Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 2 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

18.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 2 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà e intrapresa economica (Seguito della discussione)

Presidente – Taviani – Corbi – Noce Teresa – Dominedò – Marinaro – Fanfani – Canevari – Colitto – Assennato.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sul diritto di proprietà e sulla intrapresa economica.

PRESIDENTE, premesso che la discussione verterà oggi sul problema dell’indennizzo, rileva che, come già ebbe a precisare altra volta, questo problema non va posto nei riguardi dell’impresa, per la quale, trattandosi di un processo produttivo, non si può prevedere un caso di abbandono. È anche molto difficile non solo a verificarsi, ma specialmente ad accertarsi, il caso di una impresa acquistata con mezzi illeciti. Il problema invece si pone nei confronti della proprietà, per la quale, però, dovrà considerarsi il caso – e qui si potrà arrivare ad una precisazione – in cui l’indennizzo non sia assolutamente dovuto.

TAVIANI conferma quanto ha detto in proposito nella seduta di ieri. Concorda col Presidente che la questione dell’indennizzo deve porsi soltanto in sede di proprietà statica. Rileva a questo proposito che l’esproprio può eseguirsi soltanto nei confronti di una proprietà e non di una iniziativa; si espropria, cioè, un bene. Si dichiara favorevole alla forma dell’esproprio mediante indennizzo ed ha aderito a togliere l’aggettivo «equo» onde evitare il pericolo di contestazioni da parte di privati sulla entità dello indennizzo stesso. Non concorda però col Presidente per quanto riguarda l’esproprio senza indennizzo delle proprietà male acquistate; in questi casi non si ha tanto un esproprio quanto un mancato riconoscimento della formazione della proprietà. Se la proprietà è formata dalla cattiva speculazione, la società non deve espropriarla, ma addirittura non riconoscerla. Può sorgere la obiezione sul modo come accertare queste condizioni di fatto, ma a questo proposito osserva che, se non si hanno i mezzi per non riconoscere la proprietà, tanto meno si potranno avere per espropriarla senza indennizzo. Il problema consiste nel dare la possibilità allo Stato di intervenire nella sorveglianza della formazione della proprietà; una volta però che la proprietà è formata e quindi riconosciuta, l’esproprio deve avvenire dietro indennizzo.

Si obietta pure che una tale concezione dell’esproprio possa avere conseguenze gravi nei riguardi della riforma agraria, specie per quanto riguarda le grandi proprietà formatesi almeno da tre o quattro secoli e per le quali non è possibile stabilire se la loro formazione sia avvenuta giustamente o ingiustamente. Volendo dare un indennizzo a questi proprietari in caso di esproprio, si verrebbe a frustrare la stessa riforma agraria. Risponde anche a questa obiezione osservando che, anzitutto, soccorrono i mezzi fiscali, primo fra tutti l’imposta straordinaria sul patrimonio; in secondo luogo, in questo caso il termine indennizzo, senza l’aggettivo «equo», ha un senso preciso che si riallaccia a quanto venne praticato, nelle riforme agrarie dell’altro dopo guerra, calcolando il valore dei terreni nella moneta prebellica, senza tener conto della svalutazione. Questa non è affatto una finzione, ma l’applicazione di un principio di giustizia, in quanto si viene a colpire la rendita fondiaria – profondamente ingiusta – e non l’interesse che, contrariamente a quanto afferma il Proudhon, è perfettamente giustificato e legittimo. In altre parole, ingiusto non è l’affitto ma quel soprappiù, la rendita, che i proprietari percepiscono senza aver nulla fatto, avvantaggiandosi soltanto – ecco l’ingiustizia – delle congiunture, della carestia e delle vicende monetarie, le quali aumentano fino a proporzioni elevatissime il valore della terra. È proprio questo valore che lo Stato non deve considerare, calcolando la proprietà terriera al valore di cinque o sei anni fa; così facendo, si potrà benissimo dare l’indennizzo.

Per tali considerazioni propone che rimanga l’espressione: «esproprio contro indennizzo».

PRESIDENTE rileva che occorrerà sempre aggiungere: «salvo i casi tassativamente disposti dalla legge».

CORBI osserva che nulla ha da aggiungere a quanto sull’argomento ha detto in altra occasione; si associa alle considerazioni del Presidente, proponendo che l’articolo sull’esproprio tenga conto dell’indennizzo, salvo i casi tassativamente fissati dalla legge. Considera giuste le osservazioni dell’onorevole Taviani, almeno da un punto di vista teorico; ma praticamente non sono applicabili, in quanto sarebbe molto difficile considerare il modo di formazione della proprietà e comunque si impiegherebbe tanto tempo da frustrare e le legittime aspettative del Paese e gli stessi interessi economici della Nazione.

NOCE TERESA non concorda con le osservazioni dell’onorevole Taviani per quanto riguarda il non riconoscimento della proprietà male acquistata. Che cos’è in altre parole questo non riconoscimento se non un esproprio? Porta l’esempio dei beni male acquistati dai fascisti durante il ventennio: in questo caso lo Stato confisca, cioè si ha un’equiparazione fra espropriazione e non riconoscimento del diritto.

Osserva che l’indennizzo deve essere riconosciuto per quei casi in cui la proprietà ripeta le sue origini da un titolo illegittimo e conclude associandosi alle proposte del Presidente.

DOMINEDÒ vorrebbe eliminare tali preoccupazioni, che pure appaiono legittime anche dal punto di vista etico, osservando che, a suo avviso, l’ordinamento giuridico già fornisce i mezzi per contemplare le eventualità che giustamente toccano l’animo della collega Noce, come quello di tutti.

Due sono le ipotesi: o la proprietà è stata acquistata ed usata in correlazione alle norme che l’ordinamento giuridico prevede ed alle finalità sociali cui essa deve ispirarsi, quivi compresa quella funzione che è stata inserita nella Carta costituzionale come elemento costitutivo del diritto, ed allora, nel caso in cui la proprietà privata debba essere colpita per esigenze di pubblico interesse, spetta sempre l’indennizzo pieno; o viceversa, manca questo presupposto, come nei casi di acquisizione indebita, ed allora la stessa Carta costituzionale già offre l’arma per colpire, perché, mancando il presupposto enunciato come elemento costitutivo, è venuto meno, con la socialità del diritto di proprietà, lo stesso titolo della sua piena protezione, che non può non influire sulla misura dell’indennizzo o forse sullo stesso diritto all’indennizzo.

Peraltro, le formazioni illecite di cui si fa da altri parola, possono essere colpite e sono già state colpite con norme speciali, che attengono ad un concetto giuridicamente diverso, quale quello della confisca.

Cosicché, le ipotesi eccezionali trovano sempre possibilità di essere contemplate nell’ordinamento giuridico, il quale, dalla sede fiscale, ordinaria o straordinaria, fino all’ipotesi massima della confisca, può offrire gli strumenti, secondo i principî generali, per colpire ogni illiceità. Si preoccupa soprattutto di preservare la proprietà sana. Ora, il principio per cui la Carta deferirebbe alla legge la determinazione dei casi in cui l’indennizzo spetti o non, ferirebbe, proprio in linea di principio, quell’esigenza di difesa della proprietà normale, che qui si tiene presente. Quindi si avrebbe il danno senza il vantaggio.

Ecco il pericolo inerente alla proposta di abdicare alla disciplina in sede costituzionale, rinviando alla legge un principio che è connesso inscindibilmente alla tutela del diritto di proprietà, inteso nella sua completezza etica e giuridica.

Desidera, sì, venire incontro alle esigenze espresse dalla collega Noce, ma esprime la convinzione che l’ordinamento giuridico offra i mezzi sufficienti al fine; mentre, deferendo alla legge la concessione o meno dell’indennizzo, si potrebbe incrinare l’istituto della proprietà in sede normale.

PRESIDENTE non ritiene che la dizione «salvo i casi tassativamente espressi» incrini il principio della proprietà, quando essa è legittima. Anzi, direbbe che è il contrario, per il fatto stesso che, se si crea un’eccezione, si conferma la regola, non la si indebolisce.

Sull’osservazione dell’onorevole Dominedò che l’ordinamento giuridico soccorre ugualmente, indipendentemente da una dichiarazione che venga fatta nella Carta costituzionale, non crede che esista in proposito una disposizione generale. Se l’onorevole Dominedò si riferisce alla confisca, questa nel nostro ordinamento ha caratteri nettamente delimitati. Dovremmo concepire questo istituto diversamente di come è configurato nella nostra legislazione. Oggi la confisca, com’è regolata dalla legge, non consente di arrivare all’espropriazione senza indennizzo nei casi enunciati. Oggi si arriva alla confisca in base all’articolo 240 del Codice penale od in base a leggi speciali: c’è la confisca, per esempio, in materia di contrabbando ed in casi consimili. L’istituto giuridico della confisca è solo disciplinato, salvo errore, nel Codice penale, il quale dice che la confisca è un accessorio della condanna penale, salvo che si tratti di cose che non possono essere né acquistate, né alienate, né detenute, ecc.

In sostanza non trova nella nostra legislazione la possibilità di addivenire all’esproprio senza indennizzo, se non in quanto lo si dica; ed il dirlo non ferisce il principio, che è di giustizia, che, una volta riconosciuta legittima la proprietà privata, la sua espropriazione debba avere per corrispettivo un indennizzo, anzi un giusto indennizzo.

L’aggiunta che propone, riferibile alla proprietà statica, conferma la regola e risponde al sentimento comune, perché tutti sono di questo ordine di idee.

DOMINEDÒ rileva che qui è in giuoco un problema più largo della mera ipotesi di confisca. Comunque la figura della confisca senza condanna è precisamente contemplata dalla legge per l’avocazione dei profitti di regime.

PRESIDENTE osserva che ciò avviene per legge speciale, ma che non c’è una legge generale.

DOMINEDÒ rileva che evidentemente le leggi speciali possono essere emanate in correlazione ad un principio generale.

MARINARO osserva che è sempre una sanzione, anche in quel caso. La legge ha carattere punitivo.

DOMINEDÒ aggiunge che occorre tener presenti alcuni precedenti esteri, quale quello della riforma agraria lituana, la quale ha determinato l’ammontare dell’indennizzo decurtando il valore della rendita ricardiana.

FANFANI richiama l’attenzione sul fatto che il discorso avviato dal Presidente porta a questo interrogativo: per caso si ritiene che la proprietà soltanto in alcuni casi debba essere riconosciuta come legittima ed in altri casi occorra fare tutto un lungo processo per accertare la legittimità o meno della sua accumulazione?

Si domanda se, per caso, questo si debba fissare nella Costituzione, e cioè dire che da oggi si determina una revisione generale delle proprietà. Per quelle che riceveranno il brevetto di legittimità, si procede secondo l’esproprio con indennizzo: le altre cadono.

MARINARO osserva che è inconcepibile che l’autorità amministrativa debba, di volta in volta, quando procede all’espropriazione, indagare sulla legittimità o meno della proprietà.

CANEVARI rileva che il Presidente nella sua proposta ha accennato ai fatti che potrebbero indurre a non corrispondere nessun indennizzo. Se non si accenna, sia pure sommariamente, alla natura di questi fatti, si lascia nell’animo il dubbio che l’indennizzo possa essere anche non corrisposto per altre ragioni. Questo è il dubbio sollevato dai colleghi. E perché allora non si cerca di chiarire questo punto?

A questo scopo proporrebbe la dizione: «salvo contrarie disposizioni di legge per i casi di inadempienza alle finalità prescritte e acquisti o arricchimenti ingiustificati», che fisserebbe fin da ora i casi nei quali la legge deve intervenire, per non corrispondere quell’indennizzo, o perché la proprietà non corrisponde alla sua finalità o perché si tratta di arricchimento ingiustificato.

PRESIDENTE, dichiarandosi d’accordo riguardo alla proprietà male acquistata, chiede quali sarebbero i casi di inadempienza.

CANEVARI cita, per esempio, la terra non coltivata, che non risponde alla sua finalità.

PRESIDENTE fa rilevare che il Codice civile prevede il caso dell’abbandono, per il quale è comminato l’esproprio; però mantiene l’indennizzo, il che è contradditorio. Quindi, l’inadempienza è prevista.

CANEVARI trova giustificata la disposizione dell’attuale Codice, perché anche quando un podere è abbandonato, espropriandolo si porta via una ricchezza e l’indennizzo sarà limitato. Ma che quella proprietà rappresenti un bene, dal quale il proprietario non trae profitto e profitto invece ne può trarre la collettività, non induce la collettività a non pagare niente. Ammette anche che non si debba corrispondere l’indennizzo, come castigo al proprietario, il quale non fa fruttare la sua terra in relazione ai bisogni della collettività, in quanto non accettando tale principio difficilmente si potrebbe contestare il diritto del proprietario, che abbandona la sua terra, ad avere l’indennizzo, sia pure limitato.

Se si considera che un terreno rappresenta un mezzo di produzione di altra ricchezza, per cui debba essere corrisposto un indennizzo limitato, in questo caso il diritto non può essere negato. Può essere negato soltanto quando si ammette che intervengono considerazioni di ordine sociale.

COLITTO esprime l’avviso che, ove si proceda ad espropriazione di beni, quale ne sia la natura, occorre dare un equo indennizzo. Ritiene che all’indennizzo occorra far cenno sia nell’articolo che si occupa della proprietà, sia nell’articolo che si occupa dell’impresa, giacché, parlandosi anche in tale secondo articolo di beni singoli e di complessi produttivi, potrebbe sorgere il dubbio, ove non si parlasse anche in esso di indennizzo, che potrebbe senza indennizzo aver luogo quella devoluzione di beni di cui si parla in detto secondo articolo.

Non ritiene, poi, che si possano fare eccezioni. L’autorità amministrativa, infatti, non può ricercare la provenienza di beni che, in difetto di sentenze di magistrati o di altri organi all’uopo dalla legge incaricati, non potrebbero non essere considerati legittimi. Si aprirebbe evidentemente la via a possibili arbitri. Se non è l’autorità amministrativa che interviene e chi invoca l’indennizzo è il titolare del diritto di proprietà, le parole «salvo i casi», che il Presidente vorrebbe aggiungere, sarebbero, a suo avviso, del tutto inutili.

MARINARO si associa pienamente alle considerazioni fatte dall’onorevole Colitto, ed osserva che, fra la formula suggerita dal Presidente Ghidini e quella proposta dall’onorevole Canevari, riterrebbe preferibile, in ogni caso, la seconda, poiché mentre la formula Ghidini darebbe la possibilità ai più larghi arbitrî, specialmente dal punto di vista politico, quella Canevari delimiterebbe e preciserebbe in certo qual modo il campo di applicazione della facoltà di non indennizzare l’espropriato; salvo naturalmente ad indicare con precisione i casi di non indennizzo.

Indipendentemente dalle considerazioni che precedono, propone che rimanga fermo l’articolo sulla proprietà così come è stato votato, e che, per quanto riguarda la socializzazione dell’impresa, sia esplicitamente prevista la corresponsione di un equo indennizzo, anche sotto il profilo dell’avviamento commerciale ed industriale dell’impresa stessa.

PRESIDENTE ritiene che l’indennizzo per quanto riguarda l’impresa si possa sempre aggiungere.

ASSENNATO desidera far notare che sul preambolo della relazione dell’onorevole Taviani, ossia sull’origine della proprietà come «frutto del lavoro e del risparmio», tutti erano d’accordo per eliminarlo allo scopo di evitarne le conseguenze, e cioè dei processi diabolici sull’origine della proprietà. Questo però non toglie che vi possano essere ragioni di espropriazione senza indennizzo dello Stato.

Un esempio di ciò può essere offerto dal testo di pubblica sicurezza e da analoghe disposizioni anche di legislazioni straniere. Lo Stato in ogni momento, quando vede che un individuo ha un certo tenore di vita senza svolgere alcuna attività giustificata, può chiedere conto o sull’origine delle sue proprietà o sul lavoro che compie. Questo è uno dei casi in cui potrà essere disposta l’espropriazione senza indennizzo. È sempre un esproprio anche se manca originariamente la legittimazione della proprietà. Altra ragione per la quale ha aderito alla liquidazione di quel preambolo, è perché vi sono attività illecite, che lo Stato riconosce, come ad esempio quella del tenutario di una casa di piacere o di una casa da giuoco. Negare ai titolari il diritto di proprietà è atto assai ingenuo, essendo agevole eludere il divieto: perciò quello che interessa è di lasciare la possibilità allo Stato di espropriare, quando il cittadino non giustifichi dove abbia attinto le sue ricchezze o il suo modo di vivere. Ritiene quindi che non si possa, in sede di Costituzione, stabilire un disposto da testo di pubblica sicurezza e che si debba lasciare alla legge di stabilire i singoli casi, come ha proposto il Presidente.

MARINARO osserva che c’è la legge sulla pubblica sicurezza, la legge sui beni demaniali, sugli usi civici, ecc., che già prevedono e regolano tutti i singoli casi. Perché si deve allora includere una così grave limitazione in una materia così delicata?

ASSENNATO, circa l’aggiunta dell’aggettivo «equo» alla parola «indennizzo», osserva che basta ricorrere alla legge di Napoli di espropriazione per espropriare senza l’equo indennizzo. In realtà l’orientamento della società moderna è di espropriare con indennizzo lievissimo, anche non adeguato, spesso simbolico. In Italia lo Stato, quando vede che l’indennizzo può essere molto pesante dice: «Applico la legge di Napoli anche se ora esproprio a Torino». Quindi è vano impegnarsi con un «equo» che poi non risponde e non deve rispondere.

FANFANI, lasciando impregiudicato per il momento il problema della corresponsione dell’indennizzo in tutti i casi o soltanto in casi determinati, ritiene che, dato che si è parlato di indennizzo nell’articolo relativo alla proprietà, non si possa non parlarne anche in quello relativo all’impresa; tanto più che il quarto comma dell’articolo sull’impresa, a suo modo di vedere, presenta qualche imperfezione. Sembrerebbe infatti da questo articolo che la legge devolva allo Stato solo l’esercizio. E la proprietà a chi resta? Così come è formulato l’articolo, la proprietà resterebbe all’originale detentore; però se l’impresa venisse messa sotto tutela ed un ente pubblico la esercitasse a suo arbitrio, si avrebbe il curioso effetto che il rischio dell’errore commesso dall’ente ricadrebbe sul proprietario.

Così stando le cose, c’è da domandarsi se l’articolo precedente sulla proprietà non debba essere coordinato con questo, in quanto si sta disciplinando lo stesso oggetto in due articoli diversi, perché nell’articolo precedente, terzo comma, si era parlato di complessi produttivi. Dato che precedentemente era stato formulato l’articolo sulle imprese, proprio in vista di un coordinamento, è opportuno che in sede di revisione di questo articolo si tenga presente che forse dovrà dirsi che la legge deve o può espropriare mediante indennizzo, devolvendo la proprietà e l’esercizio, o fare un’altra precisazione in proposito circa la proprietà e l’esercizio.

Ad ogni modo, forse l’articolo è un po’ troppo sintetico per poter comprendere tutti i casi che l’esperienza e la pratica dell’ultimo decennio ha profilati. Evidentemente, nell’esercizio diretto ed indiretto, vi è un’allusione molto imperfetta al sistema delle società miste. Ritiene quindi che, nell’ipotesi che in una forma o nell’altra, migliorando l’articolo e studiando meglio il comma, si arrivi ad includere l’espressione «mediante indennizzo», anche in tal caso riaffiori il problema posto dal Presidente per l’articolo precedente. Pensa che una prima conclusione della discussione porti uniformemente tutti a concludere che, nel caso che la proprietà sia legittimamente acquisita (cioè secondo le norme di legge), l’indennizzo debba essere pagato. Sorge allora l’altra ipotesi della proprietà detenuta contro la legge.

DOMINEDÒ osserva che in tal caso non si tratta di diritto di proprietà.

FANFANI, facendo l’ipotesi che la Costituzione fosse all’origine del nostro ordinamento giuridico e che gli italiani per la prima volta si fossero consociati per stabilire la regolamentazione della proprietà, pensa che avrebbero detto: «In caso di proprietà che si ritiene illegittimamente detenuta non si ha l’indennizzo». È vero o non è vero che una Costituzione, nascendo in un determinato ambiente giuridico, tende a riconsiderare tutto l’ambiente giuridico? In questa ipotesi è male che nella Costituzione vi sia un comma il quale preveda che l’indennizzo resti stabilito e commisurato al valore economico in tutti i casi in cui non c’è discussione circa la detenzione legittima di questi beni? Concludendo la sua ipotesi – imperfetta dal punto di vista giuridico – propone di inserire, dopo l’articolo precedente sulle imprese e dopo l’antecedente sulla proprietà, un articolo così formulato:

«Per quanto disposto nei precedenti articoli in merito all’indennizzo in caso di esproprio, resta stabilito che l’indennizzo, salvo la provata, illegittima origine del bene espropriato, è determinato dalla legge in misura proporzionata al valore economico del bene al momento dell’esproprio».

DOMINEDÒ deve nuovamente far notare che non è probante sollevare eccezione per il caso di illegittima origine del bene, perché, a rigore, non è concepibile una proprietà che sorga contro la legge.

MARINARO desidererebbe che l’onorevole Taviani precisasse il suo pensiero, perché ieri ha avuto l’impressione che egli non fosse, in linea di principio, contrario all’indennizzo anche per quanto riguarda le imprese. Se ben ricorda, l’onorevole Taviani aveva sostenuto che siccome l’indennizzo è stato previsto in tema di proprietà, e poiché si tratta, più che altro, di espropriare sostanzialmente la proprietà, è superfluo parlare anche in questa sede di indennizzo; al che egli aveva osservato che il fatto di non parlare in questa sede di indennizzo potrebbe creare un equivoco, nel senso che l’interprete della legge potrebbe ritenere che, siccome in tema di proprietà è stato previsto l’indennizzo ed in tema di imprese no, si sia voluto di proposito escluderlo per l’impresa. Di guisa che riteneva che non parlarne in questa sede significasse aggravare la situazione e soprattutto creare un pericoloso equivoco. Ma se tutti sono d’accordo sulla sostanza, sul principio cioè che l’indennizzo sia dovuto, non comprende perché non si debba stabilire esplicitamente che l’espropriazione delle imprese può aver luogo soltanto contro indennizzo.

TAVIANI precisa che era contrario a parlare dell’indennizzo nell’articolo sulle imprese, in quanto in esso non si parla di espropriazione, mentre è favorevole a parlarne nell’articolo sulla proprietà, dove si parla di espropriazione. Se con l’aggiunta proposta dall’onorevole Fanfani, di cui comprende l’importanza ed il valore, si parla di espropriazione anche in questa sede, allora si dichiara d’accordo sulla parola «indennizzo», che va aggiunta ogni volta che si parla di espropriazione.

Venendo all’articolo proposto dall’onorevole Fanfani, gli sembra strano che sia stato accolto con tanto favore. È d’accordo sulla dizione: «salvo la provata illegittima origine del bene espropriato», nel qual caso non spetta l’indennizzo. È invece contrario alla frase: «l’indennizzo deve essere determinato dalla legge in misura proporzionata al valore economico del bene al momento dell’esproprio», in quanto impedirebbe di fare la riforma agraria; perché, come più sopra ha già spiegato, se si vuole fare tale riforma, si deve indennizzare la terra non in base al valore che essa ha in questo momento.

COLITTO afferma che non gli sembra il caso di formulare un articolo apposito per l’indennizzo (la Costituente ridurrà al minimo questi articoli e certamente non accoglierà un articolo specifico per l’indennizzo) e pertanto ritiene che sia opportuno inserire detto concetto nell’articolo in cui si parla delle imprese ed in quello che parla della proprietà, con la semplice aggiunta: «salvo indennizzo», o «contro indennizzo».

PRESIDENTE dato che vi è una corrente che vuole la formula con l’indennizzo puramente e semplicemente, riservando alla legislazione ordinaria di determinare i criteri in base ai quali si dovrà indennizzare il bene espropriato, e che ve ne è un’altra, la quale, pur ritenendo che come regola si debba lasciare alla legislazione ordinaria di determinare i criteri in base ai quali si darà l’indennizzo, pensa che si debbano contemplare anche le eccezioni che dovranno essere genericamente o rigorosamente enunciate, pone ai voti i due progetti: il primo riguardante la formulazione generica e il secondo la formulazione completata con l’eccezione.

(Votano favorevolmente la prima formula gli onorevoli Taviani, Dominedò, Federici Maria, Rapelli, Marinaro, Colitto; votano per la seconda formula gli onorevoli Ghidini, Corbi, Assennato, Noce Teresa, Canevari. Astenuto l’onorevole Fanfani).

(È approvata la prima formula proposta).

FANFANI dichiara di essersi astenuto ritenendo che la formula «contro indennizzo» possa essere suscettibile vantaggiosamente di qualificazioni.

Propone poi che nel quarto comma dell’articolo sulla impresa, ieri approvato, dopo le parole «la legge» vengano inserite le altre «o può espropriarla mediante indennizzo, devolvendone la proprietà e l’esercizio allo Stato».

DOMINEDÒ fa presente che, effettivamente, si tratta di devolvere la titolarità della impresa; d’altra parte, in corrispondenza con la relazione Pesenti, si parlava di esercizio diretto o indiretto, intendendosi con questa espressione di comprendere tutte le ipotesi intermedie, evitandone una ulteriore specificazione.

Si chiede se, con la formula del puro e semplice esproprio di ciò che è di pertinenza altrui, resti esclusa l’ipotesi già preveduta nell’articolo sulla proprietà, vale a dire della requisizione per riserva o per titolo originario. Ecco perché si era usata la formula generale del «devolvere».

FANFANI pensa che la formula «esercizio diretto o indiretto» non dica molto o dica troppo e che comunque non sia felice. Ad ogni modo non insiste per la soppressione di queste parole.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta di modificare come segue la seconda parte del quarto comma dell’articolo sull’impresa, già approvato: «…la legge può autorizzare l’espropriazione mediante indennizzo, devolvendone proprietà ed esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti».

(È approvata).

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo proposto dal relatore Taviani sulla proprietà fondiaria.

«La Repubblica ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo; al fine di assicurare ad ogni famiglia una abitazione sana e indipendente; al fine di garantire ad ognuno – che ne abbia la capacità e i mezzi.– la possibilità di accedere alla proprietà della terra che coltiva. A questi scopi la Repubblica impedirà l’esistenza e la formazione di grandi proprietà fondiarie. Il limite massimo della proprietà fondiaria privata sarà fissato dalla legge».

COLITTO fa presente che nella seduta precedente egli fece una proposta relativamente all’articolo sulla proprietà: propose, cioè, che dove si parla di comunità «di lavoratori», si aggiungesse anche comunità «di datori di lavoro».

FANFANI osserva che quando si parla della comunità di datori di lavoro, si arriva a parlare del Sindacato industriale obbligatorio.

COLITTO dichiara che egli non comprende ancora che cosa si intenda per «comunità», perché per lui non esistono che enti legalmente riconosciuti; ma, poiché si è approvato che nell’articolo si debba parlare di «comunità», egli ritiene che a fianco delle comunità di lavoratori si possano porre le comunità di datori di lavoro. Non comprende come la devoluzione o attribuzione di beni si debba effettuare soltanto a favore delle prime e non anche a favore delle seconde. Propone, pertanto, di modificare l’articolo con una precisazione al riguardo.

FANFANI si dichiara d’accordo con quello che ha detto ieri in proposito l’onorevole Corbi e osserva che la proposta dell’onorevole Colitto snatura completamente il terzo comma e verrebbe a porre un altro problema. Cioè, l’onorevole Colitto domanda indirettamente se, ai fini della utilità collettiva e del coordinamento dell’attività economica, non sia da profilarsi la possibilità che si riserbi ad un determinato gruppo di imprenditori o di proprietari lo sfruttamento.

Sostiene in proposito che la preoccupazione della Sottocommissione su questo comma non era quella di studiare i problemi della razionalizzazione della vita economica attraverso la concentrazione industriale, ma di impedire che gli interessi dei singoli imprenditori prendessero il sopravvento sul criterio di produttività. Ad evitare questo, era stato detto che la sostituzione coattiva di una impresa privata o della libera iniziativa dei singoli produttori privati con la proprietà e la gestione da parte di enti pubblici o di comunità di lavoratori o di utenti, può portare ad un rispetto maggiore di quelle esigenze nel coordinamento dell’attività economica, di quanto si otterrebbe con le forme attualmente invalse.

Quindi, dati i fini che l’articolo si propone, è necessario separatamente richiamare l’attenzione di tutti sulla convenienza di studiare anche il problema del coordinamento attraverso il fenomeno della concentrazione industriale, cioè, dei sindacati industriali obbligatori. Il problema esiste e potrebbe domani presentarsi la necessità di fare qualche cosa del genere in questo campo. Invita pertanto l’onorevole Colitto ad affrontare il problema cercando di esaurirlo in un senso o nell’altro.

ASSENNATO ritiene che il problema sia stato già risoluto con la formulazione approvata, la quale esclude l’oggetto della richiesta dell’onorevole Colitto. D’altra parte si associa al parere espresso già ieri dall’onorevole Corbi.

COLITTO insiste per il completamento dell’articolo ed esprime la sua meraviglia per quello che da altri colleghi si è affermato, quasi che i datori di lavoro debbano essere posti al di fuori dell’attività produttiva della Nazione.

FANFANI non sa se l’onorevole Colitto, con le ultime parole, si riferisse alla sua interpretazione, ma in tale ipotesi sente il dovere di chiarire che non intendeva minimamente mettere al di fuori della comunità nazionale i datori di lavoro, ma affermare che in tutta la formulazione dell’articolo sulla proprietà era stato seguito il principio che l’interesse privato non controllato possa, in determinati momenti, agire anche in senso antisociale.

Si tratta di evitare che gli individui, abbandonati a se stessi, mentre sono fino ad un certo punto artefici del bene sociale, oltrepassandolo possano diventare danneggiatori dello stesso; ed è in questa ipotesi che si devono chiamare a raccolta le forze sociali perché si sostituiscano all’iniziativa privata, e, al momento in cui vi siano inconvenienti, cerchino di ripararvi, sostituendo all’iniziativa di singoli imprenditori privati o a quella del gruppo di imprenditori privati, l’iniziativa pubblica.

COLITTO rileva che artefici del bene sociale sono anche i datori di lavoro, e, poiché nell’articolo si dice che la legge attribuisce i beni ed i complessi produttivi a comunità di lavoratori e di utenti, egli insiste perché nell’articolo si parli anche di «comunità di datori di lavoro».

FANFANI ritiene che nel terzo comma nulla si possa inserire senza snaturarlo.

L’onorevole Colitto può quindi fare un articolo aggiuntivo.

COLITTO afferma che la proposta è stata da lui fatta. Spetta ora ai Commissari di dire sì o no.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dell’onorevole Colitto di aggiungere all’articolo sulla proprietà, già approvato, le parole: «comunità di datori di lavoro».

TAVIANI dichiara di votare contro tale proposta, perché non trova che essa abbia sede nell’attuale norma, nel mentre potrà essere esaminato e approfondito nella dovuta sede il tema dei sindacati industriali insieme con gli altri problemi connessi.

(La proposta non è approvata).

PRESIDENTE osserva che rimane da esaminare il terzo articolo sul diritto di proprietà proposto dall’onorevole Taviani nella sua relazione.

TAVIANI, dato che dalla presentazione della sua relazione è passato molto tempo ed è stata fatta in materia un’ampia discussione, ritiene che il testo dell’articolo risulti ormai così ridotto:

«Lo Stato ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo.

«In vista di questi scopi, lo Stato impedirà l’esistenza e la formazione delle grandi proprietà terriere private».

CANEVARI parla per mozione d’ordine. Ritiene che non si possa mettere in discussione la proposta Taviani prima di aver discusso il problema agrario nelle sue grandi linee, in quanto, a suo avviso, è necessario che nella Carta costituzionale siano fatte affermazioni che diano poi luogo ad ulteriore sviluppo nel campo legislativo e portino alla riforma agraria. Propone quindi il seguente articolo:

«L’impresa agricola deve avere di mira il benessere della collettività nazionale e una più alta possibilità di civile esistenza per i lavoratori della terra.

«La legge dovrà promuovere un movimento di trasformazione che, sviluppandosi nel tempo, determini negli uomini, nella politica e nella economia del Paese, le condizioni più favorevoli per conseguire come risultato finale un’agricoltura in via di continuo, progresso, condotta dal lavoro associato per il maggiore benessere dei singoli e della collettività».

PRESIDENTE, data l’ora tarda e l’importanza dell’argomento proposto dall’onorevole Canevari, sospende la seduta, avvertendo che la discussione sarà ripresa nel pomeriggio.

La seduta termina alle 12.35.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Merlin Angelina, Molè.

Assenti: Giua, Lombardo, Paratore.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

17.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Intrapresa economica (Seguito della discussione)

Marinaro – Taviani – Colitto – Merlin Angelina – Corbi, Relatore – Canevari – Presidente – Dominedò, Correlatore – Assennato – Noce Teresa.

Diritto di proprietà (Seguito della discussione)

Taviani, Relatore – Dominedò – Federici Maria – Rapelli – Presidente – Colitto – Assennato – Corbi.

La seduta comincia alle 17.30.

Seguito della discussione sull’intrapresa economica.

MARINARO ricorda di avere insistito nella seduta antimeridiana sulla necessità che sia bene specificata l’esigenza che deve determinare il provvedimento legislativo, accennando a esigenze di servizi pubblici e all’opportunità di ovviare a situazioni monopolistiche dannose alla collettività. Ora insiste sulla necessità che sia contemplata l’ipotesi dell’indennizzo, in seguito a quanto ha dichiarato l’onorevole Taviani. Questi ha fatto presente che l’indennizzo, essendo stato previsto nell’articolo relativo alla proprietà, si intende previsto anche in questo caso; invece egli ritiene che l’averlo previsto a proposito della proprietà e non in questo caso, potrebbe dar luogo ad equivoci e al dubbio che il legislatore non abbia voluto prevedere l’indennizzo, mentre dal principio concordemente affermato che la proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato, deriva che, anche nel caso della impresa, l’indennizzo non può essere dimenticato.

Non ha difficoltà ad adoperare l’espressione «equo indennizzo».

Infine, dichiara di avere, insieme con l’onorevole Colitto, formulato il seguente articolo, che tiene conto delle osservazioni fatte dai colleghi Dominedò, Corbi e Taviani:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici, o per la necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa, in tal caso, ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

TAVIANI propone di discutere l’articolo, ma di riservare ad un secondo tempo la questione dell’indennizzo. La formula Marinaro-Colitto non gli dispiace, ma preferirebbe dire:

«Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche e collettive.

«L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere esercitata in contrasto, ecc.».

COLITTO trova eccessiva la casistica.

TAVIANI risponde che nella discussione sulla proprietà non si è specificato, ma in questa sede c’è il problema dei salari, il problema dei rapporti di lavoro, e occorre fare una specificazione; parlare solo di «bene comune» è troppo vago.

MERLIN ANGELINA afferma che stamani, quando è stato letto l’articolo, era rimasta colpita da quella disarmonia che ha poi notato l’onorevole Taviani, e si associa a quanto egli ha detto. Però osserva che questa dichiarazione di imprese, che possono essere individuali, cooperativistiche e collettive le sembra inutile, in primo luogo perché è sempre contraria a queste definizioni, ma poi perché negli altri commi si parla di impresa individuale, impresa cooperativa, ecc. Quindi ritiene implicita l’esistenza di queste imprese senza bisogno di inutili definizioni.

TAVIANI fa notare che questo è un problema di secondo ordine: bisogna essere d’accordo sul concetto. Ricorda la votazione dell’articolo sulla proprietà, di cui l’articolo in esame vuole essere il parallelo e l’eco che ha avuto nella stampa, per cui non ritiene inutile parlare di impresa cooperativistica.

Occorre una formulazione giuridica per questi tre tipi di impresa, che possa servire di base al futuro legislatore.

L’onorevole Colitto trova superfluo specificare tanto; ma, se trattando della proprietà ci si è limitati alla espressione «funzione sociale», qui, nella parte dinamica della vita economica, è necessario specificare.

CORBI, Relatore, fa una mozione d’ordine. Quando si iniziò la discussione sulla relazione Taviani, espresse il parere che sarebbe stato opportuno esaminare insieme la relazione Taviani e la relazione Pesenti, perché si integrano a vicenda. Poiché nello spirito vi è l’accordo, nel rivedere la formulazione degli articoli pensa che si potrebbe intanto procedere ad una fusione.

TAVIANI osserva che l’articolo in discussione troverà un collocamento molto lontano da quello della «proprietà» nella Costituzione.

PRESIDENTE non nega che si possa fare anche un articolo solo. Intanto metterà ai voti i primi tre commi.

CANEVARI anziché «l’impresa gestita in forma cooperativa» propone «l’impresa cooperativa».

PRESIDENTE mette ai voti i primi tre commi nel seguente nuovo testo:

«Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche, collettive.

«L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere in contrasto con l’utilità sociale in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«L’impresa cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita per legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei».

(Sono approvati).

MERLIN ANGELINA ha approvato i tre commi, ma fa una riserva per quanto riguarda quella specificazione di «privtle, cooperativistiche e collettive».

PRESIDENTE dà lettura del 4° comma, proposto dagli onorevoli Dominedò e Corbi:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, in favore dello Stato o di enti pubblici».

Avverte che gli onorevoli Marinaro e Colitto propongono la formula seguente:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici o per la necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa ha in tal caso luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

CORBI, Relatore, rileva che il 4° comma, proposto insieme con l’onorevole Dominedò, è un po’ generico.

Bisognerebbe specificare che cosa si intenda per bene comune, soprattutto perché si tratta di materia nuova, e prendere provvedimenti che prevedano il futuro e servano come indirizzo al legislatore.

Lo trova anche incompleto, in quanto non specifica le varie forme in cui lo Stato potrebbe esercitare questo suo potere.

La proposta dell’onorevole Marinaro presenta il vantaggio di entrare di più in argomento e non è in contrasto con la formulazione dell’articolo 5 dell’onorevole Pesenti; questa è però più analitica e nello stesso tempo anche abbastanza sintetica. L’articolo Pesenti ha soprattutto il vantaggio di indicare alcuni aspetti che non sono contemplati in quello dell’onorevole Marinaro. L’articolo Pesenti, infatti, premette le finalità e dice:

«Ogni proprietà che nel suo sviluppo ha acquistato o acquista, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, o a dimensioni relativamente rilevanti, caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, deve diventare proprietà della collettività nazionale o essere posta sotto il diretto controllo della Nazione».

Osserva che la parola «imprescindibili» nella dizione Marinaro ha un valore molto restrittivo del concetto.

Chiede, poi, all’onorevole Marinaro le ragioni per le quali non crede di potere accettare la formulazione proposta dall’onorevole Pesenti.

MARINARO risponde che la ragione è quella accennata dall’onorevole Corbi; l’articolo è troppo analitico.

CORBI, Relatore, è perfettamente d’accordo sul concetto che un testo costituzionale non debba scendere ai particolari; tuttavia, nel caso specifico, trattandosi di provvedimenti che hanno un carattere di assoluta novità, ritiene che sia opportuno fare qualche precisazione. Una frase come «le esigenze del bene comune» è, a suo parere, troppo generica.

DOMINEDÒ, Correlatore, crede che si possano conciliare le due esigenze, col mantenere da un lato il concetto sintetico accolto nella seduta antimeridiana anche dall’onorevole Taviani, e con l’introdurre successivamente alcune specificazioni, aderendo in questo all’esigenza espressa dal Relatore Corbi sulla opportunità di fissare dei dettagli rispondenti ad una materia nuova: e ciò anche allo scopo di ottenere così una ulteriore delimitazione, in sede costituzionale, delle ipotesi in cui si rende indispensabile il passaggio da forme di economia privata ad economia pubblica. Nel merito non ha difficoltà ad esaminare le ipotesi che involgano un giudizio qualitativo, escludendo quelle che si riducano invece ad una mera valutazione quantitativa (dimensioni dell’impresa), empirica e indeterminabile giuridicamente.

PRESIDENTE preferisce la formulazione dell’onorevole Pesenti, in quanto non limita l’intervento dello Stato ai soli casi del «danno» potenziale o in atto.

MARINARO non ritiene di poter accettare la concezione dell’onorevole Pesenti, il quale prevede l’intervento dello Stato tutte le volte che un’impresa assuma carattere nazionale. A suo avviso, l’intervento dello Stato deve verificarsi solo quando l’impresa privata, assunto carattere nazionale, diventi dannosa alla collettività.

PRESIDENTE fa presente che un tale giudizio è estremamente pericoloso e difficile. Come dimostrare che una impresa sia dannosa? Insiste sul suo punto di vista, inteso a provocare l’intervento statale tutte le volte che sia in giuoco un preminente interesse nazionale.

ASSENNATO afferma che la bontà del progetto Pesenti, a suo avviso, consiste nel considerare non il danno nel momento della sua consumazione – e quindi la necessità dell’intervento dello Stato per riparare – ma anche un pericolo di danno. Quando l’impresa privata, per lo sviluppo assunto, minaccia di contrastare gli interessi nazionali, determina una situazione di pericolo alla quale bisogna porre riparo. Il problema, quindi, deve essere affrontato dal punto di vista dell’opportunità di tener presente – nel testo costituzionale – la situazione di pericolo e la possibilità di prevenzione del danno. In altri termini, un’azienda che è già pervenuta ad una situazione di monopolio, per il fatto stesso di essere in mano ad un privato, costituisce già un danno potenziale.

PRESIDENTE è d’avviso che il concetto dell’onorevole Pesenti non sia questo, ma che voglia riferirsi esclusivamente al preminente interesse nazionale, indipendentemente dal danno o dal pericolo. Ritiene pregiudizievole accettare il punto di vista dell’onorevole Assennato, in quanto, nella pratica attuazione, sarà estremamente difficile dimostrare che un’impresa presenti un pericolo di danno.

NOCE TERESA concorda col punto di vista del Presidente sulla necessità di considerare esclusivamente l’interesse nazionale e crede che sia proprio questo il pensiero dell’onorevole Pesenti. Quando l’impresa privata ha assunto certe forme che nell’interesse nazionale vanno circoscritte, lo Stato deve essere autorizzato ad assumere l’impresa. Questo concetto va affermato nella Carta costituzionale.

CANEVARI richiama l’attenzione della Sottocommissione sulla legislazione attuale e ricorda che sull’affermazione degli scopi del bene comune tante discussioni si sono fatte alla Camera – sia nelle Commissioni che in Assemblea plenaria – fin dal 1921 in occasione dell’esame del disegno di legge proposto dal Governo sulla trasformazione del latifondo e sulla colonizzazione interna. Si arrivò allora ad una semplice e chiara dizione, cioè: «Per scopi di pubblica utilità e per ragioni di ordine sociale». Propone pertanto che l’ultimo comma proposto dall’onorevole Dominedò venga così modificato:

«Per scopi di pubblica utilità e per ragioni di ordine sociale la legge determina l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa da parte dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori e di utenti».

Si vedrà poi l’opportunità di aggiungere: «dietro pagamento di equo indennizzo, salvo diverse disposizioni».

COLITTO non crede che possa essere approvata la formula Pesenti, perché contempla solo l’impresa che nel suo sviluppo acquista carattere tale da diventare di preminente carattere nazionale e quindi non tiene conto delle esigenze e dei pericoli che sono sottolineati nella formula da lui stesso proposta d’accordo con l’onorevole Marinaro.

TAVIANI ritiene che un accordo si possa considerare raggiunto per quanto riguarda la parte analitica del comma Pesenti, cioè per i riferimenti ai servizi pubblici essenziali, alle situazioni di monopolio ed alle fonti di energia. Aggiunge di essere favorevole a considerare quest’ultima espressione «fonti di energia» e di ritenere superfluo con l’onorevole Dominedò accennare al concetto di «dimensioni rilevanti». Il punto di divergenza, a suo avviso, consiste nello stabilire il momento e nel valutare le condizioni obiettive che richiedono l’intervento dello Stato. Basta, cioè, un atto esecutorio della norma costituzionale, oppure è necessaria una legge? Ritiene che sia necessaria una legge, lasciando alla Costituzione il compito della dichiarazione di principio, anche abbastanza analitica e particolareggiata, soprattutto perché trattasi di materia nuova.

Osserva inoltre che il comma proposto dall’onorevole Canevari non ha un senso specifico, dato che si dice «la legge devolve». La legge determina sempre; occorrerebbe dire «può devolvere», ma in questo caso si avrebbe una disposizione molto blanda. Pertanto propone la seguente formulazione:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, perché l’impresa assume un aspetto di preminente interesse nazionale, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali, sia a situazioni di monopolio, sia a fonti di energia, la legge può devolvere l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa stessa da parte dello Stato o di altri enti pubblici».

PRESIDENTE non concorda sull’espressione: «bene comune». A suo avviso, la formulazione potrebbe essere la seguente:

«Quando l’impresa abbia o acquisii nel suo sviluppo, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, carattere tale da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, la legge devolve, ecc…».

DOMINEDÒ, Correlatore, conferma che la menzione della esigenza sintetica e la specificazione della ipotesi analitica possono abbinarsi perfettamente.

L’esigenza sintetica di carattere generale costituisce un passo avanti rispetto alla concezione che può emergere dalla formula Pesenti, perché include una visione attiva del problema. Occorre che positivamente vi sia la rispondenza ad un concetto sovrastante, preciso e comprensivo ad un tempo, e non basta limitarsi a formulazioni negative.

Propone, pertanto, questa formula:

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, perché l’impresa assume carattere di preminente interesse nazionale, per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici».

CORBI, Relatore, direbbe «…o ne devolve l’esercizio diretto o indiretto, o la sottopone a controllo…».

NOCE TERESA chiede di modificare, al principio, e dire:

«Quando le esigenze del bene comune… o quando l’impresa, ecc.».

Con la particella «o» si distinguono i due concetti.

DOMINEDÒ, Correlatore, si oppone perché ritiene che il primo comma rappresenti il concetto generale, mentre i successivi incisi costituiscono le specificazioni concrete di tale concetto.

NOCE TERESA teme che il legislatore possa non tener conto del concetto che è implicito e, se si attiene alla parola della Costituzione, possa applicarlo solo quando lo richiedono le esigenze del bene comune; mettendo una «o» i due concetti risultano più evidenti.

DOMINEDÒ, Correlatore, replica che nessuna legge può prescindere dalla circostanza che nella Costituzione sia specificato un ordine di ipotesi concrete: il «perché» snoda il concetto generale nelle ipotizzazioni particolari.

CANEVARI fa osservare che da tutte queste dizioni esula completamente ogni considerazione di ordine sociale; si hanno presenti gli scopi palesi da raggiungere: il servizio pubblico, la maggiore produzione, l’affermazione che provvedimenti di questa natura possono essere assunti per altre ragioni, ma non si parla di fini di ordine sociale.

TAVIANI risponde che questi rientrano nel «bene comune».

PRESIDENTE fa presente che quando si parla di preminente interesse nazionale, si dice tutto: vi è compreso l’ordine sociale, il bene comune ecc.

Quindi, per suo conto, trova più sobria, più precisa, più chiara e più comprensiva la formula in questi termini:

«Quando l’impresa abbia o acquisti, nel suo sviluppo, per riferirsi a servizi pubblici o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, carattere tale da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, la legge ne devolve l’esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici».

ASSENNATO eliminerebbe nella proposta Dominedò il termine «impongano» che ha carattere estremamente restrittivo, e direbbe: «allo scopo del bene comune».

CORBI, Relatore, concorda con la formulazione proposta dal Presidente; vi manca però un inciso, che ha molta importanza: «dimensioni relativamente rilevanti». Richiama la sua attenzione su questa espressione, con la quale si limiterebbero i poteri dei grandi proprietari, dei grandissimi industriali e si considererebbero anche gli aspetti negativi del grande capitalismo. È un’espressione che ha valore sociale e politico più che produttivo e tende ad evitare che si creino grandi complessi, che possano turbare la vita politica e i rapporti sociali.

MARINARO domanda all’onorevole Dominedò se basta, per lui, che un’impresa assuma carattere di preminente interesse nazionale, perché si possa giungere alla socializzazione.

DOMINEDÒ, Correlatore, risponde affermativamente, sempre che la socializzazione risponda a irreprensibili esigenze di bene comune.

MARINARO chiede se l’impresa che abbia assunto carattere di preminente interesse nazionale, ma non contrasti con esigenze di pubblici servizi e non costituisca situazioni di fatto di monopolio dannose alla collettività, debba egualmente essere socializzata.

Cita ad esempio la Montecatini; non c’è dubbio che abbia carattere di interesse nazionale, ma se questa grande impresa non danneggia la collettività, anzi con la sua attività e col perfezionamento della sua industria si risolve in bene nazionale, chiede perché bisognerebbe socializzarla.

Comprende il principio del collega Corbi; giunte ad un certo punto, per finalità politiche, le imprese devono essere socializzate; ma non comprende quello dell’onorevole Dominedò.

DOMINEDÒ, Correlatore, risponde di non aver mai pensato di scindere ciò che nell’articolo è collegato logicamente e letteralmente: cioè il fatto dell’assumere preminente interesse nazionale con le circostanze determinanti del riferirsi a pubblici servizi o a situazioni di monopolio. Pensa che, almeno tendenzialmente, quando si venga a determinare in un’impresa economica il carattere di preminente interesse nazionale, si venga quasi automaticamente a prospettare l’eventualità di uno Stato nello Stato, di una potenza nella potenza collettiva. È il pericolo in atto della forma monopolistica. Ma l’esigenza di colpire questo accentramento supercapitalistico, monopolistico, plutocratico, è specificata con chiarezza nella seconda parte dell’inciso. Quindi l’eventualità che l’impresa assuma carattere di preminente interesse nazionale resta collegata ad ipotesi concrete, in correlazione al fatto che un’impresa si riferisca a servizi pubblici essenziali o quando costituisca un intollerabile monopolio privato.

TAVIANI si rende conto della incomprensione dell’onorevole Marinaro. Egli parte da un’ipotesi di economia liberistica e quindi è chiaro che capisca la posizione dell’onorevole Corbi, che dice: Noi vogliamo superare il capitalismo arrivando al collettivismo; mentre non capisce la posizione di altri, la quale, come per lui, supera il capitalismo senza giungere al collettivismo.

Il suo gruppo condivide con quello di Corbi l’esigenza di superare la posizione capitalistica e ciò non per esigenze meramente produttive, ma anche per esigenze sociali.

Per il bene della collettività bisogna evitare il pericolo di certe forze capitalistiche che indubbiamente vengono ad essere vere forze politiche nella Nazione. Dal punto di vista pratico, non crede che l’Italia si debba porre sulla strada della grande industria.

Mettere o no la frase «o a dimensioni relativamente rilevanti» non ha importanza; è un’espressione ambigua che non si adatta a tutti i settori dell’industria.

COLITTO si associa a quanto ha affermato l’onorevole Marinaro. Sottolinea che, a suo giudizio, si recherebbe danno enorme alla produzione, ove le imprese sapessero in partenza che quanto maggiore è il loro sviluppo, tanto più forte è il pericolo di essere gestite dallo Stato, o da altri enti pubblici. Quindi insiste nella formulazione dell’articolo così come è stato proposto da lui e dall’onorevole Marinaro.

CANEVARI insiste nella proposta che ha fatto, perché sia considerato l’aspetto sociale del problema. Inoltre, secondo le proposte fatte, l’intervento è reso possibile soltanto davanti al fatto che l’impresa abbia assunto carattere di preminente interesse nazionale. Ma se si giungesse ad un’autonomia regionale, provinciale o comunale, con questa disposizione non sarebbe possibile l’intervento per un interesse limitato a quell’ente comunale, regionale, provinciale.

Con questa disposizione sarebbe impossibile risolvere il problema agrario.

DOMINEDÒ, Correlatore, pensa che invece di «nazionale» si potrebbe forse dire «collettivo». Se si considera l’articolo nel suo complesso, si trova che al primo comma, quello relativo all’iniziativa privata, è menzionato appunto un concetto che corrisponde alla proposta dell’onorevole Canevari. L’intervento è previsto quando l’impresa privata non risponda all’utilità pubblica; ma vanno quivi compresi tutti gli aspetti, compreso quello dell’utilità sociale.

Quindi invece di «nazionale» proporrebbe eventualmente «generale» o «collettivo».

CANEVARI osserva che non lo interessa tutta quell’elencazione; potranno sorgere altre ragioni che giustifichino l’intervento.

Lo scopo da affermare quale quello della pubblica utilità o dell’ordine sociale; poi, a seconda degli uomini e del tempo, la legge interverrà per vedere se vi siano ragioni di pubblica utilità o scopi d’ordine sociale che giustifichino il provvedimento.

ASSENNATO propone la formula seguente: «Allo scopo del bene comune, quando l’impresa, per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, assuma carattere di preminente interesse generale, la legge ne devolve l’esercizio diretto o indiretto allo Stato o ad altri enti pubblici». Così sarebbe tolta la frase «o a dimensioni relativamente rilevanti», come ha proposto l’onorevole Marinaro.

CANEVARI insisterebbe sulla formulazione già da lui proposta: «Per scopi di utilità pubblica o per ragioni di ordine sociale, la legge determina l’esercizio diretto o indiretto dell’impresa da parte dello Stato, di enti pubblici o di comunità di lavoratori e di utenti, dietro pagamento di equo indennizzo, salvo diverse disposizioni».

PRESIDENTE osserva che questa formulazione è più sintetica, mentre l’altra è più analitica. La seconda parte è alquanto diversa, perché viene aggiunta la frase «comunità di lavoratori e di utenti».

TAVIANI, cogliendo un punto della proposta Canevari, osserva che si potrebbe completare nel seguente modo: «Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, abbia caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse generale, la legge ne devolve l’esercizio diretto o indiretto allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e utenti».

DOMINEDÒ, Correlatore, propone di sostituire le parole: «assume un aspetto di preminente interesse» con le parole: «assume carattere di preminente interesse generale».

PRESIDENTE mette ai voti il comma proposto dagli onorevoli Colitto e Marinaro:

«Per imprescindibili esigenze di servizi pubblici o per necessità di eliminare situazioni di privilegio o di monopolio dannose alla collettività, lo Stato e gli enti locali possono con legge essere autorizzati ad assumere l’impresa o a parteciparvi, salvo indennizzo.

«La gestione dell’impresa ha in tal caso luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo».

(Non è approvato).

Mette ai voti il comma proposto dagli onorevoli Taviani e Dominedò:

«Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di privilegio o di monopolio o a fonti di energia, assume carattere di preminente interesse generale, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori ed utenti»

(È approvato).

TAVIANI dichiara che resta inteso che si rimanda alla discussione della relazione Fanfani l’eventuale aggiunta della frase «sotto il controllo dello Stato».

Seguito della discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, innanzi tutto intende che sia ben chiaro che l’adesione all’articolo approvato non è affatto adesione ad una formula di compromesso, come qualche giornale ha rilevato e come gli sembra sia stato detto da qualcuno in questa adunanza, perché non c’è da parte sua e dei colleghi del suo gruppo l’intenzione di fare compromessi su questioni particolarmente delicate di principio. È una formula che ha trovato l’adesione di colleghi di altri gruppi e che rappresenta quella che è effettivamente la migliore soluzione nell’attuale momento storico; a meno che per compromesso non si voglia intendere una formula conciliativa fra il termine individuo ed il termine società, compromesso che si è verificato in questo caso in tutti i sistemi economici dalle origini ad oggi.

Prega inoltre che sia verbalizzata questa seconda dichiarazione. Siccome alcuni giornali hanno parlato di proposte di carattere ideologico da lui fatte e respinte dalla totalità dei commissari, precisa che la espressione «allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona umana, viene garantita e riconosciuta la proprietà privata» è stata effettivamente da lui proposta e quindi abbandonata; ma che la rinunzia a chiedere una votazione su questa espressione, che quasi certamente non sarebbe stata accolta in sede di Sottocommissione, ma che probabilmente potrebbe venire accolta dall’Assemblea plenaria è stata da lui fatta per giungere ad una formula di accordo con commissari di altri gruppi, dei quali ha ammirato lo spirito di comprensione e di conciliazione, specialmente laddove essi hanno aderito alla formula per cui il diritto di proprietà privata è riconosciuto e garantito dallo Stato.

DOMINEDÒ, FEDERICI MARIA e RAPELLI si associano alla dichiarazione dell’onorevole Taviani.

PRESIDENTE prende atto delle dichiarazioni dell’onorevole Taviani, ma osserva che le posizioni dei vari commissari risultano già chiaramente dai verbali delle precedenti discussioni.

Comunica alla Sottocommissione che nella riunione di ieri, che si tenne senza aver raggiunto il numero legale e quindi senza prendere deliberazioni, fu oggetto di un nuovo particolareggiato esame la formulazione dell’articolo sulla proprietà. Gli emendamenti accettati dai presenti e che ora sottopone all’approvazione della Sottocommissione con votazione separate sono i seguenti:

Nel secondo comma dell’articolo già approvato sostituire le parole: «i limiti e le forme», con le altre: «i modi di acquisto c di godimento e i limiti».

Pone ai voti questo emendamento.

(È approvato).

Nel terzo comma si propone di sostituire le parole: «agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti», con le altre: «agli enti pubblici, alle società cooperative o ad altre comunità di lavoratori e di utenti legalmente riconosciute»; ed inoltre di sostituire le parole: «mediante riserva originaria», con le altre: «a titolo originario».

Sempre a proposito del terzo comma avverte che l’onorevole Colitto, per ragioni del tutto inerenti al perfezionamento della forma, e non per ragioni di sostanza, propone di modificare la formula «le proprietà di beni e di complessi produttivi», in quanto anche i complessi produttivi sono dei beni.

COLITTO si permette di aggiungere altre considerazioni. In luogo di «utilità collettiva» propone di dire «utilità pubblica», in quanto è evidente che la parola «collettiva» ha il significato di «pubblica». Laddove poi si parla di «coordinamento dell’attività economica», osserva che si deve parlare di attività «economiche», perché si coordinano almeno due cose, ma una cosa sola si può solo disciplinare e non coordinare, sicché la forma singolare è usata impropriamente.

Non comprende poi il significato delle parole «comunità di lavoratori» e chiede se ci si riferisca sempre alle cooperative, oppure ad altre società legalmente riconosciute o anche ad associazioni di fatto.

TAVIANI, Relatore, osserva che dal punto di vista strettamente giuridico le considerazioni dell’onorevole Colitto sono fondate, ma che le dizioni usate nell’articolo approvato non possono considerarsi imperfette dal punto di vista della terminologia economica.

Non ha tuttavia nulla in contrario a sostituire la parola «collettività» con «pubblica», per quanto con la prima espressione egli intenda, ad esempio, anche imprese giuridicamente rientranti nel diritto privato, come, ad esempio, l’Ansaldo, la quale, economicamente parlando, è una proprietà collettiva, dato che la maggioranza delle azioni è posseduta dallo Stato, mentre da un punto di vista giuridico è una proprietà privata.

COLITTO osserva che quando grande parte delle azioni è posseduta dallo Stato, ci si trova di fronte ad una forma di controllo da parte dello Stato. Qui si introducono delle innovazioni, ma si dimenticano i punti di partenza; occorre cominciare col dire che cosa si intende per proprietà.

TAVIANI, Relatore, spiega che proprietà è la facoltà di disporre, di usare e godere dei beni.

COLITTO risponde che una proprietà privata può bene essere utilizzata a fini pubblici. Direbbe quindi: «per esigenze di utilità pubblica e di coordinamento delle attività economiche».

PRESIDENTE osserva che può stare anche il singolare, trattandosi di un complesso che ha significato collettivo.

L’onorevole Colitto aveva inoltre proposto di dire «pubblica» anziché «collettiva». Su questo si può essere anche d’accordo.

Inoltre l’onorevole Colitto modificherebbe la frase «beni o complessi produttivi»; però la Carta costituzionale va redatta non solo in modo da poter essere letta dai professori, ma che sia alla portata di tutti. Comprende che si parli di beni singoli in contrapposto di complessi produttivi, e si dica: «di singoli beni e di complessi produttivi».

TAVIANI, Relatore, è per la formula: «proprietà collettiva», anziché «pubblica».

ASSENNATO ritiene più restrittivo il termine «pubblico».

PRESIDENTE, a suo avviso, c’è più ampiezza nella dizione «pubblica che in quella di «collettiva».

COLITTO è d’accordo col Presidente a questo riguardo.

ASSENNATO osserva che potrebbe trattarsi di una società privata, per esempio, in cui il dossier di azioni sia in mano allo Stato: avere una forma privata ed una sostanza pubblica.

TAVIANI, Relatore, ricorda che circa le modifiche di forma da apportare all’articolo, l’onorevole Colitto ha proposto di dire «utilità pubblica», invece di «utilità collettiva». La maggioranza non è d’accordo; quindi ritiene che si debba lasciare «collettiva».

Anche la proposta di dire «cooperative» invece di «comunità di lavoratori» non è accettata dalla maggioranza.

Accetterebbe la varianti: «la proprietà di singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio».

Quanto all’indennizzo, la questione sarà trattata in seguito.

PRESIDENTE pone ai voti la formula: «la proprietà dei singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio contro indennizzo».

(È approvata).

COLITTO ricorda di avere proposto anche la formula: «comunità di lavoratori e di datori di lavoro, le une e le altre legalmente riconosciute».

TAVIANI, Relatore, osserva che questa è una modifica sostanziale; che non può essere apportata ad un articolo già approvato.

COLITTO obietta che, se possono mettersi in votazione le modifiche di forma, non vede perché non si possa modificare anche la sostanza.

CORSI ritiene opportuno rivedere anche la sostanza, particolarmente per quanto riguarda l’indennizzo.

COLITTO afferma che non è possibile procedere alla votazione distinguendo la forma dalla sostanza. O l’articolo resta fermo con le sue dichiarazioni postume, o, se si modifica, non c’è ragione di soffermarsi alla forma, obliando la sostanza.

TAVIANI, Relatore, dà atto che si debba ancora trattare il problema dell’indennizzo, perché già se ne è fatta riserva in verbale, ma non accetta che si debba rimettere in discussione tutta la materia. Cambiare la forma è cosa diversa dal mutare la sostanza. Alla stessa stregua si dovrebbero rivedere tutti gli articoli.

Il lavoro della Sottocommissione è un lavoro preparatorio: tutti gli articoli devono poi passare in sede di Commissione plenaria e saranno allora riveduti definitivamente.

COLITTO non vede la ragione per la quale una Commissione di studio, che va alla ricerca di una formula che si augura sia sempre la migliore, non possa ritornare su un argomento già valutato, nella ipotesi in cui la stessa Commissione si accorga che vi è un errore Errare humanum est, diabolicum perseverare.

PRESIDENTE rinvia il seguito della discussione alla seduta antimeridiana del giorno successivo.

La seduta termina alle 19.45.

Erano presenti: Assennato; Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Rapelli, Taviani.

Assente giustificato: Molè.

Assenti: Fanfani, Giua, Lombardo, Paratore, Togni.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

16.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 1° OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Intrapresa economica (Discussione)

Corbi, Relatore – Presidente – Dominedò, Correlatore – Canevari – Colitto – Marinaro – Taviani – Lombardo.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sull’intrapresa economica.

CORBI, Relatore, premette che ha integrato la sua relazione con elementi di quella già presentata dall’onorevole Pesenti, il quale, essendo impedito di intervenire alle sedute, è stato da lui sostituito nella Sottocommissione. Passando ad esaminare l’argomento all’ordine del giorno, osserva che, avendo la relazione Taviani esaminato l’istituto della proprietà nel suo aspetto statico, spetta ora a lui di esaminarlo nella sua dinamicità, nel momento cioè in cui la proprietà cessa di essere un bene di per se stessa, puro e semplice, per divenire elemento operante nel campo della produzione, stabilendo quei rapporti che costituiscono i motivi essenziali di ogni società che si fonda sul lavoro produttivo.

Rileva che ormai la Sottocommissione è d’accordo nel riconoscere alla proprietà privata, nell’attuale momento storico, una sua ragione d’essere, che consiste nell’avere ancora funzione economicamente utile e necessaria, e che tutti convengono che la vecchia formulazione del diritto romano non può essere accettata, perché in troppo stridente contrasto con la realtà e con le esigenze nuove; l’una va superando quel vecchio concetto della proprietà privata, le altre esigono che ad essa siano imposte limitazioni non solo per ragioni etiche e politiche, ma anche per motivi economici produttivistici e di interesse nazionale.

Le Carte costituzionali moderne, non solo quella sovietica, ma anche quella di Weimar, quella jugoslava, quella francese, riconoscono l’istituto della proprietà privata solo in quanto essa adempie ad una funzione sociale e non contrasta, quindi, con gli interessi della collettività e dell’economia sociale. In Italia questo principio è acutamente sentito e già in parte opera nella realtà economica di tutti i giorni; per cui la nuova Carta costituzionale non ha che a fissarlo giuridicamente e con ampia prospettiva di sviluppo. Perché, se è vero che i fatti precedono le norme, è altrettanto vero che queste li ostacolano o li favoriscono nel loro tendenziale sviluppo.

Le norme, adunque, che la nuova Carta costituzionale deve contenere, debbono, facendo tesoro dell’esperienza, impedire, per quanto è possibile, l’evolversi negativo dei fatti economici ed aprire la strada a quello positivo di essi. In altri termini, la Carta costituzionale deve rendere impossibile ai vecchi principî privilegiati, responsabili della catastrofe nazionale, di riprendere il sopravvento a danno di tutto il popolo e garantire invece la possibilità di operare nel Paese una profonda trasformazione economica e sociale, alla quale è indispensabile il concorso dello Stato.

Osserva che taluno si inalbera e protesta ogni qual volta sente parlare di ordine, di coordinamento, di controllo, di pianificazione economica, ancora sollecito nell’esaltare la concezione individualistica del liberismo economico; il che in ultima analisi altro non è che un tentativo di giustificare e difendere, con formule dottrinarie, l’egoismo dei privilegiati. Ma ciò non può distogliere il legislatore dall’esame obiettivo dei fatti, i quali lo convincono che solo un’azione decisiva ed accorta, capace di valorizzare tutte le energie e di scoprirne delle nuove e di unificare e guidare tutte le risorse nazionali, può dare inizio ad un nuovo corso economico per la ricostruzione e la rinascita del Paese.

Altri negano ai lavoratori (tecnici, operai, impiegati) il diritto di partecipare alla direzione dell’impresa, adducendo che ciò costituisce una violazione, oltre tutto, anche dei sani principii economici. Ma anche in questo campo l’esperienza dimostra il contrario, che, cioè, è necessario favorire, promuovere e creare consigli di azienda – non solo in quello private – per incrementare ed esercitare il controllo sulla produzione e sulla distribuzione dei beni, nell’interesse di tutta la collettività.

Rileva che la Sottocommissione, concordemente, ha affermato che la proprietà deve assolvere una funzione sociale e ha riconosciuto che sino ad oggi questa funzione non sempre essa ha adempiuto, in conseguenza di un cattivo ordinamento economico; è evidente perciò che, in omaggio a quel principio, sarà pure condiviso il parere che allo Stato debba competere non solo il diritto, ma il dovere di avocare a sé, sotto diverse forme – statizzazione, nazionalizzazione, controllo – quelle forme di impresa che, per dimensioni o funzioni adempiute, costituiscono un pericolo per la società ed assumono un aspetto di preminente interesse nazionale.

Ciò per garantire, non solo a parole, la sicurezza, l’indipendenza, la libertà, la dignità ed il desiderio di pace dei cittadini; e per assicurare, almeno nell’avvenire, migliori condizioni di vita al popolo, favorendo lo sviluppo delle forze produttive che la proprietà privata – per il passato mezzo potente ed efficace di progresso economico – oggi il più delle volte ostacola.

Ritiene, infine, che non debbano essere dimenticate dalla tutela dello Stato le cooperative, le piccole e medie imprese industriali, agricole ed artigiane, che nel quadro dell’economia italiana assolvono una funzione di grande importanza.

Passando ad esaminare gli articoli formulati nella relazione dell’onorevole Pesenti, osserva che taluni di essi sono superati da quelli già approvati dalla Sottocommissione sul diritto di proprietà; ve ne sono invece altri che conservano tutto il loro valore e che dovranno essere presi in esame.

Dà quindi lettura degli articoli:

1°) la proprietà è il diritto inviolabile di usare, di godere, di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge;

2°) lo Stato riconosce e garantisce e tutela la proprietà privata e l’iniziativa economica privata. Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà degli enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate;

3°) la proprietà privata non può essere espropriata che per legge o mediante indennizzo;

4°) il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato od in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali;

5°) ogni proprietà che nel suo sviluppo ha acquistato o acquista, sia per riferirsi a servizi pubblici essenziali o a situazioni di monopolio o a fonti di energia, o a dimensioni relativamente rilevanti, caratteri tali da assumere un aspetto di preminente interesse nazionale, deve diventare proprietà della collettività nazionale od essere posta sotto il diretto controllo della Nazione;

6°) per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà previste dalla legge, lo Stato assicura al lavoratore il diritto di partecipare alle funzioni di direzione dell’impresa, siano esse aziende private, pubbliche o sotto il controllo della Nazione;

7°) lo Stato riconosce la funzione sociale:

delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione;

delle imprese cooperative;

delle imprese private direttamente gestite dal proprietario.

Nell’interesse della Nazione ne assicura lo sviluppo e la protezione».

Esaminando singolarmente gli articoli, osserva che il 1o è superato da quanto è stato sancito nell’articolo sul diritto di proprietà; anche del 2° è già stato affermato il principio, ma vi è un punto sul quale desidera richiamare l’attenzione della Sottocommissione, e cioè: «Lo Stato e tutti i cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale o demaniale, la proprietà delle collettività pubbliche, la proprietà di enti pubblici e delle imprese statali e nazionalizzate». Qualcuno potrebbe affermare che il concetto è ovvio, ma, conoscendo la cattiva abitudine del popolo italiano di considerare il patrimonio dello Stato e degli enti locali come la cosa di tutti, di cui è lecito qualsiasi abuso, ritiene che sia utile richiamare l’attenzione del legislatore o dell’autorità su questo particolare aspetto.

Osserva che l’articolo 3, pur essendone già stati approvati i concetti in precedenza, si discosta fondamentalmente dallo spirito dell’articolo esaminato e votato nella precedente seduta, nella parte che riguarda l’indennizzo, per il quale è stato stabilito che deve essere corrisposto, senz’altro, in tutti i casi. Ritiene invece, che l’indennizzo «possa» essere dato, ma non «debba» essere necessariamente dato, in considerazione del fatto che, volendo operare vaste riforme in agricoltura, nell’industria ed in tutti i settori della vita economica italiana, tale principio potrebbe costituire un grave ostacolo a tali riforme.

Ritiene anche che l’articolo 4 sia superato, perché i concetti sono contenuti in quello sulla proprietà, già precedentemente approvato e che, se mai, potrà essere rivisto.

Con gli articoli 5, 6 e 7 si entra invece nel vivo della questione.

PRESIDENTE, sull’articolo 1, si dichiara d’accordo con l’onorevole Corbi nel ritenerlo superato, tanto più che si tratta di una definizione. Ritiene anche superflua la seconda parte dell’articolo 2 là dove è detto: «lo Stato e tutti cittadini hanno il dovere di difendere la proprietà statale, demaniale, ecc.», in quanto in essa si parla di dovere e non di obbligo giuridico, mentre, in una Carta costituzionale, è bene sancire più che altro degli obblighi. Inoltre non è necessario richiamare i cittadini al dovere di difendere la proprietà statale e demaniale, dato che rientra nei loro comuni doveri di rispettare quello che è di tutti, senza bisogno di specificazioni.

Osserva poi che è questo un obbligo giuridico già largamente affermato dalle nostre leggi. Nel Codice penale sono contenute disposizioni a proposito, per esempio, del danneggiamento, reato che diventa perseguibile d’ufficio quando si commette sopra cose appartenenti ad enti pubblici o che abbiano finalità di pubblico interesse. Sono inoltre previsti reati contro la pubblica incolumità, reati di danneggiamento di linee ferroviarie, di ponti, di strade, di navi. In sostanza la proprietà pubblica è difesa dalla legge; non solo, ma vi sono anche le contravvenzioni a tutela del patrimonio artistico, storico ed archeologico della Nazione.

Concorda invece pienamente sulla disposizione contenuta nell’articolo 4.

Finora nei confronti della proprietà sono stati sanciti e consacrati i diritti ed i doveri dello Stato, ma non i doveri e gli obblighi del cittadino; questa è la parte che manca nella relazione dell’onorevole Taviani, nella quale si parla dei doveri che il cittadino ha nei riguardi della proprietà, ma soltanto in senso negativo.

Un testo analogo è compreso nell’articolazione fatta dall’onorevole Lombardo, con solo lievi modificazioni di forma; difatti esso dice: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente alla utilità sociale ed in modo da arrecare pregiudizio alla libertà ed ai diritti altrui». Anche l’onorevole Togliatti ha presentato, alla prima Sottocommissione, un articolo in materia così formulato: «Il diritto di proprietà non potrà essere esercitato in modo contrario all’interesse sociale, né in modo che rechi danno all’altrui diritto».

Dato che le tre disposizioni citate mirano al medesimo scopo, ritiene che sarebbe necessario aggiungere nell’articolo in esame l’elemento positivo dell’esercizio del dovere da parte del cittadino; e pensa che la formulazione proposta dal l’onorevole Pesenti sia più dettagliata, mentre quella dell’onorevole Lombardo è più sintetica, come del resto quella dell’onorevole Togliatti.

Nella formulazione dell’onorevole Pesenti si dice che il diritto di proprietà «non potrà essere esercitato in contrasto con l’utilità sociale, con le direttive ed i programmi economici stabiliti dallo Stato o in modo da arrecare pregiudizio alla proprietà altrui, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, col deprimere il livello di esistenza al disotto del minimo stabilito dai bisogni umani essenziali». È stato chiesto che cosa vuol dire la parola «sicurezza». Spiega che vi sono modi di esercitare la proprietà che minacciano la sicurezza dei cittadini: un proprietario che affitti una casa, il cui pavimento sia pericolante; questo è un esercizio della proprietà pericoloso per la sicurezza, ma possono esserci molti altri casi.

Sopprimerebbe però l’ultima parte dell’articolo «col deprimere il livello di esistenza», ecc., perché la dignità umana non si esprime solo attraverso le condizioni economiche. Dichiara che non sarebbe contrario a questa disposizione, ma ritiene più comprensiva quella dell’onorevole Lombardo. Il 3° comma di quello Taviani prende l’abbrivo dall’utilità sociale e fa alcune specificazioni che non sarebbe male fossero richiamate. Forse sarebbe il caso di fare un articolo a parte per integrare, in sede di coordinamento, l’articolo dell’onorevole Taviani.

Anche sui consigli di gestione vi è accordo; tutti ritengono necessario l’intervento dei lavoratori nel processo produttivo.

L’articolo 7 parla delle diverse imprese e pensa che possa essere formulato in modo più conciso.

Riguardo al concetto espresso nell’articolo 3, ha già manifestato la sua opinione ed ha fatto mettere a verbale che, in linea generale, debba essere dato un indennizzo; regola alla quale forse non potrebbe farsi eccezione nemmeno nel caso in cui l’esproprio si rendesse utile per procedere a quelle profonde riforme strutturali di cui tutti riconoscono la necessità. Ma in certi casi, come quando ad esempio il proprietario non coltiva affatto le proprie terre, non si dovrebbe dare l’indennizzo.

Propone quindi: «La proprietà privata può essere espropriata, mediante indennizzo, salvo che la legge disponga altrimenti».

DOMINEDÒ, Correlatore, premesso che la Carta costituzionale deve avere un significato storicistico, interpretando la realtà attuale in tutte le sue manifestazioni in corso di sviluppo, ritiene che in questo articolo relativo all’impresa si debba – evitando di fare doppioni rispetto al momento statico già esaminato nei riguardi della proprietà – disciplinare il momento dinamico e vedere quali norme la Carta costituzionale debba contenere in relazione a tale fase. L’opera di selezione, in relazione alle norme proposte, è infatti notevole, in quanto molte di esse si riferiscono direttamente o indirettamente al momento della proprietà.

Considerando quindi l’aspetto dinamico dell’impresa, ritiene che la Carta costituzionale dovrebbe tener presente un trinomio, analogamente a quanto è stato fatto per la proprietà, cioè: 1°) l’impresa individualistica, riconosciuta come regola in quanto operi in funzione sociale; 2°) l’impresa collettivistica, che va da quella statizzata a quella municipalizzata, la quale deve essere riconosciuta dallo Stato come forma necessaria, quando il bene comune lo imponga, in quanto le esigenze della pubblica utilità non siano realizzabili dall’impresa individualistica; 3°) l’impresa cooperativistica, distinta da quella individualistica, che ha per fine caratteristico il lucro, e da quella collettivistica, che ha per fine il pubblico interesse, mentre la forma cooperativa si distacca dalla finalità lucrativa e si avvicina ad una funzione di pubblico interesse, procurando ad una comunità di lavoratori o di utenti l’acquisizione di beni o di mezzi di lavoro a prezzo di costo.

Pensa quindi che dovrebbero essere fissate delle norme relative ad ognuno delle tre ipotesi, prendendo come punto di partenza l’articolo 7 proposto dall’onorevole Pesenti.

Per quanto riguarda l’impresa individualistica, andrebbe ribadito il concetto che la sua funzionalità deve essere connessa con l’utilità sociale. L’impresa privata costituisce la regola, in quanto non leda l’interesse pubblico: su questo piano deve essere costituzionalmente garantita la libertà d’iniziativa economica. Rispetto alla formula adottata all’articolo 4, pensa che il concetto andrebbe inserito nel 3° comma dell’articolo 7, ma preferirebbe una formulazione di carattere sintetica sul tipo di quella proposta dall’onorevole Lombardo.

Per quanto riguarda l’impresa cooperativistica, affermerebbe un concetto che non gli pare incluso nella formula Pesenti, e si ricollegherebbe alla relazione Canevari, innestando la forma in parola nel secondo comma dell’articolo 7 e svincolandola dalla più stretta disciplina dell’impresa privatistica: occorre a tal fine tener presente da un lato l’esigenza del pubblico interesse e dall’altro il controllo nei riguardi della cooperazione. Si dovrà a questo proposito studiare se questo debba essere affidato al potere esecutivo, ovvero se, almeno nei riguardi del controllo di merito, esso non debba, in base all’esperienza e alle esigenze di libertà del cooperativismo, spettare ad organi collegiali, rappresentatvi della categoria: sembra opportuno che la Costituzione deferisca il problema alla legge.

Le imprese pubblicistiche, ovvero colletivistiche, vanno contemplate tenendo conto delle esigenze analiticamente enunciate nell’articolo 7 della relazione Pesenti, salva tuttavia l’opportunità di fare capo ad un concetto sovrastante e sintetico come quello del bene comune, elemento idoneo per la sua stessa comprensività a giustificare l’eccezionale trasformazione dell’impresa da individuale in collettiva. Quanto all’articolo 5, ciò che esso dice è già stato considerato nel momento statico, allorché fu stabilito quando una proprietà privata deve divenire collettiva. Quindi conviene una formula sintetica, per evitare il doppione, analogamente a quanto ha già proposto l’onorevole Lombardo.

Disciplinate così le tre ipotesi, resterebbe un ulteriore punto da menzionare: cioè la posizione fatta dallo Stato al lavoratore, contemplata nell’articolo 6. È un problema delicato, che potrebbe essere eventualmente tenuto presente in un comma a parte, oppure in un distinto articolo.

Il problema della partecipazione del lavoratore è comune alle imprese private ed alle pubbliche. Si può parlare di un partecipazionismo del lavoratore sotto diversi aspetti, trattandosi di fenomeno complesso; se ne può parlare in relazione alla titolarità dell’impresa e già se ne vedono alcune forme determinate nell’agricoltura e nell’industria, con gli istituti del riscatto e dell’azionariato. Ma questa partecipazione alla titolarità dell’impresa è l’ipotesi massima. La ipotesi media riguarda invece la partecipazione non alla comproprietà dell’impresa, ma alla sua gestione o alla direzione. Sente tale esigenza, ma la vorrebbe contemperata con quella di dare, non al proprietario, bensì all’imprenditore, che è il dominus dell’impresa, i poteri che gli spettano in conseguenza della propria responsabilità. Per esempio, i consigli di gestione possono essere concepiti come organi di consulenza tecnica, come avviene per i comitati misti di produzione nell’ordinamento anglo-americano. Anche nell’ordinamento russo, con la modifica apportata nel 1934, i consigli di gestione sono stati, per quanto gli consta, o eliminati o circoscritti. Ritiene quindi che tali problemi particolari, oggetto di futura disciplina legislativa, andrebbero approfonditi prima che si pensi ad alcuna inserzione del principio in una norma costituzionale.

PRESIDENTE osserva che nella relazione Di Vittorio vi è il richiamo all’intervento dei lavoratori nel processo produttivo dell’impresa. Nell’articolo 6 è ammessa la partecipazione dei lavoratori mediante i consigli di gestione in tutte le aziende che abbiano almeno cinquanta dipendenti; ma questa partecipazione è ammessa genericamente, riservando alla legge di stabilire i particolari. Ritiene che effettivamente occorra limitarsi all’impostazione generica del principio; stabilire senz’altro le norme particolari presenterebbe gravi difficoltà.

CANEVARI ritiene che in questa sede sia opportuno tener presente la sua relazione, già discussa e approvata, riguardante la cooperazione, in quanto, esaminando le proposte dell’onorevole Pesenti, ha constatato che una parte di esse è già assorbita da precedenti decisioni.

Ritenendo, d’accordo con il Presidente, superfluo il primo articolo, osserva sul secondo che, per quanto riguarda il dovere imposto dal cittadino di difendere la proprietà statale, si tratta soprattutto di una questione di educazione, che purtroppo in Italia manca e che quindi, più che di disposizioni legislative, si tratti di una mentalità da rifare e che questo sia un dovere indipendente dalle norme della Carta costituzionale e dalle disposizioni di legge.

Il concetto espresso nell’articolo 3, che cioè la proprietà privata non può essere espropriata che per legge, è già stato sancito.

Conviene con l’onorevole Dominedò sulla opportunità di iniziare l’articolazione dall’ultimo articolo proposto dall’onorevole Pesenti. Tuttavia, sulla dizione di tale articolo: «lo Stato riconosce la funzione sociale delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione», osserva che vi sono imprese non gestite dalla Nazione, ma dai comuni, dagli enti pubblici, che non hanno una relazione diretta con la Nazione stessa. Propone quindi di aggiungere le parole «o da enti pubblici». Inoltre, nello stesso articolo, quando si parla dell’interesse della Nazione, preferirebbe che fosse detto «interesse generale», in quanto vi sono imprese che interessano determinati settori e non tutta la Nazione, come, per esempio, gli enti comunali per la costruzione di case popolari, che rappresentano interessi particolari dei comuni e delle provincie.

Il secondo articolo dovrebbe essere sostituito dal quarto e in esso si dovrebbe affermare che il diritto di proprietà non può essere esercitato in contrasto con l’interesse comune.

Si dichiara infine d’accordo sull’articolo 5, salvo alcuni ritocchi di dettaglio che si potranno vedere in appresso.

È d’avviso che ai tre articoli riguardanti la proprietà privata nei rapporti delle imprese statali o collettive, si debba aggiungere quello che è stato affermato per la cooperazione in sede di discussione dei Relatori, cioè che lo Stato favorisce con i mezzi più idonei lo sviluppo delle cooperative e ne vigila il funzionamento.

Concludendo, afferma che, a suo parere, la discussione dovrebbe essere limitata alla formulazione dell’ultimo articolo, che dovrebbe diventare il primo, seguito dagli articoli 4, 5, 6, abbandonando tutte le altre affermazioni che sono già incluse nella precedente articolazione.

COLITTO si associa a quanto ha affermato il Presidente sulla superfluità del secondo articolo proposto, in quanto, una volta affermato che lo Stato riconosce e garantisce la proprietà privata e quella pubblica o demaniale, è evidente che ogni cittadino ha l’obbligo, non solo morale, ma giuridico, di rispettarla. Ugualmente superflui ritiene gli articoli successivi. Infatti, a suo avviso, gli articoli 3 e 4 sono inutili, in quanto è già stato detto, in sede di discussione sul diritto di proprietà, che questa deve avere una funzione sociale. Ad ogni modo, non è sufficiente parlare solo di divieto dell’esercizio del diritto di proprietà con pregiudizio della proprietà altrui, non rientrando in tale formula gli atti così detti di emulazione, che, anche con la legislazione vigente, sono vietati. Se si vuole, quindi, mantenere l’articolo, sarebbe opportuno integrarlo, tenendo conto di tale osservazione.

Anche l’articolo 5 è inutile, in quanto non è che la ripetizione, in altre parole, della norma, già discussa e approvata, che consente la espropriazione dei beni di proprietà privata in caso di utilità pubblica. Comunque, ritiene necessario sostituire la parola «Stato» alle parole «collettività nazionale» e «nazione», perché lo Stato è appunto la collettività nazionale giuridicamente organizzata.

Anche inutile gli appare il sesto articolo in quanto, costituendo il diritto del lavoratore di partecipare alle funzioni di gestione o di direzione dell’impresa, o dell’una e dell’altra insieme, un limite al diritto di proprietà del datore di lavoro, già è stato stabilito che le leggi particolari determineranno i limiti della proprietà privata. Ad ogni modo l’articolo potrebbe essere formulato, ove si riconoscesse l’opportunità di inserirlo nella Costituzione, nel modo seguente:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

Si eviterebbe così l’inutile enunciazione dei fini, cui si tende con il riconoscimento di tale diritto. La Costituzione deve affermare il diritto, senza indicare le finalità cui si mira affermandolo.

CORBI, Relatore, dichiara di accettare le osservazioni dei vari colleghi, e particolarmente quelle degli onorevoli Ghidini, Dominedò, Canevari, poiché ritiene che in sostanza non si tratti che di trovare un’articolazione più precisa e più snella; appunto per questo si è astenuto dal proporne una, in quanto prevedeva che dalla discussione si sarebbe arrivati più facilmente ad un’articolazione che non ripetesse quella già fatta, presentando il vantaggio di una maggiore sinteticità. Per quanto riguarda la seconda parte dell’articolo 2 – sulla quale si sono soffermati gli onorevoli Ghidini e Colitto – si dichiara d’accordo per ometterla.

Ritiene opportuna la proposta fatta dall’onorevole Dominedò di prendere per primo in esame l’articolo 7; e ritiene che sia utile seguire il suggerimento dell’onorevole Canevari di trattare anche delle iniziative economiche degli enti pubblici; in quanto, parlando delle imprese gestite direttamente o indirettamente dalla Nazione, parrebbe che ci si riferisse soltanto allo Stato, mentre vi sono anche quelle dei Comuni delle regioni, che hanno una funzione di primo piano e che devono essere tutelate.

Per quanto riguarda l’altra proposta dell’onorevole Canevari, di introdurre cioè un articolo specifico che riguardi la cooperativa, si dichiara d’accordo, affinché lo Stato vigili proprio sulla natura della cooperativa.

Circa le osservazioni dell’onorevole Colitto, dichiara che parte di esse lo trovano consenziente, mentre altre saranno oggetto di discussione come, ad esempio, l’articolo da lui proposto: «Il lavoratore ha il diritto di partecipare alla direzione, ecc.», in cui si vuole non menzionare le finalità della partecipazione del lavoratore all’azienda. Ma, appunto per garantire l’opera, la funzione, il carattere di tale partecipazione, e perché non avvenga che essa snaturi completamente il suo significato o che si risolva in una turlupinatura (perché potrebbe avvenire che l’industriale o il datore di lavoro ricorressero a forme tali per cui forse sarebbe salvo il principio in riferimento alla Carta costituzionale, ma non sarebbe invece più salvo il principio dal punto di vista sostanziale), ritiene che, in definitiva, sia utile specificare le finalità della partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’azienda. L’onorevole Colitto ha inoltre proposto che in luogo di «collettività nazionale» e di «nazione», si sostituita la parola «Stato», giustificando la sostituzione anche dal punto di vista strettamente giuridico. Pur accettando il principio che l’osservazione sia calzante ed abbia una ragion d’essere dal punto di vista giuridico, crede che risponda meglio allo scopo la dizione: «collettività nazionale», in quanto vi possono essere collettività nazionali che non sono tutto lo Stato, come i sindacati che, pur potendo svolgere funzioni anche economiche, sono una collettività nazionale, ma non tutto lo Stato. Ecco perché ritiene che la dizione «collettività nazionale» risponda meglio allo scopo.

Per quanto riguarda l’indennizzo, si associa pienamente a quanto ha detto il Presidente, ritenendo che, in linea di massima, l’indennizzo debba essere corrisposto e che solo in linea eccezionale possa non esserlo. Nei casi citati dal Presidente, come quello del proprietario che non coltiva la sua terra o di un bene che sia stato acquistato in maniera illecita e che offende anche la collettività, non si può parlare di indennizzo, ma si tratta soltanto di colpire delle proprietà male acquisite o mal condotte. Quindi, a suo avviso, l’indennizzo deve essere corrisposto, salvo i casi previsti dalla legge.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che, considerando i vari punti della relazione Pesenti e tenendo conto dei criteri emersi dalla discussione, si potrebbe proporre un articolo così formulato: «Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive. L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. L’impresa gestita cooperativamente deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, allo Stato o ad altri enti pubblici

Osserva che si tratterà poi di vedere se fare un eventuale articolo a parte, o un ulteriore comma, per quanto riguarda il problema della partecipazione dei lavoratori.

MARINARO propone la seguente formulazione: «L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Lo Stato interviene per impedire la formazione di privilegi e di monopoli o per coordinare e dirigere le attività economiche ad un aumento di produzione e di benessere sociale. Quando ciò sia necessario per imprescindibili esigenze di servizi pubblici e per ovviare a situazioni di fatto di monopoli privati dannosi alla collettività, lo Stato e gli enti locali sono autorizzati, con disposizione di legge, salvo indennizzi, ad assumere le imprese od a parteciparvi. La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controllo finanziario».

Rileva che il punto sostanziale di questa formulazione sta nel fatto che lo Stato e gli enti locali sono autorizzati ad intervenire con disposizioni di legge; in altri termini è necessaria un’apposita legge che autorizzi l’intervento dello Stato nell’interesse dell’economia generale del Paese.

COLITTO insiste nel rilevare che non è necessario, una volta affermato il diritto, indicare le ragioni che ne hanno consigliato l’affermazione, anche perché l’enunciazione dello stesso potrebbe, nella sua necessaria genericità, costituire un limite al diritto stesso. Ciò appare molto chiaro, proprio nella specie, in cui si afferma che «il lavoratore ha il diritto di accedere, ecc., per garantire lo sviluppo economico del Paese e per assicurare nell’interesse nazionale l’esercizio del diritto e delle forme di proprietà, previste dalla legge», con la quale frase, in sostanza, si sminuisce e certamente si limita il diritto dei lavoratori.

PRESIDENTE dà lettura di un articolo concordato fra gli onorevoli Dominedò e Corbi, così formulato:

«L’iniziativa e l’impresa privata sono libere. Le imprese economiche possono essere individuali, cooperativistiche, collettive.

«L’impresa individuale non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

«L’impresa gestita in forma cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita dalla legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.

«Quando le esigenze del bene comune lo impongano, la legge devolve l’impresa, in forma diretta o indiretta, in favore dello Stato o di enti pubblici».

Chiede all’onorevole Dominedò di chiarire la ragione per la quale nell’articolo non si parli dell’esproprio.

DOMINEDÒ, Correlatore, Ritiene che l’argomento trovi sede più opportuna nell’articolo sulla proprietà.

MARINARO chiede che all’articolo proposto sia aggiunto il seguente comma: «La gestione di tali imprese ha luogo in forma industrializzata ed è sottoposta a controlli finanziari».

COLITTO si associa alla proposta dell’onorevole Marinaro ed a sua volta propone che il secondo comma dell’articolo sia, unicamente per ragioni di euritmia legislativa, così semplificato:

«L’impresa individuale non può essere esercitata in modo da recare pregiudizio al bene comune. L’impresa cooperativa deve essere esercitata in modo da rispondere alla funzione della mutualità.».

Chiede, inoltre, che nel terzo comma dello stesso articolo siano inserite, al punto opportuno, le parole: «salvo indennizzo».

Ripete, infine, la richiesta di approvazione del seguente articolo:

«Il lavoratore, salvo che la legge disponga diversamente, ha il diritto di partecipare alle funzioni di gestione dell’impresa, in conformità delle disposizioni che saranno dettate dalla legge».

TAVIANI, per mozione d’ordine, ritiene che l’ultimo articolo proposto dall’onorevole Colitto debba essere esaminato separatamente, dopo esaurita la discussione sull’impresa.

Passando ad esaminare il desto dell’articolo concordato, fa rilevare che dapprima si richiama l’attenzione sull’impresa privata, poi si passa ad esaminare tutte le imprese economiche per poi tornare alla privata. Si dice che le imprese possono essere individuali, cooperativistiche e collettive; non vede la ragione per cui si parli di individuali, invece che di private; forse perché era stato sancito di andare verso la forma cooperativistica, ma evidentemente altro è un’impresa composta di due o tre soci e altro è una vera e propria azienda cooperativistica. Ritiene quindi che si dovrebbe parlare semplicemente di imprese private, cooperativistiche e collettive.

Per quanto riguarda l’indennizzo, è d’accordo con l’onorevole Dominedò nel dire che di esso si debba parlare in sede di proprietà.

PRESIDENTE propone di accantonare, momentaneamente, il problema dell’indennizzo, per decidere sull’articolo in esame. Ricorda in proposito che vi è anche un’aggiunta proposta dall’onorevole Marinaro.

MARINARO ritiene che il servizio debba essere organizzato sotto forma industriale in modo da non risolversi in sicura perdita per l’ente che lo esercita.

LOMBARDO, pur ritenendo giusto il concetto dell’onorevole Marinaro, crede che sia di difficile applicazione.

TAVIANI ritiene che l’espressione non renda il concetto espresso. A suo avviso, l’idea dell’onorevole Marinaro è che tale impresa debba avere bilancio proprio, finalità proprie, organizzazione propria, ecc.

PRESIDENTE osserva che realmente nei servizi pubblici esercìti, ad esempio, dai Comuni anche direttamente, vi è la tendenza ad industrializzarne la gestione.

TAVIANI dichiara che sol piano concettuale è d’accordo con l’onorevole Marinaro, nel senso che la socializzazione va decentrata, ed in maniera che il gestore abbia una diretta responsabilità anche dal punto di vista economico; osserva che quando oggi si parla di socializzare non si intende certo la stessa cosa di quella che si pensava quaranta anni fa. Comunque, dichiara di essere contrario ad inserire la dizione nella Carta costituzionale.

MARINARO fa presente che fino ad oggi si è avuta questa organizzazione in forma industriale e che i grandi comuni, come Roma e Milano, hanno applicato questo sistema; non vorrebbe che l’innovazione si risolvesse in una perdita per il comune. Bisognerebbe dunque, a suo avviso, organizzare il servizio in maniera tale da conseguire possibilmente redditi che vadano a vantaggio del bilancio comunale.

DOMINEDÒ, Correlatore, ritiene che in tal caso bisognerebbe pensare ad una forma di gestione autonoma, ad un’ipotesi di decentramento economico; ma non pensa che una tale definizione si possa inserire nella Carta costituzionale.

PRESIDENTE è d’avviso che tuttavia sia necessario sancire il principio del controllo finanziario.

MARINARO propone la dizione «la gestione di tali imprese è sottoposta a controllo amministrativo e finanziario».

TAVIANI dichiara di ammettere soltanto il controllo finanziario e non quello amministrativo, che è contrario all’autonomia dell’azienda.

MARINARO aderisce alla dizione: «La gestione di tali imprese è sottoposta al controllo finanziario». Sul quarto comma che dice: «Quando le esigenze del bene comune lo impongano, ecc.», osserva che la dizione è troppo indeterminata e lascia un campo troppo vasto all’arbitrio dell’autorità. Ricorda che la formula da lui proposta precisava invece i casi di intervento da parte dello Stato e diceva: «Quando sia necessario, per imprescindibili esigenze di servizi pubblici, ecc.», considerando innanzi tutto il caso più comune, cioè quello dei servizi pubblici che riguarda specialmente le municipalizzazioni.

La formula troppo generica che invoca le esigenze del bene comune annulla in pratica lo scopo dell’intervento statale, che deve avvenire per legge. Sul principio generale di tale intervento tutti sono d’accordo: dove l’interesse della collettività è minacciato, lo Stato deve intervenire; ma è necessario precisare i casi in cui questo interesse è minacciato. La prima ipotesi, quella dei servizi pubblici, è fuori discussione; del resto la materia è ormai generalmente regolata in questo modo: quando un servizio pubblico non funziona regolarmente o quando, sotto la gestione dei privati, è fonte di speculazioni, lo Stato interviene e municipalizza.

TAVIANI propone la dizione: «Quando lo impongano le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti».

MARINARO dichiara di accettare tale formulazione.

CANEVARI prega l’onorevole Dominedò di modificare il terzo comma là dove si parla di imprese gestite in forma cooperativa, dicendo semplicemente «cooperative». Quanto al 4° comma osserva che è già stato deliberato, parlando della proprietà, l’intervento per legge relativo ad espropriazioni a favore dello Stato, di enti pubblici e di comunità.

DOMINEDÒ, Correlatore, consente.

PRESIDENTE avverte che la discussione sarà proseguita nel pomeriggio alle ore 17.

La seduta termina alle 13.10.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Federici Maria, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Taviani.

Assenti giustificati: Molé.

Assenti: Assennato, Fanfani, Giua, Paratore, Rapelli, Togni.