ASSEMBLEA COSTITUENTE
LXXVI.
SEDUTA DI MERCOLEDÌ 26 MARZO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE TARDETTI
INDICE
Sul processo verbale:
Patricolo
Presidente
Simonini
Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana:
Presidente
Tieri
Bettiol
Crispo
Carboni
Preziosi
Bellavista
Preti
La seduta comincia alle 15.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
Sul processo verbale.
PATRICOLO. Chiedo di parlare sul processo verbale.
PRESIDENTE. Per quale motivo, onorevole Patricolo?
PATRICOLO. Per rispondere al giudizio contenuto nelle dichiarazioni fatte nella seduta di ieri dall’onorevole Gronchi sul valore giuridico, morale e politico di un emendamento da me presentato all’articolo 7.
PRESIDENTE. Onorevole Patricolo, il processo verbale non è la sede per rispondere a discorsi pronunciati da deputati che hanno avuto regolarmente la parola, e, mi perdoni, non è neanche la sede opportuna per polemizzare con la Presidenza dell’Assemblea. In sede di processo verbale si può parlare o per proporre una rettifica, o per chiarire o correggere il proprio pensiero espresso nella seduta precedente o per fatto personale, quando si è stato chiamato in causa.
PATRICOLO. Io ritengo di essere stato chiamato in causa, se non direttamente, indirettamente dall’onorevole Gronchi.
PRESIDENTE. La chiamata in causa è sempre diretta e si specifica con l’indicazione del nome del deputato. Come avevo già osservato ieri, mi pare sia pacifico che solo se un deputato è designato col proprio nome e cognome sorge il fatto personale. Io le chiedo scusa, ma ritengo che non ci sia la ragione per darle la parola.
PATRICOLO. Pensavo che potesse concedermela; comunque, se non mi concede in modo assoluto di parlare, non insisto.
PRESIDENTE. Il suo intervento significherebbe, non dico riaprire, ma sollevare una ultima, piccola ripercussione di una discussione che ieri sera ha ricevuto la sua conclusione definitiva.
SIMONINI. Chiedo di parlare sul processo verbale.
PRESIDENTE. Per quale motivo?
SIMONINI. Desidero dichiarare che, se fossi stato presente all’appello nominale, avrei votato contro l’articolo 7.
PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
(È approvato).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Si dà inizio all’esame del primo titolo della prima parte del progetto di Costituzione: «Rapporti civili».
A questo proposito richiamo gli accordi presi in ordine all’andamento della discussione e, in particolare, al limite di tempo per gli interventi che fu indicato in mezz’ora, limite che è stato frequentemente e notevolmente superato nel corso della discussione generale sulle disposizioni generali. Sarei lieto se, sulla base dell’esperienza fatta, ci convincessimo che è opportuno restare in questo limite, tenendo presente che quella che io mi permetto di chiamare la gerarchia di autorità dei componenti di questa Assemblea, che evidentemente esiste, si stabilisce in relazione al valore di ciò che ciascuno dice sui temi che sono posti in discussione e non in relazione ad altri titoli o ad altri meriti, che ognuno può avere altrimenti conquistati.
Pertanto, vorrei che ciascuno comprendesse la necessità di porsi nel limite di tempo concordato, cercando di restare alla sostanza delle cose da esporre. Fo anche presente che le iscrizioni che decadono o per l’assenza dell’iscritto o per rinuncia spontanea non devono dar motivo ad una reiscrizione, poiché, se continuassimo ad accettare questo sistema, la lista degli iscritti non potrebbe mai considerarsi chiusa.
Infine pregherei i colleghi di evitare di chiedere troppo insistentemente di mutare il loro posto nell’elenco delle iscrizioni, perché l’accettazione che si potesse fare della richiesta significherebbe praticamente la violazione di un diritto di tutti gli altri che sono iscritti e che verrebbero a perdere il posto assicuratosi nel momento della loro iscrizione.
Dopo questa breve premessa dichiaro aperta la discussione generale sul Titolo primo del progetto di Costituzione: Rapporti civili.
Il primo iscritto a parlare è l’onorevole De Vita. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunziato.
Segue, nell’ordine di iscrizione, l’onorevole Tieri. Ha facoltà di parlare.
TIERI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ciascun articolo di questo primo titolo della prima parte del progetto di Costituzione ha in comune con quasi tutte le altre parti del progetto il pregio di incominciare bene e il difetto di terminare male: desinit in piscem.
Vediamo quindi qualche esempio. L’articolo 8 si apre con la giusta affermazione della inviolabilità della libertà personale e si chiude con la condanna di ogni violenza fisica e morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà in cui quell’avverbio «comunque» fa accapponare la pelle.
L’articolo 9 tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza ma, appena finito di tutelare tale libertà e tale segretezza, già si preoccupa del modo di limitarla, fino alla completa soppressione.
L’articolo 10 dà al cittadino il diritto di libera circolazione e di libero soggiorno in qualsiasi parte del territorio italiano e immediatamente dopo, nello stesso periodo in cui si proclama questo diritto, parla di limiti e di modi non soltanto per motivi di sanità – che sono ancora comprensibili – ma anche per imprecisati motivi di sicurezza.
L’articolo 12 e l’articolo 13 sono consacrati al diritto di riunione e di associazione, ma non si capisce di che strano diritto si tratti se le autorità possono contestarlo per i soliti e indeterminati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. E non parliamo, per ora, dell’articolo 16, quello relativo alla libertà di pensiero e di parola che è veramente un esempio insuperabile, un vero e proprio trattato dei temibili mezzi con cui uno Stato può impedire al cittadino di pensare e di esprimersi a modo suo.
Che tutto questo avvenga proprio in sede di definizione giuridica dei rapporti civili fra cittadino e cittadino e tra i cittadini e lo Stato è per lo meno preoccupante.
Dice l’autorevole Relatore che «la regolazione dei diritti e doveri ha luogo non col semplice rinvio alla legge, ma con l’indicazione di criteri, nei quali la legge troverà insieme l’infrangibile limite e le direttive da seguire».
Ma sta di fatto che, con le limitazioni, contradizioni e incongruenze che si trovano in ogni articolo e fra articolo e articolo del titolo primo, si prepara non già il Governo del popolo, cioè la democrazia, sibbene il Governo contro il popolo, vale a dire un Governo che nemmeno l’arbitraria terminologia del visconte di Cormenin, inventore dello strano vocabolo «governocrazia», riuscirebbe in qualche modo a battezzare.
È stato detto che «una Costituzione esprime la formula di un equilibrio delle forze politiche che agiscono nell’ambito di una convivenza statale». Sono parole di Ugo Forti e si leggono nella prefazione al volume primo della relazione all’Assemblea Costituente. Non le diremmo parole felici, pur riconoscendo l’importanza dell’opera alla quale sono state premesse. Comunque è contestabilissima la validità della formula. Si può accettare l’equilibrio, non si può accettare il potere decisivo delle «forze politiche». La massima parte dei cittadini non fa politica; ne subisce, volta a volta, una. Ora una Costituzione deve tener conto della vita di tutti i cittadini, e non soltanto della vita di quelli che fanno politica. Ammettiamo, tuttavia, per un momento, che la formula sia valida. Di quali e di quante forze politiche ha tenuto conto il progetto in esame? Di quelle al potere, evidentemente. Anzi di quella che, fra le forze al potere, domina tutta la vita legislativa italiana nel momento attuale. È una Costituzione di parte, dunque; non è una Costituzione nel senso classico della parola. Non per niente l’onorevole Nitti le ha preannunziato una vita breve, preannunziando implicitamente dominio politico breve ai suoi più prepotenti inspiratori.
Vero è che codesti inspiratori presumono di parlare e dettar leggi non tanto in nome dei loro partiti, quanto in nome del popolo; ma che cosa è mai dunque codesto popolo nel nome del quale essi parlano e dettano leggi? Popolo siamo tutti: io che mi rivolgo a voi, voi che mi ascoltate (o non mi ascoltate), i nostri familiari, i nostri superiori, i nostri amici, i nostri nemici ecc.; e non mi pare che proprio tutti abbiamo dato a quegli inspiratori il mandato di parlare in nostro nome.
È curiosa la manìa che hanno alcuni di riferirsi al popolo come se si riferissero a un complesso di cittadini del quale essi non facessero parte. Ricorda l’abitudine di esprimersi che ha ciascuno spettatore nell’uscire di teatro: «il pubblico ha applaudito, il pubblico ha fischiato», come se lui stesso che parla non fosse pubblico; anzi come se lui fosse al di sopra del pubblico, come se fosse giudice dei giudici, creatura privilegiata e a sé stante. Più proprio sarebbe che ciascuno dicesse «noi pubblico» oppure «quella parte del pubblico che non la pensa come me», e, in terreno politico, parlasse sempre di una parte del popolo, anzi, più precisamente, di quella sola parte di popolo che egli crede di rappresentare o di interpretare.
In ogni modo, che cosa trova il popolo in questo titolo dedicato ai rapporti civili? Trova una serie di sottili e perfide invenzioni intese a limitare per cento vicoli maliziosi le sue libertà fondamentali. Se gli avessero detto, per esempio, che la libertà personale è inviolabile – articolo 8 – meno che nei casi previsti dalla legge, il popolo avrebbe potuto aspettare con qualche fiducia la legge e, per mezzo del suo voto elettorale, fare in modo che la legge rispettasse poi nella massima misura la inviolabilità della libertà personale. Invece all’affermazione di tale libertà seguono immediatamente, nello stesso progetto costituzionale e nel medesimo articolo, le equivoche apparizioni delle misure di polizia; per cui qualsiasi governo futuro, anche un governo dispotico, quale purtroppo può nascere da un momento all’altro negli stessi regimi parlamentari (Commenti a sinistra), avrà il diritto di proclamarsi fedelissimo alla Carta statutaria, perfino se avrà promulgato una legge o emesso un regolamento di polizia, con cui, rispettato il caso eccezionale «di necessità e urgenza» si dia al poliziotto la facoltà di operare fermi, arresti, retate, oggi alla vigilia di una elezione, domani in occasione di un avvenimento politico, posdomani durante un viaggio presidenziale o che so io. Si può anche non condividere la spiritosa opinione napoleonica secondo la quale una Costituzione dev’essere breve e oscura; ma la lunghezza non deve servire a manomettere le libertà subito dopo la loro proclamazione e la volontà di chiarezza non deve armare eccessivamente gli organi dello Stato contro le libertà del cittadino.
Il quale cittadino apprende certamente con gioia dall’articolo 9 che «la libertà e la segretezza di corrispondenza e di ogni forma di comunicazione sono garantite»; ma la sua gioia non dura che un attimo, perché lo stesso articolo prepara già le restrizioni di tale libertà e di tale segretezza; e il pensiero che domani, sia pure per atto motivato dall’autorità giudiziaria, ci si possa sentire spiati anche nelle proprie lettere e nelle proprie telefonate, non contribuisce, oltre tutto, alla educazione del carattere. Non siamo dunque stanchi di gerghi, di cifrari, di segni convenzionali, di doppio, triplo e quadruplo giuoco? Quando ci sarà finalmente data la libertà assoluta di esprimere almeno con i nostri intimi e almeno in forma privata i nostri pensieri e le nostre opinioni? (Interruzioni a sinistra).
Dice l’articolo 10: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano, nei limiti e nei modi stabiliti in via generale dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza». Va bene la sanità, come abbiamo già osservato. Ma la sicurezza? Qui entriamo in un campo dove le definizioni non sono mai troppe. O in sede costituzionale non se ne parla, e sarebbe meglio non parlarne; o, se se ne vuol parlare in sede costituzionale, bisogna dar lumi al legislatore, delimitare chiaramente i suoi poteri, rassicurare il cittadino sulla impossibilità di sconfinamenti arbitrari. Anche con la successiva precisazione che la libertà di circolazione e di soggiorno non può in nessun caso esser limitata per ragioni politiche, stiamoci attenti ai trucchi e ai tranelli cui possono prestarsi i cosiddetti mezzi di difesa sociale. Né trascuriamo, là dove si parla, nello stesso articolo, della tutela del lavoro italiano all’estero, l’aggiunta di qualche parola che si riferisca agli interessi italiani all’estero. È lo stesso lavoro che crea tali interessi nel senso molteplice della parola, perché giammai il lavoro è fine a se stesso, e sarebbe strano che le leggi della Repubblica, preoccupandosi di alcuni mezzi, non si preoccupassero del fine a cui tali mezzi sono volti.
Sull’articolo 11, che riguarda la condizione giuridica dello straniero, il suo diritto d’asilo nel territorio italiano, la inammissibilità della sua estradizione per reati politici, si potrebbe, in linea di massima, essere tutti d’accordo. Peggio, moralmente parlando, peggio per quei paesi che non accordassero una completa reciprocità. Oltre tutto, l’ospite è sacro, anche quando si tratti di ospite volontario, non sollecitato dalla nostra ospitalità. Ma pensate per un momento agl’innumerevoli e singolari privilegi che sono conferiti generalmente a un uomo per il solo fatto di esser egli uno straniero. Si direbbe che la qualità di straniero sia cosa tanto alta da permettere a chi la possiede, per il solo fatto che la possiede, anche quello che non è consentito ai più probi, ai più meritevoli, ai più illustri nati nel paese. Non basta, dunque, la enorme facilità con cui si distribuiscono fra stranieri quelle stesse onorificenze che spesso e crudelmente si negano a tanti ingenui, seppure avidi, connazionali?
Osservazioni non dissimili da quelle accennate per i primi articoli del titolo in discussione si possono fare per gli articoli 12 e 13, quelli, cioè, dedicati al diritto di riunione e di associazione. La facoltà del potere esecutivo di limitarlo o contestarlo non ha nemmeno, nella espressione adottata, il corrispettivo di una qualsiasi facoltà del cittadino di reclamare contro gli eventuali capricci o abusi delle autorità costituite, e soprattutto di reclamare rapidamente e di rapidamente ottenere giustizia. In un tempo come il nostro, in cui l’attivismo politico è esercitato in larga misura e per varie ragioni anche da esponenti e agenti del potere esecutivo, non si vede come il cittadino possa essere protetto contro il pericolo, tutt’altro che improbabile, delle prepotenze e delle soperchierie di parte.
Dopo di che arriviamo agli articoli 14 e 15, ai quali si dovrà aggiungere il terzo comma dell’articolo 7, già 5, rinviato appunto all’articolo 14. Poiché io sono credente e cattolico secondo la religione cattolica apostolica romana, e lo sono per sentimento, per educazione e anche per ragionamento, senza pensare ad alcuna concorrenza politica, con buona pace del preoccupatissimo onorevole Gronchi, non ho nulla da obiettare ai riconosciuti diritti delle altre religioni, appagandomi oggi del fatto che la mia religione sia già stata riconosciuta, in sede costituzionale, come religione dello Stato al quale appartengo. Ma non posso tacere la mia speranza che intorno a questi due nuovi articoli del progetto di Costituzione non si riaccenda, per qualche mozzicone di sigaretta elettorale rigettato in quest’aula da mano di futuro candidato, quella penosa, per quanto elevata discussione, che negli ultimi due giorni sfiorò il Sacro Collegio. Pareva che nessuna libertà volesse essere più vasta e più incondizionata della libertà religiosa proprio in un paese come il nostro dichiaratamente e quasi completamente cattolico; mentre poi ci si era battuti e ci si batterà in vario modo per circoscrivere, reprimere, annullare tante altre libertà, a cominciare da quelle, veramente essenziali, di pensiero, di parola, di stampa.
Ed eccoci appunto all’articolo 16, all’articolo che può illuminare di sé tutto il titolo in discussione e, vorrei dire, tutta la Carta statutaria, così come può gettare ombre di discredito irreparabile sulla nuova e tanto invocata e tanto decantata democrazia. Dice il primo comma dell’articolo 16: «Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione». Gli leverei soltanto quella virgola prima della congiunzione «ed» e alla «ed» leverei la d. Poi non aggiungerei altro.
Invece è uno degli articoli più lunghi di tutta la Costituzione. Si compone di sei commi, dei quali il secondo è inutile – «La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure» – e ciascuno degli altri quattro è una completa negazione del primo.
Inutile, il secondo, per evidenti ragioni. Se è libero il pensiero, se è libera ogni espressione del pensiero, se libero è ogni mezzo di espressione del pensiero, quindi anche la stampa, perché mai parlare di autorizzazioni o censure della stampa?
La domanda è ingenua, si capisce. È ingenua, perché al secondo comma segue il terzo; e il terzo dice: «Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro». Niente autorizzazioni, dunque; niente censure. Ma sequestri sì. E non già sequestri per i casi di reato che il Codice penale può ben prevedere e in ogni tempo ha previsto, o per violazioni di norme amministrative naturalmente e legittimamente contemplate in sede opportuna; ma sequestri per reati e violazioni indicati nella legge sulla stampa. Così, zitti zitti, con un lieve colpo di mano inguantata, l’esistenza, la legittimità, la naturalezza vorrei dire, di una legge sulla stampa sono consacrate nella Carta costituzionale; e una legge sulla stampa, la quale non può essere che una legge speciale, è già, in tal modo, una delle norme fondamentali per la struttura e il funzionamento dello Stato. (Commenti).
LEONE GIOVANNI. La legge sulla stampa ha la stessa genesi del Codice penale.
TIERI. Questa è una sua opinione.
Una legge sulla stampa? Ma nel paese di un popolo veramente libero e veramente moderno, la legge sulla stampa non può consistere che in articolo unico – «La stampa è libera; i reati commessi per mezzo della stampa sono previsti dal Codice penale» – e non ha bisogno di stare a sé, di costituirsi in Codice separato dagli altri Codici, ma può trovar posto in uno dei Codici, e i giuristi potranno dir quale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, si incomincia con una legge sulla stampa e si sa bene dove si va a finire. I dispotismi, i totalitarismi, le tirannie cominciano tutti con una legge sulla stampa. Poi avviene che i giornali clandestini, frutto di tali leggi, diventano presto i più diffusi. Rochefort, mandato in esilio da Napoleone III, riusciva a mandare in Francia il suo proibito giornale La lanterna dentro statue di gesso che figuravano l’imperatore in persona. Le copie della Lanterna di Rochefort passavano di mano in mano, erano lette avidamente, facevano a Napoleone III più male che tutti i suor errori.
TUPINI. Ricorda l’articolo 28 dello Statuto? «La stampa è libera; ma una legge ne reprime gli abusi». Questo è lo Statuto. Tanto per ricordarlo.
TIERI. Me lo ricordo benissimo. Gli Stati, i Governi hanno tutto l’interesse di non limitare la libertà di stampa, perché un popolo che ha libertà di stampa arriva a sopportare ogni atto dei suoi governanti. Gli uomini non si convertono riducendoli al silenzio. (Ma i Governi immaginati, vaticinati dai nostri soloni potranno adottare sul serio certi ironici versi di Wolfango Goethe: «O dolce libertà di stampa! Vieni, e lasciaci stampare tutto e dominare sempre: soltanto non dovrebbe fiatare nessuno che non la pensi come noi»).
Dice il comma quarto: «Nei casi predetti (cioè nei casi di reati e violazioni di norme amministrative), quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, chiedere la convalida dei loro atti alla autorità giudiziaria». Siamo già al regime poliziesco. Il Ministro dell’interno si sostituisce al magistrato, sia pure per ventiquattro ore. E, poiché è raro che un giornale duri più di ventiquattro ore, quando l’autorità giudiziaria non avesse convalidato l’atto di sequestro, le copie del giornale sequestrato andrebbero a finire nel magazzino delle rese, o dal fruttivendolo, o al macero.
Non dico che il giornale non ci guadagni. Il sequestro è una delle più efficaci pubblicità. Siamo sempre al destino degli atti dispotici, che inevitabilmente si ritorcono contro il dispotismo, che danneggiano il despota prima delle sue vittime.
Ma è il concetto della libertà che ne soffre. Se un governante vuol proprio suicidarsi, s’accomodi; ma scelga mezzi più rapidi, che non diano fastidio al popolo. Noi popolo vogliamo scrivere e leggere quello che ci pare, compatibilmente con i Codici comuni. Almeno scrivere e leggere quello che ci pare.
Né si affaccino le solite, note ragioni del vario danno che può venire al popolo e al paese da una eccessiva libertà di stampa. Governi che sequestrino carta stampata se non per la propria egoistica difesa, non ne conosciamo. Ciascun Governo lascia libera la diffusione di quanto fu proibito dai Governi precedenti di secoli o di mesi. Perfino le offese al buon costume, proibite oggi, tornano sulla stampa, in sede, come dire, storica, domani o domani l’altro. Comunque, anche per le offese al buon costume c’è il Codice penale.
E che dire, poi, del comma quinto di questo sciagurato e mostruoso articolo 16? «La legge – è scritto nel comma quinto – può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica».
PAJETTA GIAN CARLO. E questo che vi dispiace!
TIERI. Dispiace più a voi! Vi abbiamo sfidato più volte e non avete mai accettato la sfida. Le sottoscrizioni le sappiamo fare anche noi: facciamo questo mestiere di giornalisti da molti anni.
PAJETTA GIAN CARLO. Allora, se siete d’accordo, lasciate stare.
TIERI. Qui entriamo nel campo del grottesco oltre che del liberticida. «Controllo per l’accertamento delle fonti di notizie». Non solo accertamento; ma controllo per l’accertamento. Di che si tratta? Di una violazione legalizzata del segreto postelegrafonico? Di sistemi inquisitori per indurre il giornalista a svelare i mezzi del suo mestiere? E in quale circostanza, per quali ragioni, a qual fine? Bastano le sole domande a far sorridere, e subito dopo aver fatto sorridere, a far tremare. (Commenti a sinistra).
Quanto ai mezzi di finanziamento, è chiaro che non si tratta di accertamenti legali, alla portata di tutti, da compiersi presso gli uffici ove sono depositati i libri di tutte le società editrici. Si tratta, anche in questo caso, di accertamenti polizieschi, vani da un lato e dall’altro lato iniqui. Vani, perché il finanziatore di un giornale e il giornale finanziato – ove finanziamento esista in luogo di autosufficienza amministrativa – possono nascondere in mille modi l’origine, la quantità, la natura del finanziamento; iniqui, perché siffatti accertamenti dovrebbero poter identificare i legittimi interessi ideali o materiali che un giornale difende, e non si capisce che cosa ci sia di illecito nel fatto che un legittimo interesse materiale o spirituale, quale che esso sia, cerchi e trovi o si crei una sua difesa giornalistica, che è poi una difesa fatta alla luce del sole, identificabile da qualsiasi lettore anche tra i meno esercitati. Bisognerebbe arrivare all’assurdo di proibire la difesa ad alcuni dei legittimi interessi materiali o spirituali dell’uomo; bisognerebbe, in altri termini, privare l’uomo del diritto della difesa legittima che è il più sacro dei suoi diritti. Inaudita soperchieria. (A meno che non si tratti di innocente curiosità da parte del legislatore e del governante; e una tal curiosità innocente, dopo tutto, ogni Governo se la suol cavare per mezzo del capo della polizia).
Altri parlerà certamente del resto di questo strano titolo primo, ch’è un monumento di volontà liberticida. Ma non si può essere, nel giudicarlo, così pessimisti da negargli almeno un merito, che pure ha, e grande: il merito di negare la retroattività della legge. I partiti al potere si son decisi finalmente a questo atto di contrizione. Speriamo che si decidano, durante la discussione e la votazione di tutto il titolo primo della Carta costituzionale, a ricordarsi che l’autorità non guadagna mai niente dal comprimere la libertà e che il popolo è lieto di vivere sotto le leggi che egli stesso abbia fatto o approvato. Se davvero siamo sicuri che il popolo approverà la legge fondamentale che stiamo facendo per lui, promettiamogli di sottoporre la legge, quando sarà fatta, alla sua approvazione. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bettiol. Ne ha facoltà.
BETTIOL. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, anche chi, come me, è piuttosto scettico sul valore delle formule giuridiche in genere e anche sul valore delle formule giuridiche costituzionali che spesso vivono solo lo spazio di un burrascoso mattino e, più che alla legalità puramente formale dell’azione, crede alla sua moralità; anche chi, come me, non subisce l’incantesimo costituzionale e ha visto, anche se ancora non arrivato alla temuta – o sospirata – vecchiaia, il crollo d’imperi, di regni e di repubbliche, ed è stato dall’onda del tempo sbalestrato da un ordinamento ad un altro: pure, di fronte a questo testo costituzionale, a questo progetto elaborato dai nostri 75 migliori colleghi, è preso come da una specie di timore reverenziale. Di timore reverenziale perché, se anche queste formule non sono ancora state scolpite sul bronzo, non è detto, come diceva l’onorevole Nitti, che siano stampate su carta da giornale che si frantuma e si spappola al primo scroscio di pioggia.
Passati gli dèi falsi e bugiardi, noi ci troviamo di fronte al primo serio tentativo compiuto dal popolo italiano di dare a sé medesimo una costituzione che sia l’espressione di una profonda sanità morale e costituisca la felice sintesi delle forze sociali e politiche operanti in questo momento nel nostro Paese con pieno riconoscimento di tutti i diritti che spettano alle minoranze.
Perché, già venti anni or sono, il professor Merkal dell’università di Vienna, insigne costituzionalista, diceva che le costituzioni sono l’espressione delle forze politiche dominanti in un determinato momento; e sono costituzioni democratiche le moderne, appunto perché, pur essendo l’espressione di concezioni politiche dominanti, riconoscono e garantiscono i diritti politici delle minoranze.
Ora, onorevoli colleghi, parlando dei rapporti civili io non mi posso non inserire nello spirito del discorso che un mio caro collega ha tenuto in quest’aula, l’onorevole Moro, il quale ha voluto sottolineare come questa costituzione esca da un lungo, doloroso, penoso travaglio spirituale e politico, da quel travaglio che ha determinato la nostra guerra di resistenza e tutto lo sforzo per la nostra liberazione dal giogo della dittatura e da quello dello straniero; la nostra Costituzione, in quanto una Costituzione che vive ed è espressione del nostro tempo, non poteva non presentare anche questa caratteristica se è vero che ogni Costituzione, in quanto tale, è un’opera antifascista, dato che il fascismo è quel movimento che nega il legittimo fondamento di ogni Costituzione. La nostra Costituzione deve essere una Costituzione d’impronta nettamente, spiccatamente antifascista, una Costituzione d’impronta nettamente antitotalitaria.
Se, come ha detto l’onorevole Saragat in un suo discorso, in questa Costituzione vi sono delle parti scritte col sangue, proprio gli articoli che vanno dal n. 8 al n. 22, sono articoli scritti col sangue del popolo italiano. Sono proprio articoli che il popolo italiano ha voluto segnare col rosso del suo sangue, nel lungo penoso cammino della sua riscossa.
Guardiamo quindi di che lacrime grondino e di che sangue questi articoli della Costituzione, che disciplinano i rapporti civili! Si tratta della lotta dell’individuo, della lotta del cittadino contro lo strapotere statale, della lotta dell’uomo contro ogni forma di statolatria che vorrebbe soffocare, che vorrebbe strangolare i diritti innati di libertà. Perché, onorevoli colleghi, io credo che in questo titolo della nostra Costituzione siano sanciti proprio dei diritti innati di libertà. C’è qualcuno ancora che irride ai diritti naturali e che crede che ogni diritto così detto naturale sia una pura e semplice attribuzione al cittadino di un diritto da parte dello Stato, mentre invece noi crediamo – in quanto crediamo nel valore della personalità umana – che questa porti con sé, dalla nascita alla bara, dei diritti che non possono assolutamente essere calpestati dal potere statale. Sono i famosi diritti naturali che sono stati strozzati in Europa negli ultimi venti anni dalle dittature che hanno imperversato. Vi sono state delle Costituzioni a sfondo dittatoriale che hanno voluto riconoscere qualche diritto di libertà, ma se noi sfogliamo i lavori preparatori, se noi sfogliamo le motivazioni e leggiamo i discorsi che hanno spiegato il riconoscimento di questi diritti, noi vediamo sempre che si parla di diritti attribuiti dallo Stato all’individuo, non già del riconoscimento di sfere di libertà e di sfere di autonomia, che per diritto di natura appartengono alla persona umana, appartengono all’individuo.
Anche i teorici del nazismo parlavano, 15 o 10 anni fa, di diritti dell’uomo di fronte allo Stato, ma aggiungevano pur sempre che questi diritti sono il frutto e la conseguenza di quella posizione nella quale l’individuo è stato inserito in seno alla comunità popolare per volontà espressa dallo Stato, non già perché a lui competa il riconoscimento di un diritto innato di libertà.
Non condivido la opinione espressa dallo illustre Presidente Orlando, il quale parlando in quest’aula del problema costituzionale ha voluto considerare come pericolose certe enunciazioni di principî che noi troviamo nel titolo primo della parte prima del nostro progetto di Costituzione. E non condivido questa opinione perché in questa opinione si nasconde – e mi scusi l’illustre parlamentare – quel veleno positivista a sfondo liberalistico del secolo scorso, per cui, in sostanza, le Costituzioni dovrebbero limitarsi a prevedere ed a disciplinare puramente dei ganci formali coi quali tenere avvinto il corpo strutturale e politico della Nazione, senza toccare, senza disciplinare, senza sottolineare momenti di carattere meta-giuridico, se così vogliamo dire, momenti di carattere morale, sociale ed economico.
D’altro canto, non posso nemmeno condividere l’opinione del collega Condorelli, il quale, parlando incidentalmente di questi diritti nel corso del suo bel discorso, ha voluto dire che non si tratta già di diritti di natura, ma si tratta soltanto di diritti fondati sulla natura, ma creati dallo Stato, attribuiti all’individuo dallo Stato.
Anche sotto questa affermazione si nasconde quel veleno positivistico, naturalistico, liberaleggiante, che ha permeato di sé l’opera costituzionalistica del secolo scorso e molte Costituzioni che si dicevano liberali ma che nello spirito loro non erano affatto tali.
Non condivido nemmeno quanto incidentalmente ha detto in quest’aula l’onorevole Rubilli, il quale, parlando degli articoli in esame, ha voluto fare del sottile umorismo affermando che molte disposizioni presentano un carattere spiccato di ingenuità, quasi che parlare della pena di morte, quasi che parlare del diritto di difesa che spetta all’imputato in ogni stadio del giudizio, sia fare dello scherzo o sia trattare con argomenti ingenui, che non avrebbero alcun interesse costituzionalistico, quasi che non facessero riferimento ai diritti fondamentali della persona umana.
Onorevoli colleghi, le disposizioni del titolo primo della parte prima di questo progetto di Costituzione rappresentano indubbiamente una garanzia fondamentale di libertà per l’individuo, la quale si inquadra in quella concezione non già individualistica, ma profondamente umana, che sta alla radice di tutto il progetto costituzionale. E come tali, badate bene, queste disposizioni non possono, a mio avviso, nemmeno in parte essere relegate in un fantomatico preambolo col quale dovrebbe aprirsi la nostra Costituzione, perché, a tal proposito, parlando delle libertà fondamentali del cittadino bisogna che siano specificatamente determinati questi diritti di libertà che spettano all’uomo prima e al cittadino poi. Relegare questi principî, o parte di questi principî, in un preambolo vorrebbe dire togliere quel carattere di certezza giuridica che questi principî devono avere come principî giuridici costituzionali che vengono a garantire le libertà fondamentali dei cittadini, dato che i preamboli nelle Costituzioni hanno il puro scopo di inquadrare storicamente le Costituzioni, ma non hanno già un chiaro, decisivo, espresso valore giuridico.
Badate bene, cari colleghi, che queste disposizioni devono essere mantenute e, direi quasi, che devono essere forse in certi casi maggiormente specificate, dettagliate, appunto perché rappresentano una riaffermazione di libertà, dopo la dittatura del ventennio, dopo la dura e fosca dittatura del ventennio fascista, nel quale tutte queste libertà, dalla prima all’ultima, dalla libertà personale alla libertà di emigrare, dalla libertà di stampa alla libertà di associazione e alla libertà religiosa, erano state calpestate sistematicamente. Tutte queste disposizioni si inquadrano bene nel corso della nostra storia e del nostro pensiero di libertà latina e italiana.
Nella relazione l’onorevole Ruini dice che è bene affermare e riaffermare queste libertà perché noi non abbiamo una tradizione in materia. Mi permetto di dissentire decisamente su quanto ha scritto il Relatore perché non è detto che questi diritti fondamentali di libertà rappresentino soltanto una conquista del pensiero illuministico francese del secolo diciassettesimo e del secolo diciottesimo. Se noi andiamo a sfogliare gli Statuti dei nostri comuni medioevali, se noi apriamo gli archivi e studiamo i monumenti storici dei secoli dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo, noi vediamo che già negli Statuti della nostra gloriosa epopea comunale queste libertà fondamentali del cittadino si delineano gradatamente e io posso ricordare l’opera di un illustre giurista italiano, il Niccolini Ugo, il quale di recente ha dimostrato come le libertà fondamentali del cittadino e dell’uomo non siano una scoperta di Gian Giacomo, o di Montesquieu, ma siano una conquista del nostro popolo nella grande magnifica luce del periodo comunale dove veramente si è forgiata la libertà comunale e, con la libertà comunale, le libertà individuali. Tanto vero che noi possiamo assistere a questo processo, a questo fenomeno storico: gradatamente e col venir meno delle libertà comunali, anche le libertà individuali vengono meno, e finiscono per scomparire col sorgere dei Principati, delle Signorie e degli Stati assoluti.
Quindi non è vero che in Italia non ci sia una tradizione di libertà, non è vero che alle fonti del nostro pensiero politico non si ritrovano queste fondamentali libertà, ma era necessario riaffermarle, appunto perché la prima Costituzione del libero popolo italiano deve idealmente ricongiungersi alla prima costruzione dei liberi comuni italiani.
Queste disposizioni dalle quali sono usciti questi diritti fondamentali di libertà rappresentano la riaffermazione di un altro grande principio, vale a dire del principio del trionfo della legalità sulla discrezionalità; perché se la caratteristica della dittatura era fare il «libito licito in sua legge» vale a dire determinare il sopravvento del capriccio sulla norma, caratteristica fondamentale di ogni reggimento democratico è la riaffermazione della legge sull’arbitrio, quindi la riaffermazione della ratio sulla voluntas, quindi un reggimento giuridico che riaffermi i fondamentali valori della ragione sulle passioni umane.
Si tratta di determinare e trovare i primi elementi dell’ordinamento giuridico nella Repubblica italiana, perché ricordiamo, onorevoli colleghi, che la Repubblica è un ordinamento giuridico. La Repubblica è frutto di un atto di riflessione. La monarchia è conseguenza di un mito, di una passione, di un incantesimo, di una magìa; ma la Repubblica è frutto di un atto cosciente e riflesso che impegna realmente tutta la personalità morale, l’intelligenza e la ragione dell’individuo ed è per questo che noi vogliamo che questa nostra Repubblica, creata con le nostre mani, con i nostri sforzi, sia basata, sul piano dei principî giuridici che garantiscono realmente la libertà individuale. Non vogliamo repubbliche da Quartiere Latino o sarabande dove ciascuno può fare quello che vuole, ma vogliamo una repubblica dove i diritti fondamentali di libertà siano garantiti nella Costituzione, per cui la libertà dell’uno possa coesistere con la libertà dell’altro, in un regime di eguaglianza per tutti. E poi questi diritti fondamentali di cui al titolo primo sono diritti azionabili; e questo è molto importante. Si è detto però che non tutti i diritti contemplati in questa Costituzione sono azionabili, perché il paradiso di Maometto deve ancora venire in Italia, perché ancora noi non possiamo garantire a tutti il pane quotidiano.
Ma qui siamo di fronte a situazioni ben precise, ben delineate, a diritti che possono essere resi concreti, e quindi azionabili in ogni momento. Essi rispondono ad una esigenza di logica concreta, non di logica astratta; essi rispondono quindi non già ad esigenze puramente logico-deduttive, ma sono il frutto di un’esigenza di logica concreta, di teleologica: armonizzare la libertà dell’uno con quella degli altri.
La libertà di coscienza e di culto noi la ritroviamo quasi tra le pieghe di questo primo titolo, all’articolo 14. Credo però che la prima libertà sia quella appunto di coscienza e di culto; ed essa è sancita inequivocabilmente negli articoli 14 e 15 di questa Costituzione.
Il principio di confessionalità, anche se dopo l’approvazione dell’articolo 7 può considerarsi vigente – malgrado che l’onorevole Dossetti abbia dei forti dubbi in materia – non esclude il principio della libertà di coscienza e di culto e il principio dell’eguaglianza di tutti davanti alla legge. Si è parlato di Stato musulmano: il collega onorevole Calosso ha fatto dello spirito su ciò; ma il collega Calosso si tranquillizzi, ché, anche dopo l’accoglimento dell’articolo 7, il nostro Stato non è uno stato musulmano, perché nello stato musulmano la religione si identifica con la politica, la religione si identifica con lo Stato, perché lo Stato musulmano è uno Stato religioso e, di fuori da una impostazione religiosa, non è nemmeno uno Stato. (Commenti).
Nessuno tema che in base alla nuova Costituzione possa essere costretto qualcuno a subire, o a credere o ad orientare la propria coscienza verso l’Assoluto in un determinato modo. Di fronte ai problemi dei rapporti tra la nostra coscienza e l’Assoluto, ciascuno di noi è completamente libero. Non c’è disposizione, non c’è norma che possa essere considerata come una violenza fatta alla coscienza individuale perché subisca un determinato orientamento.
Ma vorrei per un momento solo soffermarmi su di un’affermazione che è stata fatta da più parti in quest’Assemblea circa il contrasto che ci sarebbe tra l’articolo 14 e gli articoli 405, 406 e 407 del Codice penale; e mi vi soffermo molto brevemente perché sono penalista e posso dire una parola in materia. È, in vero, un assurdo il voler dire che il principio dell’eguaglianza è intaccato, menomato, solo perché il vilipendio della religione cattolica è punito più gravemente del vilipendio ad altra religione. Il problema del bene giuridico nell’ambito della nozione del reato è un problema che è stato sempre risolto e che va risolto in base a criterio quantitativo, perché il criterio del danno sociale, del pericolo sociale è un criterio puramente quantitativo. Volere, onorevoli colleghi, inficiare il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro confessione, solo perché il vilipendio della religione cattolica è punito più gravemente degli altri vilipendi, vorrebbe dire inficiare il concetto di ogni altra circostanza aggravante di reato. Anche il furto a danno di stabilimenti pubblici, a danno dello Stato, è punito più gravemente del furto a danno di privati; anche il parricidio è punito più gravemente del semplice omicidio. E così credo che questo parricidio spirituale, questo vilipendio della religione dei padri, che noi vogliamo trasmettere pure ai nostri figli, abbia pur sempre diritto ad un riconoscimento nelle norme del Codice penale: sarebbe un vero e proprio parricidio spirituale le negazione di quella che è l’atmosfera civile e culturale nella quale noi viviamo e per la quale noi viviamo.
Onorevoli colleghi, io non scendo all’esame di ogni singola particolare disposizione legislativa. Il tempo tra l’altro non me lo consente. Ma debbo fare qualche osservazione a proposito di qualche articolo, nei confronti del quale, insieme con il collega Leone, ho presentato anche qualche particolare emendamento. Per esempio, ho sentito dire in questo momento dal collega Tieri, quasi scandalizzato, che l’articolo 8 prevede anche delle limitazioni alla libertà individuale. Ma da che mondo è mondo, ogni e qualsiasi Costituzione, proprio perché Costituzione, dopo l’affermazione dei diritti fondamentali di libertà, prevede i casi nei quali questa libertà può essere limitata. Ed è bene che questi casi: l’arresto in seguito a mandato del giudice, il fermo di polizia – che già esisteva all’epoca dei vecchi regimi democratici, e che poi è stato consacrato dal Codice di procedura penale – siano oggi anche consacrati nella Costituzione, nell’ambito, nei limiti di tutte le garanzie formali e procedurali di cui fa cenno l’articolo 8.
Però, badate, onorevoli colleghi, che l’articolo 8, come tale, è una specie di groviglio di vipere, perché tre situazioni profondamente diverse sono state raggruppate in una sola norma, molto confusa, affatto chiara, che l’uomo della strada non capisce. Certo, noi dobbiamo cercare di fare una Costituzione non per i giuristi, che hanno la mente già orientata verso l’anatomia delle disposizioni di legge, e sono portati a dividere, a sottolineare, a sottilizzare i concetti giuridici; ma noi abbiamo bisogno di norme chiare, precise, dettagliate, che servano all’uomo della strada il quale deve mandare a memoria – dico a memoria – questi articoli della Costituzione della Repubblica italiana.
Ecco perché io credo che l’articolo 8 debba scindersi almeno in due articoli, in cui sia chiaramente distinto il caso della limitazione della libertà individuale in seguito a mandato dell’autorità giudiziaria, e quello del fermo di polizia; e in secondo luogo sia affermata la libertà di domicilio, che oggi è sparita quasi tra le pieghe di questo articolo 8, o male sottolineata; e sia poi chiaramente affermata la libertà della persona e del domicilio da perquisizioni e da ispezioni non consentite. Qui c’è bisogno di chiarezza; c’è bisogno di precisione; c’è bisogno di usare del ferro anatomico per distinguere, per separare queste tre ipotesi.
Un’altra disposizione da considerare brevemente è quella dell’articolo 11 a proposito della estradizione. Mentre è detto che non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici, nulla si dice circa l’estradizione del cittadino. Ora proprio il Codice penale del 1930, imperniato su concetti politici individualisti e totalitari, cancellò dalla legislazione il divieto di estradare il cittadino. Io penso che in una Costituzione democratica repubblicana questo principio democratico debba essere riconosciuto nuovamente e categoricamente. È vero che noi dovremo subire la estradizione di molti cittadini criminali di guerra ad organi giurisdizionali stranieri, ma è altrettanto vero che, mentre saremo obbligati, alla stregua dei trattati internazionali, a consegnare questi individui, deve pur sempre essere affermato nella Costituzione che il migliore giudice dei propri criminali deve essere lo Stato al quale questi appartengono.
Un altro problema molto importante, che gode della approvazione, credo, di tutta l’Assemblea, è la riaffermazione chiara e precisa del principio di legalità. L’articolo 20 del progetto di Costituzione esprime il principio che nessuno può essere punito, se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con pena in essa prevista.
Già il Codice penale sottolinea espressamente questo principio, ma dopo venti anni di sofferenze inenarrabili in cui questo è stato violentato, è bene che la nuova Costituzione, la prima Costituzione della Repubblica italiana, sancisca il principio secondo il quale: nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, principio che troviamo già in molti Statuti dei secoli XII e XIII.
Questo principio esclude la possibilità della interpretazione analogica della legge penale e del prevalere dell’arbitrio sulla legge, mentre noi, proprio in materia penale, dove è in giuoco la libertà individuale, vogliamo che questa libertà possa essere compromessa soltanto nei casi espressamente e tassativamente determinati nella legge. I penalisti e gli uomini di scienze italiani a questo riguardo non si sono mai macchiati, come giuristi di altri Paesi europei, quando hanno chiesto a gran voce l’abrogazione del principio di legalità. Nessuno in Italia ha chiesto l’abrogazione di questo principio, la quale avrebbe la conseguenza che tutte le volte che un individuo è nocivo alla categoria può essere punito o eliminato, anche se una espressa disposizione di legge non disciplina il caso o non prevede come reato una determinata condotta dell’individuo stesso. Qui sono in giuoco i destini del futuro diritto penale democratico italiano, perché se noi rimarremo ancorati al principio di legalità così come è espresso in questa Costituzione potremo guardare all’avvenire con serenità e con fiducia; mentre, se dovessimo sacrificare questo principio, il regno dell’arbitrio starebbe davanti a noi con tutte le conseguenze dannose e pericolose.
Io mi rivolgo all’illustre mio collega e caro amico Paolo Rossi, per esprimergli la mia speranza: che nell’ambito di tutte le tendenze politiche rappresentate in quest’Aula il principio di legalità sia considerato un principio cardine per la legislazione futura italiana.
E lo dico perché sono preoccupato da una recente manifestazione di parte socialista, a proposito di un «diritto penale socialista», nel quale, onorevoli colleghi, si ricalcano chiaramente e decisamente i passi segnati dal nazismo in materia penale. Si chiede l’abolizione del principio di legalità; si chiede, in un libro di Giotto Bonini, che il reato sia spostato dall’evento all’azione; si chiede l’eliminazione non già nei confronti di individui colpevoli, ma di individui considerati dannosi; e non soltanto individui dannosi da un punto di vista politico, ma anche da un punto di vista umano, materiale, biologico, come i pazzi, i deformi e via dicendo.
Io sono preoccupato di queste manifestazioni di pensiero.
PRESIDENTE. Perdoni, se le faccio notare che è già trascorsa mezz’ora.
BETTIOL. Il mio discorso sta per morire; anzi so che noi tutti dobbiamo fra tre mesi morire (Commenti – Si ride): dobbiamo morire come Assemblea.
Altro principio fondamentale sancito in questa Costituzione è che la responsabilità ha carattere personale. Questo è importante, perché sottolinea la necessità che alla radice del reato, e quindi alla radice degli istituti fondamentali del diritto penale, debba essere ritrovato un atto cosciente e volontario.
Ma c’è anche un’altra esigenza sancita in questa disposizione dell’articolo 21: che la responsabilità deve essere per fatto personale, cioè che non possa essere attribuito un reato commesso da una persona ad un’altra, onde non si verifichi l’ipotesi di una responsabilità penale per fatto altrui e non più per fatto proprio.
Bisognerà cercare di armonizzare questa disposizione della responsabilità penale per fatto proprio con quella che potrà essere la responsabilità del direttore di stampa o di giornali per reati di stampa, onde la presunzione assoluta di colpa juris et de jure si trasformi in presunzione juris tantum.
Una parola sulla pena e poi ho finito. «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità»: così dice la Costituzione. Questo principio è nobilissimo; però mentre sono d’accordo nel principio qui affermato, non sono però d’accordo sull’inserimento nella Costituzione di quell’inciso che dice: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato», primo perché nel campo penalistico le dottrine sono quanto mai diverse, e in secondo luogo perché questo potrebbe dar luogo a pericolosi equivoci e da un lato i sostenitori dell’una corrente potrebbero trovarsi in contrasto con l’altra in sede di interpretazione. È auspicabile che a proposito di questo importantissimo argomento non ci sia questo pericolo di violenta scissura; ma deve restare però il principio che la pena deve umanizzarsi, che la pena, particolarmente nel momento della sua esecuzione, deve essere tale da non avvilire, da non degradare l’individuo. Dobbiamo sempre tener presente che anche nel più malvagio carcerario in modo da non ostacolare la riabilitato. Per questo occorre riformare il sistema carcerario in modo di non ostacolare la riabilitazione dell’individuo, in modo che possa, secondo gli uni emendarsi, secondo gli altri essere socialmente recuperato.
Sunt lacrymae rerum. E veramente è il pianto delle cose se si pensa alla situazione dei nostri stabilimenti carcerari, in cui, in condizioni inumane, trova esecuzione la pena. (Vivi applausi).
Una sola parola sulla pena di morte, il grande e lugubre argomento. Onorevoli colleghi, qui la questione è puramente politica e non scientifica. Non è scientifica perché dal punto di vista scientifico le opinioni in pro pareggiano le opinioni contro, e non vi è un’opinione che tagli la testa al toro per cui la pena di morte possa dirsi assolutamente fondata o infondata dal punto di vista scientifico. Malgrado l’opinione diversa che Paolo Rossi ha espresso nel suo bellissimo libro, il problema è insoluto, e forse insolubile.
Ma la questione s’inquadra nell’attuale momento storico e politico, onde, dopo l’inflazione della pena di morte, dopo l’inflazione per cui migliaia e milioni di individui sono morti e le loro ceneri sono ancora calde nei forni crematori, deve essere stabilito il principio che la Costituzione democratica del popolo italiano ripudia la pena di morte, ammettendola solo in casi del tutto eccezionali per quanto riguarda le leggi militari di guerra.
Faccio osservare che anche Cesare Beccaria, che può essere considerato antesignano dell’abolizione della pena di morte, ammise la possibilità di qualche eccezione per casi eccezionali. Ma deve trattarsi veramente di casi eccezionali, e non dobbiamo trovarci di fronte all’inflazione di decreti particolari, per i quali, dopo che nel 1944 fu abolita la pena di morte, essa è stata nuovamente introdotta tre o quattro volte.
Ed ho finito. Io credo che, salvo qualche emendamento in qualche articolo, nel complesso questo titolo del progetto di Costituzione si presenti chiaro, ordinato, ben articolato, preciso.
Noi, a parte gli emendamenti che presenteremo, non possiamo che dichiararci soddisfatti del lavoro fatto dalla Commissione la quale ha stabilito con tanta diligenza ed amore articoli che consacrano nel quadro della Repubblica le libertà fondamentali del cittadino. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.
CRISPO. Onorevoli colleghi, io ritengo inutile una discussione astratta sui diritti fondamentali di libertà, poiché essi costituiscono, ormai un patrimonio morale e giuridico acquisito universalmente alla coscienza dei popoli. Penso, peraltro, essere veramente difficile dire qualche cosa di nuovo, perché i diritti fondamentali di libertà hanno un’immensa letteratura secolare. Le mie brevi osservazioni sono intese, adunque, a richiamare l’attenzione dell’Assemblea su qualche manchevolezza che, a mio avviso il progetto di Costituzione presenta, e su qualche enunciazione di principio che, a mio avviso, dovrebbe essere eliminata.
Manchevolezze nel testo del progetto: se, onorevoli colleghi, si leggono le disposizioni dal n. 8 al n. 22 – sono questi gli articoli compresi nel titolo primo – si rileverà che, mentre la Costituzione, riconoscendo e garantendo i diritti fondamentali di libertà, si è preoccupata di determinarne l’eventuale limitazione, non si è preoccupata di prevederne la eventuale sospensione, in alcuni casi eccezionali. E colgo l’occasione per osservare all’onorevole Tieri che deve una Costituzione, dopo la dichiarazione dei diritti, preoccuparsi di determinarne la limitazione e la sospensione. Deve preoccuparsene perché la Costituzione non è il Codice della libertà originaria, intesa come arbitrio assoluto, ma regola, invece, l’eterno conflitto fra l’individuo e lo Stato, fra il principio di libertà e quello di autorità, onde il concetto di libertà non può non essere integrato con quello di tutorità, sì che saranno più civili quei popoli che non incorreranno nell’abuso delle proprie libertà; pei quali, pertanto, non sarà necessaria l’applicazione delle leggi repressive.
Il testo del progetto non prevede, adunque, come dicevo, il caso della necessità di una sospensione dei diritti di libertà. Ora, come ognuno può intendere, questa necessità di sospensione può verificarsi, e se, difatti, si verifica in casi eccezionali, ciò non significa che tali casi non debbano essere preveduti e disciplinati. Mi riferisco alla necessità connessa con lo stato di guerra, o a gravi motivi di ordine pubblico. Nel caso di una guerra, difatti, è facile intendere come l’esercizio dei diritti di libertà, o di alcuni fra essi, come la libertà di stampa, la libertà di parola, la libertà di riunione, possa essere contrario alle esigenze di difesa, o addirittura costituire un’arma nelle mani del nemico. La Costituzione non può ignorare tale stato di necessità e, prevedendo la eventuale sospensione dei diritti di libertà, deve garantirne la cessazione, facendola coincidere con la cessazione delle necessità determinate dalla guerra.
Se il mio ricordo è esatto, nei lavori della prima Sottocommissione non si omise di discutere della sospensione dei diritti, e fu anche formulato un articolo, nel quale tale sospensione si poneva in rapporto con lo stato di pericolo della Repubblica. Questa disposizione venne poi dimenticata e non formò più oggetto di alcun esame. Occorrerà, adunque, provvedere.
Più preoccupante è la necessità connessa con motivi gravi di ordine pubblico, quando al normale ordinamento costituzionale deve sostituirsi quell’ordinamento di eccezione che si conosce col nome di stato di assedio.
Per tale eventualità, è evidente che il potere esecutivo è il solo organo in grado di valutare l’eccezionale situazione del Paese, per decidere se proclamare o non lo stato di assedio; ed è egualmente innegabile che lo stesso potere esecutivo abbia il dovere di provvedere al mantenimento dell’ordine pubblico. Si tratta, adunque, di conciliare siffatte esigenze coi diritti del cittadino, onde la Costituzione deve garantirlo da ogni arbitrio del potere esecutivo. Questa garanzia non può essere che di natura politica.
Come ho detto, l’articolo formulato dalla prima Sottocommissione prevedeva la sospensione dell’esercizio dei diritti fondamentali di libertà quando la Repubblica fosse stata proclamata in istato di pericolo.
Penso che tale formula si presti all’arbitrio e non sia accettabile. Lo Stato di pericolo è espressione assai vaga. Io ritengo (e proporrò un articolo aggiuntivo), che in un solo modo il cittadino possa e debba essere garantito, con l’intervento, cioè, del Parlamento che, senza indugio, deve essere convocato per ratificare o respingere la proclamazione dello stato d’assedio e i relativi provvedimenti del Governo, e deve essere convocato, anche se disciolto, per decidere esclusivamente su detto oggetto.
TUPINI. Questo è previsto. È prevista la prorogatio.
CRISPO. È esatto, ma non sono previsti né il caso della guerra, né il caso dello stato di assedio.
Richiamo ora la vostra attenzione sulla disposizione dell’articolo 20 il quale stabilisce che «nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso, e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo». Noi intendiamo per legge più favorevole al reo sia la legge che cancella un fatto dal novero dei reati, sia la legge che attenua la sanzione penale in rapporto alla legge precedente. Tale norma è di facile comprensione. Ma l’articolo presenta una lacuna. Avete, signori della Commissione, voluto comprendere nella legge favorevole successiva anche la legge eccezionale? Anche la legge temporanea, anche la legge di guerra? Evidentemente no, perché è chiaro che una legge eccezionale o temporanea punisce un fatto in base a determinate, particolari condizioni eccezionali, sì che la legge successiva più favorevole non può trovare applicazione in rapporto al fatto previsto e punito con la legge precedente, intesa a provvedere ad una situazione anormale, della quale, intanto, non tennero conto coloro che la legge violarono.
Bisogna, adunque, esprimere tale concetto ed escludere, nel caso di successione di leggi, l’applicazione della legge più favorevole, ove si tratti di leggi temporanee od eccezionali. Altrimenti resterebbe un evidente contrasto tra la disposizione dell’articolo 20 e la disposizione del Codice penale.
Ciò premesso, non basta, a mio avviso, garantire il diritto alla difesa e stabilire il principio nulla poena sine lege e quello della non retroattività. Occorre anche garantire la irretrattabilità della sentenza passata in cosa giudicata.
Mi riferisco, signori, all’esperienza tragica che noi abbiamo vissuto e so benissimo che, se i giudicati sono stati posti nel nulla, questo fatto si è giustificato con un richiamo a quel regime di violenza permanente, a quello spirito di faziosità, al quale per avventura i giudici e le sentenze erano stati ispirati. Ma è chiaro che, nella Costituzione del nuovo Stato italiano, occorre dare al cittadino una garanzia categorica e imprescindibile che, quando egli fu sottoposto già ad un procedimento penale, questo procedimento non può rinnovarsi.
TUPINI. L’articolo 104, onorevole Crispo, dice qualche cosa e può aiutarci nella discussione.
CRISPO. È esatto. Ma l’articolo 104 deve essere collocato nel primo titolo, e deve aggiungersi il divieto di promuovere o proseguire l’azione penale, quando sia intervenuta una causa estintiva del reato. Poiché è anche accaduto che declaratorie di amnistia furono poste nel nulla, e fu ripromossa l’azione anche per fatti estinti per prescrizione. Ciò per l’avvenire non dovrà più verificarsi, onde la necessità di una norma da inserirsi in proposito nella Costituzione.
Nell’articolo 21 è detto al primo capoverso: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva».
Tale espressione vorrebbe essere diversa dall’altra per la quale si presume l’innocenza fino alla condanna definitiva. In sostanza, però, le due espressioni si equivalgono. Perché è chiaro che chi non può essere ritenuto colpevole si presume innocente. È questione, adunque, di parole: il concetto rimane identico.
Ora la formula per la quale «l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva» è, per me, un errore, ed obbedisce soltanto alle esigenze d’uno strano romanticismo in questa materia.
È un errore, perché, se d’una presunzione si dovesse parlare, si dovrebbe presumere non l’innocenza, ma la colpevolezza.
Perché, veda, onorevole Tupini, e mi rivolgo a lei, perché ella mi onora di un’attenzione della quale le sono grato…
TUPINI. Un’attenzione speciale.
CRISPO. È norma generale di tutte le legislazioni penali che una denuncia deve essere archiviata se infondata. Ciò significa che, quando non viene archiviata, la denuncia non si può presumere infondata. Tutte le norme relative ai mandati o alle forme e ai modi di rinviare taluno a giudizio confermano questo concetto.
Si pensi, peraltro, ai casi di flagranza e di quasi flagranza, o a quelli della citazione diretta o della citazione direttissima, procedure che si osservano, quando vi sia o la confessione o una prova «evidente» tale da rendere inutile qualunque altra indagine.
Si può, per tali casi, dire che l’imputato si presume innocente, o non si dovrebbe dire piuttosto che si presume colpevole? Ora il mio pensiero è questo: che l’imputato non si presume colpevole, né innocente: è un indiziato, che la sentenza dichiarerà innocente o colpevole, e non c’è, pertanto, bisogno d’inserire nella Costituzione una formula irrilevante, e che, come dicevo, non aderisce alla realtà.
Vi sono, infine, casi nei quali la sentenza può affermare una responsabilità, e non condannare.
PRESIDENTE. Onorevole Crispo, voglia non dimenticare che ha parlato per più di mezz’ora.
CRISPO. Se vuole, onorevole Presidente, io non continuo.
PRESIDENTE. Non desidero questo, ma, forse, ella può tralasciare questa esemplificazione che allunga, sia pure in maniera molto interessante, la sua esposizione.
CRISPO. Mi permetto rispettosamente farle osservare che il Regolamento non contempla…
PRESIDENTE. Onorevole Crispo, ella si ricorda di fare questa osservazione solo quando parla lei!
CRISPO. Mi preoccupo di rivendicare il mio diritto di parlare. Io credo, difatti, di avere il diritto di discutere queste norme della Costituzione che, per me, sono un errore. Ma se lei mi toglie la parola…
PRESIDENTE. Non tolgo la parola a nessuno. Mi pare che siamo tutti d’intesa su alcune norme. Lei le ha già notevolmente trascurate in occasione del suo intervento in sede di discussione generale sul progetto, in cui ha parlato molto più dei suoi colleghi, che, ritengo, avessero da dire cose interessanti quanto le sue; ma i suoi colleghi si sono anche preoccupati dell’economia del tempo. Non le tolgo la parola, ma le ricordo che ha già parlato per mezz’ora.
CRISPO. Ieri sera, in sede di dichiarazione di voto, vi sono stati oratori che hanno parlato per un’ora e mezzo.
PRESIDENTE. Onorevole Crispo, occorre avere una sensibilità politica! Se ci mettiamo a discutere fra noi due, credo che potremmo anche interessare l’Assemblea; ma la prego di volersi attenere alle norme da tutti seguite.
CRISPO. Voglio esprimere la mia rispettosa protesta, perché ritengo che non possa essere modificato il Regolamento in base all’intesa cui ella si riferisce.
PRESIDENTE. Onorevole Crispo, ci tengo ad avere la parola per ultimo in questa nostra discussione! Prosegua la sua esposizione.
CRISPO. Devo ricordare qualche caso in cui si ha bensì l’affermazione della responsabilità; ma non si ha la pronunzia della condanna. Ciò avviene quando si concede il perdono giudiziale, o quando si chiede l’esame di merito nelle ipotesi di cui all’articolo 152 del Codice, nel rito penale, e il giudice, pur riconoscendo una responsabilità penale, non condanna, ma dichiara estinto il reato, o quando, in seguito all’esame del merito, pur essendo evidente una responsabilità penale, si modifichi il titolo del reato, e si dichiari estinto il reato dichiarato sussistente.
Una osservazione devo fare a proposito del principio affermato nella Costituzione che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Se n’è occupato l’onorevole Bettiol, ma io non sono d’accordo con lui. Benedetto Croce, nel suo libro «Etica e politica», ha scritto essere del tutto vano discutere sul carattere utilitario o morale delle leggi, o di questa o quella legge. Lo stesso deve dirsi della pena: deterritio o emendatio?
Qui, accanto alla norma, si pone un concetto filosofico intorno al quale s’è svolta tutta una letteratura secolare. La pena obbedisce a due esigenze di difesa sociale: esigenza preventiva. ed esigenza repressiva. Preventiva, perché altri non incorra nel delitto; repressiva, perché si abbia dai cittadini fiducia nell’intervento dello Stato. Può anche avvenire che la pena sia in funzione di controspinta psichica, e di emenda, sì che il condannato si astenga, per l’avvenire, dal ricadere nel reato, ma non si può in una Costituzione attribuire tale finalità alla pena, e sarà sufficiente dire che le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità.
Altrimenti si potrebbe giungere ad attribuire un fine di emenda anche alla pena di morte, e, difatti, qualcuno ha sostenuto, pensando ad un’emenda giovevole per l’al di là, che la pena di morte è emendatrice in quanto concilia con l’idea di Dio. È vano, adunque, pretendere di determinare il contenuto moralistico della pena. Sarebbe come affermare nella Costituzione che, per esempio, il matrimonio deve sempre intendersi come la compenetrazione di due anime, affermare che lo Stato esprime necessariamente l’idea morale d’una convivenza aumentata dallo spirito della solidarietà.
Quando, adunque, ci si pone il quesito se la pena possa avere o debba avere un contenuto moralistico, si può anche rispondere affermativamente, ma tale affermazione non deve essere contenuta nella Costituzione.
Del resto, una tale affermazione non potrebbe essere generalizzata, e sarebbe un errore e una ironia insieme, ove si pensasse al delinquente abituale o professionale o ai casi di recidiva reiterata.
Un’ultima osservazione, sulla pena di morte. D’accordo con voi, d’accordo con tutti, d’accordo, soprattutto, con le nostre tradizioni giuridiche che noi intendiamo rivendicare: d’accordo, nel senso che essa non deve essere contemplata nel nostro Codice. Intanto, la pena di morte è preveduta nell’articolo 4 della legge vaticana del 7 giugno 1929, e ciò rende anche più grave il contrasto tra la Costituzione e i Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione stessa.
TUPINI. Ma in Vaticano si applica il Codice Zanardelli che non prevede la pena di morte.
CRISPO. No, onorevole Tupini: per il caso contemplato nell’articolo 4 si applica la pena di morte.
Raccogliendo l’ammonimento dell’onorevole Presidente, concludo rilevando che le osservazioni da me fatte vogliono avere un valore pratico e richiamare l’attenzione dell’Assemblea e della Commissione sulla necessità di integrare, da una parte, il progetto di Costituzione, e di eliminare, dall’altra, alcune enunciazioni di principio, giusta gli emendamenti che saranno da me presentati. (Applausi).
Presidenza del Vicepresidente TARGETTI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carboni. Ne ha facoltà.
CARBONI. Il titolo del quale abbiamo oggi iniziato l’esame non offrirà occasione ad un dibattito appassionato e vivace come quello dei giorni scorsi e particolarmente come quello conclusosi questa notte. Tuttavia esso attrarrà la meritata attenzione dell’Assemblea per la sua importanza fondamentale nel quadro della Costituzione.
Se una Costituzione democratica, come vuole e deve essere la nostra, può definirsi la legge delle libertà popolari, indubbiamente spetta in essa un posto preminente a quelle norme che tendono a garantire le libertà civili, quelle libertà che costituiscono un attributo naturale della personalità, il diritto umano per eccellenza.
Questo insopprimibile diritto dell’uomo trova la sua consacrazione nella proclamazione iniziale del titolo: la libertà personale è inviolabile.
La solenne dichiarazione del primo comma dell’articolo 8 non è soltanto una norma, ma, direi, l’affermazione programmatica, il punto di partenza, dal quale derivano tutte le altre proposizioni del titolo. Ed essa imprime al progetto di Costituzione carattere democratico ed anche quel carattere antifascista, di cui parlava poco fa l’onorevole Bettiol, in senso rispondente all’esigenza popolare, specie in questo momento di rinascita della democrazia, dopo venti anni di oppressione, durante i quali della personalità umana, della dignità umana, fu fatto strazio nefando.
I due comma seguenti dell’articolo, il secondo ed il terzo, più che costituire eccezione al principio fissato nel primo, esprimono il bisogno di delimitare costituzionalmente i termini entro i quali la libertà personale potrà soffrire limitazioni. Il carattere costituzionale dei comma secondo e terzo sta appunto nella organizzazione delle garanzie dirette ad impedire la violazione della libertà personale.
Detto questo, desidero di esprimere alla Commissione non una mia avversione, ma uno stato di perplessità dell’animo mio in confronto della disposizione finale dell’articolo 8, là dove si dice: «È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà». Pure rendendomi conto del motivo che ha determinato la Commissione all’inserzione di questa norma, per giusta reazione all’abuso invalso, ho l’impressione che essa rimpicciolisca la solennità della proclamazione iniziale, che contrasti, per la sua formulazione quasi regolamentare, con la maestà del principio consacrato nel primo comma. E mi pare altresì che la disposizione terminale sia superflua, perché, una volta proclamata l’inviolabilità della libertà personale, qualunque atto violatore sarà illegale, e necessariamente dovrà essere considerata criminale qualsiasi violenza fisica o morale in danno dei detenuti. Perciò, come vi dicevo, mi trovo in uno stato di perplessità di fronte ad una disposizione della quale per ragioni contingenti non mi sento da un lato di poter dire che debba essere soppressa, ma della quale, d’altro lato, non percepisco il carattere costituzionale. E perciò mi limito ad esprimere alla Commissione ed all’Assemblea il mio dubbio.
Un altro punto sul quale farò una brevissima dichiarazione è la disposizione finale: «la Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero», che non mi sembra avere nell’articolo 10 la sua giusta collocazione. Non vedo fra questa disposizione del terzo comma e quelle dei due precedenti alcun nesso logico. Nel primo comma si dice che il cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano; nel secondo comma si dice che ogni cittadino ha diritto di emigrare. Quale relazione abbia la tutela del lavoro italiano all’estero con la libertà di circolazione e soggiorno (primo comma) o con il diritto di emigrare (secondo comma), non si comprende. Forse c’è un nesso occasionale. Poiché nel secondo comma si è parlato del diritto di emigrare, la previsione dell’emigrazione ha portato a includere nello stesso articolo la norma sostanzialmente giusta, ma mal collocata, della tutela del lavoro italiano all’estero.
TUPINI. D’accordo, onorevole Carboni.
CARBONI. Penso che questa norma debba essere trasferita nell’articolo 30, nel quale la Repubblica prende impegno di provvedere alla tutela del lavoro e di promuovere e favorire gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro. E ringrazio l’onorevole Vice Presidente della Commissione del consenso alle mie osservazioni.
Un punto sul quale desidero trattenere per brevi istanti l’Assemblea per esprimere la piena adesione del mio Gruppo è la disposizione dell’articolo 11, in cui si assicura il diritto di asilo nel territorio della Repubblica a favore dello straniero al quale siano negate nel proprio Paese le libertà garantite dalla Costituzione italiana. Così si pone la Repubblica italiana sul piano di quei Paesi liberi e civili, che diedero ospitalità ai nostri emigrati politici perseguitati dal fascismo.
Insieme con gli amici di questa parte dell’Assemblea approvo pienamente anche il divieto delle associazioni segrete stabilito all’articolo 13. In regime di libertà, tutte le opinioni possono e devono manifestarsi apertamente. Le associazioni segrete che furono necessarie e adempirono un’alta missione nei periodi di oppressioni, oggi non hanno più ragione di esistere. L’onorevole Crispo, che mi ha preceduto nella discussione, ha fatto una lunga trattazione sull’articolo 20. Io mi limiterò a condividere la sua affermazione che quell’articolo – del quale ammetto in pieno l’opportunità quando afferma il principio della irretroattività della legge penale – non appare, così come è formulato, completo. Se è vero che si deve fare eccezione al principio della irretroattività allorquando la legge penale successiva sia più favorevole alla precedente – in quanto sarebbe assurdo condannare per un reato che ha cessato di essere tale o condannare ad una pena che ha cessato di essere considerata giusta – dovrebbe però questa eccezione essere limitata con un’altra eccezione, quella che trova la consacrazione nell’articolo 2 del Codice penale, cioè la preferenza per la norma più favorevole non è applicabile nel caso di disposizioni eccezionali o temporanee.
Un tema che meriterebbe una approfondita trattazione per la sua gravità eccezionale è che a me pare risolto in modo non completamente soddisfacente nel progetto di Costituzione è quello di cui si occupa l’articolo 22. Qui si dice: «I dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti». E sin qui nulla da obiettare, anzi adesione completa. Ma poi si soggiunge: «Lo Stato e gli Enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti»; e questa affermazione, nella sua latitudine, è davvero eccessiva e pericolosa. Non so spiegarmi come non si sia avvertito il bisogno di limitare il principio con la precisazione: danni arrecati dai loro dipendenti nell’esercizio delle proprie incombenze. La norma, come è formulata, potrebbe autorizzare l’interpretazione che anche una violazione commessa al di fuori di qualunque relazione con le incombenze affidate, qualunque violazione commessa dal dipendente, perché, ad esempio, impazzisce e commette un delitto in danno di diritti, importerebbe la garanzia dello Stato per il risarcimento.
È questo un problema di così grave importanza, di così grave entità, che io penso debba essere profondamente ed attentamente meditato. Anzi mi pare che esso non debba costituire materia di una norma costituzionale. Affermata l’inviolabilità dei diritti di libertà, ne deriva, pur necessaria conseguenza, senza obbligo di espressa dichiarazione, la responsabilità dei violatori, e la disciplina dell’eventuale garanzia o dell’eventuale responsabilità indiretta dello Stato e degli enti pubblici deve essere riservata alle leggi, che non potranno essere in contradizione con la Costituzione.
Affermare il principio, con tanta latitudine, in una breve norma costituzionale può essere pericoloso ed offrire l’adito a soluzioni che potrebbero non essere conformi al nostro pensiero.
Altrettanto credo debba dirsi a proposito del secondo comma: « La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». Il principio risponde ad un concetto di alta moralità, ma affermarlo così ampiamente, per quanto ci sia una riserva alla legge che ne dovrà fare determinazione, non mi pare conveniente, anche perché la formula non fa alcuna discriminazione tra errori giudiziari in materia penale e in materia civile.
Queste sono osservazioni sommarie che ho manifestate così come si sono presentate alla mia mente, ma che assai meglio saranno valutate ed approfondite da voi, onorevoli colleghi. E qualche altra osservazione farò forse in sede di emendamenti per contribuire, nei limiti della mia modestissima capacità, a quello che io credo essere il dovere imperioso di ciascuno di noi: fare cioè in modo che la Costituzione, non soltanto nei principî generali, ma nelle singole enunciazioni, sia la migliore possibile.
Con queste premesse, vengo a quello che è il tema che più mi interessa in questo titolo «Dei rapporti civili», il tema della libertà di stampa, disciplinato dall’articolo 16. Se ne è fatto già qualche accenno; qualche accenno che ha permesso a taluno di affermare addirittura che questa sia una Costituzione liberticida.
Io sono di opinione perfettamente opposta; però non posso tacere la mia opposizione, e quella dei miei amici, opposizione netta, assoluta al quarto comma dell’articolo 16, dove si concede la possibilità del sequestro della stampa periodica da parte degli ufficiali della polizia giudiziaria, nei casi di urgenza.
So che in seno alla Prima Sottocommissione autorevolmente e sottilmente si è cercato di giustificare questo sequestro preventivo con l’intento di difendere la democrazia e la Repubblica dall’assalto della stampa neofascista. So questo, e condivido il pensiero che nell’attuale momento politico ci si debba attentamente e profondamente preoccupare del pericolo costituito da tendenze che rappresentano la negazione delle fondamenta di libertà e di democrazia sulle quali si va costituendo la Repubblica. Però mi permetto di osservare che la Costituzione non è una legge particolare, non è una legge di carattere eccezionale, di carattere temporaneo; non è una legge che possa essere ispirata alle necessità del momento: è una legge che dev’essere riguardata sub specie aeternitatis, e che, traendo ammaestramento dal passato, deve creare uno Stato democratico. E quando diciamo «uno Stato democratico» diciamo uno Stato antifascista, nel senso che antifascismo significa libertà e democrazia. Quindi le considerazioni contingenti non devono tradursi in disposizioni contrarie ai principî essenziali di libertà e di democrazia che devono costituire lo spirito informatore della Costituzione.
Si dice: «Dobbiamo difendere la libertà e la democrazia». Ma quale bene maggiore in un regime di libertà e di democrazia che la libertà di stampa, estrinsecazione necessaria di quella libertà di pensiero che è la caratteristica insopprimibile dell’uomo? di quella libertà di pensiero che in regime fascista era il conforto delle nostre coscienze? Se l’intimo pensiero di alcuno oggi si manifesta in forme patologiche o addirittura criminali, contro queste manifestazioni patologiche e criminali, contro qualsiasi attentato al regime di libertà e di democrazia che noi intendiamo fondare su basi salde, e proprio perché vogliamo fondarlo su basi salde, la Repubblica deve reagire con la repressione punitiva, affidata all’autorità giudiziaria, e non con sistemi polizieschi, che si risolverebbero in una compressione della libertà e in una negazione della democrazia.
Affidare al Governo, attraverso i suoi ufficiali di polizia giudiziaria, la potestà di sequestrare la stampa periodica, significherebbe dare al Governo il mezzo di sopprimere i propri contradittori. Sarebbe dare al Governo il mezzo di sopprimere non soltanto gli attentati alla libertà ma anche quella collaborazione della pubblica opinione che è condizione essenziale, indispensabile, della civiltà moderna e di ogni Stato libero e democratico.
D’altra parte, credete voi che il sequestro preventivo sia veramente un mezzo idoneo ad ottenere il risultato sperato? Il grande numero di giornali, le loro varie edizioni imporrebbero un controllo di difficilissima efficienza ed esecuzione. E comunque il sequestro non riuscirebbe a distruggere la capacità di propaganda di uno scritto incriminato, perché sarebbe impossibile colpire tutte le copie, e quelle sfuggite al sequestro sarebbero ricercate e lette con maggiore avidità, ed intorno al giornale sequestrato si creerebbe una aureola di martirio e di popolarità, che ne farebbe accrescere il credito e la diffusione; per cui i risultati praticamente verrebbero ad essere contrari all’intenzione.
La libertà di stampa è una esigenza fondamentale, alla quale noi non sappiamo rinunciare. Se di questa libertà si abusa criminosamente, si colpiscano i responsabili penalmente. Si tratta spesso di reati non soltanto contro l’individuo, o contro gli esponenti maggiori del Paese o di determinate correnti politiche, bensì contro il potere, contro la personalità dello Stato. Si agisca energicamente, ma nella via maestra della giustizia, con l’intervento del potere giudiziario, nelle forme di procedura apprestate per il rispetto della legge ed a garanzia della libertà e dei diritti dei cittadini.
Il problema della stampa è, come tanti altri che ci angustiano in questo momento, un problema di educazione civile e di educazione morale.
Dobbiamo elevare la stampa; e questo otterremo non con la sanzione del sequestro preventivo, ma con l’esempio e con la pratica di quei principî di libertà e di democrazia che devono essere non solo sulle nostre labbra, ma anche e soprattutto e sempre nei nostri animi e nelle nostre azioni. (Applausi a sinistra).
(La seduta, sospesa alle 17.50, è ripresa alle 18.15).
Presidenza del Presidente TERRACINI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.
PREZIOSI. Dopo le appassionanti discussioni dei giorni scorsi noi teniamo un poco ad essere più aderenti a quella che è la realtà del nostro progetto di Costituzione, del quale cominciamo a discutere forse la parte più arida, per quanto più importante. In fondo i rapporti civili che sono oggetto del titolo primo del progetto di Costituzione interessano tutto il paese, ma soprattutto noi avvocati, ed oggi è stata un po’ la giornata di gala degli avvocati che fanno parte della Costituente essendo io già il quarto fra essi che prende la parola.
Articolo 8 della Costituzione. L’articolo 8 della Costituzione, così com’è formulato, a me pare che debba essere modificato soprattutto nella parte del terzo comma, subito dopo i casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge, per cui l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie circa la libertà personale. Insomma si dà una facoltà all’autorità di pubblica sicurezza, che indubbiamente anche per i casi eccezionali può essere conferita all’autorità giudiziaria. E non si tiene presente quali sono gli errori che provengono da questa facoltà data all’autorità di pubblica sicurezza, quando essa non trova rispondenza di garanzia in quello che costituisce materia di immediato intervento del magistrato. Perché quando si dice che l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie e queste comunicare entro 48 ore all’autorità giudiziaria sembra a prima vista che la garanzia del cittadino esista, che la libertà sia salvaguardata.
E invece, quando si va a leggere ancora il terzo comma dell’articolo 8, apprendiamo dal progetto di Costituzione che, se l’autorità giudiziaria non convalida quelle provvisorie misure di eccezione nei termini di legge, esse sono revocate e restano prive di effetto. Dobbiamo un poco riflettere su questo comma che, a prima vista, dà la sensazione che la libertà dei cittadini sia garantita appieno, mentre invece non è così. Infatti, vediamo un po’ quello che può avvenire se fosse trascritto nella Costituzione il comma così com’è configurato nel progetto. Quando l’autorità di pubblica sicurezza arresta un individuo, che può essere innocente – se è vero che il progetto di Costituzione afferma un principio giuridico di indubbia importanza per cui non si può parlare di reo fino a quando non intervenga una sentenza da parte dell’autorità giudiziaria – deve denunciarlo entro 48 ore all’autorità giudiziaria. Ma cosa fa quest’ultima?
Noi avvocati, che ci occupiamo di cose penali, sappiamo che molte volte un imputato, anche se denunziato per un reato che non esiste, per una misura che sembra di carattere urgente, secondo il ragionamento molte volte errato della pubblica sicurezza o dei carabinieri, sta a marcire nelle prigioni, alcune volte per 10, 20, 30 giorni, senza essere interrogato.
Dunque, allora, bisogna che nel progetto di Costituzione vi sia una vera valvola di sicurezza, per cui la libertà del cittadino sia garantita appieno.
Io dico che se, dopo la denunzia obbligatoria da parte dell’autorità di polizia giudiziaria, fatta entro 48 ore, interviene il magistrato secondo i termini di legge, bisogna intendersi sul significato di questi termini di legge e sulla loro precisa durata.
Bisogna dire, con un emendamento – che io ho presentato e sottoporrò alla vostra considerazione, completando così questa parte di Costituzione che riguarda veramente la parte più sacra del cittadino (la sua libertà individuale) – che l’autorità di polizia giudiziaria può e deve denunziare, entro 48 ore, all’autorità giudiziaria, ma questa ha l’obbligo di provvedere entro le successive 48 ore, altrimenti s’intende revocato e privo di ogni effetto il provvedimento dell’autorità di polizia giudiziaria.
Sarà soltanto così che potremo impedire possibili soprusi, da parte degli organi esecutivi, prevenendo questi col rendere fattivo e attivo l’intervento dell’autorità giudiziaria per ogni caso.
Si potrà opporre, a questo proposito, un ragionamento che, semmai, riguarderà la difficoltà di agire, la difficoltà di speditezza del muoversi dell’autorità giudiziaria. Si potrà dire che non vi sono uffici giudiziari così completamente attrezzati da potere (ricevuta entro le 48 ore la denunzia da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, sulla responsabilità di un cittadino) provvedere e vedere se ricorrono estremi tali, elementi tali per cui il processo debba essere avviato verso la sua fase di istruzione sommaria formale.
Ma, allora, si attrezzino uffici speciali presso l’autorità giudiziaria, a capo dei quali siano magistrati esperti in cose penali, i quali, appena saranno pervenute le denunce da parte dell’autorità di polizia giudiziaria, vedranno entro le 48 ore se vi sono, almeno in apparenza, elementi tali che possano autorizzare la permanenza del cittadino nel carcere, o debbano far provvedere ad una immediata escarcerazione.
Invero la prima Sottocommissione nella redazione del progetto, per quanto ho già detto, si accorse del pericolo che incombeva sulla libertà dei cittadini, se è vero che, nella dizione dell’articolo, in un primo momento era detto: «La persona fermata o arrestata deve essere rimessa in libertà a meno che nel frattempo non sia intervenuta denuncia alla autorità giudiziaria e questa entro le ulteriori quarantotto ore abbia emesso ordine o mandato di cattura, ecc.»; la prima Sottocommissione aveva reputato urgente ed indispensabile che la situazione del cittadino arrestato e denunciato fosse esaminata entro le 48 ore dall’autorità giudiziaria ed intervenisse, se mai, in caso di evidente responsabilità, un mandato di cattura. Ognuno di noi avvocati sa che molte volte andiamo in udienza dopo mesi, con un cittadino in istato di detenzione senza che comunque la sua detenzione sia stata perfezionata da un mandato di cattura notificato regolarmente alla parte.
Comunque a me pare che questo mio emendamento – che credo aderente alla realtà pratica dei fatti – (che vuole che assolutamente la libertà del cittadino sia garantita in quei termini voluti dalla legge, per cui l’autorità giudiziaria deve, entro le 48 ore, esaminare i fatti e convalidare quello che è stato l’operato dell’autorità di polizia giudiziaria) risponda assai bene a quella che è la garanzia che ad ogni cittadino italiano deve essere data così come è data ad ogni cittadino di ogni paese dalle libere leggi che vigono in essi.
E passo all’articolo 10 dove si dice: «La Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero».
Giustamente il collega onorevole Carboni diceva che questo terzo comma va trasportato nell’articolo 30 del progetto di Costituzione. Ma vorrei che la Commissione procedesse un po’ a quello che è l’esame pratico di questo terzo comma dell’articolo 10 che andrebbe trasportato all’articolo 30, per dire, sia pure con poche battute, in che modo la Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero. Secondo me dovrebbe tutelarlo attraverso l’istituzione presso le nostre rappresentanze diplomatiche all’estero di uffici speciali di assistenza per il lavoro. In sede di discussione generale si è parlato tanto di quella che deve essere la tutela a favore dei nostri lavoratori. Noi, alcuni mesi fa, pensavamo che fosse quasi impossibile che i lavoratori della nostra Nazione riavessero le strade aperte verso l’emigrazione. Invece ci accorgiamo che dopo pochi mesi, quando sembrava a noi che queste masse numerosissime di operai dovessero rimanere per forza nella nostra terra, così piena di rovine e così priva di lavoro, i nostri operai sono stati richiesti a centinaia di migliaia dall’Argentina, a centinaia di migliaia dalla Francia e da altri Paesi, il che significa che, ancora una volta, i Paesi che ieri ci erano nemici si sono accorti di quella che è stata sempre, in ogni tempo, la missione di civiltà espletata dal nostro lavoratore all’estero.
Concludo affermando che è necessario che sia configurata nella nostra Costituzione la indispensabilità che i nostri lavoratori, questi nostri magnifici, eroici, sventurati fratelli senza lavoro in Patria, siano tutelati fuori della Patria, là dove vanno a cercare un pane per la propria famiglia e a fare una affermazione di civiltà del nostro Paese.
Articolo 11. In esso si parla dell’estradizione dello straniero per reati politici. Diceva l’onorevole Tieri che egli si meravigliava della condizione dì privilegio che era fatta agli stranieri; ma è la nostra una tradizione di diritto, è la tradizione di diritto di ogni libero Paese, la quale deve dare assolutamente garanzia a coloro i quali sono, a causa della loro fede liberamente espressa, perseguitati nei propri paesi; è la tradizione di ogni paese libero di dare ospitalità a coloro i quali, nel proprio paese, sono condannati solo perché combattono per un grande ideale che dovrebbe essere di grandezza morale e spirituale per la loro Patria. Onorevoli colleghi, io penso che bisogna ovviare alla piccola omissione esistente nella dizione dell’articolo, all’ultimo comma, perché quando si dice che non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici, si lascia un po’ la porta aperta ad equivoci e si fa in modo che il silenzio della legge in proposito possa essere causa di alcune amare sorprese al riguardo.
Se aggiungessimo, dopo le parole «è ammessa l’estradizione» le tre parole «in nessun caso», si eviterebbe, attraverso questo termine coercitivo posto nell’articolo del nostro progetto, che una successiva legge – che potrebbe farsi in tempi non liberi come questi che viviamo – derogasse a quello che è il principio generale della nostra Costituzione; difatti, affermando nella Costituzione che non è ammessa in nessun caso l’estradizione dello straniero per reati politici, si impedisce, comunque, che per l’avvenire si possa formare una nuova legge che, derogando alla Costituzione, possa fare parte di uno scambio di leggi di altri paesi, per un Governo che non fosse un Governo rispettoso della Costituzione.
Articolo 16. Nell’articolo 16 si parla della libertà di stampa. Il collega Carboni ha aderito al concetto della libertà di stampa affermato da colleghi di altri banchi. Ma siamo tutti d’accordo su quella che deve essere la libertà di stampa ed io sono d’accordo con Carboni quando dice: piano con le interferenze del potere esecutivo, con gli immischiamenti da parte della polizia in quello che è un diritto sacrosanto dell’autorità giudiziaria, poiché soltanto essa può difendere al di sopra delle passioni certe inviolabili libertà come quelle di stampa e di opinione.
Trovo strano che un progetto di Costituzione che in un primo momento afferma un principio, quasi sacro, di inviolabilità di un diritto, poi successivamente ponga tutte le premesse e tutte le possibilità perché si possa violarlo.
L’articolo 16 infatti al terzo comma afferma che si può procedere al sequestro nel caso di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge della stampa dispone il sequestro, soltanto per atto dell’autorità giudiziaria. Quindi l’articolo fa riferimento ad una legge e poi dice «nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza». Andiamola a pescare, questa assoluta urgenza. È una specie di cosa introvabile, troppo elastica! Non è possibile mai parlare di assoluta urgenza quando non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria.
Quindi, onorevoli colleghi, facendo passare libero l’articolo 16 così com’è, noi sanciremo, in questo nostro progetto di Costituzione, quando esso sarà la legge definitiva dello Stato, un principio che cozza contro tutti i principî di elementare libertà di stampa.
Noi affermiamo che gli ufficiali di polizia giudiziaria, nei casi di urgenza, debbono richiedere all’autorità giudiziaria medesima di procedere al sequestro qualora risulti una violazione contemplata dalla legge. A tal proposito presento un emendamento il quale vuol significare: impedire in ogni caso l’arbitrio da parte degli agenti di pubblica sicurezza e dei carabinieri, perché quando gli agenti di polizia giudiziaria o le autorità del potere esecutivo commettono un’infrazione grave alla nostra libertà si possa subito intervenire presso l’autorità giudiziaria. L’intervento dell’autorità giudiziaria serve ad impedire soprusi e a indicare subito se è il caso o non è il caso di ricorrere al sequestro. Voi direte che può far comodo e non può far comodo, ma qui non si tratta di questo, si tratta di affermare il principio di giustizia e di libertà, affermato il quale non bisogna ricorrere alla scappatoia che si mette in essere molto volentieri per calpestare ogni volontà ed ogni diritto.
E vengo agli ultimi due articoli, i quali devono rendere pensosi i colleghi dell’Assemblea. Specialmente l’articolo 22 che all’ultimo comma dice: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari».
Era questa un’affermazione necessaria, secondo la quale la legge interviene, determinando le condizioni per riparare gli errori giudiziari, con ciò significando che un cittadino il quale – non sappiamo se dolosamente o colposamente – è stato privato della libertà personale ha il diritto ad una riparazione pubblica, che si trasforma anche in una riparazione materiale, giustamente dovutagli.
Quante volte infatti ci è capitato che un cittadino sia stato arrestato, sia stato sottoposto a provvedimenti reclusivi, e si è visto che quel cittadino è stato poi giudicato dopo anni, da un tribunale, da una Corte d’assise, ed è stato assolto su richiesta del pubblico ministero, per non aver commesso il fatto!
Ora, io non dico che tutti coloro i quali sono stati assolti per non aver commesso il fatto debbano avere sempre una completa riparazione; ma vi sono casi specifici, nei quali l’errore giudiziario ha colpito in modo tutto particolare il cittadino. Due sono essenzialmente questi casi. Il primo è quello del cittadino il quale, detenuto per anni, ha visto poi riconosciuta la propria innocenza: e questo è un caso da considerare. Ma ce n’è un altro ancora più grave da considerare; ed è quello di un cittadino il quale sia stato condannato perché forse c’erano stati degli elementi di diritto non percepiti dal magistrato. Ora, questo cittadino il quale è stato condannato per un fatto che non è reato e che ha scontato anni di reclusione non deve forse avere una riparazione? È anche il caso vostro, o amici della destra, del centro, della sinistra, che per anni siete stati condannati a cagione di un delitto che non avevate commesso, perché voi avevate compiuto soltanto un dovere, perché voi avevate dimostrato soltanto di amare la vostra Patria, di difendere la libertà della vostra Patria, attraverso i movimenti clandestini, attraverso la propaganda di popolo e in difesa del popolo.
Quando siete usciti dopo anni o decenni di detenzione, non avevate forse il diritto – specialmente molti di voi che hanno visto rovinate le loro famiglie, i loro beni, l’avvenire dei loro figli – di vedere riconosciuto l’errore giudiziario che si era commesso – perché era un errore giudiziario, se pure era un errore politico – che si era commesso nei vostri confronti?
È un interrogativo, onorevoli colleghi, al quale la Commissione dovrà pure rispondere, affermando, confermando e specificando meglio questo principio, che è un principio che davvero risponde ad un’esigenza del nostro spirito.
Ancora qualche osservazione sull’articolo 21 il cui terzo comma suona: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Onorevoli colleghi, se rimanesse così come è stato configurato nel progetto della nostra Costituzione, questo comma indubbiamente risponderebbe alle esigenze della giustizia: ma esso deve naturalmente essere seguito da provvedimenti conseguenziali. Ve lo accennava l’onorevole Crispo, ve lo diceva l’onorevole Carboni, ve lo aveva annunciato l’onorevole Bettiol ed è un po’ il sentimento di tutti noi che viviamo a contatto con quella che è la miseria quotidiana del condannato e del giudicabile, cioè di colui che può essere assolto, e che tante volte viene assolto. Quando voi affermate nella Costituzione che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», non dovete solamente pensare al condannato; dovete pensare anche al giudicando; dovete pensare insomma che in Italia vi è un sistema carcerario che non so quanti epiteti di vergogna meriterebbe; vi è un sistema carcerario in Italia, non solo il più antiquato, ma il più vergognoso.
E qui debbo aggiungere che purtroppo molti dei presenti nell’Aula ne hanno fatto esperienza. Anche lei, onorevole Presidente, ha visto, soffrendo per la libertà del nostro Paese, come vergognoso sia il sistema carcerario vigente in Italia, per cui non vi è nessuna differenza fra il delinquente incallito e il colpevole occasionale e il detenuto politico, tutti sono trattati alla stessa stregua; non vi è nessuna differenza fra colui il quale è stato incarcerato per motivi politici e colui che è stato incarcerato per un bieco assassinio. Ma, comunque, non voglio scendere a questi particolari che richiederebbero molto tempo. Nessuno di noi può precisare che il sistema carcerario italiano possa essere considerato modificato nella sua vergogna soltanto tenendo presente quel nuovo carcere costruito alle porte di Roma, a Ponte Mammolo, che dovrebbe costituire il modello delle carceri italiane. Sarebbe una ironia.
La verità, onorevoli colleghi, è che è necessario arrivare ad una soluzione di questo assillante problema sociale. Noi affermeremo veramente una grande idea, se diremo nella nostra Costituzione che il condannato deve essere trattato in modo tale da poter essere successivamente – se si tratta soprattutto di un delinquente occasionale – riassorbito dalla società; le carceri non debbono diventare le università del delitto, di tutti i delitti, ma debbono essere un luogo dove il reo possa racchiudersi in se stesso, pentirsi del delitto e trovare quelle possibilità, attraverso le innovazioni che si potrebbero apportare nel nuovo ordinamento carcerario, che non gli facciano invece – come avviene oggi – odiare la società che sembra far di tutto per respingerlo da sé.
Onorevoli colleghi, ho finito. Ricordiamo fra noi le pagine di Cesare Beccaria nella sua opera Dei delitti e delle pene e riconosciamo che quelle pagine formulano un augurio per noi stessi, per noi che siamo i nuovi legislatori di questa Italia rinata, di questa Italia sventurata ed eroica, ma libera e democratica. Il nostro dovere lo dobbiamo compiere al di sopra di ogni passione di parte, nell’interesse della libertà, nell’interesse e nella difesa dei diritti di ogni italiano. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.
BELLAVISTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, quinto nel turno di gala (secondo la parola di Preziosi) degli avvocati, non abuserò della legge del tassametro, che il saggio Presidente, in complicità necessaria coi capi gruppo, ha voluto instaurare, in obbedienza del resto ad un principio di economia funzionale dell’Assemblea. Principio che, se ostico può riuscire a chi ha limitata la parola, persegue tuttavia motivi di concentrazione che non possono essere disattesi. Breve sarò anche perché voglio limitare il mio esame soltanto agli articoli 16, 20, 21 e 22 del Titolo 1°. E debbo premettere che aderisco a quelli che sono stati i rilievi svolti dal maestro ed amico onorevole Bettiol, con la competenza che gli è propria, ed in parte ai rilievi mossi dal collega Crispo, sia per quanto riguarda la strana configurazione della inviolabilità del domicilio, sia per quanto riguarda la ancor più strana omissione relativa alla estradizione del cittadino. E, ciò posto, passo direttamente all’esame dell’articolo 16, con un’altra premessa, che vorrei fosse meditata dai colleghi di parte avversaria: se questa è veramente la Magna Charta della Repubblica, questo titolo primo rappresenta la turris eburnea dello Stato di diritto, ed esso è veramente la Magna Charta Libertatum, ed ogni appunto allora che si muova, da qualsiasi settore della Costituente non obbedisce altro che ad una istanza di libertà, che tutti profondamente sentiamo. Perché altrimenti non saremmo in un Parlamento ed in una Costituente che così fisiologicamente e costituzionalmente è legata all’idea della libertà. Non sia frainteso dunque il senso della mia parola, quando io vi dico che bisogna divorziare…
TUPINI. Aspetti a suo tempo, onorevole Bellavista, di parlare del divorzio. (Si ride).
BELLAVISTA. Si rassicuri, l’onorevole interruttore: io non intendo parlare di quel tal divorzio, che desta le sue apprensioni, ma volevo soltanto divorziare il comma 5 dell’articolo 16 della Carta costituzionale. (Commenti).
Dopo una premessa, infatti, che fa onore ai legislatori, dopo avere affermato il principio della libertà di stampa, pure con quelle limitazioni sulle quali ha richiamato la vostra attenzione con tanta autorità il collega onorevole Carboni, al comma 5°, voi, Commissari, avete posto questa norma, avete dato allo Stato questa facoltà: che si possa controllare l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica.
La norma è duplice, perché questa potestà di controllo si esercita da una parte sull’attività professionale e dall’altra sulle fonti che eccitano questa attività e la rendono possibile. Fermiamoci a considerare soltanto la prima delle limitazioni di cui trattasi.
Ora, se c’è fra le professioni liberali una attività intimamente connessa e legata alla privata iniziativa, alla privata capacità ed idoneità, non c’è dubbio che questa sia la professione giornalistica. Gli esempi sono numerosissimi ed hanno il dono di quella che Enrico Ferri chiamava la «posterità contemporanea», perché si svolgono più che in Italia all’estero, in modo così manifesto ed eclatante da dimostrare il bene che alla società organizzata a Stato questa attività produce e conferisce.
Un esempio? Domandate alle varie, ben fornite di mezzi finanziari, agenzie americane o inglesi se ce n’è una sola di esse che riesca a battere Drew Pearson che collabora ad una infinità di giornali americani. Egli «sa», ha l’istinto della notizia, sa catturarla, sa anticiparla; sono virtù di intuito che sfuggono alla regolamentazione leguleia, che sfuggono al mediocre controllo della legge che mortificherebbe questa attività, altamente benefica al progresso. E voi volete limitarla, a beneficio di chi, in nome di chi, a vantaggio di chi?
C’è, in verità una diffidenza, nella causa giuridica che inspira la norma, che il giornalismo non merita; parlo del giornalismo onesto che è quello che dice la verità, anche se è amara, soprattutto se è amara, perché così rende il suo servigio alla società. Quel tale altro giornalismo, il disonesto, non può essere né lottato né protetto, perché nella selezione della lotta si discredita, decade, muore.
E i mezzi? Ora, in virtù di quale principio di libertà, che è, e deve essere, di tutti e di ognuno, si può, per esempio (consentite alla verità, che è quella che si impone), impedire ad una data categoria sociale o economica di organizzarsi, in maniera lecita, a difesa di interessi propri? Ma la lotta politica nella democrazia si svolge su un piano dialettico di battaglia di contrari, e voi vorreste conoscere chi sono i fornitori delle armi dei vostri avversari e non dare notizia del marchio di fabbrica dei vostri pugnali e delle vostre spade? Non credo che ciò sia liberale, quindi equo, quindi giusto.
E passiamo ora all’articolo 20. Ma mi consenta l’amico Bettiol – che mi ha direttamente chiamato in causa per la mia appartenenza ad una tradizione ideologica che è stata definita, certo poco propriamente, come residuo di un velenoso liberalismo – che io concordi appieno con lui nel ritenere che molti di questi principî sono immortali, non perché nati sulla Bastiglia in fiamme, ma perché nati con l’uomo: non scriptae sed natae leges, a dirla con Cicerone. Ma sono perciò appunto principî sempre liberali, e non possono non essere liberali. Nell’epoca d’oro della «ragione tutta spiegata», come direbbe Vico, irrompono sulla scena politica del mondo; l’oscurantismo li caccia sotto terra, ma essi risorgono e risorgeranno, come tutte le cose che sono destinate a non perire, e che non appartengono al partito liberale, ma a tutte le classi liberali, finché il liberalismo sarà un verbo comune a tutti i partiti.
Qui vorrei chiedere al buono e paziente Licurgo assente – c’è il vice Licurgo, non meno autorevole – perché si sia preferita, all’articolo 20, alla vecchia (ma, secondo me, esatta per quello che vi esporrò) formulazione dello Statuto Albertino «nessuno può essere sottratto al suo giudice naturale» la dizione presente e diversa, in contrasto con la proposta della Cassazione, che vedo ricordata nelle tavole di raffronto: «nessuno può essere distolto dal giudice naturale che gli è precostituito per legge».
Ora dato che questa è contemporaneamente la Carta della legittima – specialmente dopo il recente passato – diffidenza dell’individuo contro lo Stato sempre potente, e dell’individuo sempre non perfettamente difeso (anche quando relegheremo in soffitta, come altri ha fatto una volta con Carlo Marx, i famosi diritti di supremazia), io osservo: può avvenire il caso che la formula «precostituito per legge» possa prestarsi a questo equivoco interpretativo. Quindi io propenderei per la eliminazione. Tizio commette un determinato reato, e, a rigore giuridico, il suo giudice naturale è quello del luogo dove egli commise il delitto. Ma qui sembra che possa, successivamente alla commissione del reato, essergli precostituito un altro giudice. Noi dovremmo eliminare ogni possibilità di equivoco, che bari e truffi sulle competenze, e si risolva quindi in una lustra, in un tradimento della finalità che la norma stessa si propone. Onde io raccomando la eliminazione.
E non posso fare a meno di sciogliere un inno al secondo comma dell’articolo 20. Anche questa non è una recente importazione di illuminismo, ma continuazione di saggezza romana perché il «nullum crimen sine lege» è nel diritto di Roma: il migliore, il diritto della libertà di Roma classica, di Roma repubblicana.
È stato un bene, ripeto, riaffermare nella nostra Costituzione questo sacro preambolo del nostro Codice penale; è stato un bene perché questa è la maniera con la quale fortificare quel principio e indirizzare ammonimento solenne al legislatore futuro, che da questo principio non si può decampare. E il pericolo di scantonamento c’è stato e c’è ancora.
La costituzione della Germania nazista ammetteva l’estensione analogica della legge penale, e purtroppo il Codice penale sovietico accoglie questo principio, incivile, e lo accoglie giustificandolo con la possibilità dell’estensione analogica qualora il fatto, pur non rivestendo il carattere di reato, offenda «il sano risentimento popolare».
Noi dobbiamo guardarci – e bene ha fatto l’articolo 20 a premunirci in questa materia – da questa possibilità, perché qualsiasi richiamo alla analogia legis, in materia penale, ci porterebbe alle conseguenze di quella cattiva digestione del giudice, che è arbitrio, sopruso, tirannide, di cui alle immortali pagine di Cesare Beccaria.
E dissento dall’onorevole Crispo per quanto riguarda la critica, vivace e distruttiva, che ha fatto del principio della presunzione della innocenza dell’imputato.
I casi che egli vi ha citati sono delle eccezioni, a mio parere, che confermano la regola, che il principio, che al mio amico onorevole Leone sembra romantico, e lo è infatti, obbedisce però anche ad esigenze pratiche alle quali non si può rinunziare nella vita forense, e non vi si può rinunziare in nome dei diritti di libertà.
Il destinatario di queste norme giuridiche è il giudice, il quale, più spesso di quanto purtroppo non si creda, viene alla Magistratura giudicante da quella requirente ed è spesso portato a vedere un colpevole in ogni imputato, e perfino la istruttoria si instrada, incespica e si ingarbuglia in un clima di prevenzione e di ostilità inconsapevole che è bene la legge rimuova, riconfermando il principio che questa è una presunzione, che ha il valore di tutte le presunzioni giuridiche, ma è anche una bandiera di libertà che presidia il processo e che deve essere mantenuta sotto pena di oscurarlo, sotto pena di non servire le vere esigenze della giustizia.
E mi associo anche all’inciso che riflette la emenda come scopo della pena e che vorrei eliminato.
Ora, in realtà, e per le ragioni da altri svolte, e perché la pena, come comunemente si ritiene e s’insegna, non ha un fine unico, ma ne raggiunge altri, sia per questa ragione, sia perché sonerebbe ironia, allo stato della nostra miseria carceraria, parlarne, come l’articolo 21 ne parla, bisognerebbe sopprimere, come si è detto, l’inciso; e mantenere soltanto il principio che le pene non debbono e non possono essere contrarie al senso di umanità.
Sulla pena di morte, onorevoli colleghi, sento doveroso ricordare che la Costituente si onora del nome di un deputato, l’onorevole Paolo Rossi che, all’indomani della promulgazione del Codice Rocco, in pieno regime fascista, scrisse un libro coraggioso: «La pena di morte e la sua critica» nel quale dimostra, anche scientificamente, come questa cosa orrenda fosse soprattutto una bestialità inutile. Noi dobbiamo ancorarci fermamente a questo principio, forse superando anche la limitazione di Beccaria, ma in ogni caso, ricordando, pure nella eccezionalità del diritto di guerra, che non deve ripetersi quella orrenda cosa, che è sì una consuetudine criminale, ma per la quale non c’è pena perché non c’è mai denuncia, che imbratta tanto spesso l’onore dei soldati di tutte le Nazioni, e si chiama la «decimazione». Noi dobbiamo chiaramente affermare che questo è vietato, che questo è un delitto. Che in circostanze estreme nelle quali la Patria è in pericolo si possa arrivare a questa accettata possibilità di errore giudiziario che è la pena di morte, sia: ma questa possibilità di errori sia ridotta al minimo attraverso la garanzia del regolare giudizio e che non sia lecito all’anima prava di un comandante battuto cercare nel sangue degli innocenti la giustificazione dei suoi errori o delle sue codardie! (Applausi).
Onorevoli colleghi, quello che per me rappresenta, se ho interpretato bene, un vero gioiello, come manifestazione liberale della Carta, è il secondo comma dell’articolo 22. Dico se ho interpretato bene, e temo di no, perché, caro collega Preziosi, nell’articolo 20 c’è una «repetitio» magnifica del preambolo dell’articolo 1 del Codice penale. Altre ripetizioni necessarie ed utili ci sono, ma se il secondo comma, onorevole Tupini, dell’articolo 22 vuole essere la ripetizione di quel quasi principio, di quella mortificazione statolatrica contenuta nel Codice di procedura penale, per cui colui che torna dalle patrie Caienne – pensate al caso Dreyfus! – ha soltanto «diritto di istanza» per la riparazione dell’errore che ha sofferto e lo Stato dà, se crede, una somma che non supera le 50.000 lire, allora no. L’epoca, io spero e credo, dell’uomo-mezzo, dell’uomo-bullone, dell’uomo-vite è finita. Ed allora, contro lo Stato che sbaglia per culpa in eligendo, contro lo Stato che comunque sbaglia non devono gli statolatri marciare rostrati di giuristerie che offendono la coscienza popolare ed il sano sentimento della giustizia che vuole sia restituito non solo l’onore, a chi tolto lo ha avuto, ma anche tutto quello che si è perduto, e che è possibile riparare, nel patimento inflitto ingiustamente. Non si può giustificare questo cinismo legislativo con la necessità di procedere a qualunque costo. Si deve riconoscere il diritto subiettivo di pretendere risarcimenti e riparazioni. Questo diritto, evidentemente, deve essere circondato da garanzie; da forme, da modi che lo rendano veramente alta affermazione di giustizia.
TUPINI. Ed è questo lo spirito della Commissione.
BELLAVISTA. Sì, però se io devo interpretare – ed una volta che la legge è fatta si spoglia del pensiero intimo del legislatore – il comma così come esso recita: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», debbo concludere che questo lo fa ancora oggi la legge; tuttavia, lo sapete, questo è un diritto di istanza; la vittima dell’errore giudiziario può chiedere, ma non ha il diritto di ottenere; a questa mia potestà di richiedere non corrisponde un obbligo a darmi; è soltanto un gesto di grazia degno d’un tirannello feudale, che butta, se lo crede, una borsa d’oro alla vittima del suo bieco potere.
È formula che si addice «to the gracious Queen», ma che «the gracious Republic» non può accettare. E non bisogna accettarla, perché non accettando questo principio statolatrico, affermando il diritto alla riparazione, noi affermeremo una cosa veramente grandiosa che supera ogni ideologia particolare, perché investe l’ideologia di tutti: la creatura umana è una cosa sacra e diventa sublime quando è stata ingiustamente calpestata (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Preti. Ne ha facoltà.
PRETI. Intendo limitare la mia trattazione all’argomento della libertà religiosa. Altri del mio gruppo, di me più competenti, hanno detto e diranno quale è il pensiero del Partito socialista dei lavoratori italiani in merito alle altre libertà tutelate nel titolo primo.
Si è, da meno di 24 ore, votato da una coalizione eterogenea di credenti e di miscredenti quell’articolo 7 della Costituzione, il quale…
Una voce al centro. Non vi sapete rassegnare!
PRETI. … il quale, attribuendo la sanzione statutaria ai Patti Lateranensi, non è certo atto a rassicurare in Italia e all’estero coloro che sono gelosi della libertà religiosa. È vero, bensì, che l’articolo 3 della Costituzione, in quanto afferma fra l’altro che i cittadini sono eguali dinanzi alla legge senza distinzione di opinioni religiose, pare ispirarsi al principio della libertà religiosa; ma esso non costituisce se non una premessa generica a quella chiara e specifica dichiarazione che solo nel titolo primo, ora in discussione, può concretarsi.
Del resto, l’accoglimento della proposta dell’onorevole Lucifero di rinviare a questo primo titolo il terzo comma dell’articolo 7, relativo alla disciplina delle confessioni religiose acattoliche, riesce, sotto questo aspetto, assai utile, in quanto concentra in un unico titolo tutte le disposizioni che concernono le minoranze confessionali e le loro libertà.
Se l’Assemblea non avesse votato l’articolo 7 – noi della sinistra democratica non lo abbiamo votato, e ne siamo fieri – e non ci trovassimo di fronte ai precedenti di un articolo 1 dello Statuto, affermante lo Stato confessionale – articolo il quale, andato in desuetudine nell’età liberale, fu richiamato in vigore nel 1929 – noi con un po’ di buona volontà potremmo anche dirci contenti delle garanzie offerte dall’articolo 14 del progetto, le quali, da un punto di vista astratto, potrebbero forse essere atte a tranquillizzare le coscienze.
Ma con questi precedenti, e dopo che la votazione del 25 marzo ha turbato tante libere coscienze italiane e ha indubbiamente messo in allarme l’opinione pubblica delle Nazioni veramente democratiche… (Commenti).
Una voce a destra. Questo lo dice lei.
PRETI. Sì lo dico io, con piena convinzione. (Commenti). … non possiamo dichiararci soddisfatti di quanto dispone il progetto di Costituzione in materia di libertà religiosa. Bisogna che dalla Carta costituzionale si possa chiaramente evincere che i culti non cattolici godranno domani di quella libertà effettiva, che ancora in questo momento – non dimentichiamolo – la legislazione loro nega. Tanto più che la Chiesa cattolica, in quanto si ritiene depositaria della definitiva verità, ha sempre creduto legittimo pretendere dallo Stato delle limitazioni alla libertà di coloro che essa considera i predicatori dell’errore. E se è vero che in più circostanze, sia in passato come di recente, la Chiesa si è mostrata umana e materna nei confronti di quelle confessioni religiose, le quali, come la israelitica, rinunciano a qualunque forma di proselitismo, tenacemente aggressiva essa è sempre stata nei confronti di quelle religioni che fanno del proselitismo un loro imperativo, e in particolare nei confronti dei protestanti la cui predicazione è ritenuta, a ragione, più temibile, in quanto fondata su quei valori cristiani ai quali anche il Cattolicesimo si richiama.
Del resto la non liberale posizione della Chiesa – e a questo proposito io osservo che è difficile farsi liberale per ogni Chiesa o partito che creda di possedere la chiave definitiva della verità – è stata espressa, senza eufemismi, dal defunto Papa Pio XI all’indomani dei Patti Lateranensi, quasi a dare ad essi una interpretazione autentica. Disse in quell’occasione Pio XI: «Culti tollerati e ammessi. Non saremmo noi a fare questione di parole. La questione viene del resto non inelegantemente risolta distinguendo tra testo statutario e testo puramente legislativo, quello per se stesso più teorico e dottrinario e dove sta meglio «tollerati», questo inteso alla pratica e dove può stare pure «ammessi o permessi», purché ci si intenda lealmente, purché sia e rimanga chiaro e lealmente inteso che la religione cattolica è solo essa, secondo lo Statuto e i Trattati, la religione dello Stato, con la logica e giuridica conseguenza di una tale situazione di diritto costitutivo, segnatamente in ordine alla propaganda.
«Più delicata questione si presenta – prosegue Pio XI – quando, con tanta insistenza, si parla della non menomata libertà di coscienza e della piena libertà di discussione. Non è ammissibile che siasi inteso libertà assoluta di discussione, comprese cioè quelle forme di discussione che possono facilmente ingannare la buona fede di uditori poco illuminati e che facilmente diventano dissimulate forme di una propaganda non meno facilmente dannosa alla religione dello Stato e, per ciò stesso, anche allo Stato e proprio in quello che ha di più sacro la tradizione del popolo italiano e di più essenziale, la sua unità.
«Anche meno ammissibile – aggiunge Pio XI – ci sembra che si abbia inteso di assicurare incolume, intatta, assoluta libertà di coscienza; tanto varrebbe dire allora che la creatura non è soggetta al Creatore; tanto varrebbe legittimare ogni formazione, o piuttosto deformazione, delle coscienze anche più criminose e socialmente disastrose.
«Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola, in forza del mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che in uno Stato cattolico le libertà di coscienza e di discussione debbono intendersi e praticarsi – e questa è la sua conclusione – secondo la dottrina e la legge cattolica».
Noi siamo certi che dei politici come l’onorevole De Gasperi e dei mistici come l’onorevole La Pira avranno della libertà una concezione più larga e più moderna; ma sta di fatto che, per la Chiesa, vi è una sola vera libertà: quella di assentire liberamente alla sua dottrina. La libertà dei non fedeli, come risulta dalle dichiarazioni di Pio XI, non è che l’errore, il quale si può prudentemente tollerare in omaggio al libero arbitrio umano, ma che bisogna isolare e rendere impotente.
Si spiega così come, con una Chiesa avente tale concezione della libertà, e con uno Stato dominato da un partito il quale, come tutti i partiti unici o aspiranti tali, conosceva solo la libertà di obbedire alle sue direttive, la condizione delle confessioni non cattoliche dedite al proselitismo non sia stata, dal 1929 in poi, delle più brillanti.
Le Chiese protestanti in particolare, qualche volta per sospetti politici, ma assai più sovente per pressioni ecclesiastiche, subirono non poche umilianti limitazioni della propria libertà, in base alla legislazione emanata a seguito dei Patti lateranensi.
L’articolo 5 della legge 26 giugno 1929 affermava che «la discussione in materia religiosa è pienamente libera»; ma nulla diceva in merito alla libertà di propaganda. A proposito della quale viceversa il relatore fascista alla Camera onorevole Vassallo osservava: «In seno alla Commissione si sono ricordati precedenti che pure hanno avuto un’eco nella stampa e nel Parlamento di audace, pretesa propaganda religiosa, da parte di qualche organizzazione protestante, i quali si sono dimostrati insidiosi verso l’unione e la saldezza delle forze spirituali e politiche».
E il Relatore al Senato, senatore Boselli, traendo le conclusioni, precisava che si intendeva, con la legge che si andava a votare, limitare proprio la propaganda dei protestanti. Affermava egli infatti, tra l’altro: «Se fosse vero che una perversa propaganda si aggiri fra le reclute militari, urgerebbe efficacemente reprimerla a salvaguardia della compatta unità religiosa del nostro popolo, unità che è parte somma dell’unità nazionale».
Non stupirà perciò se – cito un esempio ma potrei citarne altri – in data 30 aprile 1936 la Corte d’appello di Roma assolveva un padre gesuita, il quale, in Soriano del Cimino, istigava il popolo contro un venditore di Bibbie evangeliche e faceva dare al rogo tutti i libri sacri che lo stesso possedeva. Ed affermava la sentenza essere illegittimi in uno Stato cattolico la propaganda e il proselitismo evangelico.
Per soffermarmi su un’altra ingiusta disposizione, dirò dell’articolo 1 del regio decreto 28 febbraio 1930, che sottopone l’apertura di un tempio non cattolico al fatto che venga a soddisfare effettivi bisogni di importanti nuclei, dando così praticamente alla polizia la più ampia discrezionalità nel giudicare e nel decidere. Esso ha creato più d’una volta – e non sto qui a citare i casi – notevoli difficoltà agli evangelici italiani, a cominciare dai Valdesi, che pur hanno una tradizione plurisecolare nel nostro Paese.
Senza voler scendere al dettagliato esame delle disposizioni relative ai culti ammessi, dirò che in base ad esse nel Centro-Sud – sono cose non a tutti note – si arrivò a chiudere scuole confessionali protestanti, a proibire a pastori evangelici di esercitare il culto, ad allontanarli addirittura dalle località ove essi evangelizzavano.
E in mancanza di una specifica disposizione di carattere restrittivo, soccorreva sempre l’articolo 1 della legge sui culti ammessi, il quale, con la famosa clausola del «buon costume» e dell’«ordine pubblico» legittimava la più larga applicazione della legge di pubblica sicurezza. Specialmente le ragioni di «ordine pubblico» era facile crearle: bastava che un parroco accusasse i protestanti di mormorazioni antifasciste o, meglio, affermasse che non riusciva più a trattenere gli zelanti cattolici del paese, decisi ad assalire il propagandista evangelico, ed ecco che gli estremi di un intervento per ragioni di ordine pubblico erano creati.
I fatti palesemente incresciosi – noi lo ammettiamo – non furono frequentissimi; né si pretende qui drammatizzare in maniera eccessiva; ma la ragione principale va ricercata probabilmente, anzi certamente, nella circostanza che in Italia i protestanti non hanno mai svolto quella intensa propaganda che invece hanno svolto in altri Paesi pure cattolici. Sta però di fatto che l’unica setta protestante la quale si propose di svolgere una tenace ed attiva propaganda tra le plebi agricole del Mezzogiorno e delle Isole, e cioè la setta pentecostale, fu messa al bando nel 1935, per motivi di sanità pubblica, in relazione al testo unico di pubblica sicurezza ed alla legge sui culti ammessi, in quanto l’esaltazione che si impadronirebbe dei fedeli invocanti la discesa dello Spirito Santo sarebbe pregiudizievole alla salute degli stessi. Chissà allora che cosa avrebbe fatto il Governo se il miracolo di San Gennaro avesse avuto luogo nei templi protestanti!
Neppure dopo la liberazione (e notate questo, colleghi democristiani) questo divieto è stato tolto, tanto che proprio qualche giorno fa è stata ordinata la chiusura di un tempio in provincia di Trapani, che era stato riaperto dopo la liberazione: al quale proposito ha fatto anzi una interrogazione al Governo in questi giorni l’onorevole Gullo Rocco del nostro Partito. Il Governo afferma di attendere sempre i rapporti dell’ambasciatore Tarchiani, incaricato di espletare indagini in America, nazione di origine dei pentecostali, circa la serietà e la consistenza di questa setta. A dire il vero Tarchiani ha già risposto una prima volta favorevolmente, ma il Governo, poco acquisito all’idea di garantire scrupolosamente la libertà di culto, lascia passare il tempo. E all’estero questo lo si sa.
L’articolo 14 della Costituzione ha indubbiamente un merito: quello di affermare esplicitamente la libertà di propaganda religiosa. Ma ha il grave torto di sottoporre ancora l’esercizio dei culti acattolici alle famose limitazioni dell’ordine pubblico e del buon costume.
Si dirà, ex adverso, che è una clausola di stile. Ma sta di fatto che io ho diligentemente consultato le disposizioni in materia di tutte – credo – le carte costituzionali; sicché posso tranquillamente affermare che, in genere, questa clausola o la si trova nelle costituzioni vecchie del secolo scorso, oppure, salvo rare eccezioni, in quelle recenti a tinta conservatrice o addirittura totalitaria. Certo è che né gli Stati Uniti, né l’Inghilterra, né la Francia, né la Russia conoscono clausole limitative di questo genere.
Orbene, se è vero che, scrivendo la nuova Costituzione, dobbiamo in ogni momento e circostanza riferirci a quello che è avvenuto ieri, per meglio affermare la nostra volontà irrevocabile di tagliare i ponti con un passato che non deve più tornare, noi non possiamo adottare una formula di cui si servì il governo fascista, istigatori certi ambienti ecclesiastici, per legittimare i propri soprusi, e che domani – come all’estero, forse anche a torto, in questo momento si dubita – potrebbe eventualmente servire per consimili scopi.
Ormai l’articolo 7 è votato. Si faccia almeno tutto il possibile per evitare di vedere umiliata la Nazione di fronte al mondo intero, con il richiamo che dall’estero ci potesse essere fatto, domani, all’osservanza del famoso articolo 15 del Trattato di pace, che ci impone l’assoluto rispetto della libertà religiosa di tutti i cittadini.
Lasciamo stare dunque le ipocrite clausole dell’ordine pubblico e del buon costume. Ordine pubblico significa, in pratica, arbitrio di polizia; e la clausola del buon costume – a meno che non abbia lo stesso significato della clausola dell’ordine pubblico – è, per lo meno, offensiva nei confronti di un culto religioso. Se proprio dovessero diffondersi culti realmente contrari al buon costume, contro questi culti, che nulla in tal caso conserverebbero della dignità religiosa, lo Stato ha modo di intervenire a norma della legislazione penale.
Ma non basta, signori della Democrazia cristiana: bisogna anche trovare la maniera di affermare nel titolo primo della Costituzione, onde riparare a quello che per noi è il fallo dell’articolo 7…
CINGOLANI. Ma è la quarta volta che lo dice! È proprio inconsolabile! (Rumori – Commenti al centro).
PRESIDENTE. Onorevole Cingolani, lasci proseguire, per favore. (Rumori – Commenti a sinistra).
MICHELI. È quattro volte che chiama in causa la Democrazia cristiana! Abbiamo il diritto di rispondere.
PRETI. Onorevole Micheli, per favore non si agiti. Se no dicono che è addolorato anche lei di aver votato quel famoso articolo. (Si ride).
MICHELI. Tutt’altro! Sono lieto di averlo votato. Non dica cose che non hanno senso! Questo è proprio voler fare i rompiscatole. (Rumori – Vivi commenti – Interruzione dell’onorevole Saragat).
PRESIDENTE. Mi sembra che si esageri, da tutte le parti in questo momento! Prego di non interrompere l’oratore.
RUGGIERO. Chi esagera è l’onorevole Micheli, con le sue inammissibili espressioni!
PRESIDENTE. Onorevole Ruggiero, la richiamo all’ordine! (Proteste dell’onorevole Ruggiero – Commenti). Onorevole Ruggiero, la richiamo all’ordine per la seconda volta! Spero che si renda conto del valore di questo mio richiamo. Ella è troppo giovane di questa Assemblea: la prego di leggere il Regolamento della Camera. (Interruzione dell’onorevole Ruggiero).
Non prenda più la parola, prego.
Una voce a sinistra. È la legge della maggioranza!
PRESIDENTE. Non è la legge della maggioranza, perché i banchi sono dapertutto quasi vuoti. Prego anche lei di non interloquire. Mi sembra veramente che in fine di seduta troppi deputati perdano il senso del luogo dove si trovano. Da un piccolo incidente provocato da una frase scherzosa mi pare che si traggano conseguenze semi tragiche. Il che è veramente fuor di luogo.
Onorevole Preti, continui.
PRETI. Bisogna trovare la maniera di affermare quell’eguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge, che nel progetto si è del tutto dimenticata; tanto più che il terzo comma dell’articolo 7, secondo la proposta dell’onorevole Lucifero, votata ieri sera, è stato rimandato al titolo I.
Non dimentichiamo che gli acattolici, ma soprattutto i protestanti di tutto il mondo, guardano ansiosamente a noi e attendono almeno questo.
Noi socialisti, nel limite delle nostre possibilità, difenderemo fino all’ultimo questo concetto della parità di tutte le fedi, per mantenerci appunto fedeli a quella tradizione liberale del Risorgimento che considerò sempre la libertà religiosa la più sacra di tutte le libertà, come quella per cui si sacrificò nel corso della storia il maggior numero di martiri di tutte le nazioni e di tutte le lingue; quella tradizione che è sembrata offuscarsi nel triste compromesso di ieri.
In questo noi ci consideriamo eredi dei valori eterni del liberalismo, di quel liberalismo che la nuova scuola liberale, che ha per leader al Parlamento l’onorevole Corbino e per vice leader l’onorevole Lucifero, ha messo in soffitta confinandolo nel campo economico in funzione conservatrice; di quel vecchio liberalismo ottocentesco di cui ci ha recato l’ultima fiammella Benedetto Croce, che non è affatto comparso in quest’Aula quale evanescente ombra del passato – come ha detto ieri non molto felicemente l’onorevole Togliatti – ma che è venuto a rincuorarci alla vigilia della battaglia. Ed è venuto tra noi solo per questo, perché con il suo appoggio morale combattessimo con coerenza e con fede per la difesa del più vecchio ed attuale di tutti i valori, la libertà; e ciò appunto nell’atto in cui essa veniva insidiata, con la minaccia dell’articolo 7, in una delle sue più pure, anzi nella sua più pura estrinsecazione.
Proprio a questa libertà – permettetemi compagni comunisti l’osservazione – il progressista onorevole Togliatti nella votazione di ieri, mentre uno sparuto gruppo di discepoli di Croce – 4 o 5 – ha votato con noi, ha voltato le spalle. Né so che cosa ne avranno pensato i mani di Mazzini e di Cavour. (Commenti).
Comunque in materia di parità delle confessioni religiose siamo certi di avere al nostro fianco i comunisti, nello spirito dell’emendamento proposto dall’onorevole Giancarlo Pajetta nella seduta di ieri.
La decisione spetta ai democristiani.
Essi hanno colto ieri la vittoria, che più loro premeva, nel modo che noi sappiamo…
CINGOLANI. Nel modo parlamentare.
PRESIDENTE. Lei, onorevole Cingolani, è l’interruttore permanente quando si pongono questi problemi. Se non temessi che l’onorevole Tonello si offenda – ma so che è troppo spiritoso per offendersi – direi che gli fa il pendant. (Si ride).
Prosegua, onorevole Preti, non dimentichi l’ora anche lei.
PRETI. Ma il Presidente De Gasperi ieri ha lasciato sperare che, nello spirito di quanto egli aveva dichiarato ai protestanti d’America, il suo Partito saprà comprendere tutte le esigenze delle minoranze religiose. Noi sappiamo che cominciate a dar prova oggi, signori della Democrazia cristiana, nella votazione di questo titolo, della vostra comprensione degli eterni diritti delle minoranze religiose.
Ricordate che, dando voi prova di intransigenza oggi, questa potrebbe ricadere domani su voi tutti. La libertà si vendica su coloro che in qualunque circostanza le abbiano mancato di fede. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.
Desidero leggere l’elenco dei primi inscritti a parlare per la seduta pomeridiana, avvertendo che i deputati inscritti che non saranno presenti decadranno dal diritto della inscrizione.
(Legge l’elenco).
Domani vi sarà anche seduta antimeridiana alle 10.
La seduta termina alle 19.50.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10:
- – Interrogazioni.
- – Seguito della discussione del disegno di legge:
Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).
Alle ore 16:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.