Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 21 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 21 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Gasparotto

Ghidini

Tosato

Corbino

Azzi

Fabbri

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Persico

Benvenuti

Meda

Fuschini

Codacci Pisanelli

Carpano Maglioli

Leone Giovanni

Moro

Rodi

Uberti

Nobile

Rubilli

Sullo

Arata

Mortati

Bettiol

Restivo

Russo Perez

De Vita

Romano

Nobili Tito Oro

Carboni Angelo

Dominedò

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Sansone

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Corbino

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, avendo l’onorevole Cairo rinunziato a far parte della Commissione speciale per l’esame delle leggi elettorali, ho chiamato a sostituirlo l’onorevole Morini.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Essendo stati svolti tutti gli emendamenti presentati all’articolo 75, il rappresentante del Comitato dei diciotto, onorevole Ghidini, risponderà a quanto è stato detto in merito al secondo comma dell’articolo 75, all’amnistia e all’indulto.

L’onorevole Ghidini ha facoltà di parlare.

GHIDINI. Onorevoli colleghi, il mio intervento è limitato al secondo comma dell’articolo 75, cioè all’amnistia ed all’indulto.

Io devo dire riassuntivamente le ragioni per le quali la Commissione ha elaborato la disposizione, devo controllare i dubbi che si sono manifestati durante la discussione e devo anche esaminare gli attacchi, piuttosto vivaci, che sono stati mossi.

So perfettamente che a tutti è nota la nozione giuridica dell’amnistia e dell’indulto. Un tempo si era pensato che l’amnistia e l’indulto fossero una prerogativa del potere sovrano. Avverto, prima di continuare, che non voglio qui fare una trattazione di carattere giuridico dei tema, ma soltanto una rapida esposizione e pochi accenni.

L’articolo 8 dello Statuto albertino disponeva che il Re concede la grazia e commuta le pene. L’uno e l’altro istituto sono profondamente diversi dall’amnistia e dall’indulto. L’articolo 6 chiariva la facoltà del Governo nel senso che non poteva sospendere l’osservanza delle leggi o dispensarne. Però, a seguito di una sentenza della Corte di cassazione, che parve a taluno un atto di cortigianeria, l’articolo 8 fu interpretato estensivamente, considerando l’amnistia e l’indulto come prerogativa sovrana, compresi nell’articolo stesso.

Ma successivamente, si può dire dal 1865, e comunque dal 1913, non c’è dubbio che è il potere legislativo titolare del diritto di amnistia ed indulto. Prima la prassi e poi la legge (ed i colleghi penalisti ricorderanno l’articolo 589 del Codice di procedura penale del 1913) ha disposto che l’amnistia è concessa con decreto reale su proposta del Ministro di grazia e giustizia sentito il Consiglio dei Ministri. Il che esclude che si tratti di un motu proprio. Quindi oggi indubbiamente per consentimento comune, anche della giurisprudenza e della dottrina, l’amnistia e l’indulto sono un atto del potere legislativo. Il decreto che li concede rappresenta un atto di delegazione della funzione legislativa. Ma, ripeto, il titolare del diritto è sempre il potere legislativo, e quindi si tratterà solo di vedere come lo debba esercitare. Il diritto può essere esercitato nei diversi modi che sono affiorati nella discussione di questi due giorni e negli emendamenti che furono presentati. Si tratta, quindi, di vedere quale è la soluzione migliore. La Commissione ha adottato la seguente: «l’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale».

Sulla tesi della Commissione si è svolta in questi giorni una critica aspra da parte di molti colleghi, che prendo rapidamente in esame attraverso gli emendamenti proposti. Il primo chiede che l’amnistia e l’indulto siano deliberati dalle due Camere. È l’emendamento dell’onorevole Persico al quale si è associato l’onorevole Carpano. L’emendamento rispetta il principio accolto dalla Commissione, che cioè la deliberazione dei due provvedimenti è affidata direttamente al potere legislativo, rappresentato dalle due Camere. Però le due Camere devono agire separatamente; questo è il concetto. Concetto che la Commissione respinge, in vista dei gravi inconvenienti che nascerebbero dall’attuazione di una tale proposta. Un inconveniente è stato accennato dall’onorevole Persico, che cioè, nell’attesa fra la deliberazione di una Camera e la deliberazione dell’altra, si determini una speranza così fondata da costituire un incitamento a delinquere. Ciò sarebbe tanto più facile, in quanto si tratterebbe di quella delinquenza piccola e media, nella quale la controspinta della pena è, generalmente, meno efficace. Ma a questo inconveniente si può portare rimedio disponendo che l’applicazione dell’amnistia e dell’indulto debba riguardare soltanto reati commessi in epoca antecedente alla presentazione del progetto. L’inconveniente può quindi essere facilmente rimosso.

L’inconveniente più grave e non rimediabile è un altro. È inevitabile che ci debba essere un lasso di tempo tra la decisione della Camera dei deputati e la decisione del Senato: non è possibile che le due decisioni siano prese simultaneamente. È inevitabile un certo distacco, anche per la natura del Senato, che esercita un controllo sopra l’attività legislativa della Camera, e anche per ragioni di indole materiale. Non è possibile che le due decisioni avvengano contemporaneamente. Vi sarà, quindi, sempre un intervallo di tempo, più o meno lungo a seconda della fretta o della diligenza di coloro che saranno chiamati a formare l’uno e l’altro ramo del Parlamento. Durante questo intervallo, che possiamo chiamare il «tempo di nessuno» cosa accadrà? È inutile negarlo: quello che accadrà (mi pare che lo abbia accennato anche l’onorevole Leone) sarà la paralisi nella giustizia. La giustizia si fermerà; non vi sarà tribunale, giudice istruttore, ecc., che, di fronte alla decisione già presa da una delle due Camere, non reputi conveniente l’attendere l’altra decisione. E questa potrà tardare due mesi, un mese, 15 giorni, secondo la fretta, la diligenza e le possibilità. Durante questo periodo l’attività della giustizia si arresterà, inevitabilmente. Nessuno può negare la gravità di un tale evento.

Un procuratore della Repubblica che debba emettere un ordine di cattura e sa che oggi vi è già una decisione di amnistia e che fra 15 giorni o un mese verrà la decisione definitiva, che cancellerà quel fatto dal novero dei reati, si asterrà dallo spedire l’ordine di cattura.

Voi opporrete che il tempo che intercederà fra l’una e l’altra decisione sarà breve. Me lo auguro, ma non ci credo. Ma c’è di più. Non sempre accadrà che la deliberazione del Senato sia in ogni parte conforme a quella della Camera dei deputati. Le due decisioni potranno essere difformi, e allora ci troveremmo di fronte o ad un conflitto negativo – se il Senato respingerà la proposta – o ad un conflitto parzialmente positivo, se il Senato dovesse in parte approvare e in parte modificare taluna delle disposizioni relative alla amnistia o all’indulto. E allora, mi domando, come questo conflitto sarà risolto? E quanto potrà durare?

In sostanza, non è assolutamente negabile che l’inconveniente sia estremamente grave; inconveniente che si traduce appunto nella cosiddetta incertezza del diritto, la quale è fonte di una quantità di guai per la giustizia; per quella giustizia che, per essere seria ed efficace, ha bisogno di immediatezza o quanto meno dì celerità.

Quindi sarebbe desiderabile che la decisione fosse unica. Ma perché la decisione sia unica, unica deve essere l’Assemblea e, quindi, affinché promani dal potere legislativo, occorre che i due rami del Parlamento possano deliberare in una Assemblea unica. L’Assemblea unica è adunque necessaria: chiamatela come volete, chiamatela «Camere riunite» o chiamatela in qualsiasi altro modo, ciò non importa; è questione di parole, ma bisogna che ci sia, perché bisogna deliberare in modo collegiale e quindi attraverso un’unica Assemblea politica.

Contro questa Assemblea unica che la Commissione ha chiamato, senza dissensi, Assemblea Nazionale, oggi invece da molte parti si insorge, mettendo in rilievo gli inconvenienti che ne potranno derivare.

La principale obiezione è formulata con questa domanda: come potete voi pretendere che decida intorno ad una amnistia e ad un indulto, che involgono un’infinità di questioni di carattere tecnico, un organismo così pletorico? Come pretendete che una così vasta Assemblea discuta di un tema tecnico di tanta gravità e complessità? Una Camera di mille membri?

Intanto il numero di mille è esagerato perché non si arriva a settecento. Ma in verità la risposta non vale se non per significare che l’argomento ha il vizio di provare troppo. Infatti, varrebbe anche in confronto della sola Camera dei deputati. Anche se ci limitiamo a questa soltanto, non si eviterebbe l’inconveniente affacciato. È adunque un argomento che prova troppo.

Anche recentemente abbiamo discusso la legge sull’imposta patrimoniale, che non è certamente un tema meno grave dell’amnistia o dell’indulto, e non abbiamo avuto da lamentare né il caos né la Torre di Babele.

Inoltre non dobbiamo esagerare la realtà. Molte amnistie riguardano uno o due reati e non di più. In questo caso è evidente che la discussione non potrà essere così laboriosa e complessa come si teme. A questo proposito ricordo che nel ’45 ci furono non due amnistie, ma due decreti disponenti la non punibilità di certi reati. Decreti che, al pari dell’amnistia, costituivano una rinunzia alla pretesa punitiva dello Stato. In quei due casi il decreto ha un solo articolo. Inoltre bisogna rilevare che l’amnistia ha carattere essenzialmente politico, più che giuridico. Le questioni di carattere giuridico in materia di amnistia c di indulto sono sempre limitate.

Vi è poi l’emendamento dell’onorevole Leone, che ne propone la delegazione al Governo. La Commissione non lo accetta, perché ritiene che l’esercizio del diritto di concedere l’amnistia deve spettare direttamente al potere legislativo. Se poi l’Assemblea Nazionale o la Camera dei deputati o se il Senato dovessero impartire anche delle direttive, come vorrebbe il proponente, allora tanto varrebbe che la Camera dei deputati o il Senato o l’Assemblea Nazionale formulassero loro per intero il provvedimento.

Piuttosto farei un’osservazione (in questo momento io esco forse dall’orbita precisa del pensiero della Commissione) piuttosto, dico, potrei riconoscere che vi sono dei casi nei quali la solennità dell’intervento dell’Assemblea Nazionale appare sproporzionata all’entità di certi provvedimenti d’amnistia; ad esempio, quando si tratta di amnistie che riguardano reati contemplati da leggi finanziare forse, in questo caso, la delegazione può essere effettivamente utile; e ciò non solo per la speciale tecnicità della materia, ma anche perché il Governo, in queste materie, è giudice migliore di un’Assemblea legislativa, soprattutto in vista delle ripercussioni di carattere finanziario che può avere l’estinzione del reato. Ma quando si tratta di altri reati, colpiti da sanzioni detentive, non è così. Noi pensiamo che in questi casi la competenza debba spettare all’Assemblea Nazionale.

Sull’opera del Governo in questa materia sono piuttosto scettico. Vi sono degli esempi recenti, dei ricordi di recenti amnistie, che in verità non denunciano nel Governo un’attitudine, alla elaborazione di amnistia e di indulti, molto tranquillante.

Quindi non ci sembra il caso, ammaestrati come siamo dalle esperienze del passato, anche recente, di affidare senz’altro al Governo il potere di emanazione di decreti di amnistia e di indulto.

Si potrebbe anche osservare – permettetemi la malignità – che talora un Governo potrebbe emanare un provvedimento di clemenza non tanto a scopo di pacificazione sociale, ma piuttosto di finalità di carattere meno elevato. Si sa che l’amnistia, soprattutto in certi momenti della vita politica del Paese, può conciliare al Governo la benevolenza e la gratitudine dei beneficati, i quali non sono pochi, perché intorno alle loro persone vi è sempre un circolo di amici, di familiari, di conoscenti, di aderenti, ecc.

A favore della nostra tesi richiamo, onorevoli colleghi, alla vostra attenzione questo concetto: che le amnistie sono provvedimenti di natura essenzialmente politica e che, pertanto, l’organo costituzionale più adatto a promulgarli è quello stesso che è designato dalla legge a determinare le direttive politiche del Paese.

Osservo, inoltre, che le amnistie e gli indulti sono e dovranno essere provvedimenti eccezionali.

Taluno pensa che le amnistie, o almeno certe amnistie, sono provvedimenti che per la loro importanza sono troppo al disotto dell’alta dignità di un’Assemblea Nazionale e che pertanto sarebbe sminuire l’Assemblea Nazionale affidandole così modesto ufficio.

Riconosco che tutto questo può essere vero in taluni casi, ma in altri assolutamente no.

Ad esempio l’amnistia del 22 giugno 1946, fu tale per la sua ampiezza e per la sua significazione politica che ebbe una risonanza nazionale e anche internazionale. Uguale risonanza nazionale ed internazionale ebbe quella a cui ha accennato l’onorevole Nitti, a favore dei disertori. Il che vuol dire che vi sono dei casi di particolare importanza, che meritano di essere decisi dal più alto consesso.

A limitare il numero delle amnistie, è rivolto l’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli. Le amnistie – egli chiede – devono essere approvate come se fossero leggi costituzionali, secondo il quorum di queste. Ma io penso che lo scopo si possa raggiungere per altre vie. Penso, ad esempio, che quante volte la concessione di un’amnistia sarà assegnata ad una Assemblea di carattere eccezionale come è l’Assemblea Nazionale, di altrettanto sarà diminuito il numero di queste amnistie.

Era invalso un uso quasi morboso di dare amnistie ad ogni momento, ma il fatto stesso che oggi siamo in regime repubblicano renderà meno facile il ripetersi di questo guaio. Saranno evitate almeno le amnistie che si succedevano ad ogni lieto evento della Casa reale.

Una voce. Ci sono gli anniversari.

GHIDINI. Con questo ritengo di avere esaurito le ragioni per le quali in linea di massima abbiamo ritenuto, con l’adesione di una gran parte dell’Assemblea dei settantacinque, che l’amnistia e l’indulto devono essere deliberati dall’Assemblea Nazionale. Comunque, che debba essere il potere legislativo ad assumere in modo diretto la responsabilità dell’amnistia e dell’indulto.

Contro questo comma dell’articolo 75 sono state usate delle parole gravi, nelle quali parve persino che il buon gusto fosse soffocato dall’indignazione che ha sollevato l’animo di qualche collega. Si è parlato di stranezza, di stoltezza, e così via.

E siccome queste accuse sono partite da uomini di alto valore politico, non può un giudizio di questo genere non lasciare nell’animo nostro un senso di perplessità.

Se noi però meditiamo su questa censura ci sembra di poter essere tranquilli.

C’è pure l’autorità di qualcuno che ci conforta nel nostro principio. Io ricordo che vi fu una relazione a un vecchio progetto di legge in materia, relazione che comincia così: «La proposizione che il concedere amnistie è atto di potestà legislativa non ammette dubbi né nel campo della dottrina, né in quello del diritto pubblico comparato, né, infine, sul terreno del vigente diritto positivo».

La relazione continua con la enumerazione di leggi le quali confermano l’assunto di questa proposizione iniziale. E prosegue: «Nel nostro ordinamento il potere legislativo non ha limiti nella facoltà di delegazione; perciò, almeno dal 1865 in poi, la norma proibitiva dell’articolo 6 dello Statuto, dianzi rammentata, non ha potuto infirmare la perfetta validità dell’esercizio della delegazione da parte del potere esecutivo attraverso gli innumerevoli decreti reali di amnistia che sono stati promulgati in questo periodo. La delegazione ricevuta crede ora il potere esecutivo di dovere restituire e propone al Parlamento di avocare la concessione delle amnistie all’organo cui appartiene naturalmente il potere.

«La partecipazione sempre più larga e quasi completa dei cittadini alla formazione della rappresentanza politica elettiva dà una necessaria maggiore ampiezza e attività alle funzioni politiche del Parlamento. E poiché il concedere amnistie è funzione eminentemente politica, giova che l’esercizio diretto della medesima sia ripreso dal Parlamento. Solo in tal guisa sarà data al popolo la più completa guarentigia, non solo intorno alle ragioni di opportunità politica e di utilità sociale del provvedimento, ma altresì intorno alla giusta estensione di esso a casi e categorie di fatti che veramente si coordinino alle ragioni di utilità e di opportunità che ne costituiscono il presupposto».

Questa relazione rivendica al Parlamento la deliberazione diretta delle leggi di amnistia e di indulto. È opera di un giurista della capacità di Ludovico Mortara, ed il Progetto è stato presentato alla Camera – se non erro – da un Governo che era presieduto dall’onorevole Nitti.

Il che vuol dire che noi abbiamo oggi il disappunto di essere in contrasto con l’onorevole Nitti del 1947, ma abbiamo il compiacimento di essere d’accordo con l’onorevole Nitti del 1920, nello splendore della sua attività di politico e di scienziato. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Tosato di rispondere, a nome della Commissione, a coloro che hanno presentato e svolto emendamenti in merito al primo comma dell’articolo 75.

TOSATO. Prima di esaminare i singoli emendamenti che sono stati presentati al primo comma dell’articolo 75, credo opportuno premettere due brevi osservazioni di carattere generale.

L’articolo 75, al primo comma, si occupa dei problemi inerenti alla mobilitazione e alla deliberazione della guerra.

Per quanto riguarda la mobilitazione generale, credo che sia appena necessario ricordare che, generalmente, in tutti gli Stati, non solo monarchici, ma anche repubblicani, questo potere rientra nel più ampio potere attribuito al Capo dello Stato, di disporre delle forze armate. Questo ampio potere di disporre delle forze armate comprende precisamente anche il potere di mobilitazione sia generale, sia parziale.

La Commissione, quando ha esaminato l’argomento, si è posta la questione se era opportuno rilasciare alla competenza generale di disporre delle forze armate proprio al Capo dello Stato anche questo potere speciale particolarmente delicato ed importante della mobilitazione. Ed è soltanto a questo proposito che ha creduto opportuno distinguere (e la distinzione non è stata creata da noi, perché è molto antica) fra mobilitazione parziale e mobilitazione generale, ritenendo essere più prudente e conveniente che soltanto per la mobilitazione generale, che più direttamente impegna lo Stato in situazioni gravi che spesso, se non sempre, conducono alla guerra, in questi casi soltanto sia opportuno limitare il generale potere di disposizione delle forze armate proprio al Capo dello Stato, per attribuirle invece, eccezionalmente in questo settore particolare, in questo momento così delicato della mobilitazione generale, alle Camere.

Osservazioni analoghe debbo fare per quanto riguarda la deliberazione della guerra. Voi sapete che in tutti gli stati monarchici al Capo dello Stato, al Re, spetta non soltanto la dichiarazione della guerra, ma anche la deliberazione della guerra. Sono due momenti distinti, quello della formazione della volontà, e quello della estrinsecazione della volontà. Invece negli Stati repubblicani si scinde la competenza in ordine a questi due diversi momenti, cioè si conserva al Capo dello Stato repubblicano il potere di dichiarare all’esterno lo stato di guerra, sia agli effetti internazionali, sia agli effetti interni, mentre si riserva generalmente agli organi rappresentativi diretti del popolo, alle Camere, il potere di deliberare la guerra. A questo proposito la Commissione si è quindi uniformata semplicemente a quello che è l’indirizzo generale di tutti gli Stati repubblicani.

Ed ora veniamo direttamente, dopo queste necessarie premesse di indole generale, all’esame dei singoli emendamenti che considererò in ordine, diremo così, logico, a seconda della loro distanza maggiore o minore dal testo della Costituzione.

Viene prima di tutto in considerazione l’emendamento, mi pare, presentato dall’onorevole Persico, che è quello che più degli altri si scosta dalla concezione che ha ispirato il progetto.

Secondo l’onorevole Persico «Soltanto le due Camere possono con legge deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra».

Quindi, secondo l’onorevole Persico, non si dovrebbe attribuire questo potere di mobilitazione generale e di deliberazione dell’entrata in guerra alle due Camere riunite, ma soltanto alle due Camere agenti separatamente. Perché la Commissione dei settantacinque ha preferito due Camere riunite insieme anziché le due Camere deliberanti separatamente, secondo la norma generale derivante dal principio bicamerale?

Perché in questi casi di grande urgenza si è ritenuto che la convocazione delle due Camere in unica Assemblea potrebbe essere più conveniente e più opportuna, e d’altra parte la materia è così importante che forse la solennità dell’Assemblea è più confacente alla solennità della materia. Aggiungo che non riesco veramente a immaginare e a giustificare la possibilità di un contrasto fra le due Camere, e l’utilità di giocare a questo proposito col principio bicamerale.

Viene poi in considerazione l’emendamento presentato dall’onorevole Fuschini, che pure si distanzia notevolmente dall’ordine di idee seguito nel progetto.

Secondo l’onorevole Fuschini, spetta alle Camere riunite in Assemblea Nazionale deliberare maggiori poteri al Governo in caso di guerra. Quindi, se ho ben capito, l’onorevole Fuschini non vuole parlare direttamente né di dichiarazione di guerra né di deliberazione di guerra, né di mobilitazione generale o parziale. Vuole risolvere il problema nell’intervento delle Camere in queste materie così delicate attraverso la necessità da parte delle Camere di accordare maggiori poteri e soprattutto maggiori mezzi finanziari al Governo per il caso di guerra.

A noi sembra che questo testo dell’onorevole Fuschini, che pure rispecchia una tesi che in parte risponde anche ad una prassi, ad un modo di comportarsi del passato, non dia sufficiente garanzia in quanto è troppo generico.

D’altra parte, approvando semplicemente e puramente quell’articolo, noi lasciamo impregiudicato il problema relativo alla determinazione dell’organo competente a dichiarare e deliberare la guerra.

La Commissione, nel progetto, ha seguito l’indirizzo generale dello Stato repubblicano che scinde, come ho spiegato prima, il momento della dichiarazione dal momento della deliberazione, per attribuire quest’ultima alla competenza delle Assemblee.

Emendamento Meda-Clerici.

Secondo questo emendamento, spetta alle Camere riunite in Assemblea Nazionale deliberare i provvedimenti necessari alla difesa del territorio nazionale.

Ora, a noi sembra che questo emendamento sia ancora più generico di quello Fuschini, e d’altra parte, almeno sotto certi aspetti, non sia accettabile, perché il deliberare i provvedimenti necessari alla difesa del territorio nazionale è di competenza assoluta ed esclusiva del potere esecutivo.

Gli organi del potere legislativo intervengono soltanto a titolo di garanzia, quando lo Stato versi in così gravi situazioni, per assumersi soprattutto la responsabilità della deliberazione della guerra, attestare così più direttamente l’unità, il consenso e l’impegno di tutto il popolo.

Il punto di vista consacrato in questo emendamento, che, in definitiva, viene a spostare notevolmente le competenze proprie e, secondo noi, necessarie e insostituibili del potere esecutivo, spostarle cioè dal potere esecutivo al potere legislativo, non è, a nostro avviso, accettabile.

Emendamento Gasparotto-Chatrian ed altri.

Secondo l’onorevole Gasparotto, si dovrebbe parlare soltanto di mobilitazione, senza distinzione fra mobilitazione generale e mobilitazione parziale.

E su questo punto concorda perfettamente l’emendamento presentato dall’onorevole Azzi.

Ora, io ho già spiegato perché la Commissione ha ritenuto opportuno distinguere fra mobilitazione generale e mobilitazione parziale.

Noi siamo partiti da questo punto di vista: è di competenza e deve necessariamente restare di competenza degli organi dell’esecutivo la disposizione delle Forze armate. Nella disposizione delle Forze armate rientra anche il potere di mobilitazione, sia militare che civile. Vogliamo limitare, per evidenti ragioni di garanzia, questi poteri del potere esecutivo? Allora sottraiamo al potere esecutivo quello e solo quello che è particolarmente essenziale ed importante: il potere di mobilitazione generale. Perché, d’altra parte, se noi riteniamo che il potere esecutivo ha non solo il potere, ma anche e soprattutto il dovere, di provvedere a tutto ciò che è necessario alla difesa del territorio dello Stato contro eventuali aggressioni, è evidente che il potere esecutivo deve avere anche i poteri di fare questa mobilitazione più o meno parziale, di prendere provvedimenti che sono indispensabili assolutamente per la difesa dello Stato. Sotto questo aspetto, l’emendamento Gasparotto è contradittorio. Come fa e come può il Governo prendere i provvedimenti indispensabili per la difesa del Paese, se non può disporre in nessun modo, nemmeno limitatissimamente, la mobilitazione?

L’onorevole Gasparotto ammette tale potere e dovere del Governo in casi di «aggressioni improvvise». La limitazione è da un lato eccessiva, dall’altro superflua. Non dimenticate che avete già approvato una norma secondo la quale, in casi di urgente necessità, il Governo ha il potere di emanare decreti legge.

Cade a questo proposito un’osservazione relativamente a quanto diceva giorni fa l’onorevole Nitti: «la guerra non si delibera più; la guerra non si dichiara: la guerra si fa». Siamo d’accordo: questa è una constatazione di fatto. Lo stato di guerra precede spesso di fatto, è una triste esperienza, la dichiarazione di guerra. Ciò non significa, che la dichiarazione, sebbene successiva, sia irrilevante. Comunque, bisogna tener presente a questo punto un’altra considerazione: quando uno Stato è aggredito da un altro Stato, lo stato di guerra si afferma di diritto; quando lo Stato è aggredito, il Governo ha non solo il diritto, ma il dovere di provvedere immediatamente, senza che vi sia bisogno di un testo costituzionale che gli conceda questo potere. Non facciamo quindi dell’umorismo, troppo facile, ma fuor di luogo, sul testo del progetto.

L’emendamento Gasparotto soggiunge: «e convoca di urgenza l’Assemblea Nazionale». Perché? Per avere maggiori poteri, per avere gli stanziamenti finanziari necessari. Ma resta appunto da vedere se, per deliberare su questi oggetti sia più opportuno che le Camere agiscano in unica Assemblea o se si proceda invece secondo la norma per cui le due Camere agiscono indipendentemente e separatamente.

L’emendamento dell’onorevole Terranova propone una aggiunta: «Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra, sempre che ricorrano le condizioni di cui all’articolo 6, e previa la consultazione delle Assemblee regionali». Per quanto riguarda questa «previa consultazione delle Assemblee regionali», il richiamo mi sembra veramente fuori proposito. Per quanto riguarda «sempre che ricorrano le condizioni di cui all’articolo 6», non è affatto necessario richiamare l’articolo 6.

L’articolo 6 contiene una disposizione fondamentale del nuovo ordinamento costituzionale; e quello che è consacrato in questo articolo vale nonostante che vi possano essere altri articoli che possono avere una certa attinenza. S’intende che tutti i poteri del Capo dello Stato e della stessa Assemblea sono sempre limitati da quella disposizione generale contenuta nell’articolo 6. Ritengo, quindi, superfluo qualsiasi richiamo all’articolo 6 delle disposizioni generali. E prima che superfluo, dannoso. Il richiamo all’articolo 6 non ne conferma, ma ne indebolisce la portata.

L’osservazione vale anche per l’emendamento proposto dall’onorevole Damiani, il quale vorrebbe aggiungere al testo del progetto che, in relazione all’articolo 6, la guerra può essere dichiarata soltanto in caso di legittima difesa.

PRESIDENTE. Quell’emendamento è decaduto. C’è l’emendamento dell’onorevole Nobile, presentato questa mattina.

TOSATO. La Commissione non è favorevole all’emendamento dell’onorevole Nobile, perché sopprimere un articolo non significa risolvere o sopprimere il problema. La questiona esiste, gravissima: può sorgere uno stato di guerra, ad un certo momento può sorgere la necessità di dover deliberare sulla guerra. Bisogna risolvere il problema. A chi spetta questo potere? al Capo dello Stato o alle Assemblee? Bisogna decidersi; non possiamo chiudere gli occhi. Per le ragioni esposte la Commissione resta ferma al suo testo.

PRESIDENTE. Dovremmo ora passare alla votazione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io credo che noi qui siamo di fronte a due problemi completamente diversi uno dall’altro, e che quindi esigerebbero, come probabilmente accadrà, due votazioni diverse, perché la guerra e la mobilitazione sono un problema a sé, e l’amnistia e l’indulto costituiscono un altro problema completamente separato. In ogni caso penso che si dovrebbe accedere alla proposta dell’onorevole Azzi e di qualche altro, cioè che si facciano due articoli diversi ove il contenuto dei due capoversi riesca a salvarsi dalle critiche fatte. Per l’amnistia e l’indulto aderisco all’emendamento Leone, che mi pare risolva meglio il problema dal punto di vista politico e giuridico.

Mi permetto di insistere presso l’Assemblea perché non si richieda l’intervento delle due Camere, per la mobilitazione, perché per me la mobilitazione è funzione del Capo dello Stato. Se egli è il comandante supremo delle Forze armate e non gli diamo il potere di fare la mobilitazione, quando occorra, non capisco come il Capo dello Stato potrebbe diventare comandante supremo.

Ma il problema più grave per me è quello della dichiarazione di guerra.

Non dobbiamo dimenticare che non siamo più all’epoca, in cui le guerre si dichiaravano mandando gli araldi e ricevendo gli araldi dell’avversario, o lasciando all’avversario l’onore di tirare per primo. Oggi la guerra, quando scoppia, scoppia per la volontà deliberata di uno Stato aggressore, che predispone i mezzi aerei, bombe atomiche, razzi volanti, apparecchi radio comandati, più adatti per raggiungere nel tempo più rapido possibile risultati decisivi. Come è possibile convocare l’Assemblea Nazionale quando tutti i centri ferroviari sono paralizzati, le grandi città probabilmente in disordine, per dichiarare la guerra?

Non dobbiamo poi, dimenticare che la dichiarazione di guerra ha effetti importantissimi non soltanto rispetto a tante situazioni di ordine civile, che esistono all’interno del territorio, ma anche nei riguardi internazionali, per le navi italiane mercantili e da guerra, gli aerei, ed i cittadini, che si trovano all’estero, rispetto alla posizione giuridica dei quali il momento della dichiarazione di guerra può avere effetti talvolta decisivi.

Ecco perché ritengo che, malgrado il nostro desiderio di limitare i poteri dell’esecutivo in questa materia, si debba purtroppo lasciare ad esso la facoltà di dichiarare la guerra.

D’altra parte occorre rilevare che un potere esecutivo che voglia fare una guerra aggressiva, presumibilmente ha già il consenso delle Camere; in caso contrario, esso non potrebbe preparare la guerra, perché le Camere gli negherebbero la fiducia.

Rimettiamo dunque al potere esecutivo una facoltà che un tempo dipendeva dalle prerogative del re, e che oggi dipende dalle caratteristiche tecniche della guerra.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Ho troppo rispetto per il collega Corbino, perché non mi senta in obbligo di replicare alle sue osservazioni e, nel tempo stesso, alle altre, pur tanto sensate, del Relatore della Commissione onorevole Tosato.

Bisogna, per capirci, parlar chiaro.

Intende il Parlamento spossessarsi del supremo diritto e della suprema responsabilità di mobilitare e dichiarare la guerra? Intende esso delegare questo suo potere al Governo?

Il principio informativo del testo stesso redatto dalla Commissione e degli emendamenti proposti dagli onorevoli Azzi, Clerici, Meda, Persico e dallo stesso onorevole Terranova culmina in questo: che la Costituente intende avocare alle due Camere, riunite o no, perché questa questione sarà discussa in seguito, il supremo potere e la sua suprema responsabilità, potrei dire il supremo onore o la suprema sventura, di dichiarare la guerra: questo è il primo punto.

Secondo punto. È necessario che tutti convengano su questa verità realistica: che mobilitazione ormai vuol dire guerra, e che la mobilitazione generale non esiste più, perché colla voce di mobilitazione generale, si intende mobilitazione militare, cioè la mobilitazione di tutte le forze di terra, di mare e di cielo e nel tempo stesso mobilitazione civile. Dichiarare di colpo la mobilitazione generale vorrebbe dire paralizzare con simile provvedimento tutta la vita nazionale ed arrestare o quanto meno sconvolgere tutta l’attrezzatura industriale del Paese. Tanto è vero questo, che nell’ultima guerra si sono avute tutte mobilitazioni parziali e le stesse mobilitazioni parziali sono avvenute in termini ed in forma graduali. Questa è una verità acquisita alla storia recente, e contro di essa non possiamo ribellarci. Ecco perché il generale Azzi ed io siamo concordi – anche per aver sentite le opinioni dei competenti – nel domandare la soppressione di questa voce: «mobilitazione generale» e lasciare il termine generico di: «mobilitazione». Nel tempo stesso riconosciamo – ed ecco perché non concordo con il Relatore nel senso di sopprimere la seconda parte del mio emendamento – che bisogna richiamare l’attenzione sia di quello che sarà il Presidente della Repubblica sia del Governo sull’obbligo di provvedere ad immediate opere di difesa non solo di fronte alle aggressioni, ma anche di fronte al pericolo delle aggressioni. Il che si potrà fare col richiamo degli specializzati, con l’ammassamento di truppe alla frontiera minacciata e con gli altri provvedimenti preparatori. Ma è bene che questo sia detto. Non creda l’onorevole Nobile che la dichiarazione di guerra non avvenga più. Tutt’altro: nell’ultima guerra vi fu la nostra dichiarazione di guerra alla Francia e quella della Francia e dell’Inghilterra alla Germania, per quanto già fossero iniziate le operazioni militari in Albania, nei Sudeti ed in Moravia e Cecoslovacchia. La dichiarazione di guerra può avvenire, come è avvenuta infatti da parte di taluni paesi, Francia e Inghilterra, i quali hanno creduto doveroso di uniformarsi alla prassi costante delle leggi internazionali. Ma, ripeto, il punto fondamentale della questione è questo: attraverso l’esperienza dell’ultima guerra è da ritenersi che la mobilitazione generale non avvenga più, e che, quindi, subordinare soltanto alla generalità ed alla totalità della mobilitazione il potere e la responsabilità del Parlamento, vuol dire sottrarre il Parlamento a questo suo supremo diritto e dovere, e delegarlo al Governo. Contro la delegazione al Governo noi siamo decisi, e per questo è bene pronunziarsi con tutta chiarezza.

AZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Vorrei pregare i colleghi, specialmente coloro i quali hanno avuto già occasione di parlare per svolgere i loro emendamenti, di non ripetere ancora una volta le considerazioni già esposte, sia pure in forma polemica con chi ha espressa altra tesi. Onorevole Azzi, ha facoltà di parlare.

AZZI. A quanto ha già detto l’onorevole Gasparotto, debbo aggiungere la considerazione che la mobilitazione generale non si fa quasi mai e ad ogni modo costituisce la fine della mobilitazione, perché, come sappiamo, la mobilitazione generale deriva dalla somma di singole mobilitazioni parziali più o meno occulte che vanno a sboccare nella mobilitazione generale, magari dopo dichiarata la guerra. Quindi la parte più pericolosa di questa non è la mobilitazione generale, ma l’inizio della mobilitazione, perché da questo inizio possono derivare conseguenze di carattere interno e di carattere internazionale, le quali possono anche trascinare – non volendo – alla guerra. Perciò, insisto sull’emendamento presentato dall’onorevole Gasparotto e da me, di togliere cioè la parola «generale» dopo la parola «mobilitazione».

Per quanto riguarda l’osservazione fatta dall’onorevole Corbino devo dire che non la condivido, perché ritengo che delegare al Governo la facoltà di dichiarare la guerra costituisca un errore psicologico, in quanto che il popolo che deve combattere la guerra, meglio e più volentieri la combatterà se saprà che la guerra è stata dichiarata da tutti i rappresentanti del popolo liberamente eletti. La ritengo soluzione antidemocratica, perché, come ha detto l’onorevole Gasparotto, il Parlamento in questo modo rinunzia alla sua responsabilità proprio nel momento in cui questa responsabilità diventa per esso più grande per le deliberazioni che si devono prendere in circostanze così eccezionali. Ritengo in contrasto questo procedimento proposto dall’onorevole Corbino col principio prudenziale sancito nell’articolo 6 della nostra Costituzione, e lo ritengo infine pericoloso per l’arbitraria ed errata interpretazione che può essere data dal Governo alle cause che potrebbero determinare la guerra.

Ricordo a questo proposito, senza voler iniziare una polemica, che siamo entrati in guerra contro l’Africa Orientale per l’aggressione ammaestrata di Ual Ual, che fu da noi preparata proprio per determinare un pretesto di guerra.

CORBINO. Ma allora in Italia si era sotto un regime dittatoriale antidemocratico.

AZZI. Vi era un Governo non controllato dal Parlamento, e noi, delegando al Governo i poteri, rinunciamo al nostro controllo e lo lasciamo arbitro di fare quello che vuole. (Commenti).

Ho espresso la mia idea; in contrasto con quella dell’onorevole Corbino, e per riconfermare il mio accordo con quella dell’onorevole Gasparotto.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Vorrei chiedere un chiarimento all’onorevole Gasparotto ed agli altri firmatari del suo emendamento. In sostanza, mi pare che essi escludano la mobilitazione generale, ma ritengano tuttavia indispensabile che sia il parlamento a dare l’autorizzazione per una mobilitazione qualsiasi, cioè minore, e dunque, parziale; le misure di difesa in genere sono invece, secondo il loro punto di vista, affidate al Consiglio dei Ministri. Ma fra le misure di difesa non rientrano anche, ad esempio, gli eventuali richiami di alcune classi? E gli eventuali richiami di alcuni classi non costituiscono una mobilitazione parziale? Ed allora? Io chiedo ai presentatori dell’emendamento se non ritengano opportuno sopprimere l’accenno alla mobilitazione, dicendo cioè che spetta all’Assemblea la dichiarazione di entrata in guerra e spetta invece al Consiglio dei Ministri l’insieme delle misure di difesa.

GASPAROTTO. Ho già detto. Per esempio, richiamo di classi specializzate. Del resto, non dovrei dire troppo. Esistono tante forme larvate di preparazione militare.

FABBRI. Ad ogni modo i presentatori dell’emendamento hanno capito il mio concetto e possono, ove lo credano opportuno, tenerne conto.

RUINI. Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI. Presidente della Commissione per la Costituzione. Secondo il mio costume, farò alcune osservazioni molto semplici. Vi sono tre questioni; quella della mobilitazione, quella dell’entrata in guerra e quella dei poteri da concedere al Governo, dato che c’è stata anche questa ultima proposta dell’onorevole Fuschini che entra nel quadro dei temi che ora dobbiamo trattare.

Per quanto riguarda la mobilitazione, la seconda Sottocommissione tenne presente l’opportunità di sottrarre la mobilitazione generale alla competenza di un Governo, che potrebbe disporla anche indipendentemente dalla guerra come attentato alle libertà fondamentali. Prescindendo da questo riflesso, e considerando la mobilitazione soltanto nei riguardi della guerra, si era pensato di riservare, mediante una norma costituzionale, al Parlamento l’atto più pieno e formale della mobilitazione generale, salvo alle leggi stabilire le norme per la mobilitazione parziale. Ma i tecnici fanno ora presente che non vi è effettiva distinzione fra i vari i gradi di mobilitazione, e quindi potete, colleghi dell’Assemblea, togliere ogni specificazione e dosatura.

Sta ad ogni modo il fatto, e qui parlo dell’emendamento Gasparotto, che se non mettiamo nella Costituzione alcuna norma per la mobilitazione, potrà ugualmente ad essa ricorrere il Governo, come potrà ricorrere ad ogni altra norma necessaria per la difesa dello Stato, in via di urgenza e di necessità, con decreto-legge, in base alla norma generale che abbiamo messo nella Costituzione.

Aggiungo che l’emendamento dell’onorevole Gasparotto non mi sembra del tutto preciso, perché parla di aggressioni improvvise; ma vi possono essere altri casi (ad esempio la mobilitazione d’altri paesi), in cui il Governo è costretto a prendere misure di difesa e disporre la mobilitazione. «Aggressione» è toppo poco; se si mettesse «pericolo» sarebbe frase troppo generica. Né è priva di una certa efficacia l’osservazione dell’onorevole Fabbri; perché se noi riserviamo la mobilitazione alle Camere, e poi stabiliamo che in caso di aggressione si debbono prendere provvedimenti, sorge il dubbio se si possa fare la mobilitazione con atto di urgenza.

Secondo punto: la entrata in guerra. È da ritenere che con lo stato attuale della tecnica della guerra, nell’età che ormai si chiama della bomba atomica, la guerra si aprirà con aggressioni improvvise e non con cavalleresche dichiarazione di araldi, come al buon tempo antico. Il paese molto probabilmente, e più spesso, si troverà in guerra senza una previa proclamazione di essa, senza indugio, prima che si possa raccogliere il Parlamento e provvedere alla difesa in via della massima urgenza. Ma ciò non toglie che il Parlamento non debba, appena è possibile, intervenire. Vi è un atto necessario; ed è quello di stabilire – sarà di fatto più spesso riconoscere – che vi è la guerra; e che ne derivano conseguenze giuridiche di grandissimo rilievo, sia nei rapporti dei cittadini all’interno, sia nei rapporti esteri con stati e cittadini esteri. Non occorrono esemplificazioni. Si tratta, in sostanza, di deliberare lo «stato di guerra». L’espressione «stato di guerra» mi sembra la più esatta giuridicamente, e direi anche, psicologicamente. Ora volete che questa deliberazione dello stato di guerra sia lasciata al Governo? È compito del Parlamento: avremo queste fasi: difesa immediata con atto del Governo; deliberazione dello stato di guerra da parte del Parlamento; dichiarazione formale di guerra che spetta, come dice un altro articolo della Costituzione, al Capo dello Stato.

Il Parlamento avrà poi un altro compito – ecco il terzo punto – su cui ha richiamato l’attenzione dell’Assemblea l’onorevole Fuschini: accordare al Governo i necessari poteri. Non direi pieni poteri; né poteri adeguati; «necessari» mi pare l’espressione migliore.

Tutto ciò premesso, vi proporrei di stabilire che «l’Assemblea Nazionale o il Parlamento o le Camere riunite deliberano lo stato di guerra», e poi aggiungerei «e concedono i poteri necessari al Governo».

Non entro qui nel problema se si debba parlare di Assemblea Nazionale o di Parlamento (come propone con un suo emendamento l’onorevole Corbino) o di Camere riunite. A me sembra che non vi sia niente di male a dare un nome alle riunione delle due Camere; e – piuttosto che Parlamento, designazione che indica normalmente le due Camere, anche considerando che lavorino distintamente – si potrebbe usare l’espressione di Assemblea Nazionale, che ha per sé la tradizione di tante costituzioni straniere; e non risulta così eretica e pericolosa come appare all’onorevole Nitti. Ma di ciò a suo tempo.

La questione da decidere qui è se, per la deliberazione dello stato di guerra e la concessione dei poteri al Governo, convenga che le Camere deliberino insieme, o ciascuna per conto suo. È una deliberazione che non richiede discussioni minute e tecniche; e può avvenire in poche ore; in un’ora; è un compito che può benissimo essere adempiuto a Camere riunite. Ciò darà all’atto una solennità ed una grandezza che avrà anche effetti psicologici nel Paese. Né saprei concepire che una Camera decidesse lo stato di guerra e l’altra no. Ritengo che occorre la riunione delle due Camere.

In ogni modo ho voluto suggerire una formula tecnica che può prestarsi alle varie soluzioni, e che è sintetica e chiara.

PRESIDENTE. Desidero rammentare prima di passare alle votazioni su questo articolo, che ancora stamane, l’Assemblea ha riconosciuto l’opportunità di deliberare per prima cosa quali siano le particolari questioni che richiedono una decisione delle due Camere riunite, salvo a definire poi il modo di funzionamento e la denominazione che le due Camere riunite dovranno assumere.

Pertanto, anche in questo articolo, sia nel testo della Commissione come in tutti gli emendamenti che sono stati presentati e svolti e che metteremo in votazione, ogni indicazione che si riferisca all’Assemblea Nazionale per ora resta sospesa.

Dobbiamo semplicemente votare in ordine a questa questione: se la mobilitazione generale, l’entrata in guerra o altri atti di analoga importanza, debbano dipendere da una deliberazione delle due Camere riunite, oppur no.

Ora, dopo le risposte che hanno dato gli onorevoli Ghidini, Tosato e Ruini ai presentatori di emendamenti, domanderò a questi se conservano o meno, gli emendamenti stessi.

Poiché l’onorevole Terranova non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Persico, mantiene il suo emendamento?

PERSICO. Ritiro la prima parte del mio emendamento e conservo la seconda.

PRESIDENTE: L’onorevole Benvenuti mi ha fatto pervenire il testo di un emendamento alla formulazione dell’onorevole Gasparotto.

«Dopo le parole: uno Stato straniero, sostituire il testo con le seguenti parole: il Consiglio dei Ministri propone al Presidente della Repubblica i provvedimenti indispensabili per la difesa del Paese.

«Il Presidente della Repubblica dà corso ai provvedimenti e convoca d’urgenza l’Assemblea Nazionale».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Io vorrei pregare l’onorevole Benvenuti di considerare se non sia il caso di ritirare il suo testo che è alquanto complesso, e non è necessario. Ripeto ancora una volta che, in base all’articolo da noi già votato sui provvedimenti d’urgenza e necessità, il Governo ha facoltà di provvedere senza perdere tempo.

Noi non faremmo con il testo proposto dall’onorevole Benvenuti, se non ripetere quella disposizione e – noti il collega Benvenuti – verremmo nel tempo stesso a diminuire la portata dei provvedimenti che il Governo può e deve prendere.

PRESIDENTE. Onorevole Gasparotto, accetta la proposta dell’onorevole Benvenuti?

GASPAROTTO. Onorevole Presidente, la proposta dell’onorevole Benvenuti è intuitiva. Mi parrebbe offensivo per qualsiasi Governo supporre che, di fronte a frangenti dai quali può dipendere la vita e la morte dei cittadini, esso possa restare inerte.

PRESIDENTE. Allora non l’accoglie.

GASPAROTTO. Onorevole Presidente, io proporrei questo testo: «Spetta all’Assemblea Nazionale di deliberare sulla mobilitazione e sullo stato di guerra e sui poteri da delegare al Governo stesso».

PRESIDENTE. Sta bene. Onorevole Benvenuti, ella mantiene il suo emendamento?

BENVENUTI. No, onorevole Presidente, non lo mantengo sia perché aderisco alla proposta Gasparotto-Ruini, sia perché ritengo di dover prendere atto delle dichiarazioni dell’onorevole Gasparotto e di quelle dei rappresentanti della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Meda, mantiene l’emendamento?

MEDA. Onorevole Presidente, sarei disposto a ritirarlo, ma desidererei prima conoscere il testo preciso della Commissione.

PRESIDENTE. Ne do lettura: «L’Assemblea Nazionale delibera lo stato di guerra e concede al Governo i necessari poteri». Questa, onorevole Meda, è la proposta dell’onorevole Ruini.

MEDA. Ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Onorevole Benvenuti, mantiene il suo emendamento?

BENVENUTI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi, mantiene il suo?

AZZI. Accetto la formula del Presidente della Commissione, con l’aggiunta però della parola «mobilitazione», già proposta dall’onorevole Gasparotto e da me.

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, mantiene il suo emendamento?

FUSCHINI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Codacci Pisanelli, mantiene l’emendamento?

CODACCI PISANELLI. Lo mantengo. Richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi sul fatto che presso i popoli civili l’amnistia e l’indulto sono sempre concessi con leggi di carattere costituzionale.

PRESIDENTE. Onorevole Carpano Maglioli, lei mantiene il suo emendamento?

CARPANO MAGLIOLI. Lo ritiro e aderisco all’emendamento dell’onorevole Persico.

Per quanto riguarda la prima parte dell’articolo, aderisco alla proposta della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Leone Giovanni, mantiene il suo emendamento?

LEONE GIOVANNI. Lo mantengo.

BENVENUTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENVENUTI. Onorevole Presidente, a nome del mio Gruppo, chiedo una breve sospensione, di dieci minuti, per deliberare sul nuovo testo propostoci dall’onorevole Ruini, che importa una notevole modificazione sia rispetto al testo originale, sia rispetto agli emendamenti che questa mattina abbiamo discusso.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Poiché si tratta di due temi completamente staccati – ed è anzi stata fatta la proposta di farne due articoli – sarebbe bene che li considerassimo distintamente, anche come ultimo scambio di idee; perché, quando si passerà al secondo comma, farò alcune osservazioni, diro così, finali, come ho già fatto per il primo comma.

FUSCHINI. Deliberiamo di fare due articoli: uno che si riferisce alla guerra e uno all’amnistia.

PRESIDENTE. Lo stesso testo della Commissione ne fa intanto due commi separati; la questione di dividerli in due articoli è, direi, di carattere secondario. In questo momento decidiamo sul merito e votiamo intanto separatamente, prima sulla mobilitazione e lo stato di guerra e poi sull’amnistia e l’indulto. La divisione in due articoli è un problema che può essere risolto alla fine.

PERSICO. Vi è la proposta dell’onorevole Terranova, che prevede appunto la divisione in due articoli.

PRESIDENTE. Ma vi è anche quella dell’onorevole Azzi.

Se non vi sono osservazioni circa la richiesta dell’onorevole Benvenuti, la seduta è sospesa per un quarto d’ora. Chiedo all’onorevole Benvenuti se vi insista.

BENVENUTI. Insisto nella mia richiesta.

(La seduta, sospesa alle 17.35, è ripresa alle 17.50).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, do lettura dei due testi del primo comma dell’articolo 75, sui quali dobbiamo decidere.

Il primo è quello dell’onorevole Ruini:

«L’Assemblea Nazionale delibera lo stato di guerra e concede i necessari poteri al Governo».

L’altro è il testo proposto dall’onorevole Gasparotto:

«Il Parlamento delibera la mobilitazione e lo stato di guerra e conferisce al Governo i necessari poteri».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Si tratta di aggiungere al testo iniziale la parola «mobilitazione»; ciò che il Comitato non ritiene necessario.

PRESIDENTE. Rammento ancora una volta che i termini: «Assemblea Nazionale» e «Parlamento» per ora non hanno un valore conclusivo allo scopo della votazione. Queste parole vogliono soltanto significare che coloro che propongono questi testi intendono che le deliberazioni relative allo stato di guerra siano prese congiuntamente dalle due Camere.

MORO. Chiedo di parlare, per dichiara razione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Noi voteremo contro queste formulazioni. Poiché la questione è impostata, noi intendiamo che le due Camere debbano deliberare separatamente.

RODI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODI. Voterò contro le formule proposte.

UBERTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI. Ritengo che sarebbe opportuno dividere le questioni e decidere prima se il Parlamento debba deliberare a Camere riunite o separate e quindi, stabilire la materia delle deliberazioni.

PRESIDENTE. Mi sembra che si voglia riaprire una discussione già esaurita. Lei, onorevole Uberti, in questo momento ci ripropone la questione di ieri sera e di questa mattina. In questo momento noi stiamo cercando di risolvere questa questione: se debbano esservi particolari deliberazioni da attribuirsi alle due Camere in seduta comune. Se alla fine di questa votazione risultasse che l’Assemblea non intende affidare nessuna deliberazione alle due Camere insieme riunite, allora non vi sarà un organo in cui si unificano le due Camere. Ma se, con le votazioni che faremo, si stabilisse anche una sola materia per la quale le due Camere dovessero decidere insieme, la questione di principio se le due Camere si possono costituire in unica Assemblea sarebbe risolta, salvo il funzionamento e la struttura dell’organo unificato.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Vorrei proporre una piccola variazione di forma, che tuttavia ha una qualche importanza, vale a dire che si dicesse: «Le Camere riunite deliberano» non «lo stato di guerra» ma «sullo stato di guerra».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Va bene. Si terrà presente la sua proposta in sede di coordinamento.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Mi sembra che si dovrebbe stabilire con un criterio generale come dovranno procedere le due Camere quando occorrerà una delle deliberazioni che si prevedono in questo articolo.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, le faccio osservare che su questo punto l’Assemblea ha già deciso la procedura da seguire.

Pongo in votazione la formula dell’onorevole Gasparotto, che è un emendamento al testo della Commissione per quanto ne riprenda in parte il contenuto:

«Il Parlamento delibera la mobilitazione e lo stato di guerra e conferisce al Governo i necessari poteri».

Comunico che è stata presentata una richiesta di appello nominale dall’onorevole Sullo e altri.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Vorrei domandare all’onorevole Gasparotto se con l’espressione «Il Parlamento» intenda le Camere separate o riunite.

GASPAROTTO. Intendo lasciare questo impregiudicato. La mia è una questione di merito. E cioè, resta impregiudicato se la deliberazione sull’entrata in guerra e la deliberazione sulla mobilitazione spetti alla Assemblea Nazionale, ove venga istituita, o alle Camere separatamente o congiuntamente. Di questo si parlerà a parte.

PRESIDENTE. È evidente, onorevole Moro, che se lei pone una domanda di questo genere, la risposta non può essere che quella che le ha dato l’onorevole Gasparotto. Ma mi pareva che fosse abbastanza chiaro che in questo momento, indipendentemente dal significato che i presentatori degli emendamenti dànno al soggetto del loro emendamento, noi votiamo su questa questione: se le Camere devono essere riunite o no, e pertanto il termine: «Parlamento», e l’altro: «Assemblea Nazionale» vogliono proprio indicare le Camere riunite. Coloro che votano favorevolmente alla formula proposta, approvano che le Camere decidano insieme; coloro che votano contro, non respingono il merito, ma intendono affermare che le Camere non devono deliberare unite.

MORO. Allora noi voteremo contro questa formula.

AZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

AZZI. A me pare che facendo la votazione in questi termini, noi che abbiamo presentato un emendamento alla sostanza dell’articolo, finiamo per vederlo respinto per una questione di forma.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi, ho già precisato lo scopo della votazione. Qualora l’emendamento fosse respinto, la questione di merito verrebbe riproposta.

RODI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODI. Desidererei chiedere una delucidazione in rapporto all’aggiunta della parola «mobilitazione» che ha fatto l’onorevole Gasparotto. Io credo che la mobilitazione rientri nei poteri che il Parlamento dà al Governo e quindi è inutile aggiungere la parola «mobilitazione».

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.

Si tratta dunque di decidere se le due Camere debbano sedere assieme per deliberare sulla mobilitazione, sullo stato di guerra e sul conferimento al Governo dei poteri necessari a questo scopo.

Vi erano alcuni emendamenti, ritirati dai presentatori, che ponevano molto chiaramente la questione. Ora, io non ho la facoltà di proporre formulazioni; ma se qualche collega volesse prendere una iniziativa in questo senso, ciò faciliterebbe le decisioni.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Proporrei di far votare la seguente formula:

«Le Camere riunite deliberano la mobilitazione». Così il senso del voto è chiaro. Noi votiamo contro, intendendo respingere il principio.

PRESIDENTE. Si potrebbe anche votare per divisione. Per prime si voterebbero le parole: «Le Camere riunite» e successivamente la materia della deliberazione.

Onorevole Sullo, mantiene la richiesta di appello nominale?

SULLO. La ritiro.

ARATA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ARATA. Sarebbe bene che si votasse prima sulle parole «Le Camere», poi sulla parola «riunite», ed infine sulle singole materie.

PRESIDENTE. Allora si vota per divisione in tre parti.

Pongo in votazione le parole:

«Le Camere».

(Sono approvate).

Pongo in votazione la parola:

«riunite».

Coloro che votano favorevolmente accettano il criterio che le deliberazioni vengano prese in seduta comune dalle due Camere. Resta salva, poi, la decisione sul nome che devono avere le due Camere così riunite e sul funzionamento dell’organo che risulterà formato dalla loro unione.

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, non è approvata).

Pongo in votazione le parole:

«deliberano la mobilitazione».

FABBRI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Voterò contro, ritenendo che soltanto la dichiarazione dello stato di guerra rientri nelle competenze della Camera. Una volta che è chiarito che per mobilitazione s’intende non solo la mobilitazione generale ma anche un parziale richiamo di classi, ritengo che il richiamo parziale di classi rientri in quelle tali facoltà e misure di difesa da delegarsi al Governo.

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione non sono approvate).

PRESIDENTE. Pongo in votazione le parole:

«Deliberano lo stato di guerra».

(Sono approvate).

Pongo in votazione le parole:

«e conferiscono al Governo i necessari poteri».

(Sono approvate).

Il primo comma dell’articolo 75 risulta così approvato nel seguente testo:

«Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i necessari poteri».

Passiamo al secondo comma dell’articolo. Il testo della Commissione è del seguente tenore:

«L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale».

S’intende che le parole: «dall’Assemblea Nazionale» dovranno essere sostituite in sede di coordinamento.

L’onorevole Bettiol mi ha fatto pervenire in questo momento un testo modificato dell’emendamento al secondo comma dell’articolo 75, svolto dall’onorevole Leone Giovanni:

«L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica, dietro delegazione delle Camere, e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla richiesta di delegazione».

Onorevole Fuschini, mantiene l’emendamento al secondo comma?

FUSCHINI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Codacci Pisanelli, mantiene l’emendamento?

CODACCI PISANELLI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Carpano Maglioli, mantiene l’emendamento?

CARPANO MAGLIOLI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Azzi, mantiene l’emendamento?

AZZI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli: «L’amnistia e l’indulto non potranno essere concessi se non mediante leggi di natura costituzionale».

(Non è approvato).

Passiamo alla votazione del nuovo testo dell’emendamento Bettiol, testé letto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. L’Assemblea deve decidere: o deferire senz’altro alle Camere, secondo come propone l’emendamento dell’onorevole Persico, oppure ammettere una delegazione o autorizzazione.

Se si prende questa seconda via, io prego di attenersi al testo dell’onorevole Bettiol, che mi sembra preferibile dal punto di vista tecnico.

PRESIDENTE. Se ho ben udito, l’onorevole Ruini ha riconfermato che la Commissione si attiene al testo presentato, ed ha fatto presente all’onorevole Bettiol e agli altri firmatari le ragioni per cui non accetterebbe il loro emendamento.

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Mi pareva che l’onorevole Ruini non avesse voluto dire questo.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Io debbo chiarire che, poiché il nostro compito è quello di trovare la formulazione più precisa possibile, ho prospettato quale essa è, a nostro avviso, sia nell’ipotesi che l’Assemblea voglia dare direttamente alle Camere la concessione dell’amnistia e dell’indulto (ed in tal caso la formula preferibile è dell’onorevole Persico); sia nell’ipotesi che entri nell’ordine di idee di una autorizzazione o delegazione delle Camere al Governo (nel qual caso il testo proposto dall’onorevole Bettiol è tecnicamente preferibile agli altri).

PRESIDENTE. Mi sembra che il testo presentato dall’onorevole Bettiol non permetta all’Assemblea di pronunciarsi in ordine al quesito principale: se le Camere debbano dare questa delegazione riunite oppure ciascuna nella propria sede. Io penso, quindi, che a questo emendamento dell’onorevole Bettiol bisogna ad un certo momento, con un emendamento all’emendamento, inserire la solita parola «riunite», sulla quale l’Assemblea si pronunzierà.

Porrò in votazione prima questa formula:

«L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica dietro delegazione delle Camere»; e poi la parola «riunite». Se l’Assemblea non l’accetta, porrò ai voti allora la formulazione della Commissione, includendo naturalmente anche in essa la parola «riunite».

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Io volevo semplicemente osservare questo: mi pare che la procedura proposta dal Presidente non sia strettamente regolamentare, perché, essendoci degli emendamenti che modificano il testo della Commissione, essi dovrebbero essere posti in votazione per primi.

Quanto alla formulazione della proposta di emendamento nel senso di disporre l’amnistia con legge di delegazione, mi pare che quella proposta dell’onorevole Fuschini sia tecnicamente più esatta di quella dell’onorevole Bettiol. E ciò nella considerazione che, essendoci l’articolo 83 in cui è detto che il Presidente della Repubblica emette i decreti legislativi, mi pare che quando si dispone che l’amnistia si concede con decreto legislativo sia inutile precisare l’organo che emette questo decreto. Abbiamo un articolo di carattere generale che stabilisce la forma dei decreti legislativi; quindi basterà affermare il principio che l’amnistia è concessa su delegazione: rimettendosi per l’esercizio della delegazione alle norme generali. Mi pare, quindi, che l’altra formula proposta dall’onorevole Fuschini, pur coincidendo pienamente con quella del collega Bettiol, sia formalmente più esatta.

Quanto al merito, la ragione per cui io e l’onorevole Fuschini e gli altri firmatari insistiamo su questo emendamento, è che esso tende a conciliare – e felicemente concilia – due esigenze che sono state prospettate, due difficoltà che si presentano in ordine all’amnistia, cioè l’esigenza che non sia affidato alla discrezionalità del Governo questo atto importante e delicato che fa cadere l’azione penale, e viceversa sia tenuta presente l’altra esigenza della difficoltà tecnica della formulazione di questo atto e, quindi, dell’opportunità che esso venga affidato al potere esecutivo. C’è, quindi, il contemperamento, il tentativo di conciliazione di queste due esigenze contrastanti, che depone dell’opportunità dell’emendamento proposto.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati, questo emendamento è già stato svolto prima.

Ad evitare contestazioni, onorevoli colleghi, vorrei che con precisione si dicesse se l’emendamento Bettiol è stato presentato a titolo personale dall’onorevole Bettiol, oppure debba intendersi come sostitutivo dell’emendamento presentato prima e che portava anche le firme di altri deputati.

BETTIOL. Ho presentato questo emendamento a titolo personale, come chiarimento ad un altro emendamento da me sottoscritto.

Soltanto, intendevo che si riconoscesse un particolare risalto alla figura del Presidente della Repubblica, in ordine alla concessione di questo particolare beneficio. Non è un potere proprio del Presidente, perché si sostiene la necessità della delegazione da parte del Parlamento; ma c’è una tradizione in tutti i paesi per cui è il Capo dello Stato, come tale, che concede questo particolare beneficio, salvo delega da parte del Parlamento. Non è un provvedimento motu proprio.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È una questione puramente tecnica. Ripeto che la dizione dell’onorevole Bettiol è preferibile. Mettendo «per decreto legislativo» come vuole l’onorevole Mortati, si trasferisce alle Camere la facoltà di concedere amnistia ed indulto, che è finora spettata al Capo dello Stato; e si prescrive che alla concessione debba aver luogo sempre «un decreto legislativo». Non suona bene, a mio avviso, che la forma del decreto legislativo, da considerarsi come un’eccezione, diventi, almeno per una singola materia, normale ed obbligatoria. È preferibile la linea seguita dall’onorevole Bettiol: che la facoltà di far amnistia ed indulto rimane al Capo dello Stato; ma occorre, perché la metta in essere, un consenso del Parlamento. Dichiaro che preferirei dire «autorizzazione» anziché «delegazione» del Parlamento; appunto per render più chiaro che non si tratta di una figura perfettamente eguale a quella del decreto legislativo. Sarebbe piuttosto nell’intesa dell’onorevole Bettiol, una delegazione impropria e sui generis. Meglio parlare di «autorizzazione», ciò che non vieta che, nel dare l’autorizzazione, il Palamento non possa subordinarlo a criteri e principî direttivi che il Capo dello Stato deve seguire. Avverrà di fatto che il Governo presenterà più spesso un disegno di legge, che conterrà o lo stesso testo dell’amnistia ed indulto, o i criteri e principî direttivi; ed il Parlamento darà l’autorizzazione o la negherà o la subordinerà a modificazione. Ad ogni modo, sarà da vedere in sede di revisione e di coordinamento della Costituzione, se sarà meglio parlare di «delegazione» od «autorizzazione».

Qui mi preme notare che, in sostanza, la proposta Bettiol e quella Mortati hanno una portata sostanzialmente non diversa. Rappresentano tutte due una conciliazione che mi sembra opportuna, fra la soluzione di deferire la concessione al Parlamento (al qual riguardo sono stati avanzati qui dubbi, soprattutto per la necessità di una elaborazione del provvedimento, che non si addice alle Camere) e l’altra soluzione di consacrare la facoltà al Capo dello Stato. La formula Bettiol è tecnicamente preferibile; anche perché è più breve e di stile più costituzionale.

Si presta poi all’aggiunta rapida e breve che l’amnistia e l’indulto non si applicano a reati commessi successivamente alla richiesta di autorizzazione o delegazione. Abbiamo sentito molti rilievi sul pericolo della speculazione sull’amnistia e sull’incoraggiamento a compier reati mentre si discute il provvedimento. Non è inutile stabilire ciò che l’onorevole Bettiol propone; e che non vieta, se occorre, di stabilire sul provvedimento una data anteriore; comunque mai dopo la richiesta.

RESTIVO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RESTIVO. Signor Presidente, desidererei sottoporre all’Assemblea l’opportunità di una considerazione: qui si parla di una delega che la legge dovrebbe dare al potere esecutivo perché questo emetta l’atto e conceda l’amnistia. Si arriverebbe pertanto a un assurdo giuridico, che cioè l’organo il quale dà la delega non potrebbe poi emanare l’atto. Credo quindi che, in tal modo, si cadrebbe in una situazione inammissibile dal punto di vista logico.

PRESIDENTE. Non resta allora, onorevoli colleghi, che passare alla votazione. Desidero però far prima una breve osservazione. Se l’Assemblea accetterà la formula proposta dall’onorevole Bettiol, mi sembra che sarà forse opportuno che il Comitato di redazione coordini il testo nel senso che sono le Camere il soggetto di questa disposizione; e ciò in armonia alla dizione degli articoli precedenti.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Accolgo perfettamente questa osservazione del Presidente dell’Assemblea e aggiungo che, passando alla formula dell’onorevole Bettiol, si deve vedere se essa non debba essere collocata nel titolo del Capo dello Stato.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione la prima parte dell’emendamento Bettiol:

«L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica dietro delegazione delle Camere».

(Dopo prova e controprova, è approvata).

Pongo in votazione la parola: «riunite».

(Non è approvata).

Pongo in votazione l’ultima parte dell’emendamento:

«e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla richiesta di delegazione».

(È approvata).

L’articolo 75 risulta così approvato, salvo coordinamento, nel seguente testo:

«Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i necessari poteri.

«L’amnistia e l’indulto sono concessi dal Presidente della Repubblica dietro delegazione delle Camere e non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla richiesta di delegazione».

Quanto alla proposta di dividere in due articoli la formulazione testé approvata la Commissione ne terrà conto nella redazione definitiva.

Abbiamo concluso così Titolo primo della seconda parte relativo al potere legislativo.

Passiamo ora al Titolo II:

«Il Capo dello Stato».

Si dia lettura dell’articolo 79.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta.

«L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi, e dopo il terzo scrutinio a maggioranza assoluta dei membri che compongono l’Assemblea a questo fine».

PRESIDENTE. L’onorevole Damiani ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto, a maggioranza assoluta».

Non essendo presente, s’intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

L’onorevole Russo Perez ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto dal popolo italiano a suffragio universale e diretto».

L’onorevole Russo Perez ha facoltà di svolgerlo.

RUSSO PEREZ. I sistemi per l’elezione del Capo dello Stato possono essere diversi: suffragio diretto da parte di tutta la massa degli elettori; elezione da parte delle due Camere riunite, che sarebbe il sistema classico; e la elezione da parte di un Collegio speciale, per il quale la fantasia può sbizzarrirsi ad immaginare un’infinità di sottoclassi.

La nostra Commissione ha scelto il secondo sistema, leggermente contaminato dal terzo, cioè l’elezione da parte dell’Assemblea Nazionale con la partecipazione, come dice qualcuno, simbolica di alcuni membri espressi dalle Assemblee regionali; simbolica perché il numero dei partecipanti è lieve, una quarantina in tutto.

I motivi della scelta non sono esplicitamente detti, ma sono impliciti nei motivi che portarono alla reiezione del primo sistema. Il suffragio diretto del popolo è stato escluso per un motivo di pura teoria, e perciò assolutamente inconsistente (La Rocca), e cioè che la elezione diretta muterebbe la caratteristica del sistema parlamentare, introducendovi un elemento del sistema presidenziale; e per un motivo pratico, la necessità di evitare che il Capo dello Stato, sentendosi troppo forte e troppo indipendente dai due rami del Parlamento, possa assumere atteggiamenti alla Giulio Cesare, la necessità di evitare quel che si dice appunto cesarismo, che, in lingua povera significa dittatura, tirannia. E si cita la esperienza di altri paesi, tra i quali la troppo citata Repubblica di Weimar. Sta di fatto che il Presidente della Repubblica, nel nostro ordinamento, non è un personaggio coreografico. A parte il considerare che egli, come ben dice l’onorevole Ruini, è il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale prima che temporale della Repubblica, a parte il considerare che rappresenta l’unità e la continuità della Nazione, la forza dello Stato, che rimane ferma ed uguale nel fluttuare e nel mutare di uomini e di partiti, egli ha dei poteri veramente eccezionali, come per esempio la nomina e quindi la revoca del Primo Ministro e dei Ministri (e si pensi che la scelta di un uomo può avere, a volte, influenza decisiva sulla situazione politica di un Paese), la facoltà di indire il referendum in caso di dissenso legislativo fra i due rami del Parlamento ed infine lo scioglimento delle Camere per dare il passo all’opinione pubblica, scioglimento che da taluno (Blum) è ritenuto la chiave di volta di ogni ordinamento democratico.

In queste condizioni mi pare che il Capo dello Stato abbia bisogno di forza morale e di indipendenza, e non vedo perché non debba ripeterle direttamente dal popolo.

È risaputo da tutti che il Presidente non deve avere funzioni di partito e che l’elezione da parte delle due Camere lo rende appunto troppo prigioniero di esse. È per questo che taluni preferiscono (Mortati) il collegio speciale, mentre è chiaro che il vero modo di distaccare il Capo dello Stato dai movimenti politici e di renderlo imparziale è l’elezione diretta. Difatti anche il Relatore Tosato afferma che tale esigenza è soddisfatta, ma solo in parte, dal sistema adottato dall’articolo 79 del nostro progetto di Costituzione.

Intanto il suffragio diretto è stato respinto all’unanimità da quel collegio di 8 membri che fu nominato dalla seconda Sottocommissione, prima Sezione. Esso ritenne imprudente che il Capo dello Stato fosse esponente diretto del popolo e opinò che tale forma avrebbe reso difficile il funzionamento del sistema parlamentare. Di quel Comitato facevano parte uomini dell’Unione democratica nazionale (Bozzi), e della Democrazia cristiana (Tosato-Mortati): democrazia, demos, popolo, repubblicani storici come Penassi e Conti, uomini dal motto «Dio e Popolo», quasi due divinità; socialisti e comunisti, che si credono i soli autentici rappresentanti del popolo, di cui invocano spesso la sovranità, quando non invocano addirittura quella della piazza. Mancavano i monarchici, che credono alla sovranità del re; i liberali e i qualunquisti, che si dice credano alla sovranità dei blasoni e dei forzieri. Ebbene, proprio gli idolatri del popolo hanno avuto paura del popolo! Perché ciò? Bisogna pensare che ognuno sogni un Capo dello Stato tutto di suo gusto, che possa secondare i suoi interessi? Che i migliori tra noi ne sognino uno che possa seguire le loro ideologie e servire i loro partiti?

I pericoli dell’elezione diretta sono immaginari. Weimar non espresse Hitler ma Hindenburg. L’investitura da parte di Hindenburg fu per Hitler più producente del suffragio popolare. Il resto nacque dalla megalomania di Hitler e dalle follie di Versailles. Perché un dittatore nasca non è necessario che costui riceva i pieni poteri dal popolo. Ho l’impressione che Mussolini non li abbia ricevuti dal popolo e sulla maniera con cui li ricevette vi sono qui, in questa Assemblea, alcuni che potrebbero illuminarci. Il cesarismo nasce dal temperamento degli uomini e dalla situazione delle cose. Bisogna augurarsi che i temperamenti dei Presidenti futuri non siano inclini alla tirannia e, quanto alle cose, siamo noi che dobbiamo agire in modo da non creare le condizioni propizie al nascere delle dittature.

Ma poi, un’altra osservazione: il senso dell’eccesso della propria forza può derivare, non dal fatto di essere stato eletto dal popolo anziché dall’Assemblea, ma, se mai, dalla certezza di poter contare per l’avvenire sul favore popolare, qualunque cosa si faccia, comunque ci si regoli.

Una volta eletto, con qualsivoglia sistema, il Capo dello Stato, i suoi poteri non mutano, sono quelli che promanano dalla legge.

Il solo modo di evitare quella certezza di cui parlavamo, quella che concerne l’avvenire, sta nel proibire la rielezione. Non vi è dubbio, secondo me, che un giorno la storia, seppur già la cronaca non lo dice, chiamerà dittatura quella di Roosevelt. Da che nacque quell’eccesso di forza che permise a lui, dopo aver promesso alle madri americane non far versare in Europa una sola goccia di sangue dei loro figli, di portare il popolo americano alla guerra? Non dalla elezione diretta, ma dalla prima e, soprattutto, dalla seconda rielezione. Si dirà che il divieto della rielezione impedisce la riconferma del migliore, ove il Paese abbia avuto la fortuna di esprimerlo e di portarlo a Capo dello Stato; ma si ricordi che il migliore cesserà d’esser tale quando sarà diventato l’insostituibile. No, non esistono ragioni serie per respingere la proposta mia e di altri colleghi per il suffragio diretto. Solo il suffragio diretto può portare alla suprema magistratura l’uomo che sia, come noi vogliamo, non uno strumento, ma un moderatore dei partiti.

P PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole De Vita:

«Sostituirlo col seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale e diretto».

L’onorevole De Vita ha facoltà di svolgerlo.

DE VITA. L’onorevole Russo Perez ha fatto cenno ai repubblicani storici, anzi a quelli storici e a quelli preistorici; ma, manco a farlo apposta, è proprio un repubblicano storico, e non preistorico, che ha presentato un emendamento che è identico al suo. Forse però i motivi che mi hanno ispirato sono diversi, ma io sono fermamente convinto che il sistema di elezione a suffragio universale e diretto del Presidente della Repubblica sia il sistema più democratico.

Ma, oltre questa considerazione, un’altra considerazione, a mio avviso importante, mi ha indotto a presentare questo mio emendamento. Il Presidente della Repubblica ha, ad esempio, il potere di sciogliere le due Camere. Ora è chiaro che con l’emendamento proposto dalla Commissione, il Presidente viene ad essere eletto dalle due Assemblee, sia pure integrate da una piccola aggiunta. Ma io non comprendo come il Presidente della Repubblica, espressione delle due Camere, possa avere i poteri per sciogliere le Camere stesse. Ora, perché il Presidente della Repubblica abbia effettivamente questi poteri, io ritengo, anche necessari, occorre che abbia un maggior prestigio, e questo maggior prestigio gli può derivare soltanto dalla elezione diretta da parte del popolo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Romano:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto dal popolo».

L’onorevole Romano ha facoltà di svolgerlo.

ROMANO. L’emendamento che ho proposto presuppone un piccolo rilievo, perché io penso che gli articoli riguardanti il Capo dello Stato avrebbero trovato migliore collocazione sotto il Titolo primo della parte seconda del progetto. Il collocamento sotto il Titolo secondo in qualche modo sminuisce il prestigio del Capo dello Stato. Questa collocazione non è in armonia con l’alta funzione morale e con le prerogative attribuite dalla Costituzione al Presidente della Repubblica.

Prescindendo da questo rilievo, che ha la sua importanza e che formerà oggetto di discussione per quanti in avvenire esamineranno la Carta costituzionale, è certo che un Presidente eletto dall’Assemblea non potrà essere che espressione dei partiti e quindi di questi sarà prigioniero.

Quello che più lascia perplessi è che, data la struttura dell’organizzazione politica di oggi, l’elezione in realtà sarà l’espressione della volontà di pochi uomini, di quelli cioè che detengono le redini dei partiti.

Un capo dello Stato asservito ai partiti non potrà essere né libero, né sereno. Egli arriva all’apice della piramide dello Stato con degli obblighi, che se non gli saranno rinfacciati, certo gli saranno ricordati.

Questo rientra tra i numeri negativi della democrazia indiretta, la quale il più delle volte finisce per essere un travisamento della volontà originaria, cioè della volontà del popolo.

Ma io mi domando: quali sono i nostri poteri, quali i limiti del mandato datoci dal popolo?

Pur sapendoci investiti di un mandato in bianco, dobbiamo considerare che il popolo ci ha dato incarico, per la compilazione della Carta costituzionale, di fare quello che da sé non avrebbe potuto fare, non già quello che può direttamente compiere.

Penso quindi che andremmo al di là del mandato se togliessimo al popolo il diritto dell’elezione diretta del Capo dello Stato. I compilatori del progetto spiegano l’elezione del Capo dello Stato da parte dell’Assemblea adducendo la preoccupazione dello strapotere del Presidente, il pericolo della dittatura. Un Presidente, eletto con suffragio diretto, se raccogliesse in Italia una ventina di milioni di voti, si sentirebbe indubbiamente lusingato della fiducia quasi totalitaria; quindi egli potrebbe sentirsi al disopra dell’Assemblea.

Il rilievo è esatto, ma solo in parte, giacché è anche giusto che il Presidente rimanga al disopra dell’Assemblea.

Solo così egli potrà mantenersi estraneo alla competizione dei partiti e potrà assicurare l’armonia e la solidarietà delle diverse istituzioni, elevandosi a simbolo dell’unità del Paese.

Questa estraneità, che è una non trascurabile garanzia, non potrebbe avere un Presidente eletto dall’Assemblea.

In questo caso sorgerebbe anche la preoccupazione dell’intrigo del giuoco politico nella nomina degli alti funzionari dello Stato, demandata al Presidente della Repubblica dal comma terzo dell’articolo 83.

Va poi rilevato che la possibilità di uno strapotere è esclusa dal comma primo dell’articolo 85 ove è detto che nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal primo Ministro e dai Ministri competenti che assumono la responsabilità.

A questo punto potrebbe affacciarsi un rilievo. Si può dire: per l’articolo 83 il Presidente della Repubblica emana decreti legislativi e regolamenti, nomina ai gradi indicati dalla legge i funzionari dello Stato, può concedere grazie e commutare pene.

Per questi atti, giusto il disposto dell’articolo 85, potrebbe essere rifiutata la controfirma dal Primo Ministro e dai Ministri responsabili.

Quindi possibilità di contrasto!

Il Presidente della Repubblica può reagire e sciogliere le Camere dopo aver semplicemente sentito i due Presidenti. Qui sta il pericolo dello strapotere. Ma questo potrà essere frenato, sensibilmente frenato, disponendosi che al rinnovo delle due Camere deve seguire la elezione del Presidente della Repubblica.

Sciogliere le due Camere significa constatazione della esistenza di un contrasto tra il paese ed i suoi rappresentanti.

Fra questi deve comprendersi anche il Presidente della Repubblica.

Quando questi saprà che allo scioglimento delle due Camere è legata anche la sua fine, sarà molto pensoso prima di addivenire ad un provvedimento di tanta gravità.

Si creerebbe così un validissimo freno al potere concesso dal comma primo dell’articolo 84 al Presidente della Repubblica.

Aggiungasi che la nomina del Presidente della Repubblica demandata al popolo alleggerirebbe la responsabilità dell’Assemblea.

Concludendo, una volta eliminato il pericolo dello strapotere non mi pare giusto ricorrere al suffragio indiretto, che costituirebbe violazione di un diritto spettante al popolo, diritto al quale il popolo col mandato in bianco datoci non ha rinunziato.

PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto dalle Camere riunite in Assemblea Nazionale».

Ha facoltà di svolgerlo.

FUSCHINI. Dirò brevemente le ragioni, per le quali io sono convinto che l’elezione del Presidente della Repubblica, in questo inizio della vita della Repubblica stessa, non sia politicamente opportuno deferirla al popolo.

Si dice che, se è eletto direttamente dal popolo, il Presidente della Repubblica acquisterebbe maggiore prestigio.

Io contesto questa affermazione: ritengo che un Presidente della Repubblica, il quale ottenga i voti dei due terzi dell’Assemblea Nazionale, avrebbe lo stesso prestigio.

Devo osservare che, per quella deficienza di educazione politica – mi si permetta il dirlo – della grande massa elettorale, la quale si lascia guidare più dalle impressioni e dai sentimenti che dal raziocinio e dalla valutazione politica, sarebbe un grave pericolo affidare a questo corpo elettorale la scelta del primo Magistrato della Repubblica.

Si crede e si afferma, erroneamente, che il popolo agirebbe di sua spontanea volontà, come se fra il popolo non si dovessero contare anche coloro, ed in prima linea, che formano i partiti politici. Non è possibile pensare che la elezione del Presidente della Repubblica venga da un corpo elettorale distaccato dai partiti. Questi indirizzeranno, oltreché le elezioni politiche, anche l’elezione del Presidente della Repubblica. Non pensare a questo vuol dire non pensare alla realtà politica, che si prospetta. Non si può sfuggire all’intervento dei partiti. La cosiddetta volontà degli elettori sarà sempre influenzata dai partiti. Ed io non mi preoccupo dei partiti, ma di quelle correnti sentimentali, che affiorano troppo spesso nel nostro corpo elettorale e fanno che esso – come disse un grande politico italiano, Don Luigi Sturzo – vada, per sentimenti e risentimenti, ora all’estrema destra ed ora all’estrema sinistra. Il pendolo della situazione politica è sempre oscillante verso le forme estreme; ed è oscillante, perché è guidato più che da educazione politica, da sentimenti e da impressioni. Ma se non sbaglio, essere guidato anche da sentimenti e da impressioni è una caratteristica dei popoli latini; è lo stesso difetto che credo abbia il popolo francese come si è visto anche nelle elezioni avvenute l’altro ieri. Insisto comunque nel dire che non si libera la nomina del Presidente della Repubblica dalla influenza dei partiti deferendola al popolo con il suffragio universale. E se non ci si libera, allora è opportuno e politicamente più saggio che il Presidente sia nominato dai rappresentanti che il popolo ha liberamente eletti, i quali hanno maggiore possibilità di scegliere elementi adatti per questa alta funzione, senza dimenticare che vi è una situazione in Italia che dobbiamo aver presente. Ed è questa: noi non vorremmo che attraverso la nomina popolare del Presidente della Repubblica si riaccendesse un contrasto – molto facile ad accendersi nel nostro Paese – tra nord e sud. Questo è stato sempre un lato pericoloso della nostra situazione interna che, se si può superare in un’Assemblea, è difficile superarlo in un vastissimo corpo elettorale, così tormentato da opposti sentimenti, qual è quello italiano. È necessario, se vogliamo l’unità del nostro Paese, evitare tutto ciò che possa mettere in pericolo questa unità. Sempre mirando a questo scopo, sarei in via di massima d’avviso che non sia opportuno inserire nell’Assemblea, che dovrà provvedere alla nomina del Presidente della Repubblica, i rappresentanti dei Consigli regionali. Sono stato e sono un sostenitore della Regione – sia pure con accenti di meditata ponderazione – e ritengo che sia doveroso attendere la formazione dei Consigli regionali e rendersi conto del loro funzionamento, prima di decidere se rappresentanti di tali Consigli debbano partecipare alla nomina del Presidente della Repubblica.

Comunque, anche quando l’Assemblea volesse stabilire che i Consigli regionali debbano partecipare a tale nomina occorrerà emendare l’articolo. In questo si dà la facoltà ai Consigli regionali di mandare due rappresentanti, cioè il Presidente del Consiglio regionale, che sarà naturalmente il rappresentante della maggioranza del Consiglio regionale stesso, ed un altro delegato, nominato dal Consiglio regionale, che sarà anche questo un rappresentante della maggioranza. Orbene, perché le minoranze dei Consigli regionali dovrebbero essere trascurate questa altissima funzione della nomina del Presidente della Repubblica? Basta accennare a questa lacuna che offende il sistema democratico per comprendere l’opportunità di correggere la disposizione che esaminiamo. Ma vi è ancora da rilevare che fra questi partecipanti alla nomina del Presidente della Repubblica e i membri delle due Camere vi è anche una differenza elettorale di grado. Infatti i rappresentanti dei Consigli regionali sarebbero elementi di terzo grado, mentre la elezione del Presidente della Repubblica affidata ai componenti le due Camere rappresenterebbe un’elezione di secondo grado.

Ritengo che queste considerazioni abbiano un certo peso per cui confido che l’Assemblea non vorrà trascurarle nel prendere le sue decisioni.

La nomina da parte del popolo del Presidente della Repubblica non ci preoccupa, ma ci preoccupano gli inconvenienti che possono derivare da una campagna elettorale relativa a una nomina di così alto rilievo. I partiti avranno maggiori difficoltà di accordarsi e ciascuno di essi vorrà avere il proprio candidato e si dovrà impegnare a fondo per farlo riuscire. Ogni candidato sarà quindi soggetto a polemiche vivaci e forse durissime e sarà bersaglio di tutti i moderni mezzi di propaganda e di pubblicità. Anche quel candidato che riuscirà vittorioso non sarà stato risparmiato dagli attacchi della passione politica e il suo prestigio personale riuscirà in qualche modo ferito.

Io ritengo dunque che bisogna evitare questi inconvenienti ed aver fede nel Parlamento di domani che sarà certamente capace di dare alla Repubblica un Presidente degno e capace. Né si dica che un Presidente nominato dalle Camere sarebbe vincolato alle Camere stesse. No, signori: le funzioni ed i poteri che si danno al Presidente della Repubblica lo pongono al di sopra dell’Assemblea che lo ha eletto, per cui dal momento stesso in cui è eletto, egli sovrasta l’Assemblea stessa dalla quale proviene, e diventa il supremo collaboratore e moderatore insieme. Basti pensare al potere, riconosciutogli dall’articolo 84, di sciogliere le Camere, per intuire come il Presidente sia in una condizione di peculiare prestigio di fronte alle Camere e possa per ciò stesso essere in grado di guidare rettilineamente e in maniera saggia il Paese. Questo è il suo compito; e a questo compito il Presidente nominato dall’Assemblea non verrà meno perché sarà responsabile non solo di fronte all’Assemblea, ma anche di fronte all’intero Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Nobili Tito Oro:

«Al primo comma, sopprimere le parole: con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILI TITO ORO. Mi pare, onorevoli colleghi, che l’emendamento del Gruppo socialista trovi già aperta la porta dall’autorevole parola del collega Fuschini nello svolgimento del suo emendamento che nella parte centrale coincide perfettamente col nostro.

L’articolo 79 affida l’elezione del Presidente della Repubblica alle due Camere riunite (le chiameremo eventualmente, con nome risonante di sacri ricordi, Assemblea Nazionale), con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e del Consigliere designato dai Consigli medesimi a maggioranza assoluta. Noi gli contrapponiamo la proposta di escludere la partecipazione dei rappresentanti dei Consigli regionali e chiediamo che l’elezione del Presidente avvenga a maggioranza assoluta, senza bisogno del triplice esperimento per il raggiungimento della maggioranza speciale di due terzi. Detto questo, occorrono poche considerazioni a chiarimento dell’emendamento. La prima parte di esso, relativa alla devoluzione alle due Camere riunite della elezione del Presidente della Repubblica, è stata esaurientemente svolta già dal collega Fuschini; per questo, e perché l’ora tarda non consentirebbe una trattazione sistematica, mi limiterò a poche osservazioni.

Si dice da alcuni, e se ne sono fatti eco gli emendamenti dei quali abbiamo ascoltato lo svolgimento, che la elezione del Presidente della Repubblica da parte del popolo, a suffragio universale diretto, darebbe alla sua figura un maggior rilievo, prestigio ed autorità. La relazione scritta dell’onorevole Ruini, pur senza criticare il progetto, sottolinea questa tendenza; e afferma anche che gli conferirebbe una maggiore indipendenza; indipendenza che procederebbe dal fatto che egli non dovrebbe al giuoco dei partiti, nelle due Camere riunite, la propria elezione, ma la dovrebbe direttamente al popolo. In conseguenza di ciò non si creerebbero quei vincoli di riconoscenza che sono atti a turbare, in momenti decisivi, l’obiettivo orientamento di un Capo di Stato.

Egregi colleghi, si è detto sempre in questa Assemblea che ormai il movimento elettorale è nelle mani dei partiti politici: è vero o non è vero ciò? Se è vero, non si comprende la distinzione che si fa a questo riguardo tra elezione da parte delle Camere riunite, ossia del Parlamento, e la elezione a suffragio universale, da parte del popolo.

I partiti politici sono presenti e dominanti nell’una e nell’altra manifestazione. Essi agiscono indifferentemente sulla consultazione popolare come sul Parlamento. E pertanto il temuto vincolo di riconoscenza dovrebbe, se mai, crearsi più potente dopo il più poderoso intervento occorso nella consultazione popolare che non per effetto della ordinaria azione svolta sul Parlamento. La verità più vera e meno indegna di questo sacro istituto è che un uomo ritenuto meritevole di ascendere alla prima Magistratura nazionale non sarebbe mai capace di subordinarsi, nell’esercizio delle sue alte funzioni, a sentimenti di compromesso politico.

D’altra parte una distinzione si sarebbe dovuta fare dai critici della risoluzione adottata all’unanimità dal Comitato di redazione: quale è la forma di reggimento repubblicano verso la quale la nostra Costituzione si è decisamente orientata? Non è certamente la forma presidenziale, ma quella parlamentare. Io comprendo che nelle forme presidenziali il Presidente, che ha la somma dei poteri se pur controllati da altri organi elettivi, costituiti per lo più a suffragio indiretto, debba ripetere la elezione direttamente dal popolo; ma non so vedere come e perché il Presidente non potrebbe ripeterla dal Parlamento in quelle Costituzioni che al Parlamento hanno conferito tutti i poteri del popolo medesimo.

Col passaggio del potere dal popolo al Parlamento, questo è automaticamente investito del diritto di formare e di eleggere gli altri organi necessari alla compagine statale: dal Governo al Capo dello Stato. E pertanto mi pare che il nostro emendamento (che fa propria su questo punto la risoluzione della Commissione) debba incontrare l’approvazione della nostra Assemblea.

Quanto poi alla parte soppressiva del nostro emendamento, e cioè alla esclusione della partecipazione dei rappresentanti delle Regioni, io sento il dovere, di fronte allo svolgimento che l’onorevole Fuschini ha onestamente dato al coincidente emendamento proprio, di accennare soltanto, nello svolgimento del mio, le ragioni che lo consigliano. Queste ragioni sono state già esposte anche da me, in precedenti incontri.

Non credo di commettere, così facendo, un errore di valutazione: a parte l’autorità che l’onorevole Fuschini meritamente gode in quest’Assemblea ed esercita sul proprio Gruppo, io devo tener conto che egli, non avendo dichiarato di esprimere soltanto un pensiero personale, abbia parlato in nome e per incarico del suo partito.

Comunque, il nostro pensiero si può riassumere in poche parole: le Regioni, se debbono essere (e per questo sono state istituite) organo di decentramento amministrativo, non si debbono ingerire in quella che è l’azione politica del Parlamento della Repubblica. Qui, in questa Assemblea, che si chiamerà «Nazionale» o delle «Camere riunite», che cosa rappresenterebbero i membri delle Regioni? Una estensione del suffragio diretta a costituire qualche cosa di mezzo fra la elezione parlamentare e la elezione diretta da parte del popolo? Non sarebbe serio nemmeno il pensarlo. E tuttavia, se il fine fosse questo, perché non estendere la partecipazione alla elezione anche ad un limitato numero di rappresentanti dei comuni, da eleggersi nell’ambito di ciascuna provincia? Questo concetto io ebbi già occasione di illustrare quando si tentò di varare la proposta di far partecipare i Consigli regionali alla elezione dei senatori.

La verità è che il progetto si inspira al criterio di fare delle Regioni veri organi politici destinati a creare lo Stato federativo. E va tenuta presente anche una considerazione che faceva l’onorevole Fuschini e che risponde ai principî di sana democrazia: perché far risultare i rappresentanti delle Regioni solo dalla maggioranza dei Consigli regionali, e non anche eventualmente dalle minoranze col sistema di designazione proporzionale? Anche questo motivo, per quanto subordinatamente ed incidentalmente, è stato da noi considerato, sebbene non sia stato assunto come determinante della nostra opposizione. I sostenitori del progetto hanno rilevato, in sua difesa, che si tratta comunque di una rappresentanza puramente simbolica.

Ma questa rappresentanza simbolica, che per lo meno oscillerebbe attorno ai quarantaquattro membri, potrebbe o non potrebbe assumere una influenza decisiva sul risultato della elezione? Se nel comma secondo con l’articolo 79 la Commissione si è preoccupata di prevedere la difficoltà di raggiungere la maggioranza speciale dei due terzi, è da presumere che anche un solo voto possa essere decisivo nella elezione del Presidente. Chi non ha presente che importanti nostre deliberazioni sono emerse dal pareggio assoluto dei voti contrastanti? Non si dica dunque che quarantaquattro voti non costituiscano se non una rappresentanza simbolica.

Per questi motivi, e senza ripetere tutte le ragioni che concorrono ad escludere le Regioni dall’attività politica centrale, noi siamo nettamente contrari alla partecipazione dei rappresentanti regionali alla riunione delle Camere che dovrà eleggere il Presidente della Repubblica. Questa esclusione avrà anche il merito di distruggere un sospetto largamente diffuso dai sostenitori della Regione colla pretesa d’impiegare tali enti in funzioni che vanno troppo al di là di quelle per le quali furono creati. In proposito ricordo una dichiarazione eloquente fatta in questa Assemblea dall’onorevole Ambrosini nella relazione di chiusura della discussione generale sulle Regioni. Egli disse, in quell’occasione, di essere stato rimproverato dal suo partito per aver troppo contenuto la riforma. Dunque, il suo partito avrebbe avuto l’intenzione che le Regioni fossero andate anche al di là di quel troppo che disgraziatamente si è fatto. La constatazione è grave e deve farci pensosi.

Per questo, onorevoli colleghi, noi risolutamente insistiamo nella soppressione della partecipazione delle Regioni alla elezione presidenziale; essa sarebbe estranea, incompatibile, ingiustificata sotto tutti i punti di vista.

E ora passo a illustrare brevemente l’altra parte dell’emendamento. Ho conservato nel primo comma, onorevoli colleghi, la locuzione «a maggioranza assoluta».

Questa maggioranza assoluta prima si riferiva alla designazione dei consiglieri da parte dei Consigli regionali. Soppressa tale designazione, essa si riferisce alla elezione del Presidente. Viene così soppressa la corrispondente indicazione nel secondo comma e trasferita al primo. Il secondo comma rimane così circoscritto alla prescrizione della votazione a scrutinio segreto; scompare dunque la parte relativa alla prescrizione della maggioranza speciale dei due terzi, che si dovrebbe tentare di raggiungere, in esperimenti successivi, fino a tre volte, per passare poi alla proclamazione a semplice maggioranza assoluta dopo il terzo insuccesso.

Orbene, onorevoli colleghi, noi pensiamo che esporre un candidato alla prima Magistratura del Paese a tentativi ripetuti di elezioni prima che se ne affermi il risultato positivo, prima che si formi la maggioranza prescritta, sarebbe un indebolire in partenza la sua autorità ed il suo prestigio. Accontentiamoci invece che la elezione avvenga subito a maggioranza assoluta; e quando tale maggioranza, in una Assemblea composta di tanti e così diversi partiti, si sarà raggiunta, si dovrà tranquillamente riconoscere che il Presidente della Repubblica ha riscosso la fiducia dei rappresentanti veri e genuini della grande maggioranza del popolo italiano; e, non in virtù di un’antiquata formula sacramentale, ma in forza di una realtà attuale e sempre più profondamente operante, avrà diritto di essere da questo momento considerato il Capo, atteso e veramente voluto, di tutti e singoli i cittadini italiani!

PRESIDENTE. Gli onorevoli Carboni Angelo, Gullo Rocco, Villani, Ghidini, Arata, Fietta, Montemartini, Bocconi, Preti e Treves hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire l’articolo 79 con il seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi, e dopo il terzo scrutinio a maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea».

L’onorevole Carboni Angelo ha facoltà di svolgerlo.

CARBONI ANGELO. Il nostro emendamento concorda nella sostanza con quelli presentati dagli onorevoli Fuschini e Nobili Tito Oro. Un mio lungo discorso su questa materia non avrebbe, a quest’ora, altro effetto se non quello di sciupare quanto già egregiamente è stato detto dall’onorevole Fuschini e ribadito dall’onorevole Nobili Tito Oro. Mi limiterò pertanto a rilevare solo la differenza che corre tra il mio emendamento e quello dell’onorevole Nobili Tito Oro, per quanto riguarda la maggioranza richiesta per l’elezione del Presidente della Repubblica. L’onorevole Nobili ha spiegato poco fa che egli intende ridurre questa maggioranza, fin dal primo scrutinio, alla maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea. Noi invece aderiamo al concetto espresso dall’articolo 79 del progetto di Costituzione e cioè che sia opportuno richiedere in un primo momento la maggioranza di due terzi, mentre soltanto dopo i primi due scrutini sarebbe giocoforza accontentarsi della maggioranza assoluta.

L’onorevole Nobili Tito Oro eccepisce che in questa maniera si finisce con il diminuire la figura del Presidente eletto da uno scrutinio che sia il terzo o successivo al terzo. Orbene, questa obiezione non mi pare fondata, perché sarà molto probabile che i componenti delle due Camere riunite – o come altro vorremo chiamarle – nel loro senso di responsabilità e di patriottismo faranno confluire le loro simpatie verso un determinato candidato, il quale non sarà più il candidato di una parte, ma sarà il candidato della grande maggioranza del Paese.

Noi abbiamo avuto l’esempio di ciò nell’elezione del Capo provvisorio dello Stato, il quale, entrambe le volte, è stato eletto a maggioranza qualificata; maggioranza qualificata che serve appunto a conferire alla figura del Presidente della Repubblica quel rilievo, quel prestigio e quell’altezza che veramente ne fanno grande la funzione e atta a contribuire efficacemente alla vita del Paese.

Noi siamo quindi d’accordo con coloro che propongono di deferire la nomina del Presidente della Repubblica alle Camere, riunite insieme; concordiamo sul punto che questa nomina si faccia a scrutinio segreto e su quello, che, in un primo momento, essa si faccia a maggioranza qualificata di due terzi.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Dominedò e Benvenuti hanno presentato un emendamento tendente a sostituire l’articolo 79 con il seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto da tutto il popolo».

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.

DOMINEDÒ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che basteranno brevi rilievi, dopo l’impostazione e lo svolgimento che al tema hanno dato altri oratori sotto diversi angoli visuali. Ma conviene prospettare all’Assemblea quanto da più parti sia profondamente sentita l’esigenza dell’investitura diretta ai fini del rafforzamento di potere e dell’elevazione di prestigio del Capo dello Stato.

Se si vuole, secondo lo spirito della Costituzione, che il Capo dello Stato sia il supremo moderatore dell’indirizzo politico del Paese, il tutore e custode della Costituzione, se questo si vuole (come è comprovato dall’articolo 84, che rappresenta la chiave di volta del sistema, conferendo al nostro Presidente della Repubblica il potere di scioglimento delle Camere, nello stesso modo in cui la Costituzione di Weimar conferiva al Presidente della Repubblica tedesca, eletto per suffragio diretto, il potere di congedare il Gabinetto), se tutto ciò è, come è, spetta a noi compiere un passo oltre.

Allo scopo di rendere effettivo il ruolo di supremo moderatore del Capo dello Stato, a noi pare che, in coerenza con tale punto di partenza, postulato e premessa di tutta la materia, occorra apprestare i mezzi adeguati per la realizzazione del fine. E allora l’esigenza è questa: che il Capo dello Stato, il quale, allo scopo di assicurare l’unità e la stabilità della politica del Paese, domani potrà sovrapporsi alle stesse Camere dalle quali promana, evidentemente dovrà essere messo in una tale condizione per cui, se si vorrà rendere pieno ed operante l’esercizio del suo potere, egli risulti in un rapporto di investitura diretta idoneo al fine. Si tratta cioè di porre al di sopra delle Camere, che dovranno essere giudicate, il supremo organo che sta al vertice della nostra costruzione costituzionale, ed è chiamato ad esprimere il giudizio. Si tratta di creare un rapporto di democrazia diretta, che sovrasti all’ipotesi della pura e semplice democrazia rappresentativa.

Questo dal punto di vista della impostazione costituzionale. Il tema è così grave e profondo, che meriterebbe evidentemente un’analisi ulteriore. Ma il fatto che siamo in sede di esame di emendamenti e non di discussione generale, nonché la circostanza che altri colleghi hanno sotto diverso aspetto toccato il tema, mi mettono nella necessità di enunciare la sola impostazione della materia, rimettendomi per il resto alla valutazione che di essa saprà dare l’Assemblea.

Si obietta – con vivezza lo ha fatto il collega e amico Fuschini – che questo ricorso alla democrazia diretta, sovrapponentesi alla democrazia rappresentativa, allo scopo di conferire al supremo magistrato del Paese la pienezza dei suoi poteri, ci pone nella possibilità di dubitare di quella maturità del corpo elettorale, la quale costituisce la premessa di fatto acciocché un sistema, che in via di principio appare l’ideale, possa in concreto rispondere alle proprie finalità.

Mi permetto di rispondere che se volessimo dubitare dell’adeguato grado di maturità popolare, dell’educazione politica del corpo elettorale, ci troveremmo allora dinanzi ad un argomento che corre il rischio di non provare perché altrimenti proverebbe troppo. Il preteso e ripetuto difetto di maturità potrebbe infatti coinvolgere anche le correnti, i movimenti e i gruppi espressi dallo stesso corpo elettorale immaturo. Non abusiamo di argomenti che, applicati per absurdum, finiscono per ritorcersi contro l’intendimento di coloro stessi che li proposero.

D’altra parte, è innegabile che il principio della democrazia diretta è destinato a prevalere su quello della democrazia rappresentativa anche da un punto di vista politico oltre che costituzionale. Perché, se è vero che il giuoco dei partiti risulta insopprimibile anche nella ipotesi di ricorso diretto alla consultazione popolare, evidentemente tale giuoco assume in tal caso un ruolo inferiore, proprio perché indiretto o mediato. Nessuno potrà in definitiva contestare la priorità dell’ipotesi in cui l’investitura sia rimessa alla parola diretta ed ultima del Paese, analogamente a quanto avviene tutte le volte che per la deliberazione in materie di suprema importanza si sostituisca il principio del referendum a quello della creazione di meri organi rappresentativi della volontà popolare.

Dopo aver così visto l’aspetto costituzionale e quello politico del problema, non resta che un’obiezione da tener presente. Se nella redazione costituzionale noi ci siamo ispirati al concetto del Governo parlamentare, non finiamo invece per gravitare verso il concetto del regime presidenziale con una innovazione che può sotto taluni aspetti apparire radicale?

Mi permetto e credo di poter obiettivamente rispondere che il regime parlamentare è nella sua attuazione concreta suscettibile di ricevere diversi adattamenti, i quali non daranno storicamente luogo a forme atipiche in senso stretto, bensì potranno determinare sintesi nuove e vitali. Nulla esclude infatti che mentre si sorregge la suprema potestà mediante un’investitura superiore, perché diretta e popolare, chi possa ad un tempo preferire l’essenza del principio parlamentare, per cui il Governo promana dal Parlamento e dinanzi a questo è responsabile.

Per queste considerazioni noi desideriamo sottoporre alla valutazione dell’Assemblea un problema di così alta portata, nell’intendimento ultimo di servire al prestigio delle nuove istituzioni dello Stato italiano. (Applausi).

PRESIDENTE. Sono stati svolti così tutti gli emendamenti proposti all’articolo 79.

Il seguito della discussione è rinviato alle ore 11 di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se e quali provvedimenti siano stati presi dall’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica allo scopo di proteggere i porti e gli aeroporti italiani, e particolarmente quelli meridionali, dal pericolo di una estensione dell’epidemia colerica che in atto colpisce i porti dell’Egitto.

«Caronia, Dominedò».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica e al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti o quali misure cautelari e preventive siano stati emesse o si emetteranno per evitare che navi provenienti dall’Egitto possano provocare casi di colera in Napoli e dintorni; considerando a tal fine il forte agglomerato urbano di Napoli e le condizioni veramente pietose degli ospedali cittadini che non possono dare – nonostante gli sforzi di dirigenti e personale – alcuna garanzia alla cittadinanza stessa.

«Sansone».

«Al Ministro della difesa, per conoscere se – in relazione al fatto che, dopo 1’8 settembre 1943, civili italiani, non aventi obblighi militari col Governo nazionale, hanno prestato servizio in reparti alleati che combattevano sul mare o sui fronti, con mansioni di varia natura aventi carattere prettamente militare; e che, non trattandosi di servizio di fatica, tale attività rientrava nel quadro generale dello sforzo bellico per piegare la Germania in armi, tanto che non pochi morirono o rimasero – tale servizio dia diritto alla qualifica di combattente o se, comunque, l’onorevole Ministro intenda emettere un provvedimento legislativo che tale diritto riconosca, fissandone le condizioni.

«Riccio Stefano».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri del bilancio e dell’industria e commercio, per conoscere i motivi per i quali, dai finanziamenti finora deliberati per molte industrie, specie del settentrione, sia stata esclusa la massima industria mineraria italiana, quale è quella del carbone del Sulcis ed i cui progetti di impianti, destinati a raddoppiare l’attuale produzione, sono stati approvati dal CIR e dagli altri organi ministeriali fin dal dicembre 1946.

«Mannironi».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere perché la sopraintendenza ai monumenti e alle gallerie di Bari si è opposta alle deliberazioni del Consiglio comunale di Spinazzola (Bari) del 31 maggio e 25 luglio 1947, con le quali si sostituivano i toponimi della Piazza Plebiscito con quello di Piazza della Repubblica, di Corso Umberto I con Corso Antonio Gramsci e di Corso Vittorio Emanuele II con quello di Giacomo Matteotti.

«Pastore Raffaele».

«Ai Ministri dell’interno e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se siano loro noti gli incidenti avvenuti di recente nelle officine Breda di Sesto San Giovanni a danno di operai ed impiegati della corrente sindacale cristiana e precisamente:

1°) il 18 settembre 1947 a danno dell’operaio Fustella Carlo, il quale, chiamato nell’ufficio dall’impiegato Innocenti Gottardo, contornato da altre 10 persone, veniva colpito e ferito con calci e pugni dall’operaio Sala Enrico, membro del Partito comunista italiano e della commissione interna dello stabilimento, sol perché aveva lealmente ammesso di aver fatto in precedenza la osservazione che le continue sottoscrizioni e i ripetuti prelievi alle paghe tra gli operai dello stabilimento a favore del Partito comunista italiano e di sue istituzioni gli ricordassero in qualche modo sistemi in uso in un recente passato;

2°) il 25 settembre 1947 a danno prima di Assi Angelo, rappresentante della corrente sindacale cristiana, al quale l’impiegato Carrà, membro dell’esecutivo della sezione aziendale del Partito comunista italiano, intimava di togliere il manifesto con il quale dignitosamente e moderatamente la corrente sindacale cristiana dello stabilimento aveva deplorato l’episodio Fustella, nonché di spiegare pubblicamente tale episodio come frutto di equivoco, altrimenti non si sarebbero potuti garantire i membri della corrente sindacale cristiana dalla violenza degli operai; ed a danno lo stesso giorno, qualche ora dopo, di parecchi operai ed impiegati percossi, offesi, espulsi dai loro uffici (così fra gli altri l’impiegato Ferrari Giammaria dall’ufficio personale sezione prima, l’ingegnere Rhò, dall’ufficio sezioni impianti, l’impiegato Correi, capo ufficio personale, sezione quarta).

Gli interroganti chiedono altresì di sapere se consti agli onorevoli Ministri della parzialità e pavida acquiescenza a fatti consimili, che si ripetono periodicamente, da parte dei dirigenti dello stabilimento e degli amministratori della società Breda e per conoscere con quali provvedimenti e mezzi ritengano di impedire che siffatti episodi abbiano a ripetersi.

«Clerici, Meda, Lazzati, Castelli Edgardo, Balduzzi, Sampietro».

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Sottolineo la necessità di una risposta urgente del Governo alle interrogazioni dell’onorevole Caronia e mia, in quanto occorre tranquillizzare le popolazioni meridionali, che sono state poste in allarme dalle voci di casi di colera nel porto di Napoli.

PRESIDENTE. Interesserò i Ministri competenti affinché facciano sapere al più presto quando intendano rispondere alle interrogazioni urgenti di cui ho dato lettura, con particolare riguardo a quelle degli onorevoli Caronia e Sansone.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Cavallari, ammalato, ho chiamato a far parte della Commissione per le leggi elettorali l’onorevole Gullo Fausto.

Sai lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Avverto che, in previsione della sospensione dei lavori nei primi giorni del prossimo novembre, l’Assemblea dovrà probabilmente tenere sedute anche nel pomeriggio di sabato e nella mattinata di lunedì prossimi.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Desidero richiamare l’attenzione della Presidenza sulla necessità che noi non si perda tempo nel nostro lavoro, e che appunto, in vista di una interruzione di alcuni giorni, collegata con la ricorrenza della festa dei Santi e del giorno dei Morti, si utilizzino interamente le giornate di sabato e di lunedì.

Eventualmente lunedì mattina, se la Presidenza crede, si potrebbero svolgere le interrogazioni e lunedì pomeriggio si potrebbe continuare la discussione sul progetto di Costituzione.

È interesse di tutti che si dia la sensazione che vogliamo finire presto i nostri lavori.

PRESIDENTE. Accetto il suggerimento di dedicare, occorrendo, la seduta antimeridiana di lunedì alle interrogazioni e quella pomeridiana alla materia costituzionale.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi che hanno portato alla sostituzione del direttore dell’ufficio provinciale dell’assistenza post-bellica di Ascoli Piceno:

«Molinelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quando verrà determinato, nel bilancio 1947-48, lo stanziamento del fondo per i sussidi governativi per i miglioramenti fondiari, stabiliti col regio decreto 13 febbraio 1933, n. 215, contenente nuove norme per la bonifica integrale, in modo che possano venir corrisposti agli aventi diritto i relativi contributi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim dell’Africa Italiana, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per far rientrare sollecitamente dall’Africa (Eritrea e Somalia) i numerosi ex militari e funzionari colà rimasti, privi di assistenza e soprattutto dei mezzi necessari per le spese di viaggio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mannironi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per sapere se e come intendano ovviare:

1°) al disordine persistente in molti distretti militari in ordine alla documentazione prescritta per le pensioni di guerra, talché le domande del servizio pensioni rimangono spesso inevase per lunghi mesi e non di rado per interi anni;

2°) ai ritardi enormi con cui le Commissioni mediche, o per lentezza o per deficienza di personale, procedono alle visite richieste dalla Direzione generale pensioni di guerra e necessarie alla liquidazione delle pensioni stesse. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

PRESIDENTE. Queste interrogazioni saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si richiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.