questa certezza battere confortatrice alla porta della casa sua desolata. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, le parole di accorato cordoglio e di nobile celebrazione or ora udite, per un italiano che ha esaltato con l’opera sua – pacifica e combattente – il nome della nostra Nazione nel mondo non paiono sufficienti, pur nel loro decoro e nel loro profondo afflato, a soddisfare l’anelito nostro, in cui il dolore si mescola al vanto. Quanti di noi vorrebbero ora rinnovare l’omaggio riverente, rammentare i meriti, segnalare le doti di quello che piangiamo! Chi lo ebbe compagno di studi, chi lo conobbe nelle dure traversie del confino, chi fruì del dono prezioso della sua amicizia; chi lo vide – curvo sulle miserie dei nostri lavoratori emigrati – prodigare loro cure fraterne ed affettuose, chi ha sentito gli stranieri parlare di lui con ammirazione invida del popolo che lo annoverava fra i propri figli.

Desidero esprimere con le mie parole i sentimenti di tutti i componenti dell’Assemblea, forse incapace a rifletterne ogni vibrazione e tremore, ma certamente compenetrato di tutta la loro angoscia.

A nome dell’Assemblea Costituente saluto nello scomparso l’uomo forte e generoso, dall’animo buono di fanciullo; lo studioso severo; il cittadino legato alla Patria da vincoli infrangibili di amore e di fedeltà; e m’inchino dinanzi alla sua memoria che resta per tutti gli italiani maestra di virtù civili, morali e intellettuali. (Segni di assenso).

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Il Governo si associa alle nobili parole pronunciate in memoria di Federico Nitti ed esprime i sentimenti della sua solidarietà al padre, illustre nostro collega.

Discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. (Segni di vivissima attenzione). Onorevoli colleghi, stiamo dunque per dare inizio all’opera fondamentale cui il popolo italiano, nelle sue elezioni del 2 giugno, ci ha delegati. Sono spiacevolmente sorpreso dei tanti vuoti che constato in ogni settore e debbo rammaricare vivamente che la nostra discussione non si inizi alla presenza di tutti, o almeno della maggior parte dei membri della Costituente. (Applausi). Ma non vanamente sono trascorsi i primi otto mesi di vita di questa Assemblea, ché essi ci hanno permesso dall’una parte di accumulare un materiale imponente per la costruzione; dall’altra di sgombrare il terreno, sul quale questa deve sorgere, da un certo numero di impedimenti e di ostacoli. Senza questa fatica, se non silenziosa certamente poco nota, noi non potremmo quest’oggi incominciare finalmente l’esame attento e responsabile del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

In quale modo regoleremo lo svolgimento di questo. nostro lavoro? Fin dall’inizio della sua esistenza questa Assemblea ha dichiarato di fare proprio il regolamento della vecchia Camera dei Deputati. E, quando noi prendemmo questa decisione, già sapevamo che ad un certo momento ci si sarebbe proposta l’opera specificamente costituzionale. Noi abbiamo, quindi, fin d’allora pensato che quel regolamento fosse valido non soltanto per gli altri momenti del lavoro di quest’Assemblea – per quelli, ad esempio, sostanziati da discussioni più squisitamente politiche come i giudizi dell’opera governativa, ovvero più particolarmente giuridiche come l’esame dei progetti di legge che questa Assemblea ha avocati a sé –; ma anche per l’appunto per questa maggiore e possiamo ben dire storica discussione del testo costituzionale. Credo, pertanto, di poter affermare che non era necessario escogitare e redigere un nuovo speciale regolamento per la discussione imminente; ma che, anche per questa, resta valido e sufficiente strumento il regolamento adottato fin da otto mesi fa, salvo un intelligente adeguamento di alcune sue disposizioni.

È partendo da questa considerazione che la Presidenza dell’Assemblea ha delineato alcuni criteri direttivi ai quali essa intende attenersi nell’intento di portare a buon fine la discussione. Criteri direttivi, e cioè non norme rigide; ma che amerei i membri dell’Assemblea volessero tenere presenti sempre nelle settimane venienti, considerando che li ho pensati solo per facilitare il compito arduo che dobbiamo assolvere.

Così, per la discussione generale con la quale apriremo questi nostri lavori costituenti, mi è parso conveniente invitare i Gruppi ad una certa limitazione degli oratori; e, accolto l’invito, le iscrizioni sono salite al numero di 22, cioè approssimativamente a 2 deputati per ogni Gruppo.

È stato detto fuori di quest’Aula che con ciò si soffoca la discussione, e proprio su quella materia che più la pretenderebbe ampia ed esauriente. È chiaro che chi così ha parlato ignora che la discussione generale non esaurisce l’esame di un progetto di legge, sia questo il più importante od il più modesto; ma che essa non ne costituisce se non l’atto introduttivo.

Ma voglio aggiungere qualcosa. A stretto rigore di regolamento, il dibattito cui ci apprestiamo non comporterebbe una discussione generale, se una discussione generale deve concludersi, ed ognuno sa che così vuole il regolamento, con un voto per il passaggio agli articoli. Ma noi non avremo, è evidente, un simile voto: a nessuno potrebbe infatti mai venire in mente che l’Assemblea possa comunque rinunciare all’esame dell’articolazione nella quale il progetto costituzionale si concreta. Ciò non di meno noi la faremo la discussione generale; e ciò proprio per soddisfare alle esigenze imperiose che tutti avvertiamo di non trascurare mezzo che ci conduca alla più intima e piena comprensione della materia costituzionale.

Ma se questa discussione generale può apparire non troppo in armonia con la parola del regolamento, essa deve giustificarsi in punta di logica. E sarà giustificata se si intesserà dei temi e dei motivi che le sono propri e connaturati. Perché ciò si realizzi occorre che essa dall’una parte sfugga dalle semplici astrattezze – che sarebbero un impiego dissipato del tempo non più abbondante che abbiamo a disposizione –; dall’altra che non anticipi le argomentazioni che più naturalmente appartengono a quella fase del dibattito nella quale verranno esaminate le disposizioni specifiche di ogni singolo articolo.

Questa discussione generale, in definitiva, deve essere tale da meritarsi piuttosto la qualificazione di preliminare o di pregiudiziale che non quella stessa di generale. Poiché sarà dalla soluzione che riceveranno i quesiti in essa affrontati che sarà dettata la struttura d’assieme della Costituzione, il coordinamento delle sue parti, la successione e la formulazione delle sue norme. Preambolo o non preambolo? Rigidità o flessibilità? Norme giuridiche di più o meno immediata efficacia o affermazioni programmatiche e finalistiche? Così a titolo di esemplificazione i temi che, mi pare, dovrebbero nutrire questo preambolo del dibattito; temi che sotto al loro apparente tecnicismo offrono in realtà l’adito al vasto campo delle considerazioni d’ordine storico e sociale, alla cui luce il testo costituzionale cessa di essere un documento di pura perizia giuridica per divenire un atto di vita del nostro popolo.

Da questa scelta e specificazione di materia e dalla limitazione degli oratori, designati da tutti i gruppi fra i propri membri più autorevoli, il dibattito iniziale riceverà un carattere di particolare elevatezza, quasi un appello al popolo italiano, ed un aiuto offertogli, perché non disperda la sua attenzione nei particolari, pur importanti, del grande edificio in costruzione della sua nuova legalità democratica e repubblicana; ma ne miri innanzi tutto, e ne saggi i pilastri che garantiscono la solidità e la coesione del tutto.

Alla fine di questa discussione generale-preliminare potranno anche aversi delle votazioni – ad esempio sull’opportunità o meno di un preambolo, sulla forma finalistica di certe disposizioni, ecc. – il cui risultato si farà avvertire poi nel destino che avranno di fronte al giudizio dell’Assemblea certi articoli o certi emendamenti.

Così, sgombro il cammino da ogni questione sistematica pregiudiziale, potremo passare all’esame di merito delle norme concrete costituzionali, e lo compiremo titolo per titolo, procedendo per ciascuno di questi ad una discussione particolare che abbraccerà tutta la loro specifica materia.

Potrebbe qualcuno obiettare che, così procedendo, noi sovvertiremo il criterio, ispiratore dell’articolo 86 del regolamento, il quale propone la discussione generale di un progetto o la sua discussione per titoli come una alternativa. Ma l’importanza eccezionale di questo progetto che abbiamo oggi dinanzi a noi ci autorizza a trasformare l’alternativa in complementarietà. Non solo, ma giungendosi, a questo punto, al vivo della materia – i diritti dei cittadini, le forme istituzionali, le funzioni correlative – ogni limite alla discussione, come numero di oratori e come tempo di parola, sarebbe inammissibile. Tuttavia, onorevoli colleghi, non dobbiamo dimenticare, nel fervido contrastare delle opposte tesi, che dibattiti approfonditi e ben nutriti di dottrina e di scienza già si svolsero attorno ad ognuno di quegli argomenti in seno alla Commissione dei 75 e più in seno alle sue Sottocommissioni. E la lettura dei voluminosi resoconti sommari, facendone testimonianza, ammonisce insieme che sarebbe inutile rinnovare ancora certe discussioni di principio nelle quali fu già ottimamente detto tutto quanto poteva essere detto per la chiarezza dei concetti e per la confusione dei contradittori. Lasceremo, comunque, qui libero giuoco allo spontaneo senso della misura che auspico sia vivo ed operante in ognuno di noi dell’Assemblea.

Alla discussione sulla particolare materia di ogni titolo seguirà naturalmente l’esame dei rispettivi articoli. Ma non resterà più molto a dirsi, suppongo, giunti che saremo a questo punto, poiché le norme specifiche di ogni singolo articolo, specialmente nelle parti dedicate alla struttura dello Stato, acquistando valore ed efficienza solo in connessione con quelle di tutti gli altri articoli, la discussione del titolo non potrà non avere già esaurito in massima parte la discussione propria degli articoli stessi. L’esame degli articoli si risolverà dunque nell’esame degli emendamenti. Avranno perciò la parola in questa fase finale della discussione soltanto i presentatori degli emendamenti, ed ancora per un limite di tempo proporzionato all’importanza, certo non trascurabile ma – in confronto al già fatto – marginale, del loro assunto: tempo che indicherei in dieci minuti.

Chiedo fin d’ora, al proposito, agli onorevoli colleghi di presentarmi per iscritto i loro emendamenti almeno 48 ore prima del giorno nel quale presumibilmente questi dovranno essere discussi, salvo bene inteso gli emendamenti agli emendamenti, che a norma di regolamento potranno essere presentati nel corso stesso della discussione, purché sottoscritti da almeno 10 deputati.

Credo che la disposizione del quinto comma dell’articolo 90 del Regolamento, a tenore del quale un articolo aggiuntivo o un emendamento proposto nell’aula possono essere rinviati per la discussione quando lo richieda o la Commissione o un gruppo di 10 deputati, troverà più di una volta applicazione nelle prossime settimane; così come potrà alcune volte apparire necessario valersi della disposizione dell’articolo 96, se avvenga che una decisione che si sta per prendere o che è stata ad un certo momento presa appaia o sia in contradizione con votazioni antecedenti.

Se ora aggiungo che agli oratori della discussione generale introduttiva risponderà il Presidente della Commissione dei 75; a quelli delle discussioni generali per titoli i relatori della rispettiva materia in seno alle Sottocommissioni; e che, sugli emendamenti, si pronunceranno i Presidenti delle stesse Sottocommissioni, credo di avere completato il quadro della tecnica della nostra discussione costituzionale.

Ma è certo che la perfezione tecnica del metodo non sarà sufficiente a sodisfare le attese ansiose che circonderanno il nostro lavoro. E neanche le placheranno l’abbondanza di erudizione, lo splendore della dottrina, il dominio del ragionamento, l’abilità polemica, la ricercatezza del linguaggio di cui la nostra tornata parlamentare sarà ricca e generosa.

La imminente discussione, onorevoli colleghi, deve assolvere – oltre che quello costituzionale – un altro compito, che non dirò gli sovrasta, ma certo gli sta a paro. Essa deve dare conforto a tutti coloro – e sono incommensurabilmente i più, fra il popolo italiano – che nell’istituto parlamentare vedono la garanzia maggiore di ogni reggimento democratico; a tutti coloro che, soffrendo in sé – nel proprio spirito – di ogni offesa ed ingiuria che venga portata contro il principio rappresentativo e gli istituti nei quali esso storicamente oggi s’incarna, voglion però a buon diritto, e si attendono, che questi non vengano meno al proprio dovere: che non è solo quello di elaborare testi legislativi e costituzionali, ma anche di essere in tutti i propri membri esempio al Paese di intransigenza morale, di modestia di costumi, di onestà intellettuale, di civica severità; ed ancora – me lo si permetta – di reciproco rispetto, di responsabile ponderatezza negli atti e nelle espressioni, di autocontrollo spirituale ed anche fisico, di sdegnosa rinuncia ad ogni ricerca di facili popolarità pagate a prezzo del decoro e della dignità dell’Assemblea.

È certo difficile, dopo tanta immensità di umiliazione nazionale, ritrovare d’un tratto quell’incrollabile equilibrio interiore senza il quale non può darsi alcuna consapevole e conseguente attività politica, e cioè attività in servizio del bene pubblico. Ma ciò che per tanti, più prostrati dalla miseria e meno ferrati nel sapere, può ancora essere una meta da raggiungere, per noi – che abbiamo osato accogliere l’offerta di farci guida del popolo – per noi ciò deve essere, o dovrebbe essere, certamente una meta già conquistata. Io amo, dunque, pensare, onorevoli colleghi, che l’alta impresa cui oggi moveremo i primi passi, impegnandovi ogni nostra forza d’ingegno, ogni nostro moto di passione, ogni nostro fervore di fede, riuscirà a dare prova ai nostri ed ai cittadini di tutti i Paesi del mondo che l’Assemblea Costituente italiana è pari alla sua missione, e degnamente rappresenta il popolo che l’ha eletta, un popolo probo, eroico, incorrotto. (Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Il primo oratore iscritto è l’onorevole Lucifero. Ha facoltà di parlare.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, anzi, per essere più esatti oggi, signori costituenti, perché in tale qualifica è la solennità particolare di questa nostra riunione in cui oltre al mandato che gli elettori ci hanno dato comanda l’imperativo della nostra coscienza.

Le nobili parole del Presidente hanno già indicato, nella sua tecnica e nel suo spirito, la via che deve seguire questa discussione; questa discussione che dell’Assemblea Costituente italiana – della prima Assemblea Costituente nazionale italiana – segna il vero principio ed anche, in un certo senso, la fine.

È stata un po’ scialba la vita della nostra Assemblea in questi suoi mesi di esistenza. Speravamo di più, speravamo di poter seguire più assiduamente l’opera legislativa e l’opera politica del Governo. Questo è mancato e non per colpa dell’Assemblea. Io mi auguro che accada di noi e della nostra Assemblea quello che accade di certe faci le quali non danno molta luce, producono molto fumo, ma nel momento di spengersi, hanno una fiammata vivissima che tutto illumina.

La combinazione vuole, e forse non soltanto la combinazione, che in questa prima seduta dell’Assemblea che deve dare corpo e sostanza alla Repubblica italiana, prenda per primo la parola chi ha condotto senza riserve, senza reticenze, con piena lealtà, una grande battaglia e credo di poter dire una bella battaglia. E forse è opportuno che sia così perché è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino sulla strada comune della Patria, e che conflitti e scissioni cessino dove non sono cessati.

In quest’aula si sono sentite ancora parole grosse, contumelie e ingiurie inutili e nocive: inutili perché non alteravano la realtà dei fatti, nocive perché ferivano i sentimenti di molti italiani. Oggi è ora che queste parole cessino e che tutti gli italiani si trovino uniti: coloro che, come me, credettero e ancora credono che potesse essere nell’interesse del Paese la permanenza della Monarchia e coloro che avevano opinione contraria. La Patria, o la costruiamo tutti uniti o non la costruiremo mai; e quanto più avremo il senso di responsabilità di questa nostra azione, tanto più, proprio dal risultato del nostro lavoro, risulterà se avremo potuto dare una risposta a questo primo interrogativo: Monarchia o Repubblica? Solo la Repubblica, cioè le leggi e la costituzione della Repubblica, e il modo con cui esse verranno applicate potranno risolvere la questione istituzionale. Lo dissi già nel mio primo intervento all’Assemblea e lo disse molto autorevolmente anche l’onorevole De Gasperi in una recente intervista. Noi vogliamo chiudere tutto quello che possa dividere il Paese e siamo qui per cercare di fare leggi tali da poter rimarginare le nostre piaghe e sopire tutti i risentimenti. Noi non vogliamo fare altro che creare l’Italia e fare sì che essa – repubblicana o monarchica – divenga una cosa sola.

La vera crisi che ha travagliato l’Italia in questi anni è stata non una crisi istituzionale, ma è stata una crisi costituzionale; perché il processo che si è fatto al passato del nostro Paese è stato un processo di natura costituzionale, tanto che si è detto che, se lo Statuto fosse stato applicato esattamente, molte cose non sarebbero successe.

Ciò si è detto da alcuni, non da lei onorevole Conti, è anche da autorevoli miei amici… (Interruzione).

Potrebbe stupire che, essendosi detto questo, invece di tornare a quello Statuto che avrebbe potuto dare delle garanzie, se bene applicato, invece di costringerlo ad essere bene applicato, si sia pensato ad una costituzione nuova. Ma l’importante è che ci sia una Costituzione che finalmente ci garantisca il bene supremo: la libertà; e una libertà che sia garanzia di sicura giustizia.

Oggi ci troviamo senza legge, oppure con una para-legge che effettivamente è molto strana, se pensiamo che contraddice ugualmente alla Costituzione cessata ed al progetto della nuova.

Non ritorno sull’abituale argomento, abituale perché vero, fondato sulla retroattività di certe disposizioni; non ritorno sulla questione più grave, che è stata segnalata più di una volta, della mancanza di gravame che certe sentenze comportano in questa legislazione provvisoria dello Stato provvisorio.

Ma mi voglio fermare un momento sulla questione non meno grave della carenza del Giudice che è stata tipica, ed è tipica, nel momento che attraversiamo. Oggi il Giudice è stato sostituito dal membro di commissione.

Una quantità di questioni che involgono non solo problemi di principio, ma anche interessi di grande importanza, sono state sottratte al Giudice per essere affidate a Commissioni ed a Commissari. I Commissari, con i compiti più disparati, sono stati creati, e non soltanto alla periferia, con l’unico criterio non solo della sopraffazione di un partito sull’altro, ma della lotta campanilistica di una persona sull’altra, di un gruppo sull’altro, di un particolare interesse sull’altro. Nei piccoli centri, se Tizio è comunista Caio deve essere liberale, e se Tizio per avventura vuole essere lui liberale, Caio deve essere comunista, perché così vuole la tradizione della lotta di paese: Tizio e Caio sono infatti i due capi-partito locali.

Questa carenza del Giudice deve finire: e dalla Costituzione soprattutto questo ci attendiamo: la garanzia che la Giustizia sia affidata a chi può e sa amministrarla e che questo carnevale di incompetenti spesso, e di faziosi qualche volta, cessi di sgovernare tutto l’ordinamento del nostro Paese.

Si pone in questa sede la crisi fondamentale del fascismo e dell’antifascismo. L’antifascismo ha avuto una nobilissima missione finché c’era il fascismo, perché era la negazione del fascismo ed era la lotta contro di esso. Ma se l’antifascismo volesse continuare a sopravvivere al fascismo, diventerebbe semplicemente un fascismo alla rovescia.

E molte delle cose che ho accennate – e le ho accennate con intenzione – erano proprio cose fasciste applicate da antifascisti. E badate bene, la colpa non è tutta degli antifascisti – fra i quali del resto sono anch’io – ma degli Alleati. Gli Alleati vennero in Italia non comprendendo nulla delle cose italiane, e credettero di debellare il fascismo facendo la lotta ad uomini e ad istituti; ma la lotta al metodo ed alla concezione fascista non l’hanno fatta mai. Anzi sono stati loro i primi a proseguire nei metodi fascisti.

Bisogna dunque debellare ogni sopravvivenza fascista, bisogna chiudere il periodo del metodo fascista perché il fascismo va definitivamente eliminato.

Quindi la Costituzione dovrà essere e deve essere non antifascista soltanto ma qualche cosa di più: dovrà essere afascista. Il fascismo non ci deve più entrare né in forma positiva né in forma negativa. Il fascismo deve essere cancellato, non deve più esistere, nemmeno come numero negativo.

Oggi la Costituzione deve condurci all’afascismo, verso quella concezione che resta liberale perché è la concezione di uno Stato di uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo.

E solo afascista può essere lo Stato democratico perché la democrazia (mi perdoni l’onorevole Togliatti) non ammette aggettivazioni. La democrazia è una, la democrazia è un piano sul quale ciascuno di noi combatte la propria battaglia e nel quale ciascuno di noi trova le sue garanzie. La democrazia non può essere né nostra, né vostra, né loro; la democrazia è di tutti, come la libertà, che, se non è di tutti, non è di nessuno.

Nel preparare questa Costituzione, in quei lunghi e faticosi ed intensi lavori preparatori ai quali anch’io ho avuto l’onore di partecipare, sia pure molto spesso, se non quasi sempre, come lo spirito che nega (io ero «der Geist der stehts Verneint»), ho ripetutamente affermato questo principio.

Il secolo scorso, con la sua rivoluzione ci diede la libertà, e fu grande conquista. Tutto lo sforzo degli uomini e tutto lo sforzo dei costituenti di allora, che ebbero la fortuna di essere pochi, e quindi di poter seguire un concetto più univoco, fu quello di assicurare questa libertà e di darsela come loro la intendevano. Ma, risolto il problema della libertà, è successo quello che succede sempre quando un problema è risolto: che se ne affaccia un altro e con particolare urgenza. E sorse così il problema della sicurezza, intesa come sicurezza economica e come sicurezza di vita dei cittadini; e questa fu una grande battaglia che ha mirabilmente condotto il socialismo in quasi un secolo di combattimento.

È accaduto però quello che sempre accade: che ad un certo punto il conflitto per la sicurezza è diventato conflitto contro la libertà.

Così la libertà e la sicurezza sono state l’una contro l’altra, poiché l’esigenza della libertà non si sentiva perché c’era, e l’esigenza della sicurezza era profonda e se ne sentiva profondamente il bisogno. Ed oggi siamo ancora in questa fase, oggi ancora si contrappone spesso la sicurezza alla libertà, e gli stessi Stati totalitari sono stati un tentativo di risolvere unilateralmente il problema della sicurezza – non so con quale risultato – però non hanno saputo risolverlo che a scapito della libertà. Il problema che oggi ci si pone è il problema della sicurezza nella libertà e della libertà nella sicurezza; un problema che noi ormai sappiamo definire ma di cui ancora non abbiamo visto la strada della soluzione. Siamo tuttora in questo campo, in un periodo di ricerca e di lotta.

La stessa dottrina non ha ancora trovato la sua strada e non sa darci delle indicazioni precise. Anche Röpke, che ha fatto una diagnosi tanto interessante dei problemi economici, quando è andato alla ricerca della terza strada è caduto un po’ nella prima, un po’ nella seconda, e la terza strada non l’ha trovata; perché questa si troverà soltanto il giorno in cui potremo stabilire un parallelismo fra l’una e l’altra, cioè il giorno in cui la sicurezza e la libertà non potranno più interferire l’una contro l’altra ma sapranno camminare parallelamente alla vita degli uomini e gli uomini potranno camminare sull’una e sull’altra via, come se fossero una strada sola. Questo fa sì che le Costituzioni che sono nate o che nascono in questo periodo assumono un carattere strano, carattere strano che ha ben definito l’onorevole Ruini nella sua relazione:

«In esse non si sa ancora, (o meglio si sa, ma non si vuol sapere), quanto resti del vecchio e quali siano i lineamenti del nuovo».

È quello che succede ogni qualvolta una Costituzione non possa rappresentare il risultato di un momento storico politico e morale chiaramente definito; la conclusione, insieme, di un periodo storico ed il principio di un altro.

Allora, le Costituzioni non possono fotografare questo, cioè non possono effettivamente dire: «Queste sono le conquiste raggiunte; le consacriamo per marciare verso le conquiste avvenire»; quando le Costituzioni non possono fare tale affermazione esse sono Costituzioni interlocutorie.

E questa nostra Costituzione, nelle sue incertezze, nelle sue contradizioni, assume un carattere di interlocutorietà che può essere nei tempi e nel risultato dei tempi; ma che dobbiamo cercare di ridurre al minimo, perché la Costituzione deve essere per tutti noi un punto fermo e non un argomento continuo di interpretazioni e di discussioni.

In fondo, le Costituzioni sono fatte dal loro spirito; e io sollevai – i miei colleghi della prima Sottocommissione se ne ricorderanno – questo problema nella prima riunione nostra. Dissi: «Che Costituzione vogliamo fare? Quale deve essere lo spirito di questa Costituzione che sorge in un tempo in cui non ci si contenta più delle sole affermazioni giuridiche, delle sole garanzie di libertà, delle varie libertà; ma si cerca la soluzione di problemi nuovi, economici e sociali, e molto spesso la si cerca in formulazioni semplicistiche e vaghe che sono più l’espressione di un desiderio che la manifestazione precisa di una volontà che si vuole seguire; che sono più l’ombra di un sogno che una realtà normativa»?

Questo spirito della costituzione non c’è e forse per questo la costituzione manca di quello che, in fondo, è un fatto essenziale delle costituzioni; manca di un Preambolo.

Si è molto parlato di questo Preambolo; ne abbiamo discusso. Molti argomenti furono addirittura rinviati al Preambolo. Si è detto: «Va bene; questo lo abbiamo stabilito: troverà il suo collocamento nel Preambolo».

Nel Preambolo, poi, questo collocamento non l’hanno trovato, perché il Preambolo è proprio quella tale essenza, quel sunto dello spirito della costituzione che deve servire come guida alla sua interpretazione, alla sua comprensione e che non siamo riusciti a fare e che io ritengo sia necessario di fare.

Ritengo che sia necessario di farlo, perché l’esperienza ci ha insegnato – noi lo vediamo, ad esempio, in America, quando sorgono dei conflitti sull’interpretazione della Costituzione – come proprio dal Preambolo si tragga luce per poter interpretare giustamente quello che può essere il contenuto del testo della legge costituzionale.

Questa è la ragione per la quale io ho presentato al banco della Presidenza un emendamento aggiuntivo che contiene un brevissimo Preambolo da far precedere alla Costituzione; perché vorrei che questo spirito comune che ci anima tutti potesse trovare espressione in una volontà nuova, anche se non abbiamo trovato la parola; e almeno di quello che è lo spirito informatore rimanga qualche cosa, che ci possa guidare e possa guidare chi successivamente dovrà applicare la nuova Costituzione.

È tutto quello che rimane, di un intero progetto: perché a un certo momento, di fronte a certi contrasti di opinioni, profondi, che io avevo sentito – e come me altri amici che collaboravano alla commissione – avevo cominciato con alcuni colleghi più competenti di me in materia a preparare proprio direi quasi un controprogetto; ma poi è prevalso il concetto che era più utile cercare di perfezionare il progetto presentato piuttosto che presentarne uno nuovo e confondere le idee, e forse anche gli spiriti.

Ma il Preambolo è rimasto ed io l’ho proposto, e suona così:

«Il popolo italiano, invocando l’assistenza di Dio, nel libero esercizio della propria sovranità, si è data la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato.

«La legge costituzionale dichiara con valore normativo assoluto i diritti inalienabili e imprescrittibili della persona umana come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere; stabilisce i poteri e gli organi della sovranità; determina i modi e le forme necessari al sorgere d’una volontà legale dello Stato.

«Il popolo italiano, consapevole che ogni associazione umana si realizza nell’esercizio della cooperazione e della solidarietà, intende che l’opera dello Stato sia diretta, nelle forme e nei limiti della presente Costituzione, a rendere possibili e attive l’una e l’altra, per la sempre più felice e giusta convivenza civile».

Sono tre periodi: uno politico, uno giuridico, uno sociale.

E vi prego di notare che sarebbe l’unico punto della nostra Costituzione in cui Dio è invocato ad assisterci e ad aiutarci; quel Dio che non è di questa o di quella Religione, ma di tutti gli uomini; quel Dio ente supremo, spirito superiore, che anima l’umanità, e che da noi latini, nella nostra terra, che ha dato tanto fervore e tanto cuore alla Religione nostra attuale ed a quelle che l’hanno preceduta, non può essere dimenticato nella legge fondamentale che deve regolare la vita del nostro Paese. (Applausi a destra e al centro).

Qual è la posizione di noi liberali di fronte a questa Costituzione?

È necessariamente una posizione apartitica. Come in questo momento, in questa aula, è vuoto il banco del Governo e gli uomini del Governo hanno cessato di essere tali, così anche noi liberali di fronte alla Costituzione ci troviamo in una posizione particolare.

La Costituzione potrà essere la nostra, soltanto se sarà anche quella degli altri. Noi pensiamo, cioè, che la Costituzione sarà veramente una buona Costituzione, se qualunque pensiero democratico potrà in essa trovare il suo libero e sicuro svolgimento; se lascerà ad ogni pensiero democratico la possibilità di svilupparsi, ma non costringerà nessuna corrente di pensiero democratico a dovere assumere un atteggiamento contrario alla legge, alla Costituzione, per potere attuare quello che è il suo programma.

Vi sono cioè due posizioni, che si rivelarono proprio in una controversia – se così si può chiamare – fra l’onorevole Togliatti e me, nelle due relazioni che presentammo alla prima Sottocommissione sui problemi economici e sociali; perché i problemi economici e sociali, entrano appunto in quel quid vago, di cui andiamo cercando le soluzioni, ma di cui di una soluzione chiara e precisa ancora non siamo riusciti a trovare la traccia definitiva; quel quid dava luogo alla presa di quelle due posizioni.

Si trattava di dire qualche cosa di nuovo. Certi vecchi principî cardinali che riguardano la libertà, i diritti del cittadino, e così via, ci erano stati già tramandati. La loro accezione poteva essere da noi completata, ma una base l’avevamo. Qui no. Ed una delle differenze sostanziali delle due articolazioni era proprio questa; io, nei miei articoli, arrivavo addirittura alla socializzazione, per quanto a me non piaccia, giacché non vorrei che, così come l’Inghilterra, ora che ha un regime socialista, è rimasta senza carbone, domani l’Italia, avendo un regime socialista, restasse senza sole. Ma, ad ogni modo, se domani i socialisti raggiungessero la maggioranza, avrebbero il diritto e il dovere di fare il loro esperimento. Non posso quindi fare, io liberale, una Costituzione che ponga il divieto delle socializzazioni. Soltanto dico che questa Costituzione deve recare che si possa, ma non che si debba socializzare. Io non posso infatti ammettere che nella Costituzione si debba mettere un imperativo di socializzazione, se domani la maggioranza non fosse di questo avviso. Non vogliamo cioè una Costituzione programmatica.

L’onorevole Togliatti pensava invece che alcune norme vincolative, in un determinato senso, si dovessero mettere e lo sostenne con la sincerità e l’affettuosità che c’è stata in tutte le nostre discussioni in quella Commissione. Però, nella seduta del 13 novembre 1946, in una animata discussione con dei colleghi di opinione diversa, non di questo settore, l’onorevole Togliatti uscì in questa frase che io segnai, dicendogli che oggi glie l’avrei ricordata: «Vogliamo che questa Costituzione sia quella di tutte le possibili ideologie». Io, in quel momento, ho sentito quanto profonda sia l’esigenza della libertà e come essa sia assorbente di tutto. Io non avrei saputo dire meglio e aggiungo, perché ero presente, che non avrei saputo dire con maggior convinzione di quella con cui l’onorevole Togliatti ha fatto questa affermazione. Questa affermazione, onorevole Togliatti, che le fa onore, è bellissima, ma – mi perdoni tanto – è la più schietta affermazione liberale che un uomo possa fare.

Una voce. Ma era sincera?

LUCIFERO. Fino a prova contraria, io penso sempre che chi dice una cosa abbia intenzione di mantenerla. Ciò ho detto per chiarire sotto qual luce noi guardiamo questa Costituzione.

Vorrei ora fare alcune osservazioni sul testo della Costituzione stessa. Io non entro, badate bene, in alcuna questione particolare, perché ciò sarà riserbato a chi, con maggior competenza di me, sosterrà le varie tesi in sede opportuna. Voglio soltanto, per ora, mettere in luce alcuni caratteri. Questa Costituzione è sorta da una serie di compromessi, fra tendenze e opinioni diverse, nelle quali si è – perdonate il termine – commerciato un po’. Si è detto: Io cedo su questo punto e tu mi dai su quell’altro, io non sarò presente su quel tal voto e tu, ecc. Ciò si è svolto anche sotto i nostri occhi.

E visto che l’onorevole Tupini mi fa segno di «no», gli ricordo che una volta io chiesi in Sottocommissione la parola a seguito di una di queste discussioni avvenuta in pubblica seduta fra due Deputati di diverso partito, per esprimere il mio profondo imbarazzo di avere assistito a questo piccolo commercio e per chiedere che queste operazioni si facessero prima della seduta e non durante.

TUPINI. Non era un commercio; era lo sforzo di intenderci e comprenderci.

LUCIFERO. Io ho detto, onorevole Tupini, che usavo il termine non perché in esso nulla suonasse offesa, ma semplicemente per dare un’idea plastica di quella che era l’impressione di chi assisteva a questa ricerca di compromesso. (Interruzioni). Infatti, onorevole Tupini, io sto parlando di questa serie di compromessi, i quali hanno creato in tutta la Costituzione un andamento a «montagne russe», perché si sente perfettamente quando ha ceduto l’uno e quando ha ceduto l’altro; e fra le varie cessioni esistono delle sproporzioni. Ad ogni modo, sarò lietissimo, non se la sua affermazione, ma se l’applicazione pratica mi darà torto, perché una cosa sola io desidero: che noi possiamo avere una Costituzione da non toccare più almeno per un secolo, come la precedente. Quando una Costituzione dura ottant’anni, allora è buona; quando dopo dieci anni succede qualche cosa, allora la Costituzione non va.

Una delle manifestazioni tipiche del momento storico in cui questa Costituzione è stata fatta, è tutta una serie di affermazioni ideologiche e, mi si perdoni, certe volte anche di affermazioni demagogiche. Per esempio, io leggo nell’articolo 28 – lo porto a mo’ di citazione – «la scuola è aperta al popolo», scusatemi, che cosa significa? La scuola, soprattutto quella di Stato, è del popolo. (Approvazioni a sinistra). Bellissima era la frase dell’onorevole Marchesi, per la quale io stesso mi battetti tanto quando ad un certo momento si voleva sopprimerla, cioè: «Libere saranno l’arte e la scienza, e libero il loro insegnamento». Quella frase diceva qualche cosa; ma «la scuola è aperta al popolo» è una di quelle affermazioni che non dicono niente. «L’arte e la scienza sono libere» ha un suo significato, perché non ci dobbiamo dimenticare che in regime fascista e più ancora in regime nazista, anche l’arte era stata messa sotto disciplina e ammaestrata a servire a determinati scopi. Quindi l’osservazione dell’onorevole Marchesi aveva il suo significato.

Una voce a sinistra. Le manifestazioni, non l’arte!

LUCIFERO. Ad ogni modo vedetevela voi con il professor Marchesi, che ne è stato l’ideatore; lo avete vicino. Io non sono stato altro che un entusiastico assertore della sua affermazione.

Per esempio, è demagogico l’uso che spesse volte si fa nella Costituzione della parola «lavoratori». Badate che nella Costituzione stessa – se voi guardate l’ultimo capoverso dell’articolo 31 – il termine «lavoratori» ha due significati; perché quando noi entriamo in una fase della Costituzione, allora il lavoratore corrisponde in un certo senso al cittadino; invece in altra sede il lavoratore rappresenta determinate categorie di cittadini, cioè determinate categorie di lavoratori in uno Stato in cui tutti sono lavoratori. Ora, questo non può andare in una Costituzione, la cui dizione deve essere chiara. Di fronte alla Costituzione i cittadini sono cittadini; i lavoratori sono lavoratori in quello che riguarda questa loro particolare attività nella vita sociale, che deve essere tutelata, difesa, protetta, generalizzata; ma però, quando vanno a votare, anche i lavoratori vanno ad esercitare una funzione di cittadini, non di lavoratori.

Oppure, se noi vogliamo identificare il termine, dobbiamo modificarlo in quelle sedi in cui, come nell’articolo 31, noi contrapponiamo i lavoratori ad altre categorie di cittadini. Intendiamoci bene, con questo termine di lavoratori – siamo tutti lavoratori – noi per poter infilare questa affermazione – scusate ancora una volta l’accenno demagogico – nella Costituzione, siamo arrivati al punto di dover qualificare lavoratori, ai fini dei diritti politici, le monache di clausura, perché il giorno in cui abbiamo affermato che determinati diritti erano riservati soltanto (i diritti più importanti sono i diritti politici) a coloro che ottemperavano a quel tale obbligo del lavoro, abbiamo dovuto stabilire che fra i lavoratori vi erano anche le monache di clausura. Ho il massimo rispetto verso di esse e credo utilissima la loro opera di elevazione verso il Signore, ma qualificarle lavoratrici, ai fini giuridici e costituzionali, non mi pare esatto. (Commenti).

Una voce al centro. Lavorano sempre, lavorano più degli altri!

LUCIFERO. Vi sono quelle destinate alla vita contemplativa. (Commenti).

Per i miei peccati ci vogliono molte monache, ma questa non è la sede competente!

C’è un altro punto sul quale richiamo la vostra attenzione, sempre nel campo demagogico. Non discuto l’articolo, sarà discusso a suo tempo, ma sempre per chiarire alcuni punti che hanno determinato la mia perplessità, devo rilevare che noi qui stiamo costruendo una Costituzione democratica e nello stesso tempo creiamo dei privilegi. Vi faccio notare che anticamente vi erano delle classi, quali le classi padronali, che avevano certi privilegi. Oggi noi ritorniamo al Medioevo, perché quando affermiamo che tutti i lavoratori hanno diritto allo sciopero, i casi sono due: o noi rientriamo nella accezione a), (prima parte della Costituzione) che tutti i cittadini sono lavoratori, ed allora la serrata diventerebbe lo sciopero dei lavoratori che danno il lavoro; oppure noi entriamo nella accezione b) della parola, quella cioè per cui come lavoratori si definisce una determinata categoria di cittadini, ed allora stabiliamo un privilegio a favore di questa categoria di cittadini. Questo si chiama rovesciare il Medio Evo!

Ora, badate, queste possono sembrare osservazioni di quel bieco reazionario che sono io, ma sono osservazioni che vanno più in là, di significato, di senso, di dizione nella Costituzione. Cerchiamo di sfrondarla da queste affermazioni, perché prima di tutto non possono sembrare serie; e poi quando si arriverà alla fase dell’applicazione della Costituzione, ad un certo punto non sapremo più la parola lavoratori che cosa significhi, se nel senso a) o nel senso b) della Costituzione.

Dobbiamo stabilire un vocabolario che sia sempre lo stesso per qualificare il termine di lavoratore.

C’è un altro punto sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione ed è la questione della sovranità;

Tengo a dichiarare che non è che non conosca certe moderne teorie, quali quella del Jellinek e C., secondo le quali la sovranità è dello Stato; ma io dico che uno Stato democratico dove ristabilire il principio che la sovranità è dei cittadini e quindi del popolo. Ed allora è necessario dirlo chiaramente nella Costituzione.

Due volte ho già proposto in sede di Sottocommissione e di Commissione che l’articolo primo fosse modificato, laddove si dice che la sovranità emana dal popolo.

Anche l’onorevole Conti una sera disse che gli sapeva di profumo questa emanazione di sovranità. A me sa anche di qualche altra cosa. Io temo questa sovranità che emana. Emanare ha un senso di moto; poi l’emanazione non torna più indietro, e sappiamo dove si va a finire con queste sovranità delegate.

Signori miei, io non l’ho voluta, voi l’avete voluta, ed ormai c’è questa Repubblica. La caratteristica fondamentale che distingue la Repubblica dalla Monarchia è che mentre nella Monarchia la sovranità risiede nel Sovrano, nella Repubblica la sovranità risiede nel popolo. Visto che si sta facendo la Repubblica, facciamola repubblicana!

Io riproporrò l’emendamento; ma diciamolo chiaramente che la sovranità risiede nel popolo.

Altra osservazione che devo fare (mi mantengo sempre sulle linee generali) è che mezzo Codice civile e mezzo Codice penale sono andati a finire nella Costituzione. E non solo i codici, ma anche i Codici di procedura. Signori miei, io ultimamente rivedendo alcuni vecchi testi di diritto costituzionale in cui erano proposte le più strane norme, ne ho trovata una interessantissima: «Le mamme hanno l’obbligo di allattare i figliuoli». C’è un vecchio testo costituzionale che sostiene questa roba!

Ora, quando noi diciamo che l’«obbligo della educazione spetta alla famiglia», e andiamo a mettere ciò in Costituzione, io non voglio dire la parola che mi viene sulle labbra, ma siamo certamente degli ingenui. Cerchiamo di sfrondare questa Costituzione da tutte queste piccole note stonate le quali non hanno ragione di essere lì; e che vengono da questa fissazione, che qualcuno ci vuol mettere qualche cosa delle sue ideologie, forse per andare a dir fuori: questo l’ho messo io. Le Costituzioni sono cose troppo gravi e troppo serie perché certe debolezze umane, singole o collettive, possano entrare in esse ed inquinarle di norme che non sono costituzionali.

La verità è che per molti, forse senza che lo sapessero, per la passione che è nei tempi in cui viviamo, per le lotte dalle quali usciamo, per un vecchio atavismo di faziosità, per il calore stesso che viene fuori da queste discussioni, molti hanno guardato alla Costituzione, non come a uno strumento che regoli la vita di tutti, ma come a uno strumento di lotta. Certe lotte, certi conflitti che questa fase tragica della vita del nostro Paese ha trasportato dal Parlamento, loro sede naturale, in seno al Governo (governi che non riescono a governare) oggi si minaccia di portarli in seno alla Costituzione.

La Costituzione è piena di proposizioni che guardate da un uomo non dimentico dello ieri e preoccupato del domani, danno la precisa sensazione che sono delle posizioni avanzate per determinate battaglie che della Costituzione non sono e non debbono essere.

Ora, quando io leggo che la Repubblica (art. 7) «rimuove gli ostacoli», ecc. ecc., a me sembra che una norma di questa vaghezza e di questa ampiezza sia un pericolo enorme, perché io vorrei sapere cosa succederebbe se un giorno dovessero applicarla, ad esempio, i due poli costituiti da me e dall’onorevole Togliatti. Io non so, ma probabilmente io rimuoverci l’onorevole Togliatti e l’onorevole Togliatti rinnoverebbe me, perché tutte e due siamo un ostacolo, secondo la nostra concezione, a che una determinata ideologia si compia.

Ora, quale deve essere la funzione della Costituzione? La funzione della Costituzione deve essere di far sì che se io arrivassi ad avere la maggioranza, non potessi rimuovere l’onorevole Togliatti e che se l’onorevole Togliatti arrivasse ad avere la maggioranza non potesse rimuovere me; ed ognuno di noi possa continuare liberamente a sostenere il proprio pensiero. Giacché con il tempo l’interpretazione diventa estensiva e questi articoli che possono far sorridere un giurista o un costituzionalista perché privi di contenuto, ad un certo momento il loro contenuto lo trovano; e visto che non ne hanno uno proprio, assumono quel contenuto che in quel determinato momento gli vuole dare chi è più forte.

La Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione; hanno la forza.

E che ci sia questa preoccupazione di precostituire delle posizioni, di postare delle artiglierie, di poter avere lo zampino da per tutto – la Costituzione è stata fatta da politici e non da giuristi – lo vediamo anche nella composizione del Consiglio Supremo della Magistratura. Questi cittadini eletti da un organo politico, i quali diventano coarbitri di quella che è l’amministrazione della Giustizia, (pensateci un po’) rappresentano un fatto che lascia molto perplessi, perché saranno nominati con criterio politico e con una funzione politica. Quando noi infiliamo la politica nella Magistratura, rimane solo la politica e scompare la Magistratura.

Vi è un altro punto sul quale brevemente richiamo la vostra attenzione, in questa seduta: è la questione delle Regioni. Anche noi siamo favorevoli ad una dislocazione dello Stato in amministrazioni e autonomie regionali che possano dare una maggiore libertà di movimento alla organizzazione statale suddivisa nelle sue parti, ma non vogliamo che ogni regione, dandosi uno statuto, diventi uno Stato. Badate, non parliamo della Sicilia; per la Sicilia non c’è discussione, perché per la Sicilia ci sono ragioni storiche che impongono questa autonomia. E infatti, l’autonomia c’è, è stata data, e su questa parlerò poi. Ma ci sono regioni che non hanno bisogno di autonomia, regioni che voi metterete nell’imbarazzo di inventarsela, questa autonomia.

Ora, dove c’è la necessità, io lo capisco perfettamente; ma, arrivare ad una dislocazione cantonale, anche in zone dove non è necessario, questo mi pare che non vada; come non va il modo con cui certe regioni sono state stabilite, secondo determinati criteri; senza offesa per nessuno per quello che vorrei dire (mi dispiace che non ci sia l’onorevole Nenni), ma quella divisione fra Nennia e Michelia, quella divisione dell’Emilia, un pezzo da una parte e un pezzo dall’altra, per rinnovare i fasti della Secchia Rapita… (Interruzioni degli onorevoli Pertini e Micheli). Io non mi rivolgo a nessuno, caro Pertini, perché le deliberazioni sono collegiali. Quindi, mi rivolgo a tutti. Sono i due maggiori personaggi delle due zone: una zona che scavalca direi l’Appennino e va a chiedere uno sbocco a mare…

UBERTI. Questa è discussione generale.

LUCIFERO. Io non ho toccato una questione particolare. Ho detto molte cose che potevano scottare all’onorevole Togliatti ed ai suoi amici e questi le hanno sentite ed io ho cercato di dirgliele con cortesia, secondo la mia abitudine. Ho detto ora una cosa che dava fastidio a voi e vi siete subito imbizzarriti. Ma, perché avete sempre il fuoco sotto le sedie? (Si ride).

MICHELI. Io ho interrotto perché Nenni non c’entrava.

LUCIFERO. Ad ogni modo, sentite, io ho fatto per tutta Italia molti comizi, trattando argomenti che non sempre erano bene accetti. Ormai ho un’esperienza: quando il pubblico si ribella vuol dire che ho colpito nel segno. Scusatemi tanto, ma questa è esperienza.

MICHELI. Ha colpito male.

LUCIFERO. L’onorevole Ruini nella sua relazione, a pagina 14, dice che la Commissione si è trovala concorde su quello che riguarda le autonomie concesse precedentemente.

Io feci in quella sede una riserva che sciolgo adesso. Io non fui contrario ma feci una espressa riserva che è questa: che anche ammesso – e ripeto che la Sicilia è indiscussa – che determinate autonomie debbano essere date, io protesto ancora in sede politica per il fatto che queste autonomie siano state date senza consultare l’Organo Costituente. Queste cose da noi dovevano passare. Le elezioni in Sicilia si fanno oggi; noi siamo riuniti dal 24 giugno; dal 24 giugno ad oggi avremmo potuto anche votare lo Statuto Siciliano e avremmo potuto dargli quel crisma che oggi non ha. Questo sistema di sottrarre determinati argomenti all’organo competente, tanto caro all’onorevole De Gasperi, deve assolutamente cessare. Speriamo che la Costituzione ne segnerà la fine.

Invece mi pare che la nuova Costituzione non abbia toccato un tema che è stato sfiorato dalla relazione dell’onorevole Ruini, en passant, ma che è fondamentale e che merita una certa meditazione: ed è il decentramento legislativo. Noi abbiamo fatto un decentramento regionale che non è più un decentramento ma che si avvia non voglio dire ad uno stato federativo, perché la parola dà fastidio, ma ad uno stato cantonale e che moltiplica e complica l’apparato legislativo. Non abbiamo pensato ad un altro problema da risolvere: gli organi che fanno le leggi, cioè i parlamenti, negli stati moderni, non possono più fare tutte le leggi, né si possono dare al governo, cioè al potere esecutivo, delle capacità legislative; bisognerà quindi studiare quali possano essere gli organi secondari che possano fare determinate leggi. Le migliaia di leggi che si fanno ogni anno in ogni paese moderno, non possono più passare attraverso i parlamenti, poiché questi non avrebbero il tempo di discuterle e l’attività legislativa e la vita del Paese ne resterebbero paralizzate. Quindi si impone la questione del decentramento legislativo.

Detto ciò, c’è un’altra questione da affacciare, cioè quella del prestigio della Costituzione. La Costituzione uscirà da quest’Aula così come da successive delibazioni e discussioni sarà stata redatta; ma la Costituzione non regge se non ha di fronte al Paese veramente un prestigio proprio. Le leggi costituzionali hanno avuto sempre questo prestigio, un prestigio quasi religioso: dai romani che scolpirono nel bronzo le loro dodici tavole, alla gelosa cura con cui gli inglesi conservano la Magna Charta; posso ricordare che a Pisa per consultare la Littera Fiorentina era necessario vederla tra due ceri, a piedi nudi e a capo scoperto. Eguale solennità circondava le Tavole Melfitane di Federico II.

La Costituzione è veramente una cosa sacra; la Costituzione è per il popolo la legge propria che lo garantisce e lo tutela; è la legge che primieramente esso si dà e che scaturisce dalla sua situazione storica, dalle sue esigenze morali e religiose e da tutto quell’insieme che forma il popolo stesso. Noi dobbiamo dare a questa Costituzione un prestigio di fronte al Paese che la renda veramente sacra. È quindi opportuno ricordare che alcuni partiti, tra cui anche noi, in sede elettorale, si sono solennemente impegnati al referendum sulla Costituzione. (Interruzioni dell’onorevole Malagugini Commenti).

Dulcis in fundo, caro Malagugini, perché quel giorno che veramente un voto popolare avrà consacrato questa Costituzione, la Costituzione non si discuterà più. Se no, ci saranno sempre i ma e i se.

Una voce a sinistra. No, no!

LUCIFERO. Sì, perché questo già si vede nella stampa e qui stesso.

Il referendum per la Costituzione è molto più necessario dei referendum che sono stati già stabiliti nel progetto di Costituzione, anche per i motivi meno importanti, anche per un raffreddore. Non soltanto qualunque partito di massa, ma anche delle piccole organizzazioni, purché dispongano di 500 mila firme, possono paralizzare tutta la vita del Paese, perché su ogni legge si può chiedere il referendum. Il referendum invece deve essere riserbato alle occasioni veramente solenni, e se non è solenne quella della Costituzione da dare al Paese, dalla quale tutte le leggi derivano, non so davvero quali possano essere le occasioni solenni.

La Costituzione dunque deve riscuotere questo rispetto, perché la Costituzione deve guardarsi da sé, non può essere guardata dai carabinieri. E si guarda da sé soltanto il giorno che la maggioranza del Paese l’abbia accettata e l’abbia sancita; così come con i plebisciti fu sancita l’unità d’Italia. Il referendum per la accettazione della Costituzione deve rappresentare l’impegno solenne di tutto il Paese in modo che poi ogni discussione sulla Costituzione debba considerarsi definitivamente chiusa.

Tanto più perché la Costituzione, se non vorrà essere la negazione di tutti gli impegni che abbiamo assunto, dovrà segnare veramente le colonne d’Ercole della libertà, da cui non si possa decampare, da cui non si possa uscire. Ma appunto per questo deve ricevere la consacrazione solenne che noi domandiamo.

Onorevoli colleghi, se non terremo conto delle necessità che vi ho esposte, avremo perso una grande occasione: un’occasione che capita una volta non solo nella vita di qualche uomo, ma anche nella vita di qualche generazione, quella di dare al nostro Paese una buona Costituzione.

Credo che non si debba perdere questa occasione, come io ho perso quella di fare un discorso migliore.

La mia posizione, e forse anche la natura particolare dei miei studi, avrebbero potuto darmi modo di fare un discorso ben diverso. Ma ero troppo commosso, e forse ve ne sarete accorti. È vero che nulla è più freddo di un meridionale quando è freddo. Ma io sento la solennità del momento.

Continuamente il mio sguardo va a quel banco vuoto (accenna al banco del Governo) che rappresenta un ponte sul quale stiamo passando in un modo veramente originale; perché non è un ponte che già sia stato gettato e sul quale ora passiamo, ma è un ponte che si va costruendo via via che noi camminiamo, e noi aggiungiamo ad ogni istante il mattone che dovrà servire a farci compiere il passo successivo. Ed è talmente delicata quest’opera di costruzione, di invenzione di uno Stato, che ha insieme della realtà e del sogno, che perdermi in discussioni tecniche o dottrinarie o in anatemi proprio non me la sento.

Avrei potuto farlo, perché sono convinto di una cosa: che questa Costituzione non è una buona costituzione. E perché sono convinto che questa Costituzione che, secondo me, non è una buona Costituzione, passerà così com’è, più o meno. Però io ho fiducia lo stesso perché credo profondamente, al di là delle nostre capacità e della nostra buona volontà di legislatori, credo profondamente nella civiltà e nel costume del popolo italiano. Il costume del popolo italiano modificherà molte di queste norme e noi avremo il rimorso di avere diminuito il prestigio della legge fondamentale del Paese per avere stabilito delle leggi che sono ineseguibili.

Ad ogni modo, sono arrivato alla fine delle mie osservazioni, e mi succede come nelle processioni: torno al punto di partenza; del resto tutti i movimenti umani sono circolari: ad un certo momento il circolo si chiude ed il circolo chiuso è un modo di finire nella completezza. Torno al principio, dunque, ricordando che gli italiani ancora sono divisi in due grandi categorie. La riconciliazione nazionale, malgrado esperimenti di vario genere e malgrado la buona volontà che spesso è venuta da molte parti, ancora non si è avuta, ed io non voglio nemmeno discutere per colpa di chi. Sarà forse perché si è parlato troppo di cose di cui era inutile parlare e si è parlato troppo poco di cose di cui sarebbe stato invece utile parlare. Io penso che questa Costituzione, con le sue mende, con i suoi difetti, deve diventare l’Arca dell’Alleanza del popolo italiano; deve diventare quella legge fondamentale in cui certi rancori e certi odi finiscano, deve diventare veramente quella tale legge che rappresenti l’atto solenne della riconciliazione nazionale. E noi vogliamo che, proprio attraverso la legge, che è l’unico modo in cui solennemente parla lo Stato, da questa aula parta finalmente una parola che non sia un gemito d’odio, ma una parola di riconciliazione, d’amore e di pace; perché questa Costituzione non deve essere la Costituzione dei monarchici o dei repubblicani, di questo o di quel partito, dei rossi o dei bianchi o dei neri; questa Costituzione deve essere il documento in cui ogni italiano senta vibrare se stesso, in cui noi tutti ed il mondo intero dovremo riconoscere l’Italia nella gloria del suo passato, nel dolore del suo presente, nella certezza del suo avvenire. (Applausi a destra Congratulazioni):

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.

BOZZI. Onorevoli colleghi, si è detto molto male di questo progetto che noi siamo chiamati ad esaminare. Io ricordo di avere letto giorni fa su un quotidiano l’articolo di un professore di diritto, il quale si meravigliava altamente che uomini politici eminenti, giuristi, magistrati, avessero potuto dare il loro avallo a questo progetto, che non faceva onore all’Italia, che era stata la madre del diritto.

Si è fatta molta ironia a questo riguardo; anzi, troppa. Taluno ha detto che nel progetto vi è del buono e del nuovo, ma che il buono non è nuovo e il nuovo non è buono.

Ora, io non voglio assumere il ruolo di difensore, volontario o di ufficio, ma nemmeno mi sento propenso a far da pubblico accusatore; e non soltanto perché ciò significherebbe assumere la difesa o l’accusa di se stesso.

L’Assemblea Costituente si trovava inizialmente in una posizione difficile. Essa non aveva un testo sul quale portare la sua attenzione; non vi era un progetto predisposto dal Governo. Altre Costituenti hanno discusso su progetti governativi. Non vi erano nemmeno progetti elaborati da Partiti. Occorreva, adunque, un punto di partenza; e si nominò una Commissione: la Commissione dei «75». Secondo me, questa ha dato una interpretazione estensiva al compito che le aveva affidato l’Assemblea. Secondo il mio punto di vista – che ebbi anche occasione di manifestare – la Commissione dei «75» avrebbe dovuto soltanto delineare l’architettura fondamentale, la struttura essenziale, direi quasi la nervatura del progetto; e portare poi questo elaborato all’esame dell’Assemblea Costituente, che era l’organo al quale il popolo aveva demandato la funzione di costruire la nuova Carta.

Viceversa, la Commissione ha lavorato in estensione e in profondità; ha dilatato la sfera delle sue attribuzioni e ha, perciò, sottratto a voi tutti la possibilità di una indagine diretta più larga. Ma è da soggiungere, per la verità, che questo modo di procedere, se per alcun verso può sembrare un difetto, ha avuto anche i suoi vantaggi. Lo ha accennato il nostro illustre Presidente, onorevole Terracini, quando ha detto che oggi si presenta al nostro esame un testo, che porta in sé già composti, risultato del lavoro fecondo delle Commissioni, alcuni dissidi, elise alcune frizioni; presenta punti di equilibrio e di incontro che in questa sede si sarebbero potuti raggiungere con maggiori difficoltà.

Noi, o colleghi, siamo in una fase storica di trapasso fra un mondo che è tramontato o volge al tramonto e un altro che si affaccia, si delinea all’orizzonte, con luce incerta. Noi disponiamo delle macerie del primo, ma non ancora vediamo nettamente delineati gli schemi del secondo. Siamo in una fase di fermento e di travaglio, non solo nel nostro Paese, ma nell’Europa e nel mondo.

Due concezioni vediamo in contesa sulla scena: una che dirò – per brevità – occidentale, inspirata a una certa visione della vita, al rispetto dei valori dello spirito, a certi postulati filosofici, religiosi, economico-sociali, che danno una fisonomia in largo senso liberale al modo di vita dei singoli e della società; e, per converso, un’altra concezione – che dirò orientale – inspirata a principî affatto diversi, collettivistici in gran parte e deterministici. E i popoli, nella lotta fra queste concezioni, non hanno ancora trovato il loro punto di equilibrio, l’ubi consistam. Si comporranno esse in una sintesi? O l’una prevarrà sull’altra? E quale?

La guerra è stata in gran parte la figlia di questa grande crisi dell’umanità; ma, a sua volta, è la madre di nuovi disorientamenti ed impone l’ansiosa ricerca di nuovi assetti.

Noi siamo dunque nel bel mezzo di un dramma, che direi cosmico; e a queste ragioni di carattere generale si aggiungono difficoltà tutte nostre nazionali. Noi non abbiamo nella nostra storia precedenti, al di fuori della Repubblica romana, di Costituenti popolari; la Francia, nel corso della sua storia, conta numerose Costituzioni, alcune delle quali fondamentali non solo per la vita di quel popolo, che se le dette, ma di tutti i popoli. Noi usciamo dall’incubo profondo della tirannide, che ha durato tanto, e ha lasciato un solco che non agevolmente si può eliminare; usciamo da una disfatta militare e da una crisi istituzionale. Tre eventi formidabili. Non abbiamo, perciò, ancora una classe politica dirigente, che possa esprimere la coscienza popolare e sospingerne, al tempo stesso, il moto.

Siamo, dunque, chiamati a darci la Costituzione in un momento di grande crisi e di grande difficoltà. Che cosa vogliamo? Quale posizione prenderemo nella lotta fra libertà e tirannide? Ci vorremo avviare verso una società socialista; o resteremo fedeli agli schemi liberali?

La funzione di una Costituzione, secondo il mio modesto parere, dovrebbe essere quella di tradurre in formule giuridiche un processo rivoluzionario già compiuto. Così è stato della Costituzione russa, che è venuta nel 1936, dopo circa 20 anni di esperienze rivoluzionarie, che erano entrate nel vivo della coscienza di quel popolo; e quella Costituzione dura; ha superato anche il vaglio della guerra.

Noi, viceversa, dovremmo foggiare una Carta costituzionale quasi strumento per agevolare e indirizzare una rivoluzione che non si è fatta; rivoluzione – intendiamoci – non nel senso tradizionale e un po’ quarantottesco della parola, che ci richiama alle barricate o, per aggiornarci, ai mitra, ma rivoluzione che si attua attraverso le formule della legge. Le rivoluzioni, oggi, si possono fare a tavolino…

Questo è il compito nuovo e, secondo me, in gran parte anomalo, della nostra Costituzione; ed è per ciò che noi, prima nella Commissione, oggi in Assemblea, abbiamo incontrato e incontreremo difficoltà, che dipendono dalla attuale fase storica. Ma questa ambientazione storica deve servire a qualcosa; deve servire a porre dei limiti e delle direttive a noi stessi.

L’onorevole Lucifero, or ora ha parlato di Costituzione interlocutoria – è frase brillante – come di certe sentenze del giudice, che non posson dire subito chi abbia ragione e chi abbia torto e preparano i mezzi per la statuizione definitiva; il che significa che il popolo fra non molto dovrebbe darsi un’altra Costituzione. Io mi auguro che questo non sarà. Ma il dubbio è di molti. Pervasi da un profondo spirito di pessimismo – che è uno dei mali endemici del nostro popolo – molti rievocano la sorte ingloriosa toccata alla Costituzione di Weimar. Si fanno paralleli fra l’ambiente storico, nel quale venne elaborato e foggiato quel documento, apprezzabile come documento di dottrina, e il nostro. Si dice che, come la Costituzione di Weimar non ebbe, non poté avere radici profonde e fu quasi una vernice esterna che non prese corpo con la materia sulla quale era posta, così la nostra Costituzione di oggi non potrà essere l’espressione genuina d’un indirizzo popolare e d’una coscienza collettiva matura, che non esistono.

Io vorrei dire, in sintesi, che la nostra Carta costituzionale dovrebbe, innanzi tutto, formulare e consacrare quei principî che si possono ritenere saldamente acquisiti alla coscienza giuridica, politica e sociale del nostro popolo; ma nello stesso tempo essa dovrebbe dare un indirizzo e un orientamento per l’avvenire.

Noi dobbiamo tracciare anche le vie dell’avvenire, ponendo le mete che oggi vogliamo siano raggiunte domani. In questo senso mi sembra che l’onorevole Togliatti ebbe a dire, in una delle discussioni della Commissione, che la Costituzione doveva anche essere un ponte verso l’avvenire.

Il problema si pone allora come problema di fini e di mezzi; è va affrontato e risolto con chiarezza e lealtà.

Come si è lavorato nella Commissione? Io credo che vi sia stato un difetto di origine. È mancata, inizialmente, una discussione generale. Era stato proposto dal nostro infaticabile e sagace Presidente, l’onorevole Ruini, il tema pregiudiziale: si faccia una discussione generale su quelli che debbano essere le basi di impostazione, i principî direttivi della Costituzione. Non si aderì a questa idea, e la Commissione dei «75» si divise in Sottocommissioni, le quali lavorarono ciascuna un po’ nel suo chiuso; e l’opera di coordinamento venne dopo, ma si dovette esercitare necessariamente su quello che ormai era il frutto del lavoro, qualche volta la faticosa conquista, delle singole Sottocommissioni. Ora, io penso che se, pregiudizialmente, si fosse portata la discussione su alcuni principî fondamentali, molti di quelli che io rileverò come errori sarebbero stati evitati.

Io farò la mia critica serenamente, con obiettività, pervaso dall’ansia di dare un apporto, sia pure il più modesto, per il miglioramento di questo testo.

È mancata, onorevoli colleghi, innanzi tutto, una discussione sul punto se la Costituzione dovesse essere rigida o flessibile. Si dette da tutti per ammesso che dovesse essere rigida. Io non verrò a sostenervi che era meglio configurarla flessibile; vi sono ragioni teoriche e soprattutto pratiche che consigliano il tipo della Costituzione rigida; per quanto questa rigidità – che non è cadaverica, come diceva un mio amico, ironizzando, l’altro giorno – sia, nel progetto, molto relativa, perché il procedimento di revisione, come vedremo in sede opportuna, è di tanto facile esperimento che di poco si differenzia dal procedimento proprio della legislazione ordinaria. Già, la vita, l’efficienza, il prestigio, la durata di una Costituzione non dipendono nemmeno, secondo me, dal fatto che essa sia di tipo rigido o di tipo flessibile, ma piuttosto dal grado di civiltà del popolo, dalla maturità, dal senso di responsabilità degli organi costituzionali che il popolo esprime. Abbiamo due esperienze in senso contrario: quella della Costituzione inglese, che è flessibile, quella della Costituzione americana, che è rigida; ed entrambe durano nel tempo e sono onorate dai cittadini.

L’aver omesso la discussione generale sulla rigidità ha condotto a questo: che non si è fermata l’attenzione su alcuni connotati giuridici che debbono rivestire le norme che si inseriscono in una Costituzione rigida. Il tema fu prospettato, mi pare, dall’onorevole Perassi, in sede di Assemblea dei «75». Una Costituzione rigida presuppone, come postulato, che le norme abbiano una determinata conformazione, abbiano una determinata struttura. Esse debbono essere norme giuridiche precise, debbono presentare l’attitudine ad una immediata applicazione. Non solo: debbono anche essere norme che contengano principî fondamentali; il costituente, in una Costituzione rigida, non deve assolutamente indulgere a tutto ciò che è particolare, a tutto ciò che può essere contingente e che deve essere rimesso al legislatore ordinario, il quale ha il compito di seguire e di esprimere nella legge il moto progressivo della società.

Ora, ripeto, i connotati giuridici che avrebbero dovuto avere le norme non sono stati precisati; ed è questo un difetto di struttura, che si proietta su tutta la Costituzione. Ed è su questo punto che io credo noi dovremo, nel nostro riesame, portare particolarmente la nostra attenzione.

La Costituzione si apre con la dichiarazione dei diritti; dichiarazione che è la parte fondamentale di ogni moderna Costituzione, perché è nella precisazione dei rapporti fra l’individuo e lo Stato e gli altri aggruppamenti che si muovono e vivono nella società organizzata, è in questa determinazione di rapporti che si coglie la fisionomia del tipo di Stato a cui si vuol dar vita. Se noi assegniamo un maggior margine di libertà all’individuo, avremo un sistema improntato a certe caratteristiche; se noi, viceversa, daremo allo Stato una potestà di intervento più efficace e intensa in una serie varia di rapporti, configureremo un diverso tipo di Stato. Il problema degli organi e dei poteri è collegato con il tipo di Stato che da quella determinazione di rapporti vien fuori. Ora, evidentemente, una Costituzione moderna non si poteva limitare all’enunciazione dei classici diritti di libertà. Intendiamoci: questa consacrazione era indispensabile; l’esperienza recente dimostra come questi principî possano essere violati e soppressi. Ma occorreva, accanto ai tradizionali diritti di libertà, che impongono un limite negativo, porre quelli che, con frase non del tutto propria, si dicono «diritti sociali». Sono i principî, che rispondono alla esigenza della giustizia sociale, alla quale nessuno oggi si può sottrarre. Può essere sentita più o meno profondamente dell’altra esigenza della libertà, ma è sempre comune a tutti. Questi diritti sociali si ispirano ad un diverso principio, al principio di eguaglianza, inteso nel senso propulsivo, attivo, direi, dinamico della parola; che è più precisamente il principio della solidarietà.

Nella prima parte della Costituzione noi leggiamo affermazioni le più varie di codesti diritti sociali. Ed è, o colleghi, a questo proposito che si pone un problema di impostazione; che deriva dall’osservazione che i cosiddetti diritti sociali non configurano spesso diritti o interessi legittimi in senso stretto.

Noi abbiamo una nozione tecnico-giuridica del diritto, che è come una medaglia. Ha il suo rovescio, che è il dovere. Il diritto è una posizione giuridica subiettiva, munita di sanzione, che dà a colui che ne è titolare la possibilità di agire innanzi al giudice contro un altro soggetto, privato o pubblico, tenuto a un determinato atteggiamento. Noi abbiamo del pari una nozione tecnico-giuridica dell’interesse legittimo. Vi sono, viceversa, in questa parte della Costituzione enunciazioni di tendenze – che io in questo momento non discuto nel merito – enunciazioni di tendenze, di propositi, di mete alle quali si vuole arrivare domani. Il che, naturalmente, renderà necessaria non solo l’emanazione di apposite norme giuridiche sostanziali, ma la conformazione della struttura economico-sociale, in guisa tale che si renda possibile la traduzione in atto di questi principî. Ciò potrà avvenire, per alcuni principî, domani, per altri, in un domani più lontano; per altri, forse mai. Il diritto al lavoro si è potuto realizzare in Russia, perché questo paese offre il tipo di una società socialista. Da noi, è il voto di una tendenza. Parlarne, oggi, nella Costituzione come diritto può essere, a tacer d’altro, pericoloso, per le amare delusioni cui darebbe luogo di certo! Pensate ai due milioni circa di disoccupati!

Il problema di tecnica giuridica, che io pongo all’Assemblea, è questo: principî di questo genere, programmatici, tendenziali, finalistici, aspirazioni, devono essere collocati accanto a quelle norme che hanno un contenuto squisitamente e meramente legale e normativo, o viceversa essi devono essere più acconciamente sistemati in una sede a sé, che potrebbe essere il Preambolo della Costituzione? Badate, si sono chiamati diritti, ma diritti non sono. Anche la confusione terminologica si traduce spesso in confusione sostanziale. Si è detto che relegarli nel Preambolo significherebbe sminuirne la importanza. Si è considerato da taluni il Preambolo quasi come la soffitta della Costituzione, nella quale si pongono i principî inutili, che servono soltanto a fare bella mostra di sé e che non verranno mai tradotti in pratica.

In una intervista apparsa ieri sulla Voce Repubblicana, l’onorevole Grieco diceva che la Costituzione comincia dall’articolo primo e che tutto ciò che non è nell’articolo primo e negli articoli che seguono, non è Costituzione. Io mi permetto di dissentire. La Costituzione comincia dal Preambolo. Il preambolo ha una sua propria rilevanza giuridica. In che consiste questa rilevanza? Agisce in due direzioni: come indirizzo per il futuro legislatore, il quale dovrà conformare la sua attività in modo tale da dare attuazione a quelle norme di tendenza; come criterio di interpretazione, per il giudice e per l’amministratore, dell’ordinamento giuridico esistente. Dal Preambolo scaturisce una fonte di vita nuova, non solo per il futuro, ma anche per il presente.

Ora io penso che se noi verremo nell’ordine di idee di creare un Preambolo nel quale potranno trovare sistemazione più adeguata questi principî programmatici, queste aspirazioni, noi snelliremo la Costituzione ed eviteremo molte di quelle confusioni che oggi si devono lamentare. Naturalmente, non tutto ciò che non è in senso stretto diritto, si deve mettere nel Preambolo. Una Costituzione non è soltanto un Codice di norme positive; ma non può essere nemmeno una tavola di astrazioni. Qui la questione è di valutazione e di misura. Noi potremo esaminare, ed è naturalmente un’indagine che non si può compiere adesso senza trascendere dai limiti di questa discussione generale, quelle situazioni giuridiche che abbiano una maggiore o minore consistenza normativa, quelle che si possono tradurre domani, in base alla valutazione che oggi si può fare del domani, e quelle viceversa che hanno bisogno di una più profondale e radicale trasformazione delle società, e quindi veramente rappresentano una tendenza verso la quale noi potremo andare, ma che non potrà essere raggiunta se non in un lontano domani.

Un altro punto che io voglio segnalare alla vostra attenzione, e che è sempre di carattere strutturale ed investe tutto il progetto, è questo: delimitazione dei rapporti fra norma costituzionale e norma ordinaria.

Il collega Lucifero ha detto che in questo progetto vi è mezzo Codice civile, mezzo Codice penale e credo anche mezzo Codice di procedura. È esagerato; ma che in realtà in questo progetto vi siano molte disposizioni che, con grande utilità, potrebbero essere trasferite in altra sede, è una verità nella quale tutti dobbiamo convenire.

Qual è il criterio per distinguere la norma costituzionale dalla ordinaria? Un criterio predeterminato non esiste. È un problema affidato alla classe dirigente che è chiamata a fare la Costituzione, e lo risolve, direi di volta in volta, a seconda della valutazione dei fini e degli interessi politici. Comunque, io vorrei suggerire di tener presente un detto di saggezza: «Nel dubbio, astienti». Se abbiamo il dubbio, se una norma sia costituzionale o ordinaria, optiamo per considerarla norma ordinaria. Non poniamo pericolose ipoteche sul futuro; non imbrigliamo oggi quello che dovrà essere il naturale sviluppo della legislazione.

Questo progetto si muove fra due poli: da una parte attinge vette sublimi: ed è l’esaltazione della personalità umana, che è il motivo dominante della prima parte; poi finisce quasi nelle norme regolamentari. Vi è un articolo che parla del trattamento igienico sanitario, qualcun altro accenna al trattamento da farsi ai detenuti. Vi sono poi troppi riferimenti a istituti contingenti. Non intendo scendere ad esemplificazioni particolari. Negli articoli che disciplinano la scuola si richiamano istituti vigenti: la parificazione, l’esame di stato. Cosa significano queste parole? Tutto e nulla. Bisogna vedere quello che si mette dentro a queste frasi. La parificazione può comportare l’adempimento di certe condizioni e può non importare niente al di fuori di un semplice decreto. Vi è un articolo in questa parte del regolamento scolastico in cui si dice che l’istruzione primaria deve essere di almeno otto anni, cosicché se, domani, si vuole ridurre a sette bisogna modificare la Costituzione!

Una voce all’estrema sinistra. Diminuire no, aumentare sì!

BOZZI. Ora io francamente trovo che vi sono principî che devono essere rimandati alla legislazione ordinaria; per esempio i principî sul matrimonio. Vedete, quando si è posta la questione della indissolubilità, voi lo ricordate, io votai per l’indissolubilità del matrimonio; ma restavo fermo alla pregiudiziale, che cioè questa fosse materia non da Costituzione. E così tutta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. Ma questa è materia da Codice civile! Io penso con grande trepidazione a quello che avverrà nella legislazione se dovrà aver vigore l’articolo 25 del progetto! Sconvolgeremo il Codice civile.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Vi sono principî che sono ormai saldamente acquisiti, stabilmente radicati nella coscienza giuridica collettiva. Così è di alcuni canoni sulle sentenze, sull’ordinamento dei giudizi; è inutile trasferirli in sede costituzionale. Vi è taluno che possa dubitare che le decisioni del giudice debbono essere motivate? Vi sono invece altri principî che sono più immediatamente legati al corso progressivo dei tempi, allo svolgersi del moto sociale, e questi principî non è bene consacrarli nella Costituzione, perché altrimenti noi esporremo questo documento a troppi mutamenti, a troppe revisioni, che ne farebbero perdere prestigio e autorità.

Un’altra critica è questa: è troppo largo l’uso del rinvio alla legge. Il rinvio alla legge a volte è utile; ma avviene, in taluni articoli del progetto, che il rinvio esaurisca il contenuto della norma. Ed allora, domando: che ragione vi è di fare una norma costituzionale quando il contenuto di questa norma lo dovremo apprendere dal legislatore ordinario? Vi cito un esempio; il Consiglio economico, che è un istituto che potrà avere molta importanza. Nella Costituzione vi è solo l’affermazione che vi sarà un Consiglio economico. Ma come sarà costituito e quali ne saranno le funzioni noi lo apprenderemo dalla legge. E questo è un istituto costituzionalmente disciplinato?

Un’altra critica, che corre sulle labbra di tutti, è quella del compromesso. Facile critica. In una situazione politica come l’attuale, di fronte a forze così eterogenee, il compromesso è inevitabile; direi che è un bene. La questione è il vedere come si adopera l’arte del compromesso. Non dobbiamo creare una Costituzione di maggioranza, la Costituzione di una classe o di un partito o di una tendenza. La mia aspirazione è che si possa dar vita alla Costituzione di tutti gli italiani.

Il compromesso è inevitabile, adunque. Bisogna vedere, dicevo, come questo strumento si adopera. Ora, non sempre è stato adoperato bene. Per esempio, vi sono norme contraddittorie. Mi permetterò di citare un esempio. Vi è un articolo, il 64, dove si dice che ogni membro del Parlamento e quindi anche della Camera dei Senatori, rappresenta l’intera nazione, senza vincolo di mandato. È la ripetizione di un principio tradizionale. Ma ve ne è un altro, il 117, secondo comma, nel quale, a proposito dello scioglimento del Consiglio regionale, si dice che questo scioglimento avverrà su deliberazione della Camera dei Senatori, ma che a questa deliberazione non potranno partecipare i Senatori interessati. Questo principio, evidentemente, contraddice nettamente quell’altro, perché se i Senatori, come ogni membro del Parlamento, rappresentano l’intera nazione e non la regione o il collegio che li ha eletti, non vi è alcun motivo per escluderli dalla partecipazione alla deliberazione sullo scioglimento del Consiglio regionale.

Ma codesti sono rilievi marginali, che possono essere facilmente eliminati.

Vi sono più profonde disarmonie. Guardate l’istituto della famiglia. La famiglia è tutelata dal progetto solennemente, come elemento fondamentale per la salvezza morale e la prosperità della Nazione. Frasi molto nobili ed elevate. Ma, subito dopo, si fa un trattamento ai figli nati fuori del matrimonio uguale a quello dato ai figli nati nel matrimonio. Ed allora la tutela della famiglia legittima è o non è?

Vi è un articolo in tema di rapporti economici che dice che l’iniziativa privata è libera, salvo il rispetto di certi limiti. È il concetto di libertà: cioè ad ogni individuo è attribuita una sfera di autonomia nella quale egli liberamente si muove, salvo certi divieti. Ma vi è un altro articolo in cui il progetto fa obbligo allo Stato di dettare le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere amministrate e coordinate a fini sociali. E allora c’è da domandare: quale dei due principî vige? Il principio improntato ad una concezione liberale, sia pure opportunamente temperata, oppure il principio di intervento statale?

In un altro modo il compromesso si è manifestato; e non bene. Si sono create norme vaghe, indeterminate, a volta confuse, a margini sfumati. È una forma di compromesso, perché quando non si vuole affermare un principio nettamente, lo si diluisce, lo si denicotinizza, direi. Ma questo crea incertezza.

Vi è tutta una serie di principî nei quali sembra che lo Stato debba sempre intervenire e intensamente. In un articolo apparso sul Giornale d’Italia di ieri, don Luigi Sturzo suonava un campanello d’allarme su questa parte del progetto, e diceva: Badate che qui abbiamo una statalizzazione invadente e oppressiva. Forse un esame più approfondito farebbe vedere che questi principî, data la loro vaghezza e la loro elasticità, possono dire molto, ma possono dire anche poco e a volte possono dire anche niente. Si vuol creare forse una disciplina in bianco, in modo che il contenuto ne sarà dato dalla maggioranza che governerà? Qual tipo di incerto statuto è mai questo?

Io vedo in ciò un attentato alla tutela delle minoranze, che è uno dei fini precipui di ogni Costituzione democratica.

Ora io voglio passare rapidamente ad un altro aspetto: alla struttura e all’ordinamento della Repubblica. Qui, vorrei dire, notiamo un più spirabil aere.

Osservo però che non è stata data soddisfazione a quella che io reputo una delle esigenze fondamentali della democrazia moderna. Taluno ha potuto dire che questo è un progetto ottocentesco. Forse non è esatto. Io trovo due grandi assenti in questo progetto: i partiti e le organizzazioni sindacali. Oggi la vita dello Stato poggia su queste forze: sulle forze organizzate del lavoro e sulle forze dei partiti. Bisogna constatare il fenomeno, se anche può dispiacere. I partiti hanno una funzione pubblica nella vita dello Stato moderno, talché alcune Costituzioni li disciplinano giuridicamente. Il problema fondamentale è questo: attuare nell’interno dei partiti il metodo democratico che è indispensabile, perché la democrazia possa, poi, informare tutta la vita dello Stato. Io non vedo, nel progetto, i rapporti tra lo Stato, i partiti e le forze del lavoro. Bisogna evitare che questi due ultimi elementi si possano porre fuori e contro lo Stato. Vi è un articolo, lo so, onorevole Tupini, l’articolo 47, nel quale si parla dei partiti sotto il profilo del principio di libertà; ed è l’unico articolo nel quale, in certo senso, si delinea quella democrazia alla quale la Repubblica si vorrebbe inspirare e che definirò democrazia occidentale.

Un altro punto sul quale io penso che noi dovremo soffermarci e a lungo, è quello del Senato; anzi, dirò meglio, del bicameralismo, che presuppone due Camere, fondate su principî politici diversi, autonome nel loro funzionamento. Vi erano due tendenze opposte nella Commissione; la tendenza che, seguendo un sillogismo apparentemente rigoroso, portava all’affermazione di una sola Camera come unica detentrice della volontà popolare che si manifesta attraverso il suffragio universale; e una tendenza, alla quale ho partecipato anch’io, che riteneva necessaria, invece, accanto alla Camera dei Deputati, un’altra Camera.

Io credo ancora alla teoria degli antagonismi costituzionali; e perciò dico, e non entro nel merito, che, così come è stata creata nel progetto, la Camera dei Senatori non presenta elementi netti di differenziazione con la Camera dei Deputati. Vi è soltanto l’elemento dell’età per l’elettorato attivo e per l’elettorato passivo. È un primo passo, ma un passo che non segna una demarcazione; non vedo, cioè, un principio politico diverso che giustifichi la ragion d’essere del Senato e lo renda atto alla sua fondamentale funzione di equilibrio nella vita dello Stato. Le categorie sono così vaste che, come la pietà divina, comprendono tutto sotto le loro ali; e non segnano perciò nemmeno esse un criterio di differenziazione.

Un terzo punto desidero accennare: l’istituto del Capo dello Stato, del Presidente della Repubblica. Creato un sistema che, sotto l’apparenza bicamerale, è nella sostanza un sistema unicamerale, il Capo dello Stato viene ad esser posto in una posizione di dipendenza dalla Camera. Questo rappresenta veramente un grave pericolo: siamo sul piano inclinato del regime di Assemblea, che è una delle forme dittatoriali più pericolose.

Credo che dovremo rimeditare questo punto per giudicare se non sia preferibile che il Capo dello Stato venga eletto direttamente dal popolo. Si è detto, ed anch’io ho partecipato a questa opinione, che ciò potrebbe presentare un pericolo: l’investitura troppo vasta, troppo popolare, potrebbe dare al Capo dello Stato la sensazione di essere titolare di poteri personali. Pericolo, cioè, di dittatura. Ma credo che questo pericolo non esista. Non esiste se noi, come è e come ritengo debba rimanere, terremo distinte le funzioni di Capo dello Stato da quelle di Capo del Governo, e non faremo del Presidente della Repubblica anche un Cancelliere, secondo lo schema delle repubbliche presidenziali.

Un pericolo di regime personale, dittatoriale, può esistere là dove nell’unica persona del Capo dello Stato si cumuli anche la funzione di Primo Ministro; ma dove c’è distinzione il pericolo non si presenta. Viceversa, si avrebbe il grande vantaggio di dare al Capo dello Stato una posizione di prestigio e di indipendenza, sicché egli potrà essere veramente il titolare di quella che è stata definita una potestà neutra, il grande moderatore dei supremi poteri.

Sotto questo stesso profilo ritengo sia stato un errore non dare al Capo dello Stato la possibilità di partecipare al processo formativo della legge, negandogli la potestà di sanzione. Si dice: il Capo dello Stato non negherà mai la sanzione. Ma questa non è una buona ragione per togliergli la titolarità di un tal potere, che significa tenerlo estraneo dalla funzione più importante nella vita dello Stato: fare le leggi. Il Presidente della Repubblica, secondo il Progetto, si limita a promulgare la legge, si limita ad una funzione esecutiva; egli esprime una volontà, ma è una volontà che si trova su un piano di esecuzione.

Onorevoli colleghi, io vorrei, prima di concludere questa mia breve delineazione panoramica, esprimervi quella che è la più viva apprensione del mio animo di uomo politico e di giurista. Io ho la preoccupazione, ora che il progetto è composto nei suoi vari elementi e lo vedo a distanza, io ho la preoccupazione che questo progetto possa ingenerare una grande incertezza nell’ordinamento giuridico. È questo uno dei mali più funesti che possano affliggere una società civile. Una grande incertezza, dicevo, non solo per le modalità di trapasso, di saldatura, di sutura con l’ordinamento giuridico esistente, ma per la necessità che avremo di fare delle leggi complementari, senza di che la Costituzione non potrà avere esecuzione. Avremo contrasti tra le leggi attuali e le norme della Costituzione, e ci dovremo porre e dovremo risolvere questo quesito: le norme dell’ordinamento giuridico attuale, che siano in contrasto con le norme della Costituzione o anche con quei tali principî soltanto programmatici e tendenziali, dovranno intendersi automaticamente abrogate o dovremo attendere che il legislatore futuro intervenga per compiere questa abrogazione? Tutti problemi formidabili. Ma l’incertezza più grave e permanente scaturisce dalla struttura stessa del sistema proposto. Io mi richiamo alle norme programmatiche, alle norme vaghe, incerte, e a volte, come diceva don Sturzo, nebulose, ideologiche e demagogiche magari. E domando: quando domani si cercherà di tradurle in legge, non sorgerà necessariamente una serie di dubbi, di interpretazioni diverse, di discussioni, di distinzioni, che si risolveranno in quelle famose questioni di costituzionalità per cui è dato a talune persone, particolarmente legittimate, il potere di impugnare la legge dinanzi alla Corte costituzionale.

Più noi inseriremo nel progetto norme vaghe ed incerte, indefinite e nebulose, e più daremo vita a incertezze di interpretazione, che, sul piano positivo, si potranno tradurre in impugnative della norma, così che noi non sapremo più da quali leggi saremo governati; e i rapporti giuridici staranno sempre sotto la spada di Damocle della dissoluzione.

Ora, la Corte costituzionale deve avere una funzione veramente elevata, senza trasformarsi in superparlamento, e deve essere invocata veramente in casi eccezionali.

E c’è anche un’altra considerazione. Noi abbiamo una gerarchia di norme: norme costituzionali, e fra queste ve n’è qualcuna irrevocabile, e quindi supercostituzionale; poi le norme costituzionali in senso proprio (e qui si pone il problema – ed a questo riguardo richiamo l’attenzione dei tecnici del diritto – se per avventura alle leggi a cui fa rinvio la Costituzione, non si debba dare un valore particolare, che direi para-costituzionale); poi leggi ordinarie. È chiaro che ogni gerarchia, importando una subordinazione, può dar luogo a problemi di validità e quindi a possibilità di impugnativa. Ma il peggio si verifica quando dall’ordinamento dello Stato passiamo all’ordinamento della regione; ed esaminiamo i rapporti reciproci.

Io sono stato contrario alla regione concepita nel modo onde è stata concepita nel progetto. Discuteremo in altro momento se non sia vero che essa spezza l’unità politica ed economica dello Stato. Io ammetto la necessità di un ampio decentramento amministrativo, che credo sia la sola esigenza veramente sentita dalla coscienza nazionale, ed ammetto anche un certo decentramento normativo, che si può affidare utilmente alle regioni entro limiti di attuazione e di integrazione della legge statale; e così si realizzerà, onorevole Lucifero, anche quel decentramento legislativo, a cui lei faceva riferimento, e che è una delle condizioni fondamentali perché i Parlamenti possano vivere. Ma se noi accanto alle leggi dello Stato poniamo le leggi della Regione, la quale ha, nel progetto, una competenza vasta e non ben definita, e se teniamo presente che la legge dello Stato potrà essere impugnata dalla Regione e la legge della Regione potrà essere impugnata dallo Stato e potranno esservi conflitti tra Regione e Regione, – sicché io mi domandavo, venendo qui oggi, se, per avventura, non dovremo risolvere anche questioni inerenti allo statuto personale e reale dei cittadini, che son cittadini dello Stato e delle Regioni, soggetti a diversi ordinamenti giuridici – voi vedete come dinanzi a noi si apra un pauroso panorama di incertezze, di possibilità di conflitti, di impugnazione di leggi. Il che, ripeto, è una delle cose più funeste che possano immaginarsi nella vita di uno Stato, che voglia essere uno Stato di diritto.

Onorevoli colleghi, io ho dato uno sguardo panoramico a questo progetto. Ho voluto essere ligio alle istruzioni impartite dal nostro Presidente: esaminare i punti che si proiettano su tutta la struttura del sistema.

Questo progetto credo che non dovrà essere sottoposto ad approvazione. Non dimentichiamo che è un progetto. Vi dico francamente ed obiettivamente: esso è sempre un buon punto di partenza, spesso è anche un buon punto di arrivo. Noi lo dovremo sottoporre a riesame, serenamente: nella forma, perché anche la forma e la tecnica lasciano a desiderare; ma, soprattutto, nella sostanza. Volendo definirla in poche parole, l’opera che dovremmo compiere sarà soprattutto un’opera di deflazione. Ma dobbiamo, attraverso il nostro dibattito, richiamare sul progetto l’attenzione dell’opinione pubblica. Io ho la sensazione che il Paese non senta profondamente ciò che noi stiamo facendo. Non vorrei che la Costituzione possa essere qualche cosa di posticcio, qualche cosa che viene dall’alto, sia pure fatta da noi che veniamo dal basso. Dobbiamo interessare l’opinione pubblica. Sarà solamente questa che darà l’avallo definitivo; e la interesseremo se sapremo condurre un dibattito elevato, sereno e profondo.

Si parla tanto, oggi, della necessità di consolidare la Repubblica. È diventata una sorta di frase di rito: il consolidamento della Repubblica. Si invocano leggi speciali per il consolidamento della Repubblica. Ebbene, io credo sinceramente che il miglior modo per servire la Repubblica è quello di fare delle buone leggi e, soprattutto, una buona Costituzione.

Così soltanto ogni italiano, monarchico o repubblicano, potrà ritrovare in questa legge fondamentale dello Stato il punto per la pacificazione, e potrà riprendere il cammino nel solco del progresso, nella libertà e nel lavoro. (Applausi Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 17,55, è ripresa alle 18,10).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Onorevoli colleghi, parlare in quest’aula con quei banchi vuoti dà un senso di disagio. Non c’è il Governo; non si può dir male del Governo…

Una voce. È quello che manca.

CALAMANDREI. Pare quindi che ci manchino i temi di conversazione…

Ma, d’altra parte, questo dà anche un certo senso di serenità, e direi quasi di raccoglimento familiare.

D’ora in avanti le invettive, le polemiche, le contumelie saranno riservate alle sedute antimeridiane. Nelle sedute pomeridiane potremo parlare tranquillamente, in una atmosfera in cui non si tratterà di criticare un progetto presentato dal Governo e di votargli contro per arrivare a farlo respingere; ma saremo, invece, qui a fare una specie di esame di coscienza, poiché, in sostanza questo progetto di costituzione, sul quale siamo chiamati a discutere, esce da noi, è creato da noi, non dal Governo. Le critiche che noi rivolgeremo ad esso saranno critiche rivolte a noi stessi; dovranno dunque essere critiche costruttive. È una specie di esame di maturità, che la democrazia deve dare attraverso questa Costituzione. Dobbiamo tutti quanti industriarci a far sì che questo esame, se non con pieni voti e lode, sia almeno approvato con pieni voti legali.

Ora, onorevoli colleghi, se noi leggiamo questo progetto, con quest’animo di critica positiva, di critica costruttiva, di critica accompagnata sempre dalla proposta che tende a suggerire il meglio, dobbiamo, alla prima lettura riconoscere che esso non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile.

Voi ricorderete certamente che nel 1801 Ugo Foscolo, il capitano Ugo Foscolo, fu incaricato dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di preparare un progetto di Codice penale militare; e di questo progetto egli fece la relazione introduttiva coi titolo di «Idee generali del lavoro», nella quale egli si proponeva, testualmente, di compilare tutta l’opera «in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana».

Ecco: questo progetto di Costituzione si sente che non è stato scritto da Ugo Foscolo…

Ma questa è una questione di secondaria importanza.

Si troverà sempre qui e fuori di qui – e probabilmente il nostro Presidente Ruini ci avrà già pensato – chi riesca a dare una forma più pulita e finita a questo progetto ancora grezzo. Noi abbiamo già nei lavori preparatori della Costituzione esempî di equilibrio e di armonia stilistica. Basti ricordare la bella, equilibrata, armoniosa relazione scritta dal nostro Presidente Ruini; e non bisogna dimenticare – proprio è doveroso in questa prima seduta di discussioni sulla Costituzione – non bisogna dimenticare anche, tra i precedenti di questo progetto, i varî volumi, e specialmente il primo, dei lavori della Commissione di studio costituita dal Ministero della Costituente, che sono veramente un esempio di chiarezza e di compitezza, il cui merito risale principalmente a quel grande giurista, a quel grande maestro di diritto pubblico, a cui mando un saluto in questo momento, che è il professor Ugo Forti, Presidente di quella Commissione. Ma, vedete, questa mancanza di stile, questa eterogeneità di favelle che si ravvisa in molte disposizioni di questo progetto, non è soltanto una questione di forma: è anche una questione di sostanza. Deriva dal modo con cui questo progetto è nato; questo progetto, come voi sapete, non è nato di getto, tutto insieme; non è stato concepito in maniera armonica, unitaria. Il lavoro di questo progetto si è dovuto svolgere necessariamente nell’interno di diverse Sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti Comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha preparato uno o più pezzi di questo progetto.

Questi vari pezzi sono stati portati poi al Comitato di coordinamento e lì la macchina è stata rimontata nel suo insieme, soprattutto per le intelligenti cure del Presidente Ruini; e solamente oggi qui per la prima volta la possiamo vedere messa in ordine e valutarla nella sua interezza e coglierne certe disarmonie ed accorgerci che i varî pezzi non hanno tutti lo stesso stile. Ci sono in questi ingranaggi ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore da aeroplano. C’è confusione di stili e di tempi: e sta a noi qui, in questa discussione introduttiva e in quelle che continueranno sulle varie parti del progetto, di ridare a questo meccanismo, correggendone i difetti, le contraddizioni e le disformità, quell’armonia che oggi esso sembra non presentare in maniera uniforme.

Le osservazioni che io farò avranno tutte quante carattere generale. Esse cercheranno appunto di contribuire a tale riesame complessivo del meccanismo costituzionale, che oggi si presenta tutto insieme. E se mi avverrà, in questa disamina dei suoi caratteri generali e del metodo con cui esso è stato concepito, di citare qualche articolo, e di ricordare qualche questione concreta, sui quali poi si dovrà tornare nella discussione speciale, ciò avverrà soltanto a scopo di esempio, per illustrare certi caratteri generali del progetto, dei quali cercherò qui di cogliere gli aspetti più tipici e più rilevanti.

Le ragioni fondamentali di questa impressione di eterogeneità che il progetto dà in qualche sua parte derivano, come voi sapete, da due cause storiche, che sono state ripetutamente citate durante le nostre discussioni.

La prima è questa: che questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta; ma è il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare. E la seconda ragione è quest’altra: che sugli scopi, sulle mete, sul ritmo di questa rivoluzione ancora da fare, i componenti di questa Assemblea, i componenti della Commissione dei 75, i componenti delle singole Sottocommissioni, non erano e non sono d’accordo. Vedete, io ho sentito ricordare anche poco fa da un collega di questa Assemblea, col quale conversavo, lo Statuto albertino. Lo Statuto albertino fu fatto in un mese, dal 3 febbraio al 4 marzo 1848. Diceva quel collega: «Guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo. E qui è tra poco un anno che lavoriamo e ancora non siamo riusciti, come appare da questa apparenza ancora confusa e grezza del progetto, a preparare qualche cosa che si avvicini per concisione a quello Statuto». Ma l’esempio non calza; perché lo Statuto albertino fu una carta elargita da un sovrano il quale sapeva fino a che punto voleva arrivare; i suoi collaboratori, coloro che furono incaricati da lui di redigere quello Statuto, sapevano perfettamente quello che il sovrano voleva: non avevano da far altro che tradurre in articoli di legge le istruzioni già dosate da quell’unica volontà di cui lo Statuto doveva essere espressione.

Per questo il paragone non calza; perché invece qui, in questa Assemblea, non c’è una sola volontà, ma centinaia di libere volontà, raggruppate in diecine di tendenze, le quali non sono d’accordo su quello che debba essere in molti punti il contenuto di questa nostra Carta costituzionale; sicché essere riusciti, nonostante questo, a mettere insieme, dopo otto mesi di lavoro assiduo e diligente, questo progetto, è già una grande prova, molto superiore a quella che fu data dai collaboratori di Carlo Alberto, in quel mese di lavoro semplice e tranquillo che essi poterono agevolmente compiere sulla guida data loro dal sovrano al quale obbedivano.

Un altro esempio che si è citato è quello della Costituzione russa, specialmente della Costituzione staliniana del 1936. Si dice: «Vedete come in quella Costituzione tutto è preciso; quei diritti sociali che sono affermati in quella Costituzione, trovano in ogni articolo, in un apposito comma, la specifica indicazione dei mezzi pratici che ogni cittadino può esperimentare per ottenere la soddisfazione concreta di quei diritti».

Ma anche qui il paragone non calza; perché la Costituzione russa del 1936 ha dietro di sé una rivoluzione già fatta. È molto semplice, quando è avvenuto un rinnovamento fondamentale, una rivoluzione, insomma, di carattere sociale, in cui le nuove istituzioni sociali vivono già nella realtà, in cui la nuova classe dirigente è già al suo posto, prendere atto di questa realtà e tradurre in formule giuridiche questa realtà. I giuristi vengono, buoni ultimi, a mettere i loro cartellini, le loro definizioni su una realtà sociale che vive già per suo conto.

È molto facile trovarsi d’accordo nel dare, a cose fatte, queste definizioni e queste formule. Noi invece ci troviamo qui non ad un epilogo, ma ad un inizio. La nostra rivoluzione ha fatto una sola tappa, che è quella della Repubblica; ma il resto è tutto da fare, è tutto nell’avvenire.

Proprio per questo, noi ci siamo trovati ad avere una Costituzione che ha gli stessi caratteri del Governo, quantunque il Governo in questo momento sia assente in quest’aula. È una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante.

Indubbiamente, nel progetto di Costituzione vi è una parte positiva. Ma è inutile che io vi parli di essa: è inutile che stiamo qui a farci complimenti fra noi, compiacendoci di quella parte buona e proficua di lavoro che abbiamo compiuto.

La parte positiva della nuova Costituzione, voi lo sapete, si chiama Repubblica, si chiama sovranità popolare, si chiama sistema bicamerale, si chiama autonomia regionale, si chiama Corte costituzionale. Tutto questo è chiaro. Sono istituti che potranno essere perfezionati nei particolari, ma insomma, su questi punti, in cui i tre partiti che costituiscono il nucleo di questa Assemblea si sono trovati d’accordo, il lavoro è stato facile ed è stato fecondo. Vi è però la parte negativa, quella in cui i partiti non sono riusciti a trovarsi d’accordo con sincerità nella sostanza: ed è questa la parte che, secondo me, pecca di genericità, di oscurità, di sottintesi. Molte volte si sente che si è cercato di girare le difficoltà, anziché affrontarle, di mascherare il vuoto con frasi messe per figura. Ognuno ha cercato insomma, nella discussione degli articoli, di togliere la paroletta altrui che gli dava noia. Chi ha partecipato alla discussione delle Commissioni sa che molte volte, per una parola, si è discusso intere giornate; e che in questa contesa di correnti diverse, più che cercare di far prevalere la propria tesi, tutti hanno cercato d’impedire che prevalessero le tesi degli avversari.

È un po’ successo, agli articoli di questa Costituzione, quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi. (Ilarità).

Ora, vedete, colleghi, io credo che in questo nostro lavoro soprattutto ad una meta noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione, cercare di ispirarci e di avvicinarci. Ricordate il famoso motto di Silvio Spaventa, da cui nacquero le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: «giustizia nell’Amministrazione». Il nostro motto dovrebbe esser questo: «chiarezza nella Costituzione».

Varie parti di questo progetto non hanno quella chiarezza cristallina che dovrebbe riuscire a far capire esattamente che cosa si è voluto dire con questi articoli, quali sono le mete verso le quali si è voluto muovere con quelle disposizioni. Si riaffaccia qui la questione che è stata già sollevata oggi dai due precedenti oratori, e che si può chiamane la questione del preambolo, già sorta davanti alla Commissione dei settantacinque. Voi sapete che nella nostra Costituzione, ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova commista una quantità di altre disposizioni vaghe, che si annidano specialmente fra l’articolo 23 e l’articolo 44 (rapporti etico-sociali e rapporti economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono.

Allora, davanti ai Settantacinque già si sollevò questa questione. E si ricordò allora che in altre costituzioni sorte dopo l’altra guerra, in quella di Weimar, in quella della Repubblica spagnola, furono inseriti accanto ai diritti politici di libertà risalenti alla rivoluzione francese, questi nuovi diritti che si sogliono ormai denominare «diritti sociali», ma ci si accorse poi che essi lasciarono inalterata la realtà sociale, nella quale essi non avevano rispondenza.

L’enunciazione dei cosiddetti «diritti sociali» non ebbe nessun resultato pratico, come la storia di questo ventennio ha dimostrato: sicché parrebbe per noi più prudente, invece di travestire questi desideri e questi programmi in apparenze normative, collocarli tutti quanti in un preambolo nel quale sia detto chiaramente che queste proposizioni non sono ancora, purtroppo, norme obbligatorie, ma sono propositi che la Repubblica pone a sé stessa, per trovare in essi la guida della legislazione futura.

Quando io feci questa infelice proposta (dico infelice perché dei Settantacinque mi pare che ricevesse soltanto il voto dei rappresentanti del Partito d’Azione che, come sapete, non sono molti) (Ilarità), quando io feci questa proposta, mi furono fatte due obiezioni: una di carattere strettamente giuridico, dal collega e amico Mortati, il quale mi disse che anche queste norme di carattere programmatico possono avere il loro significato giuridico, perché rappresentano impegni che il legislatore prende per l’avvenire, direttive e limiti alla legislazione futura; e quindi non si può dire che si tratti di disposizioni giuridicamente irrilevanti, perché anche esse hanno la loro efficacia giuridica.

Questo argomento del collega Mortati non mi convinse molto, almeno per certe disposizioni, troppo vaghe e generiche per costituire un qualsiasi impegno. Ma, allora, chi seppe trovare le vie del mio cuore fu l’onorevole Togliatti, il quale capì che il miglior modo per convincere un fiorentino è quello di citargli qualche verso di Dante. Togliatti mi disse che noi preparatori della Costituzione, dobbiamo fare «come quei che va di notte, – che porta il lume dietro e a sé non giova, – ma dopo sé fa le persone dotte».

Non dobbiamo curarci della attuazione immediata di queste pseudo norme giuridiche contenute in questo progetto: dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti, e consacrare quei principî che saranno oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi. Dobbiamo così illuminare la strada a quelli che verranno.

Ho ripensato molto a questi versi di Dante e mi sono pentito di essermi lasciato troppo sedurre dalla poesia, non solo perché – come mi suggerisce un collega che mi interrompe – anche Stalin, citato dal presidente Ruini nella sua relazione, afferma che le costituzioni non possono essere programmi per il futuro; non solo perché non è stato felice l’esperimento fatto dalla «carta del lavoro» e dalla «carta della scuola» che, anch’esse, non erano leggi, ma direttive per le leggi future – ma soprattutto per un’altra ragione; che è la seguente. Ammettiamo, cioè che in una Costituzione si possano utilmente inserire principî precisi per la legislazione futura, che siano veramente lumi, capaci di rivelare un sentiero verso l’avvenire. Ma se io leggo nel progetto di Costituzione il testo di queste norme che dovrebbero avere una siffatta efficacia illuminante mi accorgo che in molte di esse è assai difficile rendersi conto esattamente della direzione verso la quale esse tendono; è assai difficile che in questi lumi i nostri posteri possano trovare un sicuro orientamento.

Prendo l’articolo 1 che dice questa bellissima cosa: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro». È una bellissima frase; ma io che sono giurista – questa d’altronde è la mia professione ed ognuno di noi bisogna che porti qui la sua esperienza e le sue attitudini, perché è proprio da questa varietà di attitudini e di esperienze che deriva la ricchezza e la pienezza di questa Assemblea – io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?

Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continueranno a lavorare come lavorano ora, che ci saranno coloro che lavorano di più èe coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c’è un altro articolo, il 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c’è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare. Debbo pensare che si voglia con ciò imitare quell’articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia? Ma se leggo più attentamente questo capoverso dell’articolo 31, vedo che esso dice precisamente così: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività (e fin qui si intende che parla di lavoro) o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta…». Dunque c’è chi svolge un’attività e c’è chi svolge una funzione. Questa funzione può essere anche una funzione spirituale; sta bene: ammetto che quella dei religiosi sia effettivamente una funzione sociale. Ma io penso a qualche altra cosa; penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono sul lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c’è il dovere di compiere un’attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle altrui, saranno ammessi come soggetti politici? Ho paura di sì: ho paura che saranno ammessi e che essi diranno che il vivere senza lavorare, il vivere di rendita, non sarà un’attività, ma è certamente una funzione. (Si ride). E siccome ognuno può dedicarsi, dice l’articolo, alla funzione che meglio corrisponde alle proprie possibilità e alla propria scelta, essi hanno preferito la funzione di non lavorare, e quindi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Repubblica Italiana… Si noti che in quest’articolo c’è un ultimo capoverso il quale dice che «l’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici»; ora questo è un capoverso che non corrisponde a verità: quale è infatti la sanzione di questo capoverso? Per l’esercizio dei diritti politici non è detto affatto in nessun altro articolo, né in nessuna legge elettorale, che sia condizione l’esercizio di un’attività o di una funzione. Ecco intanto qui una di quelle disposizioni in cui a ben guardare si annida una… (come la devo chiamare?) sì, una bugia; perché non è vero che l’adempimento di questo dovere sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Ma vi è di più. Quando si va a vedere, in materia economica, quali siano queste direttive le quali dovrebbero servire di guida e di lume per coloro che verranno dopo di noi, si incontrano numerosi articoli in cui sono commiste tendenze diverse e contradittorie.

Se uno che non avesse partecipato ai lavori di questo progetto domandasse: la Costituzione della Repubblica italiana, sotto l’aspetto sociale, quale tendenza ha? È a tendenza conservatrice o a tendenza progressiva? Individualista o socialista? La risposta non sarebbe facile.

Io leggo qui un articolo 37, che dice cose sensatissime: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo». Sagge parole; ma mi domando: come questa disposizione può rappresentare, non dico un articolo di legge, ma semplicemente una indicazione di una qualsiasi tendenza politica o sociale? È una frase innocua, come se si fosse dichiarato, nello stesso articolo 37, che il sole risplende; ma non è una direttiva politica per l’avvenire.

Ci sono poi articoli come il 38, 39, 41, in cui si rintraccia alla superficie questo lavoro di compromesso, che ha portato a costruire queste formule ad intarsio in modo da dar ragione a tutte le tendenze.

Mi immagino, a proposito degli articoli 38 e 41, un dialogo fra un conservatore e un progressista: l’uno e l’altro vi troverà argomenti per sostenere che la Costituzione dà ragione a lui. Il conservatore dirà: «Vedi, la proprietà privata è riconosciuta e garantita». Il progressista risponderà: «Sì, ma i beni possono appartenere allo Stato o ad enti pubblici».

Il conservatore, o liberale che sia, dirà: «L’iniziativa economica privata è libera». Il progressista risponderà: «Sì, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». (Si ride).

E così vi è tutta una quantità di articoli che figurano di andar d’accordo, ma che in realtà si elidono; sicché sarebbe stato meglio non scriverli.

Ce ne sono poi altri anche più gravi; ed è su questo che vorrei richiamare la vostra attenzione, perché ho l’impressione che lasciarveli in quella forma screditerebbe la nostra Costituzione; mentre noi dobbiamo volere che questa Costituzione sia una Costituzione seria, e che sia presa sul serio dagli italiani.

Ora quando io leggo nel progetto un articolo come l’articolo 23 che dice in un suo capoverso: «La Repubblica assicura (dico assicura: verbo assicurare, tempo presente) alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo con speciale riguardo alle famiglie numerose»; quando leggo all’articolo 26 che «la Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce le cure gratuite agli indigenti»; quando nell’articolo 28 leggo che «la Repubblica assicura l’esercizio del diritto dell’istruzione con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, da conferirsi per concorso agli alunni di scuole statali e parificate»; quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi saper quanti anni ancora, negli ospedali – parlo degli ospedali di Firenze – gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessarî per pagare gli insegnanti, quando io penso tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni – allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione! (Approvazioni).

Guardate, una delle più gravi malattie, una delle più gravi eredità patologiche lasciate dal fascismo all’Italia è stata quella del discredito delle leggi: gli italiani hanno sempre avuto assai scarso, ma lo hanno quasi assolutamente perduto dopo il fascismo, il senso della legalità, quel senso che ogni cittadino dovrebbe avere del suo dovere morale, indipendente dalle sanzioni giuridiche, di rispettare la legge, di prenderla sul serio; e questa perdita del senso della legalità è stata determinata dalla slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative, colle quali si industriava di far apparir come vero attraverso l’autorità del legislatore ciò che in realtà tutti sapevano che non era vero e non poteva esserlo.

Vi è un esempio caratteristico nella legislazione fascista, che bisognerebbe mettere in una cornice: voi ricorderete (perché tutti abbiamo fatto questa trista esperienza) come era regolata nell’Italia fascista, quando si temeva che cominciasse la folle guerra che poi cominciò, la difesa antiaerea e la difesa antigas. Ricorderete la faccenda delle maschere antigas; se ne vedeva ogni tanto una per modello, ma in commercio non c’erano, e nessuna autorità ne aveva per distribuirle: orbene, il 27 luglio 1938 fu pubblicato in Italia un decreto che porta il numero 1429, il cui articolo primo diceva così: «Entro i limiti stabiliti dall’articolo 3 del presente decreto (notate che in Italia, lo ripeto, non esistevano maschere) la distribuzione delle maschere al personale della industria, a qualunque ramo esso appartenga, deve essere totalitaria». (Si ride).

Queste sono le leggi, onorevoli colleghi, che distruggono nei cittadini il senso della legalità. Bisogna evitare che nella nostra Costituzione ci siano articoli che abbiano questo stesso suono falso! Fra i ricordi più amari dell’altra guerra, in questa Italia, che accanto alle sue grandi virtù ha avuto sempre tra i suoi difetti quello fondamentale dello scetticismo, del cinismo, della mancanza di fede e di convinzioni profonde, rammento che una volta ero tornato in licenza a Firenze, in quel periodo in cui di mese in mese i nostri soldati riuscivano a strappare qualche centinaio di metri di quelle terre, che purtroppo ora ci sono state ritolte. Non c’erano grandi vittorie: c’era soltanto la consunzione quotidiana di quella battaglia di logoramento che durò quattro anni. Ora, tornando in licenza – io abitavo allora in una piccola strada al centro di Firenze – una sera quando stavo per andare a letto, sentii passare uno strillone che gridava l’ultima edizione di un giornale cittadino. Allora i giornalai avevano l’uso di gridare per le strade le notizie più importanti; quello nel silenzio della strada deserta gridava a voce altissima: «Terza edizione! La grande vittoria degli italiani!…»; ma poi aggiungeva, in tono più basso: «…non è vero nulla…»

Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi: «Non è vero nulla». (Si ride).

Per questo io ritengo che sia necessario, per debito di lealtà, che queste disposizioni che io vi ho letto, ed altre che via via potranno affiorare nel seguito della discussione, siano collocate in un preambolo, con una dichiarazione esplicita del loro carattere non attuale, ma preparatore del futuro; in modo che anche l’uomo semplice che leggerà, avverta che non si tratta di concessione di diritti attuali, che si tratta di propositi, di programmi e che bisogna tutti duramente lavorare per riuscire a far sì che questi programmi si trasformino in realtà.

Per questo, io depositerò alla fine di questo mio discorso un ordine del giorno che dice così:

«L’Assemblea Costituente, mentre ritiene opportuno che nella nuova Costituzione italiana gli articoli che riconoscono veri e propri diritti o che disciplinano organi e poteri siano preceduti da un preambolo preliminare nel quale possano essere riassunti in forma di propositi programmatici le direttive sociali e politiche alle quali dovrà ispirarsi la futura legislazione della Repubblica italiana, rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti in una parte preliminare».

Sempre per questa esigenza di chiarezza nella Costituzione, nella quale non devono esistere sottintesi o rinvii, o riserve mentali, vi dirò ora qualche cosa sulle relazioni tra Stato e Chiesa.

PRESIDENTE. Onorevole Calamandrei, penso che lei non vorrà entrare nel merito di questa questione.

CALAMANDREI. So perfettamente quali sono i limiti di questa discussione e parlerò unicamente sotto l’aspetto del metodo, senza entrare nel merito.

Quello che dirò ora, e che specialmente colpisce la sensibilità dei colleghi ed amici della democrazia cristiana, vorrei che fosse ascoltato da loro non soltanto con sopportazione – di questo sono sicuro – ma anche, direi, con cordialità; vorrei insomma che quello che dirò non attirasse necessariamente su di me l’epiteto, grossolano, e pesante di anticlericale.

È un momento questo, in cui delle parole «clericale» e «anticlericale» si fa molesto abuso.

Se avviene che qualcuno, che ha il massimo ossequio della religione (la quale è una cosa seria, anche perché la cosa più seria della vita è la morte) ma che ha anche il massimo ossequio per la libertà, espone onestamente sul tema delle relazioni tra Stato e Chiesa, tra libertà di religione e libertà di pensiero un’opinione che non coincide colla vostra, o amici democristiani, voi non dovete perder per questo, come spesso avviene, la vostra serenità, e guastar per questo l’amicizia…

Se poi, domani, qualche resoconto di giornale che si vorrà occupare di queste modeste cose che dico, vorrà a tutti i costi dire che un deputato ha fatto una tirata anticlericale, bene! non crediate che per questo io morirò di crepacuore. (Ilarità). Ormai siamo abituati a raccogliere sulla stampa avversaria tali epiteti, che questo, di anticlericale sarebbe, in fondo, un fiorellino, una mammoletta…

Per quel che si riferisce, dunque, alle relazioni tra Stato e Chiesa, io ho l’impressione che il metodo adoperato nella formulazione dell’articolo 5 manchi di chiarezza, sia contrario a quella esigenza di chiarezza che, secondo me, è indispensabile perché possa venir fuori dai nostri lavori una Costituzione seria.

Intanto si potrebbe fare qualche osservazione, sempre di metodo, sulla prima parte dell’articolo 5, la quale dice che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Qui viene spontanea al giurista questa domanda: – Ma, insomma, in questa Costituzione chi è che parla? Chi parla in prima persona? È lo Stato italiano?

Questa Costituzione è un monologo o è un dialogo? C’è una persona sola che parla o ci sono due interlocutori? –

Si capisce che l’articolo 5 dica che lo Stato italiano – il soggetto della Costituzione – riconosce, se la vuol riconoscere, la sovranità della Chiesa nel suo ordine.

Ma non si capisce che la Chiesa riconosca la sovranità dello Stato, la quale sovranità è il presupposto di questa Costituzione: se non ci fosse la sovranità, neanche potremmo darci la Costituzione.

Il fatto che venga introdotto qui a riconoscere la sovranità dello Stato, del nostro Stato, un altro, sia pure augusto, personaggio; un altro, sia pure altissimo, ordinamento giuridico, questo per un giurista è una incongruenza.

Questo è un articolo che potrebbe andare bene in un trattato internazionale, non in una Costituzione.

Ma è principalmente contro il secondo comma che si appunta la mia osservazione:

«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale».

Qui, intanto, si potrà osservare, quando si parlerà dei modi di revisione della Costituzione, che vi sarebbero in essa, se l’articolo restasse così, norme costituzionali che non potrebbero essere più modificate per volontà unilaterale dello Stato che ha fatto questa Costituzione. Vi sarebbero norme modificabili soltanto se vi sarà il consenso di quest’altro contraente che è la Chiesa; ma questa sarebbe una vera e propria rinunzia ad una parte della nostra sovranità.

Ma queste sono questioni che si tratteranno al momento opportuno. Io invece mi domando, qui, che cosa significa questa disposizione: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi». Sono inseriti, questi Patti Lateranensi, nella Costituzione? Vengono essi a far parte, per rinvio, della nostra Costituzione? La relazione del Presidente Ruini par che risponda di sì; essa ci dice che, in questo modo, i Patti Lateranensi diventano parti dell’ordinamento della Repubblica, che avranno una speciale posizione di natura costituzionale. Ora, io potrò anche essere d’accordo, quando si tratterà del merito, nel dire che la nostra Costituzione debba ripetere espressamente tutti gli articoli dei Patti Lateranensi; io potrò anche essere d’accordo, per ipotesi, nel lasciare che la Repubblica italiana si proclami apertamente una Repubblica confessionale: ma se questo è, bisogna dirlo chiaramente; questa esigenza di chiarezza impone che non si facciano cose di tanta importanza alla chetichella con un rinvio sibillino, che sarà letto senza intenderne la portata dall’uomo che non si intende di leggi, il quale ignora quale sia con precisione il contenuto di questi patti sottintesi e non sa che molte norme di questi Patti Lateranensi sono in contrasto con altre norme apertamente scritte in questa Costituzione. Un giornale di New York, il New York Times, secondo un comunicato dell’Associated Press (non so se la notizia sia vera) riferiva che il 21 gennaio 1947, mentre il Presidente De Gasperi era in America, i delegati di 25 gruppi religiosi protestanti, rappresentanti di 27 milioni di credenti, andarono a domandargli se fosse vero che il testo dei Patti Lateranensi sarebbe stato inserito nella Costituzione, e il Presidente De Gasperi avrebbe risposto che non credeva che i Patti Lateranensi vi sarebbero stati inseriti. Diceva la verità, perché i Patti Lateranensi non vi sono stati inseriti in maniera espressa; vi sono stati soltanto richiamati per implicito. Ma, attraverso questo richiamo, attraverso questo rinvio, attraverso questo assorbimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione, che lo stesso Presidente Ruini ha ammesso, si arriverà a questa conseguenza: che per potere intendere quale sarà la vera portata della nostra Costituzione bisognerà che il lettore avvertito vi inserisca al punto giusto, come se fossero scritte nella Costituzione stessa, molte disposizioni prese dal Trattato o dal Concordato. Non saranno scritte sulle righe, ma fra le righe; e bisognerà leggerle, diciamo così, per trasparenza. E allora, ad esempio, prendiamo l’articolo 5: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani»: qui, per trasparenza, bisogna aggiungere l’articolo 1° del Trattato, il quale dice: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Questo articolo sarà trasfuso per rinvio nella nostra Costituzione. Sarà bene, sarà male? Io magari, sempre per ipotesi, sarò d’accordo con voi nel dire che sarà bene; ma occorre parlarci chiaro, questo articolo ci sarà.

E poi: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua (questo dice l’articolo 7 del progetto di Costituzione) di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge». Ma qui bisognerà aggiungere nel capoverso, per trasparenza, l’articolo 5 del Concordato: «In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

E poi c’è l’articolo 27 della Costituzione, il quale dice: «L’arte e la scienza sono libere; e libero è il loro insegnamento». Ma c’è, in trasparenza, l’articolo 36 del Concordato, il quale dice: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica».

E poi c’è l’articolo 94 della Costituzione, il quale dice che «la funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo». Ma c’è, per trasparenza, l’articolo 34 del Concordato, il quale dice invece che «le cause concernenti la nullità del matrimonio e la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici».

Tutto questo – voglio tenermi nei limiti di questa discussione – sarà bene o sarà male? Quando ne riparleremo, si vedrà. Ma ora, sotto l’aspetto del metodo, io dico che non è in questo modo che si fa una Costituzione chiara. Bisogna intenderci lealmente, mettere sul tavolino le nostre divergenze, non giuocare a mosca cieca.

Ma qui io sento suggerimenti provenienti specialmente di là (accenna a sinistra), che mi dicono: «Ma questo non è un discorso politico; questo è un discorso ingenuo: chiarezza e politica non vanno d’accordo. Anche Napoleone diceva che le Costituzioni è bene siano brevi ed oscure».

Sì, in verità la nostra, molto breve non è; ma in quanto ad oscura, riesce ad esserlo in più di un punto! (Ilarità).

Questi stessi amici aggiungono: «Anche la Costituzione è il risultato di un compromesso politico. La politica è l’arte dei compromessi, delle transazioni. Per ora, formule elastiche: e poi si vedrà chi tirerà di più».

Ora io devo prima di tutto riconoscere (già me l’hanno osservato varie volte gli amici comunisti) che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni. Io mi permetterei però di domandare a questi amici che mi danno siffatti suggerimenti: «Credete, voi che vi intendete di politica, che sia proprio una buona politica quella consistente, quando si discute una Costituzione, nel presupporre sempre che in avvenire il proprio partito avrà la maggioranza, e nel disinteressarsi, in tale presupposto, della precisione e della chiarezza tecnica dei congegni costituzionali? Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo: ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro?»

Contro questo stato d’animo, che chiamerei calcolo o spirito di maggioranza, io mi sono trovato in amichevoli contrasti in diverse occasioni durante la discussione del progetto, tutte le volte che è venuta in questione l’opportunità di inserire nella Costituzione, come freno e controllo degli organi legislativi, che sono espressione politica della sovranità del popolo, organi imparziali di garanzia, che non derivino immediatamente i loro poteri da una diretta elezione popolare.

L’amico Laconi sorride, forse perché ricorda anche lui le nostre discussioni in tema di giurisdizioni speciali, e sul modo di nomina dei consiglieri di Stato, o dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura o della Corte Costituzionale. Nel discutere di questi argomenti io ho sempre sostenuto che, per preparare il testo di una nuova costituzione democratica sia più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza (non mi è difficile, dato il partito al quale appartengo!), di quella che potrà essere domani la minoranza, in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere domani i diritti di questa minoranza. Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani.

Ma queste, mi è stato detto, sono astrattezze da giuristi; e questo voler introdurre negli organi di controllo e di garanzia elementi tecnici invece che politici, è contrario ad una costituzione democratica in cui la politica deve penetrare tutti i congegni. Non sono di questa opinione: io ritengo invece, e avrò occasione di tornar su questo argomento nella discussione speciale, che proprio la salvaguardia di certi diritti contro le inframmettenze politiche sia uno dei requisiti fondamentali di un ordinamento democratico: e che sia quindi necessario in chi prepara questo ordinamento uno spirito, direi, di umiltà minoritaria.

Lo stesso spirito credo che debba esser portato nell’esaminare il problema dell’autogoverno della Magistratura. Io sono stato uno dei sostenitori di questo autogoverno, che il progetto ha accolto soltanto in parte. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto esser composto unicamente da magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto, per metà, di elementi politici eletti dagli organi legislativi.

In realtà chi ha impedito all’autogoverno della Magistratura di affermarsi in pieno nel nostro progetto, non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori della opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il Procuratore Generale Pilotti, che proprio nei giorni in cui si stava discutendo nella seconda Sottocommissione il problema dell’autogoverno della Magistratura, ed io mi trovavo a dover sostener la mia tesi contro la tesi contraria, ha fornito agli oppositori un argomento lì per lì inconfutabile. A un certo momento, infatti, essi mi hanno obiettato: «Tu vuoi dare l’autogoverno alla Magistratura? eccoti qui, coll’esempio, quello che accadrebbe: eccoti l’istruttivo episodio avvenuto in questi giorni all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione…» Ed io non ho saputo che cosa rispondere: perché veramente si è trattato di un caso assai grave, intorno al quale questa Assemblea ancora non sa quali provvedimenti il Governo abbia preso e non riesce a convincersi che il Governo possa ancora rimanere in silenzio. In verità, l’atteggiamento del Procuratore Generale Pilotti, offensivo per la Repubblica e per il suo Capo, non è stato una distrazione o una svista, derivante da un momentaneo disorientamento, come quello da cui fu preso, molti anni fa, quel Presidente di Corte di appello, che nell’inaugurazione dell’anno giudiziario si confuse, e dichiarò aperto l’anno giudiziario «in nome di Sua maestà il re Vittorio Emanuele re d’Italia e imperatore delle Indie». (Ilarità). Quello fu un lapsus.

Ma il caso del Procuratore generale Pilotti non è stato un lapsus. Il Pilotti è un magistrato eminente ed assai colto, un letterato, un umanista; ma soprattutto è un uomo abituato alla vita di società, alla diplomazia, al cerimoniale, al galateo. Per aver mancato così apertamente alla buona creanza, egli ha dovuto farlo deliberatamente: nel suo caso la indipendenza alla Magistratura non ha nulla a che vedere, perché essa viene in giuoco quando il magistrato giudica, e non quando nelle relazioni sociali si comporta come un maleducato. (Applausi).

Il caso è grave, ma in sostanza, non deve troppo essere sopravalutato. Lo sgarbo del Procuratore Generale Pilotti è stato fatto non al Presidente della Repubblica, ma proprio alla Magistratura: e la Magistratura deve ringraziar proprio lui, il Procuratore Generale Pilotti, della ostilità con cui è stata accolta nel progetto della Costituzione l’idea dell’autogoverno: proprio lui, col suo gesto, è riuscito a impedire che la Magistratura possa aver fin da ora quella assoluta indipendenza di cui la grandissima maggioranza dei magistrati, esclusi alcuni pochi Pilotti, sono degni.

Ma lasciamo andare il caso Pilotti e ritorniamo al nostro discorso. Secondo me è un errore formulare gli articoli della Costituzione collo sguardo fisso agli eventi vicini, agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa Assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope. Il caso del magistrato Pilotti, anche se il Governo lo lasciasse ancora al posto che egli occupa, tra qualche diecina d’anni (pigliamola lunga, per augurargli lunga vita) sarà liquidato e dimenticato; ma tra qualche diecina d’anni vi sarà ancora la Magistratura, degna dell’Italia rinnovata e degna di quel pieno autogoverno, senza il quale essa non può garantire con imparzialità la vita di una vera democrazia.

Cerchiamo dunque di esaminare i problemi costituzionali con spirito lungimirante: quel senso storico di cui parlano spesso gli amici comunisti, che tanto hanno imparato da Benedetto Croce (si ride), non si deve trasformare in un gretto compromesso di partito, che restringa il nostro campo visivo alle previsioni elettorali dell’immediato domani.

Questo spirito di compromesso, che spesso ha portato i preparatori del progetto a girare i problemi piuttosto che affrontarli, ha d’altra parte dato a molti istituti della nostra Costituzione un certo carattere di approssimazione e di genericità. Su molti problemi vivi, dei quali pareva che si dovesse trovare nella Costituzione una chiara soluzione, si è preferito di chiuder gli occhi. Enumero rapidissimamente alcuni di questi problemi.

C’è quello dei decreti di urgenza. Se ho visto bene, dei decreti di urgenza non vi è accenno nella Costituzione. Il fatto che se ne sia taciuto richiama il ricordo di quelle madri ottocentesche che facevano uscire i figliuoli dal salotto quando la conversazione minacciava di cadere su certi argomenti scabrosi. Nella Costituzione non si deve parlare dei decreti-legge perché questo è un argomento pericoloso. Ma, insomma, potrà avvenire che si verifichi la necessità e l’urgenza, di fronte alla quale il normale procedimento legislativo non sarà sufficiente: il terremoto, l’eruzione di un vulcano. Credete che si possa mettere nella Costituzione un articolo il quale dica che sono vietati i terremoti? Se non si può mettere un articolo di questa natura, bisognerà pure prevedere la possibilità di questi cataclismi e disporre una forma di legislazione di urgenza, che è più provvido disciplinare e limitare piuttosto che ignorarla.

Secondo: il funzionamento dei Ministeri. Recentemente è stata fatta da una rivista una inchiesta, rivolta a vari ex ministri su questo quesito: «Perché i Ministeri non funzionano?». Gli ex ministri sanno i varî perché: ed hanno dato diverse spiegazioni e suggerimenti per cambiare la struttura e l’ordinamento di questi ordigni di Governo, costruiti per servire all’amministrazione degli Stati quali erano cento o centocinquanta anni fa, ma che non possono più rispondere alle moltiplicate esigenze di Stati tanto più complessi e macchinosi, come sono quelli di oggi. Orbene, nella Costituzione il problema di dare una struttura nuova, di snellire, di semplificare il funzionamento dei Ministeri non è stato neanche visto: di esso non è stata fatta neanche una parola.

Terzo: il problema del tripartitismo e dei governi di coalizione. Se dovrà continuare un pezzo, come mi pare di aver sentito dire dall’onorevole Togliatti, il sistema del tripartitismo, credete voi che si possa continuare a governare l’Italia con una struttura di governo parlamentare, come sarà quella proposta dal progetto di costituzione? Il Governo parlamentare come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, resistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che, per molti anni, forse per decennî non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da ée solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto che è, in luogo della maggioranza, la coalizione. Per questo noi avevamo sostenuto durante la discussione alla Seconda Sottocommissione (in verità però senza insistervi molto, perché ci trovammo subito isolati), qualche cosa che somigliasse ad una repubblica presidenziale o per lo meno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni, fondandole sull’approvazione di un programma particolareggiato sul quale possano lealmente accordarsi in anticipo i vari partiti coalizzati. Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del Governo, nel progetto non c’è quasi nulla.

E infine c’è il problema dei partiti, del quale già vi ha parlato il collega Bozzi. Ricordo che nel grande discorso di chiusura della Consulta fatto da Vittorio Emanuele Orlando, non mancò un acutissimo accenno a questo fondamentale carattere delle società contemporanee che è il passaggio di gran parte della vita politica nei partiti ed il loro inserirsi nella vita costituzionale: quando si uscì da quella memorabile seduta, eravamo tutti pieni di ammirazione per il grande maestro, che con sensibilità giovanile aveva subito colto quella che è la novità più profonda della situazione costituzionale italiana: i partiti. Avrebbe dovuto esser vanto della nuova Costituzione italiana riuscire ad inquadrar questa realtà nei congegni giuridici: i partiti, in realtà, come voi sapete, sono le fucine in cui si forma l’opinione politica, e in cui si elaborano le leggi: i programmi dei partiti sono già progetti di legge. I partiti hanno cambiato profondamente la natura degli istituti parlamentari. Vedete: qui, mentre io vi parlo (e vi ringrazio della indulgenza con cui mi ascoltate), so benissimo che anche se arrivassi a convincervi cogli argomenti che vi espongo, essi non varranno, se non corrispondono alle istruzioni del vostro partito, a far sì che, quando si tratterà di votare, voi, pure avendomi benevolmente ascoltato, possiate votare con me. E allora io mi domando: se le discussioni si fanno nell’intento di persuadersi, a che giova continuare qui a perdere il tempo nel parlare e nell’ascoltare, quando le persone qui riunite sono già persuase in anticipo su tutti i punti? Questa è la conseguenza dell’esistenza dei partiti: dei quali non si può dire se sia bene o male che ci siano; ci sono, e questa è la realtà. E allora si sarebbe desiderato che nella nostra Costituzione si fosse cercato di disciplinarli, di regolare la loro vita interna, ai dare ad essi precise funzioni costituzionali. Voi capite che una democrazia non può esser tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici.

L’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia. Se è così, non basta dire, come è detto nella Costituzione all’articolo 47, che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non basta. Che cosa vuol dire, infatti, metodo democratico? Quali sono i partiti che rispondono alle esigenze del metodo democratico, e quindi sono degni di esser riconosciuti in un ordinamento democratico?

Era stato suggerito che nel nostro ordinamento la Suprema Corte costituzionale avesse fra gli altri compiti anche il controllo, sui partiti: che essa avesse il potere di giudicare se una associazione a fini politici abbia quei caratteri di metodo democratico alla cui osservanza sembra che la formula dell’articolo 47 voglia condizionare il riconoscimento dei partiti. Ma se non la Corte costituzionale a dar tale giudizio, chi lo darà?

Una voce a sinistra. Pilotti.

CALAMANDREI. Sì, Pilotti; se non vi sarà un altro organo più sereno, fornito di quella sensibilità e di quelle garanzie che Pilotti ha dimostrato di non avere.

C’è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista».

Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo», ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. Sarà la organizzazione militare o paramilitare; sarà il programma di violenze contrario ai diritti di libertà; sarà il totalitarismo e la negazione dei diritti delle minoranze: questi od altri saranno i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti, se veramente vuol bandire il fascismo. E per controllare la giusta repressione di questi caratteri, bisognerà creare un organo apposito, fornito di adeguate garanzie giuridiche e politiche; in mancanza di che accadrà che il partito fascista, di fatto se non di nome, sarà vietato o permesso secondo quel che parrà alle autorità politiche locali, sotto l’influsso delle correnti prevalenti; e magari si troveranno autorità politiche che si varranno dell’articolo 47 per impedire la vita di un partito in sé sinceramente democratico. Allora contro il provvedimento il partito ingiustamente soppresso ricorrerà al Consiglio di Stato; ma il Consiglio di Stato vi dirà che questo è un atto compiuto nello esercizio di un potere politico che si sottrae al suo controllo. Quando invece si avesse una sezione della Corte costituzionale per verificare quali sono i partiti che corrispondono, per la loro organizzazione e per i loro metodi, alla definizione data dalla Costituzione, vi sarebbero garanzie molto più sicure per poter impedire ai partiti antidemocratici di risorgere ed ai partiti democratici di non essere soppressi e perseguitati da soprusi ed arbitrî di polizia.

Un’ultima osservazione, e avrò finalmente terminato. Onorevoli colleghi, c’è nella Costituzione un articolo 131 che dice: «La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale».

Voi sapete che il progetto ha adottato il sistema della Costituzione rigida, cioè della Costituzione che non potrà essere variata se non attraverso speciali procedimenti legislativi, più complicati e più meditati di quelli proprî della legislazione ordinaria: in modo che le leggi si potranno distinguere d’ora in avanti in leggi ordinarie, cioè in leggi che si possono abrogare e modificare con un’altra legge ordinaria, ed in leggi costituzionali, che sono leggi per così dire più resistenti, leggi modificabili soltanto cogli speciali procedimenti di revisione stabiliti dalla Costituzione. Ma con questo articolo 131 par che si introduca una terza categoria di leggi: quelle che non si potranno giuridicamente modificare nemmeno attraverso i metodi più complicati che la Costituzione stessa stabilisce per la revisione.

Dunque, la forma repubblicana non si potrà cambiare: è eterna, è immutabile. Che cosa vuol dire questa che può parere una ingenuità illuministica in urto colle incognite della storia futura? Vuol dire semplicemente questo: che, se domani l’Assemblea nazionale nella sua maggioranza, magari nella sua unanimità, abolisse la forma repubblicana, la Costituzione non sarebbe semplicemente modificata, ma sarebbe distrutta; si ritornerebbe, cioè, allo stato di fatto, allo stato meramente politico in cui le forze politiche sarebbero di nuovo in libertà senza avere più nessuna costrizione di carattere legalitario, e in cui quindi i cittadini, anche se ridotti ad una esigua minoranza di ribelli alle deliberazioni quasi unanimi della Assemblea nazionale, potrebbero valersi di quel diritto di resistenza che l’articolo 30 del progetto riconosce come arma estrema contro le infrazioni alla Costituzione. Senonché io mi domando, e con questa domanda termino questo mio lungo discorso: se si è adottato questo sistema per le norme che riguardano la forma repubblicana, dichiarando queste norme immutabili, non credete che questo sistema si sarebbe dovuto adoperare a fortiori per quelle norme che consacrano i diritti di libertà? Era tradizionale nelle Costituzioni nate alla fine del secolo XVIII che i diritti di libertà, i diritti dell’uomo e del cittadino, venissero affermati come una realtà preesistente alla stessa Costituzione, come esigenze basate sul diritto naturale; diritti, cioè, che nemmeno la Costituzione poteva negare, diritti che nessuna volontà umana, neanche la maggioranza e neanche l’unanimità dei consociati poteva sopprimere, perché si ritenevano derivanti da una ragione profonda che è inerente alla natura spirituale dell’uomo.

Ora, se la nostra Costituzione ha adottato questa misura di immutabilità per la forma repubblicana, credo che dovrà adottare questa stessa misura (e mi riservo a suo tempo di fare proposte in questo senso) anche per le norme relative ai diritti di libertà.

Ho finito così, onorevoli colleghi, le mie osservazioni di carattere generale sulla nuova Costituzione. Vi ringrazio di avermi ascoltato con tanta benevolenza e così a lungo.

Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c’è l’impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne. Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica. Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: soprattutto di lealtà.

Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.

Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.

Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellale il dolore.

Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.

Non dobbiamo tradirli. (Vivissimi, generali applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15.30.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15.30:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ERRATA CORRIGE

Nel resoconto della seduta di venerdì 7 febbraio 1947 a pagina 1094, seconda colonna, riga 43, invece di «sulla decisione di rinvio» leggasi «sulla opportunità del rinvio».