Come nasce la Costituzione

GIOVEDÌ 5 DICEMBRE 1946 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

1.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 5 DICEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Patere giudiziarie (Discussione)

Presidente – Calamandrei, Relatore – Leone, Relatore – Bozzi – Targetti.

La seduta comincia alle 9.15.

CONTI invita la Sezione ad eleggere un Presidente e un Segretario.

(Vengono eletti: l’onorevole Conti quale Presidente e l’onorevole Ambrosini quale Segretario).

Discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE comunica che l’onorevole Patricolo, Relatore con gli onorevoli Calamandrei e Leone sull’oggetto all’ordine del giorno, ha delegato l’onorevole Castiglia a riferire per lui, essendo egli impossibilitato ad intervenire alla seduta.

CALAMANDREI, Relatore, premesso che le tre relazioni si riferiscono ai due argomenti del potere giudiziario e della Suprema Corte costituzionale, ritiene opportuno riferire prima sul potere giudiziario.

Avverte innanzi tutto che in questa materia una Commissione di magistrati della Cassazione, nominata dal Ministro della giustizia, ha elaborato un progetto che sarà utile tenere presente nel corso della discussione.

Dichiara che nella sua relazione ha preferito formulare senz’altro una serie di articoli, allo scopo di facilitare la discussione. Negli articoli proposti vi sono tuttavia alcuni punti dubbi, per i quali si prospettano varie soluzioni che i colleghi dovranno prendere in esame. Inoltre taluni articoli potranno forse trovare più opportuna collocazione nella parte riguardante i diritti dei cittadini ed altri potranno essere meglio formulati od anche soppressi. Tuttavia, dato che nella Costituzione devono essere fissati i principî fondamentali della legge sull’ordinamento giudiziario, ha ritenuto necessario, per una più esatta comprensione di quella che dovrà essere la struttura dell’ordinamento stesso, abbondare in norme concrete, pur riconoscendo che molte di esse di fatto non potranno essere accolte nella Costituzione.

Ciò premesso, fa presente che i 26 articoli da lui formulati possono ripartirsi in tre gruppi. Nel primo (articoli 1 all’11) sono comprese le norme sui principî generali e sulla natura giuridica e politica del potere giudiziario e sui rapporti fra esso e gli altri poteri, nonché quelle sui diritti dei cittadini nei confronti del potere stesso. Gli articoli riproducono in sostanza, forse con una formulazione più precisa, taluni principî già compresi nello Statuto Albertino, e non dovrebbero di conseguenza dar luogo a gravi dissensi. Richiama tuttavia l’attenzione dei colleghi sugli articoli 1 e 2 che, nel definire il principio fondamentale della statualità della giurisdizione, contengono un accenno al potere di controllo che potrà riconoscersi al magistrato in materia di costituzionalità della legge che egli deve interpretare ed applicare.

Fa inoltre notare che l’articolo 9, riguardante la irretroattività della legge penale e l’abolizione della pena di morte, dovrà probabilmente trovar posto in altra parte della Costituzione, e cioè in quella riguardante i diritti dei cittadini. Gli articoli 10 e 11 contengono invece due disposizioni nuove per il nostro diritto: il risarcimento alle vittime degli errori giudiziari o per delitti commessi da funzionari dell’ordine giudiziario e l’abolizione di ogni restrizione, motivata da ragioni fiscali, nei riguardi della produzione in giudizio di documenti e scritture a scopo probatorio.

Rileva inoltre che dissensi potranno sorgere sul capoverso dell’articolo 4, concernente la conservazione degli istituti di grazia, amnistia e indulto e sulla questione dell’organo a cui i relativi poteri dovranno essere affidati. Altre disposizioni di particolare importanza sono quelle contenute nell’articolo 2 (capoverso) e nell’articolo 8, che si riconnettono al delicatissimo problema del raccordo fra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato. Il secondo gruppo di articoli (dal 12 al 15) affronta e risolve il fondamentale problema della unicità della giurisdizione. Per quanto spetti alla legge sull’ordinamento giudiziario di stabilire quali e quanti debbano essere gli organi giudiziari e come costituiti, è tuttavia necessario che nella Costituzione siano fissati i principî fondamentali. L’articolo 5, facente parte del primo gruppo di articoli esaminati, contiene il divieto di creare tribunali straordinari per giudicare su fatti già avvenuti: il primo comma dell’articolo 12 elimina le giurisdizioni speciali, le quali non sono giudici straordinari, ma giudici che, costituiti per una serie di giudizi che si prevedono come possibili nel futuro, sono tuttavia diversi dai giudici ordinari. Solo questi ultimi dovranno essere mantenuti.

Nel secondo comma dello stesso articolo 12 si sancisce l’unicità della Cassazione, questione di particolare importanza in quanto la pluralità delle Cassazioni è un mostruoso controsenso. Ricorda in proposito che la Cassazione, come è sorta in Francia e come funziona in tutti gli Stati che l’hanno adottata, è un organo istituito per mantenere l’unità dell’interpretazione giurisprudenziale, e cioè del diritto. Rappresenta quindi un grande progresso la legge del 1924 che abolì le Cassazioni regionali e le unificò. L’unità della Cassazione, posta al vertice dello Stato, deve essere soprattutto mantenuta in un ordinamento costituzionale basato sulla autonomia regionale, come sarà quello italiano, perché sarà essa che, dando un’interpretazione uniforme a quella legge comune che è il codice di tutto lo Stato, permetterà di contenere in un’unica forma giuridica le varie tendenze al decentramento giurisprudenziale, che potrebbero essere perniciose per l’unità del diritto.

Rilevando che l’articolo 13 tratta del divieto di istituire organi speciali di giurisdizione e dell’abolizione di quelli preesistenti, ritiene che tutti siano d’accordo sul divieto di istituire nell’avvenire nuove giurisdizioni speciali. Tuttavia la difficoltà consiste, nella pratica, nel sopprimere soprattutto quelle che sono sorte nel passato e che hanno acquistato, per il loro egregio funzionamento, benemerenze di carattere storico, onde non ci si può sottrarre ad una certa esitazione nell’invocarne l’abolizione.

Ricorda in proposito che le giurisdizioni speciali sorsero per ragioni di carattere sociale e giuridico, delle quali si dovrebbe tener conto ove se ne decidesse l’abolizione. Una delle ragioni fondamentali fu la necessità di sottrarre determinate categorie di giudizi a procedure troppo lunghe e formalistiche. A questa prima difficoltà si potrebbe ovviare stabilendo per tutti i processi norme procedurali più rapide. Altra esigenza sorse dal fatto che in certe cause apparve necessario il concorso, agli effetti della decisione, di elementi aventi speciale competenza tecnica in determinate materie. Tale esigenza potrebbe essere soddisfatta con il sistema, già adottato in alcuni casi, della creazione di sezioni specializzate degli organi ordinari, nelle quali, sotto la presidenza e a fianco dei magistrati, intervenisse anche un certo numero di esperti.

Ammessa quindi la possibilità di abolire le giurisdizioni speciali, resta da vedere se, tra quelle attualmente esistenti, ve ne siano alcune che debbano o meno essere mantenute. Pur avendo nella relazione posto dei punti interrogativi circa alcune eccezioni al divieto (Corte dei conti, Contenzioso tributario, Tribunali militari), egli è per la soluzione più rigorosa, e cioè per l’abolizione generale di tulle le giurisdizioni speciali. Dichiara, ad ogni modo, di essere favorevole alla soppressione delle sezioni giurisdizionali speciali del Consiglio di Stato, pur riconoscendo che quest’organo ha dato, anche nel periodo fascista, innegabili prove di fermezza, di indipendenza e di attaccamento agli elevati e delicati suoi compiti.

A suo avviso il Consiglio di Stato dovrebbe rimanere soltanto quale organo consultivo. I consiglieri di Stato diverrebbero consiglieri di cassazione ed anche nelle Corti d’appello potrebbero, per le cause tra cittadini e pubblica amministrazione, crearsi delle sezioni specializzate, i cui membri sarebbero scelti tra i consiglieri di Stato delle sezioni consultive, da trasferire nell’ordine giudiziario. A tali concetti si ispira l’articolo 20 del progetto da lui presentato.

Per quel che riguarda la Corte dei conti essa dovrebbe, a suo avviso, sussistere soltanto come organo di controllo contabile. Si dovrebbero inoltre coordinare le Commissioni delle controversie in materia tributaria con gli organi giudiziari ordinari.

Così i Tribunali militari potrebbero esser soppressi o almeno se ne potrebbe limitare il funzionamento al solo periodo di guerra.

Dichiara di essere fautore di misure così assolute, in quanto gli inconvenienti che oggi si verificano per la distinzione tra giurisdizione su diritti e giurisdizione su interessi, tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità, e di conseguenza la difficoltà di trovare un giudice per ogni categoria di cause, dimostrano come sia giunto il momento di riunire i due aspetti della stessa funzione giurisdizionale e di affidarli ad un magistrato unico, che altro non può essere se non il giudice ordinario.

Passando agli articoli 14 e 15 osserva che essi regolano i rapporti fra il potere giudiziario e quello amministrativo. La materia era fino ad ora disciplinata dalla legge del 1865, che abolì i Tribunali del Contenzioso amministrativo, stabilendo che, in tutti i casi di dissidio tra cittadini e pubbliche amministrazioni per questioni di diritto soggettivo, dovevano essere giudici i Tribunali ordinari; e ciò rappresentò invero una tappa fondamentale nella vita costituzionale italiana. Ma, oltre a tali conflitti, potevano sorgere, fra privali e pubbliche amministrazioni, anche questioni di legittimità, per le quali furono appunto create le giurisdizioni speciali del Consiglio di Stato, che da organo affiancato alle pubbliche amministrazioni, a poco a poco si trasformò in un varo giudice indipendente. Egli è personalmente d’avviso di far rientrare questa materia nella competenza del giudice ordinario.

Ricorda inoltre che nei rapporti tra pubblica amministrazione e giurisdizione si presentano molte questioni da prendere in esame: così quelle relative al potere del giudice di modificare od annullare gli atti amministrativi e le restrizioni di carattere amministrativo opposte in certi casi al diritto del cittadino di adire le vie giudiziarie (come il principio del solve et repete in materia tributaria, di cui propone l’abolizione, ed i casi frequentemente verificatisi in periodo fascista del divieto di impugnabilità, in via amministrativa ed in via giurisdizionale, di provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione).

BOZZI rileva che tale sistema non è caduto neppure oggi in disuso, e cita ad esempio il caso della legge sull’assegnazione delle terre incolte.

CALAMANDREI, Relatore, circa il terzo gruppo di articoli (dal 16 al 26), rileva che in essi è affrontato il fondamentale problema dell’autogoverno della magistratura. A suo avviso, per attuare una vera indipendenza funzionale del giudice non basta l’articolo 2 del suo progetto, in cui e affermato che «i giudici, nell’esercizio delle loro funzioni, dipendono soltanto dalla legge che essi applicano secondo la loro coscienza». L’articolo 16 determina, nelle linee generali, i limiti della sostanziale riforma, laddove l’articolo 17 precisa quali sono gli organi amministrativi della magistratura, soggiungendo (nel seconda comma) che «il Consiglio superiore della magistratura è coadiuvato nell’esercizio delle sue funzioni da apposito personale amministrativo compreso in un ruolo speciale, del quale non possono essere chiamati a far parte né i magistrati né gli altri funzionari appartenenti all’ordine giudiziario». Questa ultima disposizione è diretta ad eliminare il cosiddetto e tanto deplorato «imboscamento dei magistrati» negli uffici del Ministero.

L’autogoverno della magistratura si esplica – secondo l’articolo 16 – nel potere attribuito ad essa di compiere tutti gli atti amministrativi che attengono allo stato giuridico degli appartenenti all’ordine giudiziario, nell’esercizio della giurisdizione disciplinare nei loro riguardi, nonché nella deliberazione delle spese per il funzionamento della giustizia. In concreto, l’articolo 18 detta le norme sulla disciplina della magistratura e l’articolo 20 quello sul reclutamento dei magistrati.

Osserva in proposito che forse più nessuno oggi propugna il sistema elettivo dei magistrati che, o non ha dato buoni risultati, o si è trasformato (come è accaduto in Svizzera) in una conferma sistematica dei magistrati eletti la prima volta. D’altra parte l’elezione dei magistrati rappresenta un metodo logico e coerente ove non esiste il sistema della legalità, laddove cioè il diritto non è formulato e cristallizzato in leggi, ma vige il sistema del diritto libero. Ma nei Paesi europei (compresa oggi anche la Russia, che pure aveva adottato nel periodo rivoluzionario il criterio della formulazione giudiziaria del diritto) dove sussiste il principio della legalità, per cui la politica si trasforma in diritto attraverso gli organi legislativi e i giudici debbono limitarsi all’applicazione della legge, il metodo elettivo sarebbe a suo avviso un controsenso. E ciò anche per i gradi inferiori della magistratura (pretori e conciliatori) nei cui riguardi non mancano fautori del sistema elettivo.

Ritiene egli fermamente che il sistema migliore per la nomina dei giudici sia quello, oggi in vigore, del concorso, in quanto solo il concorso può accertare i requisiti tecnici e culturali indispensabili per il migliore espletamento delle funzioni giudiziarie. E dovrà essere la magistratura la sola competente a bandire tali concorsi, a nominare le Commissioni esaminatrici (in cui potrebbero essere inclusi anche dei professori universitari), ad accertare l’idoneità dei candidati e a formare la graduatoria dei vincitori. Infine, per conferire alla nomina un carattere di solennità, essa dovrebbe avvenire con decreto del Capo dello Stato.

Avverte che nel primo comma dell’articolo 20 è previsto anche il caso di ammissione delle donne ai concorsi, ma soggiunge che la magistratura, la quale ha avuto conoscenza del suo progetto, approvandolo in quasi tutte le parti, si è dichiarata nettamente contraria a tale disposizione. Lo stesso articolo 20 prevede la possibilità di concorsi per l’ammissione a certi speciali uffici dell’amministrazione della giustizia, per cui sia necessaria una competenza approfondita su determinate materie tecniche. Dichiara inoltre che i magistrati sono nominati a vita, salvo i limiti di età fissati dalla legge. In altra parte dell’articolo 20 è considerata infine l’eventualità di nomine eccezionali di magistrati senza concorso, di magistrati temporanei e di magistrati onorari.

L’articolo 21 riguarda le Corti d’assise e i giudici popolari, argomento del quale dovrà occuparsi quanto prima l’Assemblea Costituente, esaminando un apposito disegno di legge sottopostole dal Governo.

L’articolo 22 affronta l’importante problema delle promozioni dei magistrati, argomento quanto delicato, in quanto è strettamente connesso con quello dell’indipendenza della magistratura. Soprattutto in questo campo, infatti, possono esercitarsi illecite inframmettenze, dalle quali occorre mettere al riparo chi amministra la giustizia. È noto che il magistrato italiano, malgrado le difficili condizioni economiche in cui si dibatte è, per lo più, incorruttibile; ma non è da escludersi il timore che coloro che sono prossimi alla promozione o al trasferimento, nelle loro sentenze si lascino guidare, più che da un rigoroso senso dì giustizia, dal desiderio di procacciarsi dei titoli. Né è da trascurare che la pressione politica sul magistrato, specie nelle cause civili, può sussistere in modo rilevante; e spesso la carriera dei magistrati può dipendere da orientamenti ed influenze di organi politici. È indispensabile pertanto che la materia degli avanzamenti e dei trasferimenti sia di esclusiva competenza degli stessi organi dell’amministrazione della giustizia, in modo che i magistrati non abbiano nulla da temere o da sperare dagli uomini di Governo o da esponenti di partiti politici.

Ma, a suo avviso, bisognerebbe andare oltre, e riformare completamente la carriera giudiziaria, in quanto, anche affidando agli organi della magistratura le promozioni, il problema delle basse retribuzioni o il desiderio dell’avanzamento non impedirebbero il verificarsi, nell’interno della magistratura stessa, di quelle pressioni che si riscontrano oggi al di fuori di essa. Bisognerebbe pertanto stabilire che ai magistrati, una volta entrati nell’amministrazione della giustizia, dopo un periodo di tirocinio anche più lungo dell’attuale, fosse attribuita una determinata retribuzione, suscettibile di periodici aumenti in relazione all’anzianità, e indipendentemente dalle funzioni esercitate. Per assegnazione dei magistrati ai vari uffici giudiziari, direttivi e speciali, si potrebbe eventualmente ricorrere ad elezioni interne. Per i gradi più elevati, e specie per la Corte di cassazione, le nomine avverrebbero per cooptazione, mentre negli altri casi passaggio dalle Preture ai Tribunali e dai Tribunali alle Corti d’appello le promozioni avverrebbero attraverso scrutini di merito, fondendo insieme i criteri dell’anzianità e del merito, in base al principio che ai posti vacanti possano concorrere magistrati delle Preture o dei Tribunali che abbiano una determinata anzianità.

Richiama l’attenzione sul fatto che nell’articolo 23 viene solamente riaffermato il vecchio e tradizionale principio della inamovibilità, disciplinandolo tuttavia con norme che valgano a renderne l’applicazione più operante e rigorosa.

Passando quindi ad esaminare quello che, a suo avviso, è il punto più delicato di tutta la materia, e cioè i rapporti fra la magistratura e il Governo, rileva che, con le norme previste, si avrebbe un corpo di magistrati completamente indipendente, il quale deciderebbe delle nomine, provvederebbe alla designazione ai vari uffici, autoeserciterebbe la disciplina e delibererebbe delle spese. Con una magistratura così chiusa e appartata, si potrebbero verificare conflitti con il potere legislativo o con quello esecutivo, in quanto la magistratura potrebbe, per esempio, rifiutarsi all’applicazione di una legge o attribuirsi il potere di stabilire criteri generali di interpretazione delle leggi. Un caso del genere si verificò in Francia prima della Rivoluzione e il conflitto si trascinò a lungo tra il Governo centrale del monarca e le Corti di appello.

S’impone pertanto la ricerca di un rimedio, per il quale possono aversi tre sistemi. Il primo è di lasciare le cose allo stato attuale e con un Ministro della giustizia che risponda politicamente al Governo e alle Camere del buon funzionamento della giustizia. Rileva però che in tal caso, dovendosi attribuire al Ministro Guardasigilli determinati poteri, verrebbe meno l’assoluta indipendenza della Magistratura, la quale continuerebbe ad essere controllata da un organo politico, per il tramite del Pubblico Ministero. Il secondo sistema è di ricorrere ad una rigorosa separazione tra il potere giudiziario e quelli legislativo-esecutivo, senza alcun orbano di collegamento e con il primo Presidente della Corte di cassazione capo assoluto della magistratura. Ma anche così non si eliminerebbero tutti i pericoli, in quanto potrebbe sempre avvenire in astratto che il primo Presidente della Cassazione, unendosi agli altri magistrati, decidesse di rifiutarsi all’applicazione di una legge. Rimane allora un terzo sistema, intermedio, da lui proposto nel suo progetto, ma per il quale dichiara di avere egli stesso dei dubbi, consistente nella creazione di un «Procuratore generale commissario della giustizia» rappresentante l’organo di collegamento tra Magistratura e Governo. Tale commissario avrebbe in parte la figura del magistrato, in quanto sarebbe scelto tra i Procuratori generali della Corte d’appello o di Cassazione, e in parte quella di rappresentante politico, in quanto sarebbe nominato dal Presidente della Repubblica su designazione della Camera, prenderebbe parte alle sedute del Consiglio dei Ministri con voto consultivo e risponderebbe di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura. Di modo che, essendo tale Commissario il capo dell’organo di accusa, con potere disciplinare sui magistrati, ove si verificassero nell’interno del corpo giudiziario inconvenienti di carattere politico, a lui potrebbe far carico di non aver saputo esercitare le sue funzioni. Qualche cosa di simile si ha nell’ordinamento inglese, con qualche differenziazione che potrebbe essere indicata, ove l’argomento dovesse essere approfondito.

Ritiene che rispetto agli inconvenienti che le altre due soluzioni indubbiamente presentano, questa terza possa essere presa in considerazione, anche perché, personalmente, non è del tutto favorevole a concedere alla Magistratura il massimo dell’indipendenza. In un momento particolarmente delicato come l’attuale, in un regime che, essendo sorto da poco e dovendo consolidarsi in un certo numero di anni, ha bisogno della assoluta fedeltà di tutti i suoi organi, potrebbe essere pericoloso riconoscere alla Magistratura un’autonomia assoluta, quando sulla fedeltà del corpo giudiziario alla Repubblica possono ancora nutrirsi dei dubbi.

Conclude rilevando che l’ultimo argomento su cui ritiene necessario richiamare l’attenzione dei colleghi è quello prospettato nell’articolo 24, e cioè l’iscrizione dei magistrati a partiti politici. La questione è fra le più discusse anche in seno alla stessa Magistratura. Mentre non mancano le ragioni che farebbero propendere per concedere una tale possibilità ai magistrati, in quanto cittadini come tutti gli altri e come tali aventi diritto ad avere opinioni politiche, specie nel nostro Paese in cui il voto politico è obbligatorio, ne esistono in contrario validissime altre che sconsiglierebbero tale concessione. La giustizia deve dare ai giudicabili un senso di assoluta tranquillità; ed essa non potrà esistere invece in chi, appartenendo ad un partito politico, si troverà, specie nei centri minori, di fronte ad un giudice iscritto a un partito diverso. Inoltre, in un ordinamento come il nostro, in cui la politica deve sfociare negli organi legislativi, che sono incaricati di trasformarla in diritto, il diritto stesso, quando viene affidato al magistrato per la sua applicazione, deve essere da lui visto solamente come tale e non come era prima di divenirlo, quando cioè era ancora politica. Per tali considerazioni egli si dichiara perplesso ed incerto fra le due soluzioni.

PRESIDENTE ringrazia l’onorevole Calamandrei della sua esauriente esposizione ed invita l’onorevole Leone ad illustrare la sua relazione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, dopo aver rilevato che su alcuni punti delle tre relazioni vi è accordo perfetto e dopo aver dichiarato di confermare quanto sui vari problemi ha già esposto nella sua relazione a stampa, soggiunge che risponderà brevemente all’onorevole Calamandrei, seguendo l’ordine degli articoli da lui proposti.

In linea di massima dichiara di consentire nelle proposte contenute nel primo gruppo di articoli (dall’l all’11), riservandosi di fare qualche osservazione particolare quando essi verranno in discussione. Desidera tuttavia soffermarsi brevemente sulla irrevocabilità del giudicato, considerata all’articolo 4, riconoscendo la necessità che essa sia fissata con una norma costituzionale. Rileva per altro l’opportunità che nel primo comma sia inclusa l’ipotesi, già contemplata nel Codice vigente, della legge abrogativa in materia penale.

Nei riguardi del secondo comma, mentre ritiene che debba essere conservato l’istituto della grazia come potere del Capo dello Stato, sostiene la necessità dell’abolizione dell’amnistia. Indipendentemente dalla concezione attuale, secondo la quale l’amnistia appare come un’elargizione che, in speciali circostanze fauste od infauste per il Paese, viene concessa dal Capo dello Stato (por cui, in caso di conservazione dell’istituto, è del parere che il potere di amnistia debba essere attribuito al legislativo), osserva che non convince, né sul piano politico né su quello strettamente giuridico, che in un certo momento lo Stato (potere esecutivo o legislativo: il problema sotto questo aspetto non muta) possa togliere carattere di reato ad un fatto che nel momento in cui fu commesso tale carattere rivestiva.

Un solo motivo può giustificare tale intervento dello Stato; ed è la considerazione di situazioni nelle quali un fatto – per intervento di nuove condizioni o di nuove visioni politico-criminali, o per nuova interpretazione delle condizioni che legittimarono la qualificazione di un fatto come reato – non presenti più le caratteristiche del reato (cioè le caratteristiche dell’antisocialità). Ma a queste situazioni corrisponde una ben altra forma di disciplina giuridica: la legge abrogativa, la quale, secondo il Codice vigente (perfettamente aderente in questo punto alla tradizione) investe perfino il giudicato, producendo pertanto un effetto perfettamente identico (se anche non più largo) all’amnistia.

Eccettuato tale caso, l’amnistia non può esprimere altra esigenze che quella di rinunzia, da parte dello Stato, al suo diritto all’esecuzione della pena (i fini sono indifferenti: pacificazione del Paese, difficoltà di giudicare una massa di reati germinata da un particolare terreno politico o sociale, esaltazione di un evento fausto o perdono in seguito ad un evento infausto). Orbene, a tale esigenza corrisponde in maniera perfetta l’istituto dell’indulto, che estingue la pena (rinunzia dello Stato alla pena) e non il reato.

A suo avviso, lo Stato – e più precisamente ciascuno dei poteri in cui la sovranità statale si snoda – non può togliere ex post ad un fatto il carattere di reato (tranne nell’ipotesi esaminata della legge abrogativa); ma può rinunziare solo alla pena.

Ciò indipendentemente dalle non facilmente regolabili questioni applicative, tra cui in particolare segnala quella della rinunziabilità o meno dell’amnistia, riuscendo egualmente insoddisfacenti la soluzione positiva o quella negativa.

A proposito del diritto al risarcimento dei danni per errori giudiziari o per delitti commessi da funzionari giudiziari, di cui si occupa l’articolo 10 delle proposte Calamandrei, è egli pure dell’avviso che il principio debba trovar posto nella Costituzione.

Circa il secondo gruppo di articoli (dal 12 al 15), dichiara di condividere il pensiero dell’onorevole Calamandrei e dell’onorevole Patricolo sulla unità della giurisdizione. Innanzi tullo, il frazionamento potrebbe prestarsi a pressioni di carattere politico e a sollecitazioni di carattere extragiudiziario. In secondo luogo, la pluralità delle giurisdizioni crea per il cittadino incertezze nei riguardi dei suoi giudici. Concorda anche sull’abolizione delle giurisdizioni straordinarie speciali precostituite per determinati conflitti giudiziari in rapporto alle persone e alle materie. Tuttavia, se talune di esse dovessero essere mantenute, propenderebbe per la conservazione del Consiglio di Stato, che ha reso ottimi servigi, e della Corte dei conti.

È favorevole alla soppressione dei Tribunali militari che, a suo avviso, potevano trovare una giustificazione quando il Paese aveva una imponente organizzazione militare, non oggi invece, date le modeste proporzioni a cui il nostro esercito dovrà essere ridotto. A parte le difficoltà derivanti dalla ampiezza della giurisdizione dei Tribunali militari, destinate ad accrescersi con la riduzione dell’esercito (ampiezza destinata a sacrificare il necessario contatto tra giudice e parte), osserva che la giustizia militare è composta tutta di elementi militari, a partire dal Presidente, i quali non offrono certo i necessari requisiti di competenza tecnica giuridica. L’esistenza di un Codice penale militare non comporta di conseguenza la necessità di un giudice speciale; e se la giurisdizione militare poté giustificarsi in passato come una conquista della casta militare per poter amministrare la giustizia nei confronti dei propri elementi, non ha più ragione d’essere in uno Stato democratico, nel quale tutti i cittadini debbono avere un’unica giurisdizione. Ritiene piuttosto che si potrebbero creare, nella giurisdizione comune, delle sezioni speciali in cui i militari, intervenendo come componenti del collegio, porterebbero il loro contributo tecnico.

In proposito richiama l’attenzione su una questione di particolare gravità, e cioè sul fatto che nei giudizi avanti il Tribunale militare recentemente istituito per i delitti di rapina e di estorsione, non è ammesso alcun diritto di impugnativa. Pur riconoscendo la gravità dei suddetti reali, ritiene inammissibile che mentre per il delitto di ingiuria esistono in Italia tre gradi di giurisdizione, per il delitto di rapina, che può comportare la pena di morte, non sia possibile impugnare la sentenza neanche per difetto di giurisdizione. Per ovviare a tanta enormità, propone l’introduzione di una nonna transitoria che sancisca, con effetto retroattivo, il diritto di impugnativa nelle giurisdizioni speciali straordinarie, almeno presso la Corte di cassazione.

A proposito delle Corti di assise, delle quali si vorrebbe, da parte del Governo, affrettare il ripristino, osserva che, essendo la materia tipicamente costituzionale, ed essendo la Costituzione in via di elaborazione, ogni decisione al riguardo da parte del Governo sarebbe contraria alla legge che regola i rapporti tra l’Assemblea Costituente e il Governo. Propone ad ogni modo per l’inquadramento unitario della Costituzione che il Presidente della Sezione chieda in Assemblea plenaria la sospensione della discussione su questa particolare materia.

BOZZI fa osservare che l’Assemblea plenaria della Costituente, quando sarà chiamata a procedere all’esame dell’apposito progetto elaborato dal Governo, potrà decidere sulla questione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, non ritiene ammissibile discutere ed approvare separatamente leggi che sono frammenti della Costituzione.

TARGETTI crede che ciò non rientri nei compiti della Sottocommissione e che la questione possa essere sollevata soltanto in Assemblea plenaria.

PRESIDENTE suggerisce di trasmettere all’Assemblea plenaria un estratto del verbale della riunione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, dichiara comunque di essere contrario alla ricostituzione delle Corti d’assise, non ritenendo che debbano esistere giudici diversi a seconda della gravità del reato e della misura della pena.

Concorda sull’articolo 15, essendo convinto che sia necessario fissare in una norma costituzionale che lo Stato non può sottoporre ad alcuna condizione l’esperimento di qualsiasi azione giudiziaria. Si dichiara invece perplesso nei riguardi delle proposte dell’onorevole Calamandrei circa la soggezione della pubblica amministrazione alla giurisdizione ordinaria, in quanto il problema è connesso a quello delle giurisdizioni amministrative.

Per quanto riguarda l’ultimo gruppo di articoli (dal 16 al 20), è d’accordo sul problema dell’autogoverno della magistratura, ritenendo che sia nei desideri di tutti avere un potere giudiziario realmente indipendente. Concorda anche nel rivendicare alla Magistratura le nomine e le promozioni dei giudici, la giurisdizione disciplinare e l’organizzazione amministrativa. Sull’abolizione della distinzione dei magistrati secondo criteri gerarchici, alla quale è favorevole, si richiama a quanto ha osservato nella sua relazione circa la necessità di questa essenziale riforma. L’ordinamento giudiziario del 1941 parlava di gradi della magistratura. Questa nomenclatura rispecchiava una visione gerarchica, che è incompatibile con l’essenza della funzione del potere giudiziario. La diversità di sfera giurisdizionale non può identificarsi con la diversità di potere. È canone universalmente accettato dalla dottrina quello dell’unità della giurisdizione: potere giudiziario in senso pieno ed assoluto è quello del conciliatore, come quello della Corte di cassazione. Da ciò discende il ripudio del concetto gerarchico del potere giudiziario e la conseguente esclusione di una ripartizione per gradi. In conformità a tale principio, conviene introdurre una visione nuova del potere giudiziario, che va pertanto distinto in organi e non in gradi. Fa osservare che con ciò si tende soprattutto a realizzare l’indipendenza da qualsiasi forza estranea al potere giudiziario per quanto attiene all’organizzazione delle promozioni e ad attuare lo sganciamento del corpo giudiziario dalla gerarchia degli altri impiegati dello Stato. Si è infatti sempre temuto il fenomeno che i funzionari statali possano basare le loro, sia pur giuste, rivendicazioni sul trattamento economico della Magistratura. Concedendo l’autogoverno finanziario al potere giudiziario, ciò non si verificherebbe più, in quanto vi sarebbero soltanto degli organi del potere giudiziario con funzioni diverse.

Dichiara inoltre di essere contrario alla elettività delle magistrature inferiori dato che il giudice delle cause di scarsa importanza è di norma un giudice prevalentemente locale e come tale il più suscettibile di influenze e pressioni. In più, è necessario che questo giudice sia un tecnico, di carriera. La giurisdizione equitativa è più delicata delle altre, in quanto consente di spaziare in una sfera di potere discrezionale che presuppone una maggiore coscienza giuridica e un alto senso di responsabilità; requisiti quelli che difficilmente possono trovarsi nei giudici elettivi. Dichiara inoltre di essere contrario alla magistratura onoraria, sia pure di grado inferiore, e di ritenere preferibile avere dei giudici conciliatori di carriera, pur riconoscendo che ciò comporterebbe un aggravio finanziario per lo Stato; preferibile anche perché ciò potrebbe contribuire alla risoluzione del problema della disoccupazione dei laureati in discipline giuridiche.

Passando ad esaminare il problema del collegamento fra potere giudiziario e Governo, osserva che con nessuno dei congegni prospettati dall’onorevole Calamandrei si elimina il pericolo che la Magistratura possa trovarsi in concilio con gli altri poteri. Nel suo progetto (art. 8), sganciata la Magistratura giudicante dal Ministro Guardasigilli, si prospetta l’ipotesi del Primo Presidente della Corte di cassazione che esercita l’alta sorveglianza su tutti gli uffici giudiziari e sugli organi giudicanti. Ritiene che questo potrebbe essere il sistema migliore, in quanto verrebbe a scindere completamente il potere giudiziario da quello esecutivo. Il congegno proposto dall’onorevole Calamandrei non è in realtà molto diverso dal suo. Il punto di disaccordo riguarda il Pubblico Ministero, che nelle sue proposte assumerebbe il netto carattere di organo del potere esecutivo. Il Pubblico Ministero rappresenta, per quanto attiene alla sua funzione di promuovere l’azione penale e di vigilanza nel processo, lo Stato nel suo diritto soggettivo di punire, con poteri che sono talvolta superiori a quelli dello stesso giudice. È quindi difficile precisarne la natura perché, ove si considerino prevalentemente le sue funzioni giudiziarie, egli appare organo del potere giudiziario; mentre, se si riguardano i suoi poteri concernenti l’iniziativa nel processo penale e la direzione della polizia giudiziaria, appare come organo di quello esecutivo. A suo avviso è indispensabile creare un maggiore e più diretto contatto fra il Pubblico Ministero e la polizia, la quale deve essere alle sue dirette dipendenze, agli effetti delle indagini che egli deve promuovere. Occorre cioè conservare al Pubblico Ministero la tipica funzione di dominus, ossia di promotore della azione penale. In tal modo, dal punto di vista giuridico-penale, sarà ricondotto il Pubblico Ministero entro i suoi propri limiti, o si preciserà di più la sua funzione di organo del potere esecutivo in quanto, nella notitia criminis o nell’accusa, egli rappresenterà lo Stato.

Concludendo sull’argomento, fa presente che la preoccupazione, condivisa anche da molti magistrati, è certo quella di rendere costoro indipendenti, ma non assolutamente distaccati dalla vita dello Stato. Mentre il progetto dell’onorevole Patricolo tende a creare un distacco netto tra Magistratura e Governo, nel suo e in quello dell’onorevole Calamandrei vi è il tentativo di conciliare le due esigenze. A suo avviso è necessario affrontare con pieno senso di responsabilità tale grave problema, per non correre il rischio di dare al Paese un potere giudiziario che o non sia sufficientemente indipendente, come è invece da tutti auspicato, o lo sia a tal punto da restare avulso dalla vita della Nazione.

A su avviso, il Pubblico Ministero può servire proprio da tramite o organo di collegamento tra potere esecutivo e potere giudiziario: in quanto promotore dell’azione penale (e, nei limiti della funzione, partecipe allo sviluppo del processo) e in quanto promotore del procedimento disciplinare a carico di magistrati, il Pubblico Ministero che – com’è chiarito nella relazione scritta, tornerebbe ad essere espressione del potere esecutivo – rappresenta presso il potere giudiziario l’organo di iniziativa e di controllo dello Stato.

In conclusione, il sistema del Relatore si presenta organicamente così: potere giudiziario indipendente (autogoverno anche finanziario) con, al sommo dell’organizzazione, il Presidente della Corte di cassazione ed il Consiglio superiore; inclusione in tale Consiglio anche di elementi eletti dalle due Camere, in modo da stabilire un primo punto di collegamento del potere giudiziario con gli altri poteri; Pubblico Ministero, privato di quelle attuali attribuzioni che lo accostano al potere giudiziario, in funzione di organo del potere esecutivo, come tale alle dipendenze del Ministro della giustizia, in modo da stabilire un secondo punto di collegamento con gli altri poteri.

È naturale che, se si accetta tale disciplina del Pubblico Ministero, pur ribadendo nella Costituzione il principio della legalità, pubblicità, ineluttabilità dell’azione penale, occorrerà esaminare l’ipotesi della mancata attivazione del processo penale. Per tale ipotesi – che nella relazione scritta è rimasta volutamente nell’ombra, per dar modo di approfondirla in caso di accettazione della natura di organo del potere esecutivo nel Pubblico Ministero – si profilano due soluzioni: o, mediante il ripudio del canone ne procedat judex ex officio, consentire al giudice, in caso di inerzia del Pubblico Ministero, di promuovere l’azione penale; ovvero rimandare alla disciplina della responsabilità dei funzionari dello Stato per la loro attività dolosa o colposa la soluzione del delicato problema.

Dichiara poi di condividere l’idea dell’onorevole Calamandrei di inserire nella Costituzione il divieto per i magistrati di appartenere a partiti politici, in quanto non basta che il giudice sia indipendente, ma occorre che tale egli sempre appaia. E ciò soprattutto in considerazione delle esigenze della cosiddetta disciplina di partito, che va rafforzandosi sempre più e che potrebbe talvolta mettere il magistrato nel più grave imbarazzo. Propone inoltre che analogo divieto sia stabilito per l’appartenenza ad associazioni segrete, le quali, dal punto di vista vincolativo, sono anche più rigide che non la disciplina di partito e che, nella maggior parte dei casi, hanno finalità politiche.

TARGETTI obietta che praticamente la proposta non è attuabile, trattandosi di organizzazioni segrete.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ritiene che sia sufficiente sancire il divieto ed affidarsi alla coscienza dei magistrati.

Sottopone infine all’attenzione dei colleghi gli articoli finali (16-21) del suo progetto, i quali, pur non concernendo materie di competenza della Sottocommissione, dovrebbero essere, a suo avviso, inseriti nella Costituzione. Si tratta di un complesso di norme che disciplinano le garanzie del cittadino di fronte al potere giudiziario. L’articolo 16 stabilisce che non vi debbono essere limiti all’esercizio del diritto del cittadino di agire in sede giudiziaria; l’articolo 17 fissa l’identità di giurisdizione per tutte le cause; l’articolo 18 sancisce l’obbligo della motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali; l’articolo 19 stabilisce la pubblicità dei procedimenti penali, mentre l’articolo 20 fissa il diritto delle parti all’assistenza di un difensore.

TARGETTI, riferendosi all’autonomia della Magistratura, rileva che l’onorevole Leone ha, nella sua relazione, accennato alla composizione di un Consiglio superiore, di cui alcuni membri dovrebbero essere eletti dalla Assemblea nazionale. Chiede all’onorevole Calamandrei come egli intenda la questione, dato che nella sua relazione non se ne parla.

CALAMANDREI, Relatore, riconoscendo che effettivamente si tratta di una lacuna, dichiara che, a suo avviso, il Consiglio dovrebbe essere composto esclusivamente di magistrati.

LEONE GIOVANNI, Relatore, precisa che nel suo progetto è prevista l’immissione nel Consiglio superiore di elementi politici in senso ampio, allo scopo di creare un maggior coordinamento tra i vari poteri.

La seduta termina alle 12.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Conti, Di Giovanni, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Intervenuto, in sostituzione dell’onorevole Patricolo, l’onorevole Castiglia.

Assenti: Bulloni, Farini, Porzio.