Come nasce la Costituzione

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SABATO 15 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXCIV.

SEDUTA DI SABATO 15 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Conti

Rubilli

Porzio

Bosco Lucarelli

Zotta

Interrogazione urgente (Svolgimento):

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Lucifero

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Tonello

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 9.30.

ZOTTA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Ha facoltà di parlare per la Commissione l’onorevole Conti.

CONTI. Mi limiterò ad una breve discussione, per dar modo ai colleghi, assenti ma presenti, di partire alle 11 per Napoli e di continuare, naturalmente, il viaggio per altri lidi… non già verso questa mèta.

Essendo l’Assemblea in queste condizioni è più facile raccogliersi. Non c’è lo stimolo della folla e non si è portati a dare scandalo. Con l’annunzio di un po’ di scandalo, saremmo probabilmente riusciti a condurre qua dentro diversi deputati. Io mi astengo dallo scandalo per progetto, per sistema, per costume e quindi mi adatto a qualsiasi numero di ascoltatori.

Dirò subito, a proposito della discussione che si è fatta qua dentro – discussione ampia, elevata, dirò subito che non posso ritenere che essa debba essere troppo tra le nuvole; una discussione di idee astratte in sede politica non mi piace. Noi siamo qui per fare una legge, per dare un’organizzazione all’amministrazione della giustizia. Se questo è l’intento, evidentemente noi dobbiamo occuparci di problemi pratici. Non dico che non siano problemi pratici quelli che sono stati trattati qui dentro; ma insomma, lo sviluppo delle trattazioni è stato alquanto dottrinario, teorico, astratto in certi momenti. Abbiamo udito bellissime lezioni di diritto e di procedura penale, che saranno probabilmente ripetute quando i Codici verranno in discussione avanti alla Camera e al Senato della Repubblica.

Non è dunque con un discorso astratto che vi intratterrò.

Io desidero richiamare la vostra attenzione sul modo di organizzare l’amministrazione della giustizia, sulla struttura costituzionale dell’ordinamento della giustizia in Italia. Non mi sottrarrò a dire la mia opinione, quasi come dichiarazione di voto, intorno a problemi che sono stati esaminati.

Si è parlato della giuria. Sono favorevole? Sono contrario? Io riassumo il mio modo di vedere intorno all’istituto della giuria nei termini seguenti: io sono contrario alla giuria. Le discussioni che si sono fatte intorno all’origine della giuria sono pregevolissime. È vero; la giuria è sempre sorta in tempo di libertà; ma, tra i tempi in cui la giuria sorse e i tempi nostri, sono passati molti anni e la democrazia vaga, nebulosa, la democrazia di ispirazione giacobina dell’89 e degli anni seguenti, non è più. Ben altra è oggi la situazione storica, politica, sociale. L’ultimo secolo ha segnato un grande sviluppo della società; conseguentemente si presentano in modo diverso molti problemi e anche quelli giuridici. È quindi evidente la necessità di organizzare la giustizia in modo utile e razionale. Non voglio intendere, così dicendo, che la giuria debba essere scartata, debba essere relegata fra le istituzioni del tutto superate.

Nel 1925, quando stavamo per cadere nell’abisso nel quale andammo a precipitare, si fece, da II Mondo, un referendum intorno appunto all’istituto della giuria. Io risposi, ma la mia risposta non fu pubblicata, perché il giornale fu soppresso. Noi eravamo allora sotto la dominazione della monarchia e in una fase dell’istituzione che io consideravo funesta per il Paese, anche indipendentemente dal fascismo. Dissi: Sì, bisogna conservare la giuria, migliorandola: e facevo alcune proposte concrete intorno al modo di assunzione del giudice popolare.

Allora io ero dunque favorevole alla giuria; oggi non lo sono più. Ho detto però che non dobbiamo relegarla fra le cose morte, perché potrebbe essere anche possibile che la giuria dovesse essere in certi determinati momenti restaurata. Non pregiudichiamo dunque, con un articolo nella Costituzione, la soluzione di questo problema. Io credo che si debba rimettere alla legge ordinaria il compito di dirimere i contrastanti pareri.

C’è un altro problema che ha appassionato: abbiamo anche udito le grida delle nostre colleghe. La donna nella Magistratura. La vogliamo o non la vogliamo? Anche nell’esame di questo problema mi pare si debba essere sereni e tranquilli. Queste povere donne non dànno alcun fastidio in nessuna parte. Si disputa perché c’è un pregiudizio misogino da una parte e c’è un’esaltazione femminista dall’altra. Io mi porrò nel mezzo. No, nella Magistratura? Sì, nella Magistratura?

Io dirò ni. Che cosa voglio intendere di dire col mio ni? Voglio intendere che le donne potranno anche aspirare alla carriera giudiziaria; sta a vedere se riusciranno, sta a vedere se, entrando nella Magistratura, potranno veramente rendere un servigio utile. Non mi pare che si possa preventivamente dire di no.

Io credo che avverrà quel che è avvenuto per tutte le altre affermazioni di diritto della donna. Quarant’anni or sono si voleva la donna avvocata! E avevamo intorno Teresina Labriola: era la sola pretendente, allora.

Dopo il caso di Teresina Labriola, quante sono le donne avvocate? Pochissime: sì e no una in ogni grande sede giudiziaria.

BERTINI. E poco accreditate!

NOBILI TITO ORO. Ma se l’onorevole Conti le ha avute anche nello studio suo!

CONTI. Io no!

NOBILI TITO ORO. Sì, la figlia del collega Del Bello. E la riuscita è stata buona.

CONTI. Ma è stata una frequenza del mio studio addirittura fugace… due settimane. Non ho potuto insegnare niente; ho imparato molte cose: per esempio, che, se hanno attitudini, le donne possono far bene e gareggiare con gli uomini.

Ad ogni modo, io vedo il problema in questi termini: non si devono chiudere le porte. Le donne entreranno in Magistratura; vedranno che essere in Magistratura significa avere molte preoccupazioni e che esercitarne le funzioni non è per esse agevole, e per gli altri tranquillante, in certi periodi della loro vita. È proprio questo l’argomento che in dottrina si oppone all’ammissione delle donne in Magistratura. Si dice che sia imprudenza, per la loro subordinazione fisiologica, che si assumano le donne in Magistratura. In verità, e mi sia consentito il dirlo, anche molti uomini hanno ricorrenze: ci sono moltissimi i quali in certi periodi sono assolutamente intrattabili. Le donne potranno entrare in Magistratura, ma non ci entreranno: questa è la mia convinzione. Comunque, non si deve in una Costituzione moderna chiudere le porte all’ingresso delle donne. D’altra parte, è stato detto che se potranno entrare ed entreranno, bene saranno applicate alla Magistratura dei minorenni. Credo che questa sarebbe un’applicazione utilissima. Si può pensare ad un’altra applicazione utile: ai servizi di cancelleria.

BERTINI. Ci sono già, fuori ruolo.

CONTI. Tanto meglio! È stato dibattuto un altro argomento: quello dell’unicità della giurisdizione. Unicità della giurisdizione. Vorreste forse rinunciare a questo grande principio?

Ma anche per questo principio potranno esserci attenuazioni, piccole deviazioni, le quali non guasteranno il disegno. Certo, è, che bisogna sanare assolutamente la piaga cancerosa delle magistrature speciali.

Uno studio, di uno dei nostri più alti magistrati, denunzia, se non ha sbagliato chi mi ha riferito tale dato, l’esistenza in Italia di trecento magistrature speciali. Evidentemente siamo di fronte ad uno sproposito colossale; bisogna rettificare questa situazione. L’unicità della giurisdizione si impone.

Questione della Cassazione: Cassazione unica. Qui la mia dichiarazione deve essere netta e molto chiara. Io sono un regionalista convinto e ardente; sono, anzi, federalista convintissimo, ma io dico che la Cassazione unica è una necessità assoluta. Proprio in un ordinamento a base regionale, la Cassazione unica si impone: l’unità del diritto deve essere affermata da una voce sola.

Su un punto sono d’accordo perfettamente con uno degli oratori che hanno parlato su questo argomento. Egli ha detto giustamente: ma perché la Cassazione unica deve essere a Roma? Io ho risposto: sono favorevolissimo a portar via da Roma non soltanto la Cassazione, ma anche questa benedetta Capitale! portiamola a Frascati, in Toscana, dove volete.

Questo polmone respira così male, e fa respirare così male gli Italiani! Quanto alla Cassazione, risieda pure a Napoli, a Firenze, dovunque, purché essa pronunzi una parola unica per orientamento giuridico e per il progresso scientifico.

Altra questione, quella dell’iscrizione dei magistrati ai partiti politici. Nessuna limitazione alla libertà, nessuna limitazione di diritti io potrò mai approvare. Non approvo il divieto del progetto. La coscienza dei magistrati deve risolvere il problema. E mi pare, sulle questioni proposte, di aver detto abbastanza.

Adesso vado alla questione essenziale, alla questione grossa: e non la guardiamo con prevenzioni di nessun genere: la questione dell’indipendenza della Magistratura, dell’autonomia della Magistratura.

Dirò che sono subito d’accordissimo con chi ha detto che bisogna cambiare l’intestazione del Titolo: che bisognerebbe dire: potere giudiziario.

L’armonia del testo costituzionale non ha permesso l’accoglimento di questa intitolazione: «potere giudiziario». Non si è detto potere legislativo, non si è detto potere esecutivo; si è ritenuto che non dovesse dirsi potere giudiziario. Non è sembrata neppure appropriata l’intitolazione «ordine giudiziario».

Si è trovato il titolo – a mio modo di vedere – giusto. La Commissione è stata concorde nell’adottare le due parole: «La giustizia». È un titolo solenne che può sodisfare.

Parliamo dell’indipendenza della Magistratura.

Io faccio questa affermazione: l’indipendenza della Magistratura non si vuole da molti, perché si vuole il magistrato assoggettabile al potere esecutivo! (Approvazioni dei deputati Merlin Umberto e Bertini). Tutti i democratici che per anni e anni sono passati qui dentro – ministri e deputati – hanno parlato di Magistratura libera, indipendente, autonoma, ma ne hanno parlato ipocritamente. Nessuno ha voluto la Magistratura davvero indipendente, neppure e, direi, specialmente, ministri arcidemocratici e radicali.

Indipendenza della Magistratura. Si scherzò! Le sentenze si comandavano anche allora, al tempo dei «sinistri», peggio di prima, peggio del tempo dei «destri». Abbiamo avuto Sottosegretari di Stato che hanno appestato l’amministrazione della giustizia con la loro influenza. In tempo fascista incontrai un giorno al Tribunale di Roma un ex Sottosegretario di Stato, già di etichetta democratica, tutto sdegnato perché doveva davanti alla prima sezione civile del Tribunale discutere una causa avendo avversario Arturo Rocco, il fratello del ministro. «Guarda un po’, io devo adesso discutere col fratello del ministro!» esclamò, vedendomi.

Egli credeva che io mi sdegnassi con lui. Lo calmai rispondendo: Non ricordi le porcherie che tu hai fatto qua dentro e altrove quando eri al Governo?

Egli era stato un corruttore, tra i più attivi, della Magistratura!

Indipendenza della Magistratura: la vogliamo! Io sono un difensore tra i più accaniti dell’indipendenza interna ed esterna dei magistrati. Appena ci fu possibilità di dire una parola su questo problema la dissi. Dopo il 25 luglio, essendo stata agitata da un giornale (non ricordo se dal Giornale d’Italia o dal Messaggero) la questione della Magistratura, un mio amico (più personale che politico), l’onorevole Mazzolani, scrisse una lettera per dire che la Magistratura durante il fascismo ne aveva fatte di tutti i colori. Io intervenni con una lettera dicendo: L’indipendenza della Magistratura è sacrosanta e si deve fin d’ora affermare che, nella ricostruzione dello Stato italiano si deve finalmente creare il potere giudiziario, non riconosciuto e non contemplato dallo Statuto albertino: che si deve creare una Magistratura autonoma e indipendente, liberata dal dominio, sempre invece imposto, del potere esecutivo.

Potere giudiziario, indipendenza della Magistratura! Collochiamo il magistrato sul terreno della responsabilità personale! Vogliamo il magistrato libero e responsabile! (Approvazioni dei deputati Merlin Umberto e Bertini).

Non si può non andare a questa soluzione se vogliamo veramente provvedere agli interessi del Paese!

Vogliamo finalmente costituire in Italia l’organizzazione della Magistratura, l’amministrazione della giustizia. Questo il Paese vuole fortissimamente. Credetemi (ma a chi lo dico? Ai competenti?): oggi se vi è una istituzione non stimata nel nostro Paese, essa è la Magistratura. Ad essa non si crede.

BUBBIO. Non è vero.

CONTI. È verissimo.

BUBBIO. Non bisogna esagerare.

BERTINI. Ci sono troppi faccendieri.

BUBBIO. Per noi è santa.

CONTI. Purtroppo è santa a parole: ma oggi non è così. Se non diciamo parole franche non guariremo mai i nostri mali; se non parleremo con parole franche non ripareremo mai i nostri guai. La Magistratura non è stimata e non è stimata – non mi fate ripetere – perché episodi di tutti i giorni dànno anche oggi motivi a non avere fiducia. Nove decimi dei magistrati sono onestissimi; v’è un decimo che diffama tutti.

Un pretore che riceve un sacchetto di farina o un dono qualsiasi è un ribaldo; quel pretore diffama tutta la Magistratura italiana. Un giudice il quale si corrompe, macchia la purezza di tutta la Magistratura italiana. Potrei citare dolorosi episodi. Non facciamo, dunque, storie, onorevole Bubbio. Siamo sinceri e per il nostro amore riscattiamo e onoriamo con l’opera la Magistratura.

Ho sentito tante parole di esaltazione. Sì, signori. Io ho conosciuto magistrati di fronte ai quali mi inginocchierei; grandi magistrati. Io sono ancora in corrispondenza con un uomo, che è al suo novantaduesimo anno di età, che voglio ricordare qui essendo stato ricordato il suo compagno di martirio. Il collega Mancini ha ricordato il sostituto procuratore generale Tancredi, un uomo di alta statura morale. Io voglio ricordare il suo compagno, il magistrato Mauro Del Giudice, presidente della sezione d’accusa di Roma e istruttore del processo Matteotti. Un santo. Fu promosso procuratore generale a Catania per il suo allontanamento dall’ufficio che teneva col polso suo di galantuomo, di austero inflessibile magistrato. Conosco altri magistrati, i quali hanno tenuto la toga durante il fascismo con grande fierezza; magistrati che si sono dichiarati repubblicani fin dai primi momenti del fascismo; magistrati che durante il fascismo sono stati perseguitati, che sono stati esclusi dalle promozioni, che sono stati umiliati. Sì, signori, ma ci sono gli immeritevoli della stima degli onesti.

Ne ho conosciuti, durante l’esercizio della professione, alcuni ai quali ho tolto il saluto con grande mio dolore, perché avevo avuto per molto tempo l’illusione che essi fossero dei galantuomini: dovetti riconoscere che erano dei ribaldi. Mi sono trovato dinanzi ad un alto magistrato di Cassazione il quale, dopo tre sentenze di merito che avevano escluso l’ammissibilità della prova testimoniale in materia di responsabilità civile, regolata dall’articolo 1153, ebbe il coraggio di sostenere davanti alla Suprema Corte l’ammissibilità della prova testimoniale, e un altro alto magistrato ebbe il coraggio di scrivere la sentenza, raccogliendo il fascicolo della causa che il relatore integerrimo, con la solidarietà di tutti i colleghi, aveva rifiutato.

Tanta abiezione per favorire l’amante di quel Teruzzi che fu uno dei peggiori elementi del fascismo. Quei magistrati non esitarono a lacerare le più belle pagine della giurisprudenza italiana. Ma lasciamo questo esame doloroso. La verità è che la Magistratura in Italia bisogna risanarla.

Ma io devo dire una parola di difesa altrettanto ferma e piena di convinzione.

La Magistratura non è colpevole per degenerazione organica. Essa è stata indotta al male. Durante la dominazione della monarchia, il potere esecutivo ha dominato la Magistratura in modo indegno, sempre. E mi rincresce di dispiacere all’amico onorevole Bergamini, agli amici i quali hanno ancora nel cuore un certo affetto – non so se oggi si tratta più di affetto – un certo legame con la monarchia e con la Casa Savoia. Devo dare un dispiacere a questi amici che stimo tanto. È stato proprio il regime sabaudo quello che si è distinto nella corruzione della Magistratura, nella sopraffazione della Magistratura. Bisogna non richiamarsi soltanto ai discorsi di Giuseppe Zanardelli. Ho sentito rievocare quei discorsi sull’avvocatura da tutti gli oratori. Nessuno ha tenuto presente che Zanardelli fu uomo di grandissima eloquenza. Dio ne scampi e liberi dall’eloquenza che è quasi sempre accompagnata dalla retorica. Io sono un nemico degli oratori, specialmente degli oratori politici…

UBERTI. Ma è un oratore anche lei!

CONTI. Zanardelli era un grande oratore ed è riuscito a far divenire quasi popolari i suoi discorsi. Ma ora basta con la retorica e con le storie addomesticate. Cerchiamo la rude cronaca. La storia ad usum delphini bisogna gettarla via.

Io sto facendo uno sforzo nel parlare così. Per il mio sentimento dovrei dire presso a poco quello che è stato detto coi richiami ai discorsi di Zanardelli: per servire la verità, non debbo incitare i sentimentali.

La Magistratura, o signori, in Italia è stata assoggettata sempre al potere esecutivo. E non soltanto dopo l’unità. Si è cominciato in Piemonte, prima del 1859. E volete un’eresia? Questa scuoterà le fibre di molti devoti a una grande figura che io ammiro per tanti altri aspetti. Ammiro l’economista, l’agricoltore, l’uomo dalle idee chiarissime su tanti problemi, su tante questioni: Camillo Cavour. Ma quanta falsità, nelle presentazioni storiche di quest’uomo, posto vicino a Mazzini, a Garibaldi, con un pastrocchio scolastico che bisogna finalmente spastrocchiare, permettetemi il vocabolo!

Cavour è stato uno dei corruttori della Magistratura italiana. Ha imposto procedimenti vessatori della stampa e sentenze di condanna. Egli agì sulla Magistratura nel processo per l’insurrezione genovese del 1857, preparata per assecondare il tentativo di Pisacane nel regno di Napoli. Allora Cavour volle il sequestro quasi quotidiano del giornale L’Italia del Popolo perché quel giornale doveva essere soppresso, doveva morire a tutti i costi. Volle la condanna di Bartolomeo Savi, che era il direttore di quel giornale, volle la condanna a morte di Mazzini.

Vi sono qui onorevoli colleghi di destra, i quali rimproverano poca fierezza dell’Italia d’oggi nella politica internazionale. Oggi questi colleghi fanno dell’irredentismo: tutti i giorni parlano di Trieste. Dimenticano che gli uomini della loro parte furono i più severi repressori dell’irredentismo italiano, quando l’irredentismo in Italia era propugnato dal Partito repubblicano e Trieste e Trento erano nel cuore d’ogni repubblicano.

Il servilismo nella politica internazionale è cosa monarchica. (Interruzione del deputalo Perrone Capano). Dovete imparare molte cose; soprattutto dovete imparare a fare ossequio alla verità! (Interruzione del deputato Perrone Capano).

Tutto quello che si è scritto e detto per esaltare la monarchia è falsità. (Applausi a sinistra). Io ho qui uno studio della Jessy Withe, moglie di Alberto Mario, una delle vittime del processo del 1857. Fu in prigione con Alberto Mario, del quale era allora fidanzata. In questo studio si riportano documenti interessantissimi. Si dimostra l’odio di Cavour per Mazzini. Qui c’è una lettera del 3 luglio 1856 della marchesa Pallavicini a suo marito nella quale la marchesa dice, addolorata, che «Cavour detesta Mazzini». La marchesa comunicava al marito che il Cavour voleva la fucilazione «senza pietà» di Giuseppe Mazzini.

Credo che quella della marchesa Pallavicini sia una testimonianza autorevole. «Non potendo per il momento eseguire questo pietoso disegno né contentare l’imperatore che pretendeva l’immediata soppressione dell’Italia del Popolo, non lasciava passare settimana senza che l’intendente di Genova ricevesse da lui incitamenti ad agire contro il coraggioso giornale. E ciò prima che l’attentato di Orsini desse colore all’accusa che gli Italiani miravano ad estinguere la vita dell’imperatore». «Il Governo francese – diceva Cavour – si lagna sulla tolleranza che si accorda ai mazziniani ed alla loro stampa».

BUBBIO. Ma non dimentichiamo che era in corso la preparazione del Risorgimento.

CONTI. Ma il Risorgimento non si preparava sopprimendo chi voleva l’unità che, nel 1857, Cavour non aveva neppur concepito. Ma proseguiamo: «Onde non perdere la sua amicizia (quella di Napoleone III), la sola sulla quale possiamo fare assegno nelle attuali condizioni dell’Europa, è necessario fare qualche cosa a questo riguardo. Quello che più gioverebbe sarebbe ridurre al silenzio il monitore di Mazzini l’Italia del Popolo. Per raggiungere questo scopo non esiterei a impiegare tutti i mezzi in mio potere. La prego di occuparsene senza indugio, concertandosi con l’avvocato Genne onde vedere se questo alto funzionario credesse potere colpire quel giornale con frequenti e quasi quotidiani sequestri. Se fra gli scrittori del giornale vi sono emigrati, bisogna dar loro immediatamente lo sfratto, qualunque sia la natura degli articoli dovuti alla loro penna. Anche l’appendicista teatrale deve essere cacciato. Il solo fatto di scrivere in quello scellerato giornale, deve rendere l’emigrato indegno della nostra ospitalità. Esso è un’onta ed un pericolo per la società; il distruggerlo è eminentemente patriottico. Se la Signoria Vostra può compierlo, acquisterà titolo grande alla mia particolare riconoscenza».

Ho letto parte di una lettera di Cavour.

«E il degno fisco, – dice la Mario – fece quanto stette in lui per secondare le calde istanze dell’intendente. Sequestrò quasi quotidianamente il giornale; mise in prigione un gerente dopo l’altro». Il giornale morì.

Ho voluto mettere questo punto fermo; e mi dispiace di dispiacere a qualcuno, specialmente all’amico onorevole Bubbio.

BUBBIO. Io difendo il Piemonte.

CONTI. Vedete dove si va a finire con la retorica! Che c’entra il Piemonte? Per non essere da meno io difendo del Piemonte Angelo Brofferio. Finì male anche lui, perché, quando Vittorio Emanuele II, con le sue arti, riuscì a rovinarlo dandogli l’incarico di scrivere la Storia del Parlamento subalpino, cedette.

La corruzione della Magistratura, il dominio per il quale la Magistratura è stata costretta a vivere la sua vita dolorosa e mortificata, sono continuati durante tutto il regno sabaudo nel nostro Paese.

Ricordate i processi scandalosi, organizzati o manovrati dai Governi. Sono tanti. Non voglio di certo fare qui una storia dettagliata di tali processi. Basta ricordarne uno che è espressione di tutta una fase della vita italiana: il processo Lobbia. Contro quel denunziatore delle azioni delittuose di loschi uomini politici nella regìa dei tabacchi fu organizzato l’assassinio. Per salvare i consorti sostenitori del Governo si arrivò ad indurre la Magistratura ad elevare imputazione di simulazione di reato contro il Lobbia, e si impose ai magistrati l’istruzione del processo. Ma in quel momento si ebbero due grandi esempi di indipendenza e di fierezza di magistrati. Nelli e Borgnini, sdegnosi di servire i governanti, gettarono alle ortiche la toga, dichiarando al Ministro di non voler essere strumento della perfidia governativa. Pur troppo quei due integerrimi magistrati furono sostituiti da colleghi i quali ebbero, in premio della loro abiezione, rapida carriera.

Leggiamo pure, onorevoli colleghi, i discorsi di Zanardelli; ma ricordiamo anche questi e tanti altri episodi.

Ma intorno al trattamento della Magistratura si deve riferire il giudizio di uomini di indiscussa probità.

Ecco il giudizio del senatore Adeodato Bonasi.

Egli della sorte disgraziata della Magistratura scriveva, nel 1884, queste lapidarie parole che suffragano le prime parole che ho rivolto all’Assemblea: «Affinché la Magistratura possa compiere l’altissimo ufficio, due condizioni sono indispensabili, e cioè che il mandato affidatole corrisponda alla razionale ampiezza della sua funzione: che la sua indipendenza sia così intera ed assoluta, da sottrarla ad ogni timore e ad ogni lusinga del potere. In Italia le parti politiche che si sono finora conteso il campo hanno entrambe contribuito a sodisfare alla prima condizione, ma purtroppo danno gareggiato altresì nel disconoscere la seconda. Quanto alla seconda condizione «destra» e «sinistra», o non hanno avuto conoscenza dei mezzi indispensabili per costringere e mantenere la Magistratura all’altezza del suo ministerio, o, avendoli, hanno postergato le esigenze della giustizia agli interessi di parte. La «sinistra», finché era minoranza, declamava contro il servaggio della Magistratura ed accusava il Governo di abusarne a scopo partigiano; la «destra», divenuta a sua volta minoranza, ha rimandato l’accusa ai propri avversari rincarandola».

Questa è la verità, questa la sorte della Magistratura.

Vi ho parlato del Cavour e delle sue inframmettenze nell’amministrazione della giustizia. Volete conoscere inframmettenze di Ministri di tempo meno remoto? Vedo dinanzi a me uomini a me carissimi. Ho innanzi agli occhi l’amico Porzio, che è un conoscitore delle cose che dico. Egli per i suoi sentimenti non direbbe forse le cose amare che dico io, ma egli sa e mi è testimonio.

Udite che cosa disse in un discorso Napoleone Colajanni, nella tornata del 6 maggio 1904, occupandosi alla Camera dell’amministrazione della giustizia in Italia. Colajanni si occupava specialmente del problema dell’amministrazione della giustizia in Sicilia. Non vi riferisco quello che poté dire di questo problema nella disgraziata Isola, difesa tanto strenuamente, quanto inutilmente da Diego Tajani che, nei suoi discorsi parlamentari, denunziò più volte con sdegno l’azione dei Savoia, peggiore di quella dei Borboni. Occupandosi dell’amministrazione della giustizia Colajanni disse queste parole che leggo sul resoconto stenografico: «All’onorevole Giolitti devo ricordare un altro episodio che dimostra cosa sia talvolta la Magistratura italiana. Un giorno si venne a domandare l’autorizzazione a procedere in giudizio contro l’attuale Presidente del Consiglio. Uno scandalo! Una indegnità, ed io non attesi che l’onorevole Giolitti tornasse al potere per levarmi da questi banchi, anche a costo di provocare l’indignazione del collega Morandi. Ebbene, allora ci fu un Ministro Guardasigilli tanto ingenuo da dire: ma datemi il tempo di formare l’ambiente nel tribunale per farlo condannare.

«Voci (le solite voci che vociferavano anche allora): Costa! (si alludeva al Ministro Costa).

«Mazza. (Era un deputato di allora): Che Costa! Fu Calenda dei Tavani.

«Colajanni. Fu Calenda, che diamine! (Commenti)».

Questa è stata, onorevoli colleghi, la vita della Magistratura, la misera vita della Magistratura. Ho detto prima: vita imposta dai Savoia. Ho avuto occasione altra volta di difendere i Borboni in confronto dei Savoia: è tutto dire! Ebbene, debbo dire che i Borboni hanno avuto della Magistratura un altissimo concetto e l’hanno sempre rispettata. Per i reati politici, tribunali speciali: ma la Magistratura civile e quella criminale nel Regno di Napoli, o signori, è stata la più alta Magistratura che l’Italia abbia potuto ammirare. Ricordate i grandissimi magistrati del tempo borbonico: i Mirabello… gli Arabia.

PORZIO. …e i Niccolini! E i Poerio!

CONTI. …i Niccolini e i Poerio! tanti altri ancora. Ricordatevi soprattutto del carattere autoritario del Re di Napoli. Ebbene, egli fu rispettoso della Magistratura. Io ricordo che nel 1925, innanzi al Senato, il senatore Cannavina, di grande probità e di alto ingegno, in un discorso molto eloquente, ricordò un significativo episodio. Leggo il resoconto stenografico della seduta 14 maggio 1925, del Senato: «Onorevole Ministro, io ho poco altro da dire. Tanti anni fa (io non ero ancora nato, e molto meno l’onorevole Ministro, essendo giovane e certo molto meno innanzi di me negli anni), un principe potentissimo, forse anche per relazioni di parentela presso una delle tante corti che allora infestavano e tiranneggiavano l’Italia divisa, ricevendo la notizia, di ritorno dalla consueta passeggiata a cavallo, della pronunzia di una sentenza che non era quella che egli avrebbe desiderata, si presentò, calzato cogli stessi stivali lordi di polvere e col frustino in mano, nella casa del presidente del Collegio che aveva pronunziato la sentenza, e con fare burbanzoso, gli domandò come mai si fosse pronunciata una sentenza a lui contraria. Quel grande magistrato, perché grande dimostrò di essere anche dopo, con molta dignità rispose alla domanda villana, aver egli emesso la sentenza che rispondeva ai dettami della propria coscienza; quindi, essendo in casa propria, additò, con pari dignità e con altrettanto decoro ed austerità, la via dell’uscita. L’indomani, quel magistrato presentò al re le sue dimissioni motivate. Il principe non ebbe a soffrire, per usare la frase adoperata da chi narra il fatto, neppure un dolore di testa per l’atto villano; i tempi non lo consentivano; ma di quel valoroso e integro magistrato non furono accettate le dimissioni, che anzi, invitato a riprendere servizio, fu promosso da presidente di camera, come allora si chiamavano i presidenti di sezione, a presidente del collegio. Quel principe era il principe d’Ischitella; quel magistrato chiuse la carriera venerato da tutti quale presidente di camera di una delle Corti di cassazione del Regno: era il Niutta. Quel Governo era il Governo dei Borboni, il quale perseguitava, per ragioni politiche, costituendo tribunali speciali, ma rispettava la integrità della Magistratura nella sua altissima funzione».

Io ricordo un altro episodio. Fu condannato a morie, dal tribunale speciale di Sicilia, Francesco Bentivegna. Il povero Bentivegna aveva prodotto ricorso alla Corte Suprema. All’udienza, chiamato il ricorso di Bentivegna, il procuratore generale dice: «L’esame di questo ricorso è inutile: la sentenza è stata eseguita. Bentivegna è morto». Ed il Presidente di rimando: «Per noi Bentivegna è vivo». E la sentenza fu annullata.

Signori, è doloroso, ma di fronte a queste manifestazioni di veramente grandi figure della Magistratura nostra, di fronte a questi esempi di fierezza e di austerità, di altezza morale, noi abbiamo purtroppo visto imposizioni e casi di debolezza e di servilismo. Preferisco di non parlare lungamente di queste cose. Del periodo prefascista qualche cosa ho detto: mi sono limitato ad accenni.

Può interessarci ancora il periodo fascista. Di quel periodo possiamo ricordare atteggiamenti dolorosi della Magistratura. Ricordo una polemica per un giudizio di Guglielmo Ferrero che, parlando della Magistratura, – eravamo nel 1923-24 – disse così: «Qualche volta la Magistratura è estrosa, isterica, indulgente e feroce, o indulgente, a capriccio, ché sotto il mantello nasconde falsi pesi e qualche volta sa barattare i buoni coi cattivi, senza che il pubblico, che guarda e non vede, se ne accorga; ogni tanto cede agli intrighi di loggia, di sacrestia o di alcova; è schiava della carta su cui scrive e del privilegio accordato a lei che il suo inchiostro dica su quella carta la verità e non vuole mai, per puntiglio, per odio o per amore, rivedere quello che ha scritto, anche se l’ha scritto in fretta».

Questo era il giudizio molto severo di Guglielmo Ferrero.

BERTINI. Eccessivo.

CONTI. Eccessivo il giudizio, onorevole Bertini, ma suggerito dalla asprezza dei tempi nei quali fu scritto, e quando v’erano magistrati che avevano il coraggio di pubblicare opuscoli come questo che vi mostro, dovuto al Presidente di sezione della Corte di cassazione Antonio Marongiu.

BERTINI. Ricordo che pronunciò sentenze gravissime a carico di persecutori di antifascisti.

CONTI. Questo magistrato volle dimostrare che la Magistratura si era «resa conto» del tempo, come aveva voluto il Ministro Rocco.

Egli esibiva, oltre al resto, questa massima della Corte di Cassazione, come una perla: «Non è vietato al cittadino di interessarsi delle cose concernenti la vita pubblica della Nazione…».

BERTINI. Aspettava di essere nominato senatore, ma poi non lo fu.

CONTI. «…È vietato soltanto – diceva – (quanta finezza) d’intralciare l’opera sapiente del Governo fascista». (Commenti).

Leggo un’altra massima: «La più grande e geniale concezione che nel reggimento degli Stati registri la storia moderna è l’ordinamento corporativo, nella creazione del quale ha culminato la rivoluzione fascista». Onorevoli colleghi, di fronte a questi documenti non possiamo essere ipocriti sino al punto di dire tutte le cose che sono state dette qui dentro. Basta con le ipocrisie, andiamo avanti con animo forte, compiamo questa fatica che deve essere benefica per il nostro Paese. Noi dobbiamo creare un’organizzazione salda e sicura della giustizia. Essa sarà amministrata dagli uomini, si capisce, ma noi dobbiamo contribuire tutti a dare in questa Costituzione un ordinamento che assicuri l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario, l’indipendenza dei magistrati che sapranno esserne degni nello Stato repubblicano.

Lo so, onorevoli colleghi, scettici e dubbiosi. Quando avremo la Magistratura autonoma e indipendente, si creeranno filoni, si useranno piccole reti, si apriranno viottoli e stradette per giungere nei luoghi più sacri. Lo so: non sono giunto ai miei 65 anni, per essere tanto ingenuo…

La Repubblica (ho avuto occasione di dirlo altre volte) non può sorgere in un attimo. La sua azione moralizzatrice, educatrice, non può svolgersi che lentamente. Ma non mancherà: e con l’educazione degli uomini, con la trasformazione degli spiriti nella libertà si avranno tanti frutti fecondi. L’ordinamento giudiziario dobbiamo crearlo ex novo: risentirà subito effetti restauratori non essendo più sopraffatto dal potere esecutivo.

Una voce a destra. Bisogna pagarli i magistrati!

CONTI. Pagarli: brutta parola, ma parlerò anche di questo. Ora dico che la base di tutto è l’indipendenza, è l’autonomia. Il testo della Costituzione progettato dalla Commissione è un testo che si avvicina all’ideale. Con l’ordinamento proposto si può fare molto. Lasciamo i magistrati tranquilli, non diamo loro il pretesto di essere cattivi amministratori di giustizia; rendiamoli liberi con la loro responsabilità. Dobbiamo metterci in condizione (questa è forse una lacuna del progetto e bisognerà provvedervi), mettiamoci in condizione di poter discutere dal di fuori la Magistratura.

Non è vero che il Parlamento debba essere inerte in suo confronto; non è vero che autonomia ed indipendenza significhino l’impossibilità di elevare anche accuse contro la Magistratura.

A questo proposito bisogna chiarire che la funzione, l’organizzazione, l’ufficio, del Ministro della giustizia non saranno ridotte: il Ministero dovrà sempre avere la possibilità di far valere i diritti dell’opinione pubblica, e la forza dello Stato deve intervenire contro l’eventuale tentativo di una deviazione della Magistratura dalle vie giuste. Questo deve essere il nostro proposito. Non mi intrattengo nell’esaminare la portata del progetto a questo riguardo. Sono pratico: al progetto ci avvicineremo man mano che si discuteranno gli emendamenti e tutte le norme che sono proposte dovranno essere discusse opportunamente.

Il progetto dev’essere migliorato anche in questa parte; si ricordi sempre che la Magistratura ha diritto alla sua indipendenza ed alla sua autonomia.

Dio mio, ci sono colleghi, molti colleghi i quali dicono, dicevano, dissero – anche nelle sedute della sezione della Sottocommissione che doveva preparare il progetto – dicevano e dicono: ma Pilotti!? Non ce n’è uno solo di Pilotti, purtroppo!

Sissignori, Pilotti ed altri sono ostili alle istituzioni repubblicane: ma tanti altri magistrati sono repubblicani convinti, tanti altri comprendono che la Repubblica è affermazione del diritto, che la legge davvero è uguale per tutti.

Chi sa quando tutti i magistrati comprenderanno? Ma dobbiamo, possiamo tradire i principî perché la Cassazione vuole essere ostile, perché alcuni magistrati vogliono essere ostili! Dobbiamo forse allarmarci di ciò? Dio mio! noi li bocceremo in diritto costituzionale (Ilarità); diremo che sono dei grandi giuristi; ma che sono asini nel considerare le cose politiche.

Dovremmo dire la stessa cosa anche nei confronti di italiani i quali non comprendono ancora il valore della grande conquista che l’Italia ha fatto con la Repubblica, i quali non hanno capito che questa è possibilità di sviluppo della nostra vita sociale e politica, di progresso di tutte le istituzioni. La Repubblica vuol dire che sono abbattuti gli ostacoli al progresso morale e politico degli italiani. V’è chi parla senza riflessione di guerra civile; è facile rispondere che, proprio se non fossimo ora in regime repubblicano, avremmo oggi le squadre armate che partirebbero dal Quirinale per opporre resistenza al progresso del Paese.

Non si parli di guerra civile, perché non sono possibili le cospirazioni della casa reale con gli altri fautori della politica forte, della politica armata contro i lavoratori. Non sarà possibile più il fascismo in Italia. Non sarà più possibile perché non ci saranno più le forze dello Stato ad organizzarlo, perché il fascismo fu organizzato dallo Stato monarchico, fu organizzato da casa Savoia, dai principi di casa Savoia. (Visi applausi).

Armiamoci invece della nostra più grande serenità e procediamo verso la costituzione di una grande, indipendente, autonoma Magistratura.

Ma – me lo permettano i colleghi – dalle nuvole dove molti hanno vagato, scendiamo al pratico e vediamo come potrà funzionare questa grande istituzione. Ho sentito domandare da alcuni: Ma non esisterà, dunque, più il Ministro della giustizia? Ma che modo è questo di veder le cose!

Se potessi fare quel che penso, io vorrei che domani non ci fossero più Ministeri e specialmente così pletorici e così sovraccarichi di faccende come ci sono ora. Ma, che cosa sarà questo Ministero della giustizia? Niente, si dice. Il povero ministro dovrà andare al palazzo di Via Arenula per guardare le mura e tornare a casa tutto sconsolato perché non sarà più il Ministro arbitro della giustizia. Niente affatto, signori. Con l’organizzazione della Magistratura che è in progetto, il Ministro avrà sempre molte cose da fare: ed egli sarà l’altissimo, vigilante preside all’amministrazione della Giustizia.

Al Ministero resteranno assegnate le importanti funzioni che oggi esercita, meno una. Avrà innanzitutto il compito dell’interpretazione legislativa, darà pareri sull’interpretazione delle leggi; farà funzionare le commissioni di studi legislativi, continuerà la collaborazione alla preparazione di provvedimenti legislativi e di regolamenti; avrà sempre rapporti con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e coi vari Ministeri, col Senato e con la Camera, ecc.

Al Ministero funzionerà sempre l’ufficio per la pubblicazione delle leggi e dei decreti, della Gazzetta Ufficiale; per l’esame degli atti da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale; per la raccolta delle leggi; per le registrazioni alla Corte dei conti; e funzioneranno la direzione e redazione della Gazzetta Ufficiale.

Al Ministero funzionerà sempre l’ufficio di disciplina delle professioni. Dovrà istituirsi un nuovo ufficio per i rapporti con la Magistratura. Ecco una disposizione che sarà forse necessaria nel nostro progetto.

Dovrà sempre funzionare l’Ispettorato generale per l’ispezione degli uffici giudiziari, degli archivi notarili e, in genere, degli uffici dipendenti e vigilati dal Ministero.

Un ufficio dovrà cessare al Ministero della giustizia: l’Ufficio superiore del personale che dovrà essere affidato alla stessa Magistratura.

Dovrà essere conservata la direzione generale degli affari civili e del notariato; degli archivi notarili; delle spese di giustizia; dei servizi degli ufficiali giudiziari e degli uscieri di conciliazione; dei locali e archivi giudiziari.

Non vi posso trattenere su questo punto; ma non vogliamo pensare anche a questa grande necessità e al dovere di dare all’amministrazione della giustizia in ogni luogo sedi degne? In Italia si amministra la giustizia in sedi indegne. È proprio dalle piccole cose, onorevoli colleghi, che si deve cominciare a restaurare il prestigio della giustizia.

Ma a proposito di prestigio voglio subito fare una recisa affermazione: voglio dire che bisogna provvedere al trattamento economico dei magistrati in modo serissimo. Se non si penserà a risolvere questo problema, sarà vana ogni riforma. Il magistrato deve avere assegni (mi rifiuto di usare il vocabolo stipendio) superiori di gran lunga a quelli percepiti dai più alti funzionari dello Stato. E guai se non sarà così. Il magistrato deve essere tranquillo: deve vivere in condizioni di agiatezza. E non deve essere considerato un impiegato, un funzionario, un dipendente dello Stato: deve riconoscersi nel magistrato un mandatario della giustizia, fuori di tutti i quadri. L’orribile condizione dei magistrati deve finire. E basta con le promesse. È tempo questo di attuazioni serie, di riforme profonde.

Insisto su questo tema, onorevoli colleghi, dicendo che questo problema deve essere risolto in modo integrale. Qui a Roma, signori, dove è la Suprema Corte di cassazione, anche io ritengo che il primo presidente debba aver dimora in uno dei più bei palazzi di Roma. Quando il Presidente della Repubblica si trasferirà al Quirinale, il palazzo Giustiniani dovrebbe essere destinato al Primo presidente della Corte di cassazione, al Procuratore generale della Repubblica. I magistrati tutti devono avere abitazioni decorose.

Voi m’intendete. Così parlando io penso a una vera elevazione della condizione anche economica dei magistrati. Essi debbono potersi vestire, come il Machiavelli, degli abiti migliori quando si apprestano nei loro studi a stilare le loro sentenze! Oggi non possono scegliere abiti.

Ma io debbo ritornane a parlare, per concludere, del Ministero della giustizia. Oltre le direzioni e gli uffici che ho enumerato, ricordo la direzione degli affari penali e del casellario; ricordo, in modo speciale, la direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena (eccoti sodisfatto, amico Merlin!); per i fabbricati e locali carcerari; per le manutenzioni e contratti; per i detenuti e i condannati; per misure di sicurezza detentive e preventive; per le carceri mandamentali.

Come vedete, o signori, il Ministero della giustizia non finirà! La funzione del Ministro sarà di grande importanza. E lo sarà soprattutto dal punto di vista politico. Questo è un punto sul quale desidero dire una parola chiarissima.

Sì, autonomia, indipendenza della Magistratura. Sì, Consiglio Superiore della Magistratura: sì, e composto anche in maggioranza di magistrati: io vorrei che esso fosse composto in maggioranza di magistrati. Tutta la libertà, tutta l’indipendenza! Ma non pensano neanche essi, i magistrati, che si possa costituire una casta chiusa e impenetrabile! La Magistratura non deve essere una casta chiusa, non può essere una casta chiusa! Bisognerà provvedere con una parola della Costituzione, con leggi opportune, al momento della organizzazione – per via di legge – dell’ordinamento giudiziario, bisognerà provvedere in modo che tra l’organizzazione autonoma della Magistratura, tra il Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministro sia stabilito formalmente un rapporto costante, attuata una relazione costante. Bisogna stabilire l’obbligo di rapporti periodici, bisogna stabilire che vi sia la comunicazione di tutti gli atti e provvedimenti del Consiglio Superiore della Magistratura, anche di quelli non necessariamente dovuti; che da parte del Consiglio della Magistratura si senta la sovranità dello Stato, si comprenda, si senta, si voglia che il Ministro di grazia o giustizia deve avere l’alta vigilanza su tutto l’ordinamento giuridico, e diritto di tenere gli occhi sulla Magistratura, che potrà in ogni momento essere esposta al giudizio del Paese.

L’indipendenza e l’autonomia deve consistere nel taglio netto di quel cordone ombelicale per il quale il Magistrato era soggetto all’autorità e al prepotere del Governo. Questa deve essere l’indipendenza; ma, per il resto, deve sempre esservi una grande relazione fra Magistratura e Stato, una grande relazione cordiale, che mi auguro sempre più cordiale, ogni giorno di più cordiale, man mano che la Magistratura capirà che è la Magistratura della Repubblica italiana, non è più un organo esecutivo e subordinato, ma è una voce che dice la parola della giustizia al popolo italiano; man mano che capirà che si tratta di ridare al popolo italiano questo conforto dopo tante ingiustizie: il conforto che la giustizia in Italia è finalmente una cosa seria!

Onorevoli colleghi, spero di non avervi trattenuto troppo, ma queste sono le idee che ho voluto chiaramente esprimervi. Siamo tranquilli! Quando voteremo gli emendamenti, non lasciamoci trasportare da faziosità, da preconcetti, da risentimenti, da rancori. Non restauriamo il Paese facendo una gran volta senza i sostegni necessari per la sua solidità. Noi dobbiamo costruire una volta capace di sostenere lutti i pesi e di resistere ad ogni evento. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare allo svolgimento degli ordini del giorno, che sono abbastanza numerosi.

Rammento ai presentatori degli ordini del giorno che il Regolamento stabilisce un limite di tempo per lo svolgimento di essi.

L’onorevole Rubilli ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente:

1°) afferma – nell’esame della legge per la Costituzione dello Stato, la quale mira principalmente a stabilire i diritti e le guarentigie fondamentali – che l’Amministrazione della giustizia penale deve ritenersi preminente sopra ogni altra mansione o espressione giudiziaria, poiché la libertà dei cittadini vale assai più di qualsiasi contesa di carattere economico o patrimoniale, e perciò ad essa debbono essere preposti i migliori magistrati, non esclusi i capi dei collegi giudiziari, almeno per i dibattiti di maggiore entità, salvo a modificare opportunamente i criteri sinora seguiti per la carriera e le promozioni, i quali danno eccessiva importanza alle sentenze civili;

2°) considera altresì che l’istituzione dei giurati rappresenta un grave problema, che non va risolto con criteri politici di male intesa democrazia, ma esclusivamente con criteri tecnici e giuridici; quindi ne ordina lo stralcio dalla legge costituzionale con la soppressione dell’articolo 96 e col rinvio alla legge che regolerà il funzionamento delle Corti d’assise».

Ha facoltà di svolgerlo.

RUBILLI. Onorevoli colleghi, se non mi è riuscito di prendere la parola nella discussione generale, che si è chiusa ieri, prima che si arrivasse al mio turno, non mi dispiace affatto, perché la discussione è stata tanto elevata e tanto ampia che non vi era affatto bisogno della mia parola; meglio da parte mia apprendere ed ammirare, anziché parlare. Mi dispiace per una sola cosa, perché avrei desiderato richiamare tutta l’attenzione dell’Assemblea sulle condizioni veramente miserevoli dell’amministrazione della giustizia dal punto di vista finanziario: magistrati mal pagati, locali per lo più angusti e indecenti, mobili sudici, personale di cancelleria insufficiente per numero; talora poi si arriva al punto che manca persino la carta. I processi sono scritti sulle carte annonarie fuori uso, e qualche volta ci è dato di assistere allo spettacolo di un magistrato che esce dalla camera di Consiglio e gira per vari uffici nella ricerca affannosa di mezzo foglio di carta per scrivere il dispositivo della sentenza. Il Ministro del tesoro non si spaventa neppure se si deve provvedere a 22 o 23 Parlamenti regionali, ma quando ha la richiesta anche di mille lire per l’amministrazione giudiziaria ci pensa 8 giorni e molto frequentemente le nega. Tutte le economie sono fatte sul bilancio della giustizia. Ad onta di ciò l’amministrazione giudiziaria in Italia funziona e funziona bene, per i sacrifici, l’abnegazione, le virtù e i meriti degli uomini che vi sono preposti, non esclusi gli avvocati. Questo avrei desiderato semplicemente dire e dimostrare meglio, se io avessi potuto prendere la parola nella discussione generale. Ed avrei aggiunto che l’indipendenza dei magistrati non si discute neanche, è assiomatica, intimamente connessa alla Giustizia, ma deve essere indipendenza dall’alto e dal basso, dai poteri costituiti e dalla folla, che deve rispettare lo sentenze dei giudici. Ad ogni modo, per ora io debbo all’ordine del giorno, e l’ordine del giorno che ho presentato consta di due parti. Per la prima parte io non chiedo all’Assemblea che un’affermazione chiara, precisa la quale risponda non solo alla mia coscienza, ma, come credo, anche alla coscienza pubblica. Io chiedo che si dichiari in sede di legge costituzionale, ora che si stabiliscono specialmente i diritti e le guarantigie fondamentali di ogni cittadino, cioè nella sede più appropriata e più opportuna, che la giustizia penale è ritenuta preminente di fronte a qualsiasi altra mansione o espressione giudiziaria.

Altro è trattare di questioni patrimoniali, di una somma maggiore o minore da attribuire ad un cittadino, per esempio, altro è parlare di una servitù o di un possesso più o meno minuscolo, o insomma di un qualsiasi interesse privato, altro è un grande interesse pubblico come è quello rappresentato dall’amministrazione della giustizia penale.

Ora quello che avviene è completamente diverso da ciò che io sostengo, perché si verifica indiscutibilmente il contrario. Ogni preminenza è data all’amministrazione della giustizia civile per le grandi ed anche per le piccole cause.

Entrate dove si raccoglie una prova civile e voi troverete una bella stanza prima d’ogni altro, e vedrete un giudice serio, solenne, impettito, il quale ascolta con encomiabile calma, come si conviene del resto, le dichiarazioni dei testimoni, non più di sette o otto in una giornata, e forse anche meno. I verbali sono completamente in regola, tutte le domande sono accolte con una pazienza straordinaria, con una forma che veramente appaga l’animo e la coscienza. Andate invece a vedere che cosa avviene presso gli uffici del giudice istruttore in materia penale. Dinnanzi alla sua porta voi trovate sempre venti o trenta testimoni ed il giudice passa da un processo all’altro, da una materia all’altra. Non legge mai ai testimoni i verbali che ha raccolti, scrive lui in fretta, e per lo più non si fa assistere neppure da un cancelliere; molte volte è tale il lavoro da espletare che affida proprio al cancelliere il compito d’istruire almeno in parte un procedimento penale. E poi si arriva in tribunale o in Corte d’assise e si vede il testimone alle prese col Presidente nelle inevitabili contestazioni, perché non si sa se egli veramente abbia detto quello che sta scritto o quello che riferisce in udienza. Il Magistrato non ha colpa, perché avrebbe bisogno d’un collega con cui dividere il lavoro. Siete entrati mai in una prima sezione civile delle Corti di appello? Sembra di entrare in un’aula di accademia con un consesso di dotti. Il Presidente con grande solennità siede sulla sua poltrona ed è circondato da dieci-dodici consiglieri. E l’opinione pubblica dice che sono i migliori magistrati della Corte di appello. Andate in sezione penale: il numero appena ristretto e sufficiente per decidere le cause, e se per caso si ammala o è in ritardo uno dei consiglieri, l’udienza si apre due ore dopo e si va cercando affannosamente qualcuno che sostituisca il consigliere assente. Lo stesso avviene, fatte le debite proporzioni, nei tribunali. I capi di un Collegio giudiziario disdegnano assolutamente la materia penale. Non appare mai in udienza il Presidente del tribunale, non appare mai il Procuratore della Repubblica. Il Procuratore della Repubblica manda i suoi giovani dipendenti. Che cosa è adunque l’udienza penale? Credono di abbassare la dignità se vi partecipano e menomare il loro prestigio. Eppure la presenza, sia pure saltuaria, dei Capi del Collegio nei dibattimenti di prima istanza sarebbe utilissima, perché eleverebbe il tono, il prestigio, la dignità dell’udienza, ed affermerebbe meglio la solennità della giustizia, di fronte al pubblico che numeroso frequenta le aule nei dibattimenti penali; in pari tempo sarebbe anche di guida sapiente ai magistrati più giovani. Io oserei dire che anche il Primo Presidente della Corte di cassazione potrebbe talora degnarsi, senza vergognarsene, di dare uno sguardo sapiente ed autorevole ad una sentenza che ha condannato un imputato all’ergastolo, o comunque a pena grave. Non vi sarebbe niente di male, ed egli dedicherebbe assai bene un po’ del suo tempo ad una delle più elevate mansioni giudiziarie.

Invece, la giustizia penale è considerata come una bassa materia, mentre dovrebbe maggiormente appassionare, richiamando la più diligente attenzione. Vi esorto colleghi a pronunziarvi solennemente in questo senso. (Applausi).

Bisogna pur comprendere, e dovrebbero comprenderlo i magistrati, che la più alta funzione si verifica in loro appunto quando amministrano la giustizia penale. Che importa discutere e scervellarsi per vedere se una finestra deve stare un palmo più avanti o più indietro? Che cosa importa perdere talora qualche settimana per vedere se un albero appartenga al padrone di un fondo oppure all’altro proprietario in confine? Bisogna stare invece attenti, usare tutte le forze della coscienza e dell’intelligenza, quando si tratta di discutere della libertà e talvolta anche della vita d’un cittadino, perché la privazione della libertà non si sa mai quali conseguenze possa avere per l’imputato e la sua famiglia. Allora soltanto è grande la missione del giudice. Allora egli si eleva al disopra dell’umanità; assurge ad un livello più alto e diverso dagli altri uomini, e si arroga quasi un’aureola divina, perché egli solo si assume il diritto di giudicare il proprio simile e punirlo. (Approvazioni).

Io ho la massima riverenza per la cultura classica, per la dottrina, per ogni fonte del sapere, ma non credo che il mondo debba rimanere sempre legato alle antiche irremovibili tradizioni. Il mondo – lo sappiano pure i magistrati – è sempre in movimento; e la faticata interpretazione di una frase di Ulpiano o di una parola di Papiniano sulla quale si studia, si riflette e s’indaga forse per parecchi giorni è cosa cui rimane insensibile il popolo; mentre il popolo si commuove, se dubita che a torto si sia condannato un innocente o prosciolto un colpevole, ed anche se si sia dato qualche anno di più o qualche anno di meno di reclusione.

Bisogna dunque dirlo una buona volta: la giustizia penale deve essere preminente, ad essa devono essere dedicati e preposti i migliori magistrati. Non intendo fare distinzione fra migliori e peggiori. Io sono abituato a non dir male di nessuno e a dire bene di tutti quanti. Per me i magistrati hanno lo stesso valore. Ma vi è differenza fra i più anziani, i più esperti, quelli che hanno acquistato maggiore pratica nell’amministrazione della giustizia, ed i giovani, i novellini, quelli di prima nomina, i quali quasi sempre o per lo meno con maggiore frequenza sono mandati alle udienze penali.

Credo di avere espresso con chiarezza e con precisione il mio concetto.

S’intende però che i magistrati hanno anche il diritto di pensare alla carriera ed alle promozioni; all’uopo occorrerà seguire criteri diversi da quelli sinora in uso. Le sentenze civili, con ampio e spesso facile sfoggio di dottrina e di giurisprudenza, tratto in gran parte dalle studiate ed elaborate difese dei patroni delle parti, non hanno un valore decisivo, mentre difficile è la direzione d’un grave dibattimento penale e pesante il lavoro del giudice istruttore che fa sentenze semplici, quasi scheletriche, ma talora non dorme la notte per meditare sulle indagini raccolte e decidere se un imputato sia colpevole o innocente.

Passo ora alla seconda parte dell’ordine del giorno: il giudizio della Corte di assise. Se n’è parlato molto, è vero; ma, onorevoli colleghi, non ci stanchiamo di parlarne ancora. Perché, specialmente per quanto riflette la Corte di assise, la giustizia penale è davvero una cosa tremenda; bisogna dedicarvi ogni attenzione, ogni energia, affinché essa risponda sicuramente alle esigenze della nostra coscienza e della coscienza del popolo che in regime democratico ha al riguardo i suoi innegabili diritti.

Vi dico immediatamente che per la Corte di assise io vedo, sì, il problema di giurati, che è grave, importante ed anche nella divergenza delle opinioni manifestate dà luogo sempre ad una grande perplessità; ma vi è ancora un altro problema, se non più grave, egualmente grave, il problema dei Presidenti, il problema dei rappresentanti il pubblico ministero. Perché per la Corte di assise occorrono attitudini non comuni, occorrono magistrati che siano educati e specializzati allo scopo di potere attendere ad una mansione irta delle più grandi difficoltà, che sappiano nei più complessi dibattiti fronteggiare anche i più grandi avvocati, i quali non sono pochi in Italia; e quindi, in confronto a loro, che sappiano resistere efficacemente, quando bisogna resistere, e cedere solamente quando la legge lo consenta o lo imponga.

Ora, non so se possono valere le impressioni che noi abbiamo, amico Giovanni Porzio, non so se possano soccorrerci le esperienze che ci vengono date dal lungo esercizio professionale e ritenere che la nostra non sia una illusione.

PORZIO. Credo di sì.

RUBILLI. Ebbene, se ricordiamo i primi anni di professione e li paragoniamo coi tempi d’oggi, ci pare che man mano la pianta del Presidente di Corte di assise si vada diradando ed anche quella dei Procuratori generali, non per colpa di alcuno o per deficienza di persone, ma perché si tratta di un lavoro che richiede doti le quali non sempre si trovano anche in uomini di cultura elevata.

L’accertamento sicuro della verità è in gran parte legato alla guida accorta e serena di un Presidente.

Avviene lo stesso anche nella professione forense. Vi sono tanti avvocati penali intelligenti e valorosi i quali pur non si azzardano a cimentarsi nelle Corti di assise. Trattasi di un ambiente diverso da tutti gli altri ambienti giudiziari, ed è perciò che dovrebbe esservi presso ogni Corte di appello un nucleo di magistrati che si vada addestrando unicamente per i servizi di Corte d’assise. Grave errore mandare alle Assise un sostituto procuratore generale per una sessione e poi adibirlo in altri incarichi, e farvelo ritornare solo a lunghi intervalli; tutta l’accusa, specialmente se non vi è costituzione di parte civile, è affidata al procuratore generale di fronte agli sforzi di energiche difese di grandi difensori. Ho visto in Corte di assise magistrati dapprima incerti, poi dopo qualche anno di costante, non saltuario lavoro, apparire ben diversi, ed assai bene allenati anche in contrasto con avvocati della più alta fama. Occorre che essi acquistino l’abito professionale per le Corti d’assise.

Per quanto riguarda i giudici popolari io credo non ci dobbiamo arrestare soltanto a vedere se convenga o meno ripristinare la giuria. Il quesito, secondo me, è un altro, o meglio va posto in un altro modo. Vogliamo o pur no l’intervento di giudici popolari per i giudizi della Corte di assise? Quando avremo dato una risposta affermativa a tale quesito, esamineremo sotto quale forma ed in qual modo, e con quali garanzie i giudici popolari debbano intervenire.

Ora, o signori, non è esatta la frase che lanciava, o meglio ripeteva, giorni fa l’onorevole Gullo nel suo ampio, complesso, magnifico ed elevato discorso; per lo meno e per quanto ora riguarda il nostro esame non è completamente esatta. Egli diceva: non libertà e non giuria: non giuria e non libertà.

No! È esatta solo la prima affermazione: non libertà e non giuria. Infatti non potete avere in tempi di tirannia, il giudice popolare. Ma non è esatta la seconda frase: non giuria, non libertà, perché la libertà non è affatto incompatibile con l’assenza del giudice popolare. Vi può essere sempre un regime libero e democratico, vi siano o non vi siano i giudici popolari. (Approvazioni al centro). Bisogna non farsi trascinare da queste deviazioni. Se tutti siamo compenetrati della gravità del problema e tendiamo le nostre forze a risolverlo come meglio conviene, nell’interesse del popolo e della giustizia, noi dobbiamo completamente evitare l’inutile, pericoloso pregiudizio che l’abolizione della giuria possa metterci in contrasto con la democrazia. Non ha proprio che vedere un concetto politico con l’esistenza o meno della giuria. L’equivoco sorge soltanto in Italia, e sorge in questo momento, perché una sola cosa è vera: il fascismo abolì la giuria per ragioni politiche. Nessun dubbio su ciò, e tu amico Mancini, l’hai ampiamente spiegato ieri. Questo è esatto. Ma non dobbiamo farci dominare da una impressione di ripugnanza al passato regime e concludere che se per ragioni politiche la giuria venne abolita, noi oggi anche per ragioni politiche, o meglio per un semplice sbandieramento d’un concetto politico vogliamo ripristinarla; seguireste gli stessi erronei criteri di prima, correndo il rischio che la giustizia sia sopraffatta dalla politica. (Rumori a sinistra). Cercate di non ingannarvi. Ve lo ripeto, è verissimo: non libertà, non giuria, ma non è vero: non giuria non libertà.

GAVINA. E la fonte dove la prende?

RUBILLI. Fonte di che? Fonte di soluzione del problema? La prendo dalle esigenze giudiziarie, dall’esperienza del passato, da quello che la nostra mente sa trovare di meglio per il più regolare e più saggio funzionamento delle Corti di assise.

Ma voglio farvi a questo punto un’altra osservazione. È vero, o è una semplice mistificazione, che noi ci proponiamo soltanto di risolvere il problema in esame nell’interesse della giustizia? Ebbene allora facciamo in modo che ciascuno possa esprimere liberamente le proprie opinioni ed esporre il frutto della propria, lunga esperienza professionale. Che significano queste agitazioni e queste eccitazioni, se qui non vi è un dibattito di partito e non si agita neppure una passione politica? Discutiamo con la maggiore serenità possibile, e perché il nostro voto sia consapevole e ponderato, cerchiamo di giungervi con quella calma che è indispensabile.

PORZIO. Abbiamo detto che si rinvia.

RUBILLI. Questo è il mio ordine del giorno; è questo che dico io, e voglio sperare che la mia proposta sia accolta anche dalla Commissione, con rinvio alla Camera legislativa.

PORZIO. Insomma, voi volete una giuria e volete impedire che vi sia un appello. Voi siete dei metodi, né più né meno. (Interruzione del deputato Mancini).

RUBILLI. Proprio mentre sto dicendo che ci dobbiamo mantenere calmi e sereni, si agitano maggiormente gli animi! (Interruzione del deputato Porzio). E con uno scambio di vivaci interruzioni reciproche, senza nulla concludere, perché l’uno non riuscirà mai a persuadere l’altro, vi distraete dall’essenza della questione.

Credo indispensabile – questa è la mia opinione – l’intervento del giudice popolare nei dibattimenti di Corte d’assise; indispensabile dice troppo, ma certo assai utile. Il Codice, di qualunque legislatore, non può completamente catalogare la grandissima immensa varietà dei fatti delittuosi, che hanno sempre un profilo assolutamente diverso, per cui ogni fatto si distingue dall’altro. Ora, è opportuno che nei grandi dibattiti da cui possono derivare pene gravissime, siano talora contemperati i criteri di una rigorosa giustizia con criteri di equità specialmente in circostanze eccezionali che nella legge scritta non trovano esatto riscontro, ma trovano esatto, imponente riscontro nella pubblica coscienza.

So di essere con ciò anche in contrasto con l’amico Porzio che, non so perché, vorrebbe affidato il giudizio di Corte d’assise soltanto a cinque magistrati anziani, ma resto fermo nella mia opinione, e ritengo che sia un bene l’intervento, nei dibattiti penali più importanti, del giudice popolare. Si tratterà di vedere sotto quale forma, se giuria o assessorato, ma, secondo me, il problema va delineato proprio in questo senso: utilità dell’intervento del giudice popolare, discussione se tale intervento debba attuarsi in forma di giuria o in forma di assessorato. E dico francamente che a quest’ufficio di giudice popolare, secondo me, debbono essere completamente escluse le donne, non per la vecchia favola – per carità – della inferiorità della donna. Questa è una favola che ha fatto ormai il suo tempo e non sono mai riuscito a sapere, in quale secolo e dove sia nata quella testa amena a cui venne in mente di distinguere fra sesso debole e sesso forte, quando poi ho notato nell’umanità che non vi è stata nessuna forza maschile che abbia saputo resistere al fascino di una donna, (Si ride) e quando ho visto altresì che non vi è alcuno che non sia disposto a piegare i ginocchi ai piedi suoi! (Si ride). Quindi, non è per la vecchia favola, ormai tramontata, e da secoli, dell’inferiorità della donna, che io vorrei escluderla dall’ufficio di giudice popolare; non se ne allarmino perciò le colleghe presenti nell’Aula.

Io vengo a questa conclusione per due motivi. Primo, perché, sebbene la donna tenda a mascolinizzarsi, anche negli atteggiamenti e negli abiti, e cerchi persino di rinunziare per quanto può alla sua attraente femminilità, qualche cosa rimane che insanabilmente ed organicamente la distingue e la distinguerà sempre dall’uomo, e che si riflette sulla sua sensibilità, tanto che si è detto ovunque che tutto è possibile, tranne che una donna diventi uomo, e viceversa.

Ora cadono troppo di frequente le lacrime sulle gote delle donne, e non so se esse sappiano e possano resistere, e non farsi travolgere dal sentimento in Corte di assise dove si svolgono i più terribili drammi dell’umanità, dove palpitano i più grandi dolori e le più grandi sventure della vita. Come giudice popolare, quindi, io non chiamerei mai la donna. Secondo: sono contrario ad ammetterla anche per una difficoltà pratica: credete voi che sia proprio facile di avere in Assise una povera madre di famiglia, traendola per un mese o un mese e mezzo dalle sue occupazioni domestiche, quando non tutte le signore possono avere una cameriera fidata o una governante a cui assegnare la propria casa e la cura dei propri figliuoli? Credo che se di diverso avviso dovreste ridurvi ad ammettere solo le donne nubili.

Ma poi arriverebbero le donne in Assise senza preparazione, senza attitudini, senza capacità ad orientarsi, né potrebbero facilmente formarsi; perché chiamate senza dubbio a lunghi intervalli. Di fronte al debito che specialmente se tra i più gravi, distrugge due famiglie, ed apporta rovina per la vittima e per il colpevole, la donna potrebbe involontariamente cedere alla sua troppa squisita sensibilità.

FEDERICI MARIA. Ma per esercitare la giustizia ci vuole proprio la sensibilità!

RUBILLI. Tutt’altro, è proprio il sentimento che d’ordinario bisogna mettere da parte. Lasciamo stare, quindi, le donne nella pubblica amministrazione ed anche in questa Assemblea Nazionale, dove con simpatia e deferenza, come meritano, sono state da ogni parte accolte, ma escludiamole eventualmente dalla giuria o dall’assessorato. (Interruzione del deputato Bertini).

No, Bertini, io sarei disposto a credere la donna più eccessivamente severa, che eccessivamente indulgente, ma temo che indulgenza o severità possa essere determinata più dal cuore che dal cervello. È un timore e non dico che sia proprio così! (Interruzione della deputata Federici Maria) Se non è vero tanto di guadagnato!

Ma se abbiamo accolto le donne come colleghe in questa Assemblea ed anche cordialmente, potremo accoglierle con gli stessi sentimenti di cavalleria anche in tribunale o in Corte d’assise, qui però sempre come giudici togati dopo provata carriera, mai come giurati assessori.

Io ho firmato un ordine del giorno ben volentieri in questi sensi per mio convincimento ed anche per cortesia verso una egregia collega.

Anzi a me sembra in verità che al riguardo il problema sia di già risolto e non abbia bisogno di ulteriore esame, occorrendo al riguardo un’affermazione soltanto dal punto di vista formale. Abbiamo ammesso la donna come avvocato nelle aule giudiziarie; le abbiamo dato ormai la toga che per esse rappresenta un diritto acquisito.

Una voce. Ma quante ce ne sono?

RUBILLI. Quelle che sono, sono: poche come avvocati, saranno poche come giudici. Non so proprio per quale ragione ne vogliate molte. Ma bisogna tener presente che, a differenza di quanto potrebbe avvenire per i giudici popolari, al suo ufficio arriverebbe ben preparata, quando attraverso un regolare concorso, come gli altri concorrenti, essa abbia dimostrato di avere l’attitudine e la cultura necessarie per poter fare il magistrato.

Quindi, il problema per questa parte mi pare completamente eliminato; ma per quello che riguarda il giudice popolare non solo non è risolto, ma non si può risolvere favorevolmente.

Ora, le difficoltà che si presentano per ammettere il giudice popolare sotto forma di giuria non sono poche e derivano dalla lunga esperienza del passato. Badate che non vi parlo di maggiore o minore capacità a valutare ed a decidere: io voglio persino e credo di non concedere poco, partire dal presupposto che siano ugualmente capaci di giudicare i giurati e i magistrati togati, voglio mettere da parte gli elastici e divergenti criteri personali per la maggiore efficacia delle mie obiezioni.

E così, per essere maggiormente obiettivo, mi occupo solo del funzionamento, del modo come può essere organizzato un giurì e spiegare la sua attività, perché anche solo da questo punto di vista che del resto è il più importante, si vedono meglio le enormi difficoltà che si presentano, e ci impongono di riflettere ancora prima di concludere; ed il mio ordine del giorno è in questo senso.

Solo si potrebbe stabilire sin da ora che rimane respinta la soluzione di affidarsi esclusivamente ai magistrati togati, i quali troppo si irrigidirebbero nelle strette pastoie della legge scritta, come di già ho rilevato. Il giurì d’altronde, urta in una difficoltà assolutamente, ripeto: «assolutamente» insormontabile, che basterebbe da sola, ed anche a prescindere da ogni altra considerazione, ad ostacolarlo e farne respingere il ripristino; accenno alla mancanza di motivazione nelle sentenze, che sinora non è stata ben valutata in tutta la sua entità e in un tutte le conseguenze che può produrre.

Sì, è stato detto, è vero, che non si può negare all’imputato il diritto di sapere per quali ragioni è stato condannato, che non si vuole togliere neppure il diritto alla società di controllare perché mai un imputato è stato prosciolto da un gravissimo addebito; va bene. Ma non avete notato due cose, almeno non le ho sentite, non avete notato prima di ogni altro, che la giuria è in aperta violazione della nostra legge costituzionale. Forse ciò non si è visto, perché non siamo arrivati ancora all’articolo 101, ma ci arriveremo fra poco, appena si passerà alla discussione degli articoli. Nella legge costituzionale, adunque, non c’è soltanto l’articolo 96, di cui ci siamo occupati e ci stiamo occupando, ma vi è pure l’articolo 101, che non potrà non essere approvato, perché contiene un concetto di indiscutibile necessità giuridica.

Ora nell’articolo 101 è stabilito ed è detto tassativamente che tutte le sentenze, tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.

PERSICO. Si può dire: visto il verdetto della giuria.

RUBILLI. Ma non mi fate delle osservazioni che farebbero ridere. Visto il verdetto della giuria, si condanna oppure si assolve. E che significa, e qual valore ha ciò? Me la chiamate motivazione questa. Per motivazione, è elementare, s’intende dar conto del perché si condanna o si assolve.

Mi meraviglio di te, amico Persico; tu sei un vecchio e valoroso avvocato di Cassazione…

PERSICO. Abbiamo annullalo a centinaia e a centinaia i verdetti contradittori.

RUBILLI. Ma, amico Persico, fammi il piacere: sta a sentire, e poi rispondi anche tu. Alla contraddittorietà del verdetto si ricorreva talora e molto di rado, anche per un ripiego, quando appariva troppo evidente la possibilità di un errore giudiziario.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, prosegua, la prego.

RUBILLI. Ma è un’intolleranza che io non comprendo, da parte di chi vorrebbe per forza imporre la sua opinione preconcetta in una questione tanto delicata.

PRESIDENTE. Sono quaranta minuti che parla, onorevole Rubilli: non raccolga le interruzioni; non ci vuole poi un grande sforzo.

RUBILLI. Quaranta minuti che parlo, è vero, ma parecchi minuti se ne sono andati per le interruzioni.

E allora che cosa diremo? Che l’articolo 101 c’è per le piccole cause, per le piccole sentenze, mentre non c’è e non va in alcun modo rispettato per le grandi cause, per le grandi sentenze. Ma noi dobbiamo fare una legge costituzionale seria, che non sia contradittoria nelle varie disposizioni.

In secondo luogo c’è di più ancora, perché, con la mancanza di motivazione, voi togliete al condannato il diritto di ogni gravame. Non c’è più gravame, è certo; non c’è l’appello: ed in sostanza non v’è nemmeno un ricorso, poiché il ricorso in tanto può avere una qualche efficacia, in quanto vi è una sentenza motivata. E che ci sta a fare allora la Cassazione? Per le violazioni di legge? Ma le questioni di diritto non si trattano in Assise.

Il problema fondamentale, quello che davvero preoccupa, è uno solo: è colpevole o è innocente l’imputato? Le questioni ai giurati sono semplici, stereotipate formule che sempre identiche si ripetono.

Anche i beneficî e le attenuanti si riducono a questioni di fatto, per giunta incontrollabili se manca la motivazione. E allora? Le violazioni procedurali? Impossibili, perché, se anche il Presidente non ha dormito la notte e il cancelliere neppure ha dormito per essere andato a ballare, nessuno di loro può sbagliarsi: tutte le formalità procedurali sono scritte a stampa: si tratterebbe per questa parte, in Cassazione, di dare qualche fugace sguardo ad un formulario stampato.

Se dunque volete mantenere la giuria, è evidente che dovete prima modificare l’istituto della Cassazione, ed io pel momento almeno non vedo ancora come potrebbe essere opportunamente modificato. Credete forse che sia democratico dire ad un condannato all’ergastolo o a trent’anni: tieniti la tua pena, senza appello, senza ricorso, senza controllo, perché così vuole la democrazia, così impone la libertà? (Vive approvazioni).

MERLIN UMBERTO: Bravo Rubilli!

RUBILLI. Si lancia l’ipotesi di Cassazioni regionali, ma si tratterebbe sempre di giudici del diritto; e poi le aspetterete un pezzo; il Ministro del tesoro vi dirà che le Regioni, sì, e le Cassazioni, no.

Vedete, adunque, che l’inopportuno intervento della politica è soltanto una deviazione. Ma poi, giacché si parla in nome della democrazia e in nome della libertà, permettetemi che si insinui nell’animo mio anche il sospetto che si faccia con la giuria un poco la giustizia per i ricchi e non per i poveri: e questo neppure sarebbe un concetto democratico.

PERSICO. Questo lo dissi anch’io ieri.

RUBILLI. E lo ripeto ora io, amico mio: non so che cosa tu abbia detto, ma se è cosa giusta, meglio dirla ancora.

Non si può mai intendere dunque qual è il valore, la forza, l’efficacia, che ha il grande avvocato dinanzi ai giurati. E, naturalmente, i grandi avvocati se li possono procurare soltanto i ricchi. Ma, signori miei, se in una causa indiziaria un imputato avesse fatto appello, per esempio, ad Enrico De Nicola, quando egli esercitava la professione anche dinanzi alle Corti d’assise, o in una causa passionale invitasse te, caro Porzio, i giurati sarebbero così storditi da formidabili, travolgenti arringhe che finirebbero per lo meno col votare scheda bianca. (Interruzioni).

Io non voglio fermarmi ad inutili astrazioni, ma considerare soltanto quello che veramente è, quello che dalla pratica e dall’esperienza è dato raccogliere.

PORZIO. Già, perché non si accenna a vie sotterranee? Il guaio è che non diciamo la verità.

RUBILLI. Basta quello che ho detto; non occorre andar oltre, fermiamoci qui e non c’ingolfiamo nei sotterranei per lanciare sospetti, che meglio possono essere sostituiti da una critica obiettiva.

PORZIO. Non è che il magistrato sia infallibile, per carità!

Io chiederò di parlare per fatto personale.

RUBILLI. Nientemeno, provoco persino dei fatti personali in tema di giuria; il fatto personale non vi è, ma potrai egualmente, credo, replicare, se ti pare proprio utile.

PRESIDENTE. Onorevole Rubilli, non divaghi, la prego.

RUBILLI. So le pastoie regolamentari dei venti minuti per gli ordini del giorno, ma è un argomento di una certa gravità, questo di cui ci occupiamo.

PRESIDENTE. È da dieci giorni che lo si tratta.

RUBILLI. Cinque o dieci minuti di più o di meno, se permette, poi non guastano.

PRESIDENTE. No, si tratta ormai di un’ora.

RUBILLI. Allora, continuo per la sua bontà.

PRESIDENTE. Credo di darne la dimostrazione già da parecchio.

RUBILLI. Affermo delle verità, e non posso neppure ampiamente dimostrarle come vorrei, perché il Regolamento non lo permette. Ve le potrò spiegare meglio in privato, nelle nostre amichevoli, fraterne, conversazioni di corridoio.

Alla forza dei grandi avvocati va aggiunta, è connessa la mozione degli affetti, ed il giurato vota immediatamente, rapidamente dopo che il difensore, il quale ha in ultimo la parola con un privilegio incommensurabile di fronte ai giurati, ha sconvolto la folla, ha provocato talora anche l’applauso. La scheda è pronta e riempita, ma nello stato d’animo in cui il giudice popolare ha votato, che valore ha quel sì o no? È sul funzionamento, adunque, che richiamo la vostra attenzione. Questa è la situazione vera, palpitante. In un paese come l’Italia la grande eloquenza non è mai mancata e non mancherà mai col suo fascino travolgente. E se ne avvantaggeranno gl’imputati assai più delle parti lese, per lo più abbattute dal delitto nell’anima e nel patrimonio.

PERSICO. Si reagisce.

RUBILLI. La reazione però non è facile. E poi c’è, lo comprenderete, anche la difficoltà enorme per la ricusa, che rende sin dal principio poco agevole il funzionamento della giuria. Non potete non ammetterla: vi può essere un nemico dell’imputato o della parte civile, oppure qualcuno che risulti di cattiva condotta morale per informazioni date dalle autorità competenti; ma se non si può evitare in alcun modo la ricusa, quando l’avete ammessa, state certi che i migliori se ne scappano ed i peggiori rimangono.

Poi non sarà neppure facile averli, i giurati; spesso ce ne vuole di fastidio e di pazienza del Presidente, per avere cinque giudici popolari come assessori. Che avverrà nelle attuali difficoltà della vita, quando bisogna raccogliere una trentina di persone, tra professionisti, commercianti, industriali, ecc., e distoglierli dai loro affari per un periodo tutt’altro che breve?

PERSICO. Questo è malcostume!

RUBILLI. Allora, cambiate l’Italia. Io parlo di questo momento, nelle condizioni in cui ora ci troviamo.

PERSICO. Lo faremo passare.

RUBILLI. Fatelo passare… per ora è così; e quando sarà passato ritorneremo sull’argomento.

PERSICO. Metteremo la licenza liceale.

RUBILLI. Ma quello che più impressiona e preoccupa è il giudizio dalle cause indiziarie, tanto frequenti in Corte d’assise. Consentitemi, onorevoli colleghi, un solo esempio, che per sé stesso sarà sufficiente a chiarire il mio pensiero. Nel dicembre scorso mi sono occupato di una gravissima causa in Corte d’assise: delitto orrendo, assassinio di un vecchio, in una sola famiglia, in una casa di campagna, di due bambini di sesso diverso, di due giovani donne, la padrona e domestica, tra Calitri e Monteverde, in un bosco solitario e deserto.

Che ne sapete voi di questi paesi, dove il delitto si sprofonda in un imperscrutabile mistero? Voi conoscete Roma, conoscete le grandi e belle città. Nessuno ascolta, nessuno vede, è febbraio, la neve alta copre le case, rende impervie le strade, impossibili le comunicazioni.

Dopo due o tre giorni soltanto il fatto si scopre, arrivano in ritardo i carabinieri ed arriva il giudice dopo 8 giorni. Delitto raccapricciante, processo indubbiamente indiziario. Dopo un lungo dibattito di molti e molti giorni, di indagini delicate e scrupolose i giudici entrarono in camera di consiglio. Ne uscirono con un pronunziato preso ad unanimità, ma dopo parecchie ore di calma e serena valutazione, che poté tranquillizzare completamente la loro coscienza; e ciò ad onta dell’ora tarda, perché erano le undici di sera, quando apparvero nell’aula, consapevoli della loro responsabilità; dinanzi ad un pubblico enorme, ansioso e commosso, che si assiepava persino nei locali adiacenti alla Corte di assise, il Presidente pronunziò una sentenza di condanna all’ergastolo. La forma che si era seguita per giungere alla meditata decisione, rasserena l’animo ed appaga la giustizia, con innegabili garanzie. Che si può mai pretendere dai signori giurati cui offrite una scheda senza dar tempo alla benché minima riflessione, chiedendo un voto pronto ed immediato? Ripristinate per loro la camera di consiglio, che pur si dovette abolire per gl’inconvenienti cui dava luogo, e sarà peggio ancora; che ne può uscire da una tumultuosa discussione di una diecina di persone, senza un capo autorevole che la guidi ed in cui vi sarà qualcuno che in buona o mala fede cercherà d’imporre la propria opinione? Quanti giurati ho visti che poi si son pentiti di un voto dato in fretta e con scarsa ponderazione.

Ecco per quale ragione io propendo a ritenere utile – concludendo – che rimanga l’attuale sistema, il quale dà l’intervento del giudice popolare in grande maggioranza (sono cinque giudici popolari su due magistrati), ma con tutte le garanzie indispensabili per una retta, seria decisione.

È vero quello che disse ieri l’onorevole Mancini, che al principio con questo sistema si è verificato qualche inconveniente. Non sono stati molto frequenti i casi, ma pure qualche inconveniente ebbe a rilevarsi. Badate, però, che eravamo in tempo di tirannia, e la tirannia assume qualche volta forme epidemiche e contagiose. Vi sono i tiranni e i tirannelli, i gerarchi ed i gerarchetti, ed il Presidente della Corte di assise, di rado però, ripeto, si riteneva quasi rivestito di insindacabile autorità, tanto più che, come avviene sempre, distrutta la libertà, era quasi annientato, per lo meno assai diminuito, il diritto ed il prestigio della difesa.

Ma poi si è giunti ad un confortante assetto e gli inconvenienti originarii possono ritenersi quasi completamente eliminati. Si procede con notevole regolarità, e con pieno affiatamento tra giudici popolari e magistrati.

La materia certo non è semplice, e bisogna contentarsi del meno peggio. Del resto, se tenete presente l’ordine del giorno che ho ora svolto, vedete che io non sono poi, né voglio essere, un peccatore impenitente, io ho sempre delle facoltà mentali e morali che mi permettono la conversione. Quindi, se voi modificate l’istituto della Cassazione in guisa che io trovi una nuova garanzia sostituita a quella che togliete, abolendo la motivazione della sentenza, se riuscirete a scrivere delle norme che eliminino gli inconvenienti che si possono verificare, io accetterò volentieri una diversa opinione. Anche coi vecchi codici ho fatto tante cause, che non ho davvero nessuna questione personale contro la giuria. Pure preferendo, ed anche senza eccessivo entusiasmo, i sistemi attuali in Corte di assise, io potrò rassegnarmi ed anche con piacere a nuovi metodi, se migliorano e non peggiorano, se non si limitano a togliere, ma danno anche quello che occorre per garantire i diritti dei cittadini e della società. Però non è argomento questo che possa esaurirsi in sede di legge costituzionale; senza assumere pericolosi impegni, limitiamoci a concetti generali per il funzionamento della giustizia e riserbiamo alle leggi sulla Corte di assise la decisione sugli organi più adatti e più opportuni per il maggiore o minore intervento del popolo, sebbene siano popolo e vengano dal popolo anche i magistrati.

Onorevoli colleghi, è mio convincimento che non può mai sorgere, non è assolutamente possibile che sorga, un conflitto fra la democrazia e la giustizia. Ma se per caso stranissimo e per quanto inconcepibile, il conflitto sorgesse, pur essendo istintivamente democratico, perché i sentimenti democratici non li ho acquistati e li ho sentiti innati in me, connaturati nella mia coscienza, derivanti dal mio intimo, dal mio carattere, dalla mia indole, se, dicevo, questo conflitto dovesse sorgere, io sarei per la giustizia, perché è appunto la giustizia, la quale per sé stessa rappresenta il più saldo, il più sicuro fondamento, non solo della umana società, ma anche di ogni regime democratico. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, prima di dare la parola a un altro presentatore di ordine del giorno, vorrei pregare i colleghi di cercare con qualche sforzo di attenersi alle norme che regolano la nostra discussione. Noi abbiamo udito tutti con diletto l’onorevole Rubilli ed anche con interesse, ma l’onorevole Rubilli ha parlato di molte cose che non avevano nulla a che fare col suo ordine del giorno. Anzi, se l’ordine del giorno Rubilli aveva un significato, era proprio questo: non parliamo di queste cose; ne parleremo in sede legislativa. In realtà l’onorevole Rubilli ci ha anticipato il discorso che avremmo udito con grande interesse, quando egli sarà nuovamente eletto deputato della,nuova Camera.

Io vorrei che i colleghi stessero veramente all’impegno che assumono, quando scelgono un modo di intervento, e non cerchino di trovare, invece, con esso dei mezzi per eludere le disposizioni del Regolamento. Ed a questo proposito vorrei leggere, me lo consentano a titolo di informazione e un po’, direi, di nota piacevole, un vecchio resoconto della Camera che ho sott’occhio per indicare come si conducevano i nostri predecessori secondo le tradizioni del nostro Parlamento. Risaliamo dunque alla seduta del 6 maggio 1904.

Certo, non vi assisteva alcuno dei qui presenti, nemmeno dei più anziani, suppongo.

L’onorevole Donadio, un’ottima persona, sul processo verbale chiese dunque quel giorno la parola. E leggo ciò che disse. «Ieri, mentre parlavo, a causa dell’interruzione del collega Nofri, non udii il Presidente, quando mi fece presente che erano passati i cinque minuti prescritti dal Regolamento e continuai a parlare. Siccome non vorrei che questo atto potesse nemmeno lontanamente suonare come meno che rispettoso verso la Camera, ho chiesto la parola sul processo verbale per scusarmi e pregare che del fatto non sia preso nota dal resoconto».

Santa ingenuità! Onorevoli colleghi, di fronte a tanta ingenuità, non cerchiamo di essere troppo furbi noi! Fra la norma del Regolamento e l’arbitrio c’è evidentemente una via di mezzo, e noi l’accettiamo sempre; ma evidentemente non è una via di mezzo, posti i venti minuti concessi dal Regolamento, parlare, come ottimamente ha parlato l’onorevole Rubilli, un’ora intera! Ricordiamocelo, altrimenti non riusciremo a concludere i nostri lavori.

PORZIO. Chiedo la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PORZIO. Il mio fatto personale è semplice. Forse io mi trovo un po’ nelle condizioni dell’onorevole Donadio o in una condizione opposta, e cioè avrei dovuto domandare la parola per fatto personale ieri, dopo il discorso così eloquente del mio amico, onorevole Mancini.

Intendiamoci bene. Sostengo una sola cosa, quella di avere una giustizia possibilmente giusta, che non crei delle vittime, perché qui ci stiamo preoccupando molto dell’accusato, del condannato, a cui vorremmo spalancare le porte del carcere, e bisogna invece pur considerare le vittime, le quali molte volte sono deluse nelle loro legittime aspirazioni di giustizia e di equità. Ma tutta questa questione, diceva poco fa molto bene il nostro illustre Presidente, è da discutersi in sede legislativa, perché affermare in questo momentola giuria si può, ma anche volendola affermare, la questione risorgerà nuovamente quando si dovranno discutere le competenze, le possibilità di essa ed il suo armonizzarsi, come io ieri ebbi l’onore di accennare rapidamente e come oggi ha ripetuto l’onorevole Rubilli, con tutti quanti gli organi giudiziari cioè, la Sezione istruttoria e la Corte di cassazione.

Quello che mi è dispiaciuto, è stata una interruzione dell’onorevole Persico, il quale diceva: noi abbiamo avuto mille altre volte annullamenti in Corte di cassazione di verdetti dei giurati.

E faceva cenno a me, ricordando forse qualche causa nella quale anche io ho potuto ottenere l’annullamento, per contraddizione del verdetto.

Signori, ho ricordato il caso di Giuseppe Ceneri, uno dei più grandi giuristi ed una delle più grandi anime italiane, il quale era disperato, perché non riusciva a trovare un motivo per potere chiedere l’annullamento di un verdetto iniquo, che era stato emesso alla Corte d’assise di Bologna.

Allora, siamo tutti quanti d’accordo nel sostenere la necessità di un giurì con appello, un giurì con ricorso; ed allora è tutta questione di legislazione, che deve essere trasformata; e noi non possiamo in questo momento trasformarla, perché la dovremo discutere. La dovranno discutere coloro che verranno in seguito in questa Aula, speriamo meno sorda di quanto sia attualmente e meno bisognosa, onorevoli colleghi, di questi strumenti di tortura che io ho in questo momento dinanzi a me. Questo bisognerebbe fare, senza discutere tante cose le quali riguardano il merito. Quello che bisognerebbe fare è questo: inserire nell’articolo che il giudizio può eventualmente essere anche celebrato con i giurati.

Ieri, l’onorevole Mancini mi ha accusato di non essere un democratico.

MANCINI. Non ho detto questo: ho detto che la sua democrazia non è la nostra. Lei definiva una democrazia che non è la mia.

PORZIO. L’amico Mancini, al quale voglio bene e al quale sono legato da sentimenti di affetto, deve pensare che, quando si dice che il giurì deve essere composto di persone che hanno le qualità attualmente richieste, il principio antico della democrazia svanisce; e torneremmo a quel tale «demos», del quale abbiamo parlato ieri. Quindi ne parleremo a suo tempo, ne parlerete a suo tempo.

Occorre garantire l’interesse superiore della giustizia, consentendo che la sentenza sia motivata. Perché quando sento dall’onorevole Persico che è sentenza semplicemente l’applicazione della pena fatta dal magistrato, allora io dico: questa è la giustizia dell’avvenire, e questo è un diritto che io non conosco e non ho mai conosciuto. Chiamate sentenza il «visto il verdetto dei giurati, la Corte condanna a dieci anni di reclusione»? Questa è sentenza? E la motivazione dov’è? Ora, quando nel fanatismo si arriva a questo sproposito, resto a bocca aperta. Lei, signor Presidente, vorrebbe dire: «a bocca chiusa». Mi permetta una sola cosa: quello a cui sono perfettamente contrario è il sistema attuale. Me ne duole per l’amico onorevole Rubilli. Che cosa è questo giudizio ibrido? E che cosa sono quegli assessori? Io ricordai poco tempo fa, nel Congresso, una grande opera di Pirandello: «Sei personaggi in cerca d’autore». Invece il sistema attuale è questo: un autore in cerca di sei personaggi, per tanta commedia: e cioè la giustizia di uno solo. Ecco perché sono contrario a questa istituzione. Ringrazio il Presidente della bontà, ma credo di essermi sbrigato nei cinque minuti regolamentari.

PRESIDENTE. L’onorevole Bosco Lucarelli ha presentalo il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente afferma che la Carta costituzionale debba limitarsi a stabilire l’indipendenza del potere giudiziario come garanzia dei diritti dei cittadini, rinviando alle leggi sull’ordinamento giudiziario o sui Codici di procedura ogni altra disposizione».

Ha facoltà di svolgerlo.

BOSCO LUCARELLI. Ero e sono convinto che la Carta costituzionale dovrebbe affermare semplicemente l’indipendenza del potere giudiziario come garanzia dei diritti dei cittadini, rinviando alle leggi sull’ordinamento giudiziario e ai Codici di procedura ogni altra disposizione. Ma questo mio concetto, in fondo, è stato condiviso, in tema di esame di singole disposizioni durante la discussione generale, da autorevoli colleghi di tutte le parti dell’Assemblea. Però, pare che l’Assemblea non è orientata verso una pregiudiziale, la quale tolga senz’altro dalla discussione queste singole disposizioni. Quindi noi avremo di fatto che alle singole disposizioni vi saranno da questa o da quella parte, da questo o da quel gruppo delle proposte di sospensiva. E allora io, per non far perdere tempo all’Assemblea per una pregiudiziale, che non troverebbe consensi, ritiro il mio ordine del giorno.

PRESIDENTE. L’onorevole Zotta ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, considerato che la Corte costituzionale è un organo giurisdizionale, poiché esplica ed esaurisce la sua attività nella funzione di giudice; che per tale natura rientra nella sfera del potere giurisdizionale, il quale perciò viene ad essere costituito dalla giurisdizione ordinaria, dalla giurisdizione amministrativa e dalla giurisdizione costituzionale; delibera che i conflitti di giurisdizione siano risoluti, alla pari dei conflitti di attribuzione, dalla Corte costituzionale, la quale è l’organo supremo di giustizia, destinato perciò ad assumere il ruolo di suprema Corte regolatrice».

Ha facoltà di svolgerlo.

ZOTTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, devo trattare una questione di natura delicatamente costituzionale, che non è stata neanche sfiorata in questa dura discussione: parlo dei conflitti di giurisdizione.

L’istituzione della Corte Costituzionale con i poteri che il progetto le ha attribuito, pone in una nuova luce la questione dei poteri dello Stato, e suggerisce aspetti giuridici che qualche volta nel progetto non sono trattati con quella armonia, con quella conseguenzialità di effetti, che le premesse stesse esigono.

La funzione di giudicare fino ad oggi ha assunto due aspetti fondamentali: giustizia amministrativa e giustizia ordinaria. Il progetto ne aggiunge una terza: giustizia costituzionale.

Noi oggi, dunque, abbiamo tre ordini giurisdizionali: la giurisdizione ordinaria, la giurisdizione amministrativa, la giurisdizione costituzionale.

La prima fa capo alla Cassazione, la seconda al Consiglio di Stato, la terza alla Corte Costituzionale.

Ora, la Corte Costituzionale, che noi andiamo a istituire, fa parte del potere giurisdizionale o giudiziario, come fino ad oggi si è detto, oppure è qualcosa che resta al di fuori, costituisce un super-potere?

Io pongo la questione non per una dissertazione teorica, ma per trarne conseguenze immediate e pratiche.

E bisogna, anzitutto, stabilire cosa si intende per potere giudiziario.

Perché, se noi stiamo alla nozione, che prima si aveva della divisione dei poteri, allora la funzione del giudice si riduce a dirimere liti fra i cittadini ed a erogare pene contro i delinquenti. Ma, se noi superiamo questa visione e consideriamo che l’evoluzione degli istituti giuridici e democratici ha portato alla istituzione del giudice amministrativo, per la tutela del cittadino contro gli abusi dello Stato amministratore, e poi, oggi, alla istituzione del giudice costituzionale, per la tutela dei cittadini contro lo Stato legislatore, allora noi dobbiamo concludere che il potere giudiziario o giurisdizionale non comprende soltanto la funzione del giudice ordinario, ma anche quella del giudice amministrativo e del giudice costituzionale.

Sicché, si pone questa questione: quali rapporti intercorrono fra i vari ordini giurisdizionali? E, nel caso in cui avvengano dei conflitti fra di essi, chi ne è il giudice?

Ecco la questione, sulla quale io intendo richiamare l’attenzione.

Essa è stata risolta finora dalla nostra legislazione, deferendo il controllo e la risoluzione dei conflitti alla Corte di cassazione. Ma oggi, che sorge una Corte costituzionale definita come organo supremo di giustizia, dobbiamo ancora insistere nel ritenere la Corte di cassazione la suprema Corte regolatrice?

Dobbiamo ancora oggi ritenere che una delle parti in causa debba assumere il ruolo, nella decisione del conflitto che sorge tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo? Ecco il punto sul quale mi pare che il progetto non si sia neppure fermato, perché il progetto ha attribuito i conflitti di attribuzione alla Corte costituzionale, ma dei conflitti di giurisdizione non ha neppure parlato. Questo è l’aspetto più delicato del principio della divisione dei poteri. Il progetto ha solo fissato un articolo, l’articolo 102, il quale stabilisce la possibilità del ricorso contro tutte le decisioni degli organi giurisdizionali generali e speciali alla Corte di cassazione nelle forme volute dalla legge; ha voluto con ciò che siano devoluti alla Corte di cassazione anche i conflitti di giurisdizione? Se ha voluto intender questo, con esso, secondo me, ha commesso un errore, perché non vi è coerenza logica tra la disposizione che attribuisce i conflitti di attribuzione alla Corte costituzionale e questa che attribuisce i conflitti di giurisdizione alla Corte di cassazione. Non vi è coerenza logica e nemmeno ragione sostanziale, che possa giustificare questo provvedimento. Anzitutto non è conforme ai principi di giustizia che in una lite una delle parti assuma il ruolo di giudice. Se vi è un conflitto tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo, il giudice deve essere al disopra delle parti in contesa, non deve essere assolutamente una delle parti, tanto è vero che finora è stato vivissimo il disagio della dottrina e della prassi per la mancanza di un giudice che fosse al di fuori ed al disopra del conflitto, di quel giudice che invece in Francia, con criterio scientifico e con una sensibilità giuridica che direi, su questo punto, più raffinata, è stato riscontrato nel Tribunale dei Diritti. Ma, oltre a questa, vi è un’altra ragione: la soluzione adottata contrasta con le esigenze che il principio di gerarchia impone.

Il concetto di gerarchia è un’esigenza del nostro spirito, prima che una necessità di sistematica e di ordine e di armonia. Ora esiste una gerarchia delle giurisdizioni, come esiste una gerarchia delle norme giuridiche. Ebbene, in questa necessità di struttura gerarchica la Corte costituzionale, fra i tre ordini giurisdizionali esistenti, costituisce indubbiamente l’apice ed il vertice, perché è il supremo organo di giustizia. Quindi dobbiamo configurare oggi questa Corte costituzionale come la suprema corte regolatrice, perché, se finora si giustificava il fatto che la Corte di cassazione potesse essere considerata la suprema corte regolatrice, in quanto mancava un terzo giudice neutro, oggi, che noi istituiamo la Corte costituzionale, dobbiamo ravvisare in questa il giudice che sia al di fuori e al disopra delle parti in contesa. E tanto è questo ragionamento, che se voi esaminate attentamente le conseguenze che derivano dalla posizione presa nel progetto, vi trovate subito dinanzi ad un assurdo, in quanto nel progetto è stabilito all’articolo 102, che vi è la possibilità di ricorrere contro le decisioni di tutti gli organi giurisdizionali. Ora, applicando questa disposizione, noi ci troveremo di fronte a questa conseguenza strana, aberrante. La Corte costituzionale è indubbiamente un organo giurisdizionale, perché esaurisce la sua attività nella funzione di giudicare, ed allora in base all’articolo 102 sarebbe ammesso il ricorso in Cassazione contro le decisioni della Corte costituzionale!

DOMINEDÒ. Questo è eccessivo!

ZOTTA. Non è eccessivo, perché se voi date la vera fisionomia a quest’organismo che istituite, voi non potete prescindere dal denominarlo organo giurisdizionale, e poiché all’articolo 102 avete detto che le decisioni degli organi giurisdizionali sono suscettibili di ricorso alla Corte di cassazione, contro le decisioni della Corte costituzionale, stando a questo progetto, voi potete ricorrere alla Cassazione. Il che significa dire che la Cassazione ha la possibilità di riesaminare, di rivedere i pronunciati della Corte costituzionale in materia di costituzionalità delle leggi, sulla soluzione di conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato e fra le varie Regioni, finanche sulle decisioni di responsabilità nei confronti del Presidente della Repubblica e dei Ministri che sono accusati, come dice il progetto, a norma della Costituzione. Se voi volete sfuggire a questa conseguenza, dovete approvare un articolo in cui si stabilisca precisamente una eccezione al principio, e si dica che le decisioni di questo organo giurisdizionale, che è la Corte costituzionale, non sono passibili di ricorso per Cassazione.

Ora, si potrebbe dire che solo in questo modo si sfuggirebbe a questa argomentazione, e cioè dicendo che la Corte costituzionale non è un organo giurisdizionale. Ed allora, che cosa è? È un potere che è al di fuori della triplice categoria della divisione dei poteri? Che cosa è questa Corte costituzionale? Questo bisogna precisare, perché noi abbiamo un pilastro fondamentale, che è la divisione dei poteri, ed è un errore volerne uscire, perché esso costituisce una base dello Stato di diritto e di ogni reggimento democratico, perché non si può pensare che in un organismo sociale, giuridicamente costituito, l’attività umana si possa spiegare diversamente da quella che è la sua triplice caratteristica manifestazione: o ordinare, o eseguire, o giudicare. In ogni organismo sociale o politico, il grado di libertà o di democrazia, è dato precisamente dalla misura in cui questi concetti sono tenuti divisi, oppure si sovrappongono, oppure s’oppongono. Ora, in un regime democratico, quale è il nostro, l’ordinare spetta alla legge attraverso il potere legislativo, l’eseguire spetta all’amministrazione attraverso il potere esecutivo, il giudicare spetta alla decisione attraverso il potere giurisdizionale. E questo si manifesta oggi in una triplice Magistratura: Magistratura ordinaria, Magistratura amministrativa, Magistratura costituzionale. Ecco come l’elemento costituzionale-giurisdizionale non sfugge da quella necessità di inserimento in uno dei tre poteri, e precisamente nel potere giudiziario, che ora, con maggiore proprietà, potremmo chiamare potere giurisdizionale, essendo nell’uso la parola «giudici» designata per indicare precisamente la funzione del giudice ordinario.

È inutile parlare poi di una tesi assurda, che sia un superpotere, perché il superpotere non esiste se non nella volontà popolare, che è la fonte di ogni potere, e solo nei rispetti di questa è possibile parlare di un superpotere come di una forza irresistibile, che supera ogni potere costituito.

Una voce a sinistra. La pratica porterà poi al superpotere.

ZOTTA. Sarà questione anche di disciplina dell’organismo. Ora parliamo di questo organismo nella sua fisionomia: è un organismo che giudica, e questo è essenziale ai fini della dimostrazione che io propongo. Mi si potrebbe dire semmai questo: ma voi ammettete l’esistenza di tre ordini giurisdizionali, in questa maniera: voi vedete la necessità della difficoltà della unicità di giurisdizione. Su questo punto di vista sono stati accennati degli orientamenti in questa Assemblea. Vi sono preoccupazioni che questo principio della unità venga ad essere leso. Io su questo dirò qualche cosa che può sembrare anche strana: la unità di giurisdizione, onorevoli colleghi, non è una garanzia, oggi, allo stato attuale del nostro diritto pubblico; non è una garanzia di libertà e di democrazia, perché la esistenza di un giudice amministrativo e l’esistenza di un giudice costituzionale accanto al giudice ordinario rappresenta sicura guarentigia della difesa dei diritti e degli interessi del cittadino di fronte allo Stato amministratore e di fronte allo Stato legislatore. Sopprimerli o assorbirli: sono queste le tesi varie che sono state prospettate in questa Assemblea. Sopprimerli o assorbirli? Significa però togliere queste garanzie al cittadino.

Ed intanto bisogna considerare questo: che lo Stato deve sottomettersi al diritto. Lo Stato è un uomo onesto, si diceva in Francia. Sottomissione, quindi, al diritto ed alla legge, e questa si può avere soltanto quando vi sia uno strumento idoneo, e questo strumento è dato appunto dal giudice amministrativo e dal giudice costituzionale.

Noi parliamo di questa questione proprio ora che istituiamo una Costituzione, che ha un carattere rigido: la necessità della istituzione della Corte costituzionale si impone, perché noi abbiamo delle norme che sono emanate da una volontà superiore, norme che fissano principî essenziali per la vita sociale, che delimitano i poteri dello Stato, norme che di per sé stesse non possono essere modificate, se non da un procedimento straordinario di legislazione. Ora, chi veglierà sulla osservanza di queste norme? Chi sarà il giudice in caso di disapplicazione?

Si immagini, per esempio, che le Camere domani approvino una legge costituzionale, senza seguire la prescritta procedura della doppia lettura, del numero legale ecc.; che lo Stato emetta leggi su materia riservata alla capacità normativa delle Regioni, o, viceversa, che le Regioni emettano leggi, norme, che non siano in armonia con gli interessi della Nazione o delle altre Regioni. Si possono configurare tutti i vizi dell’atto legislativo, sotto la specie dell’incompetenza, dell’eccesso di potere, della violazione di legge, e in riferimento all’organo che l’ha emanato e in riferimento alla volontà, alla manifestazione di volontà, al contenuto. Chi sarà il giudice in questi casi?

Quando si consideri che alla Costituzione albertina sono state apportate con leggi ordinarie, come sappiamo, molte e gravi modifiche, non si può non porre l’interrogativo.

Ora, il rispetto riverenziale e tradizionale per la forma dello Statuto ha fatto sì che queste innovazioni abbiano assunto un carattere indiretto, perché formalmente si è lasciata immutata la norma statutaria, ma s’è tradito troppo spesso il contenuto. Ora, un giudice amministrativo adusato a questa specie di vizi nella formazione della volontà, non avrebbe consentito questa specie di eccesso di potere; e noi lo vediamo l’eccesso di potere legislativo in tal caso, quell’eccesso di potere che può essere elaborato soltanto da una giurisprudenza idonea e congrua, quell’eccesso di potere che può essere elaborato soltanto da una giurisprudenza, la quale è formata da magistrati tecnici e da magistrati che abbiano una penetrazione profonda nella vita sociale e politica del Paese. Quell’eccesso di potere, che ha avuto la sua elaborazione nel campo amministrativo, avrebbe la sua elaborazione nel campo legislativo e, se quel giudice costituzionale vi fosse stato per il passato, indubbiamente noi non avremmo avuto quella alterazione completa delle norme statutarie, che garantivano la saldezza delle istituzioni democratiche.

Ora, si dice: attribuiamo tutta la materia al giudice ordinario. Ma attribuire tutta la materia amministrativa e costituzionale al giudice ordinario significa andare incontro a gravi obiezioni.

Noi ci siamo preoccupati in quest’Aula della formazione di una casta chiusa; noi abbiamo, anzi, creduto di ravvisare una valvola di sicurezza con l’inserimento di elementi laici nel Consiglio Superiore della Magistratura.

Ora, a parte ogni giudizio sull’idoneità e sull’efficacia di questa misura, vi è, di fatto, questo: che attribuire al giudice ordinario – che ha competenza piena – la conoscenza, il sindacato della discrezionalità amministrativa, e quindi la possibilità di annullare l’atto impugnato, attribuire al giudice ordinario la conoscenza e quindi il sindacato dell’attività legislativa, dell’attività costituzionale, significa consentire al giudice ordinario di invadere la sfera del potere esecutivo e del potere legislativo, significa davvero allora costituire una casta chiusa, uno Stato nello Stato.

Ma c’è un altro argomento, un argomento che chiamerei di competenza. Il magistrato ordinario ha delle qualità di primissimo ordine nel campo intellettuale e culturale, ma qui il suo compito non è quello di interpretare e di applicare la legge; egli, nel campo amministrativo, deve procedere a valutazioni molto delicate dell’interesse pubblico, che richiedono una vasta, una profonda conoscenza della vita amministrativa; nel campo legislativo, deve avere altrettanta penetrazione della vita sociale e politica del Paese, qualità che mancano al magistrato ordinario.

E vi è un raffronto da fare, a questo riguardo. Onorevole Presidente, io ho finito: io sono preoccupato del richiamo che lei ha fatto all’inizio del mio discorso e vado quindi molto rapidamente verso la conclusione.

C’è dunque, dicevo, un raffronto, a questo riguardo, che io devo fare tra il giudice amministrativo e il giudice costituzionale. Il giudice costituzionale trova la sua piattaforma nell’esperienza che il giudice amministrativo ha costituito. Noi possiamo aver delineato la giurisprudenza costituzionale di domani, guardando alla giurisprudenza amministrativa di ieri.

Ora, in ordine all’idoneità del giudice a decidere in materia costituzionale, molto giova guardare a quello che è stato fatto nel campo amministrativo, dove appunto fu trovata una felice soluzione del problema, in quanto si è formato un collegio che è costituito da esperti amministratori, i quali provengono dai diversi rami dell’amministrazione e da giuristi specializzati. E bisogna dire che è stata possibile soltanto ad un siffatto collegio la formazione, l’elaborazione dell’eccesso di potere, il quale, in un cinquantennio di vita feconda, ha potuto divenire uno strumento delicato e potente nelle mani del giudice, uno strumento capace di penetrare, di mettere a nudo l’essenza intima della manifestazione di volontà dell’amministrazione, per iscoprirne le nascoste insidie.

Strumento che non potrebbe affidarsi ad altro magistrato, il quale non riassumesse, appunto, in sé la duplice qualità di giudice e di amministratore. Ora, è il medesimo procedimento che deve suggerire al costituente moderno il criterio di formazione della Corte costituzionale, che deve essere formata – come molto opportunamente il progetto sancisce – da magistrati che applicheranno la legge con il rigoroso criterio dell’accertamento e da uomini che porteranno il soffio sociale e politico del Paese, con l’interpretazione di quello che è appunto il momento giuridico e politico che è nell’atmosfera.

Ed ho finito. Ora, abolire od ostacolare la formazione di un giudice costituzionale significa impedire, porre ostacoli a che in Italia, nel campo legislativo, si formi, parallelamente a quello che è accaduto nel campo amministrativo, quella elaborazione che ha dato dei frutti così preziosi per la tutela degli interessi e dei diritti del cittadino contro i soprusi dello Stato, sia nel campo amministrativo che nel campo costituzionale.

Io ho presentato perciò un ordine del giorno, il quale riassume la questione in questi termini: la Corte costituzionale è un organismo giurisdizionale, perché esplica ed esaurisce la sua attività in una funzione di giudicare.

Essendo organismo giurisdizionale, rientra nel potere giurisdizionale, e come tale, allora, deve essere considerato l’organo supremo di giustizia, e quindi, oggi che la Corte di cassazione ha cessato di assumere questo aspetto, per il subentrare di questo organo che sta al di sopra, deve assumere il ruolo di suprema Corte regolatrice, cui vadano devoluti anche i conflitti di giurisdizione oltre quelli di attribuzione. (Applausi).

PRESIDENTE. Rinvio ad altra seduta il seguito dello svolgimento di ordini del giorno relativi al IV e VI Titolo del progetto di Costituzione.

Svolgimento di una interrogazione urgente.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Lucifero, Villabruna, Badini Confalonieri, Candela, Bonino, Crispo, Rubilli, Condorelli, Colitto e Perrone Capano hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente, alla quale l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno risponderà subito:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare il Governo per garantire la libertà di stampa, di fronte alla decisione dei tipografi di stabilire loro l’autorizzazione ad uscire dei giornali e alle altre violazioni continue e sistematiche di questo che è il primo diritto civile di un Paese libero».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ieri sera, poco prima delle dieci, è pervenuta al Ministero dell’interno una comunicazione del questore di Roma, secondo la quale il direttore della Società anonima «La Tribuna» aveva informato che alcuni membri della commissione interna di quel giornale si erano presentati alla direzione e avevano avvertito che, qualora i giornali La Voce Repubblicana e Italia nuova, stampati in quella tipografia, non avessero consentito di pubblicare nella loro edizione di questa mattina un determinato ordine del giorno votato dal Congresso nazionale della federazione italiana dei lavoratori poligrafici e cartai, tenuto in Genova dal 26 al 31 ottobre ultimo scorso, le maestranze si sarebbero rifiutate di stampare il giornale.

Altre notizie in proposito non erano arrivate all’autorità di pubblica sicurezza, o, per meglio dire, l’autorità di pubblica sicurezza non aveva ricevuto da alcuna altra amministrazione di giornali una denuncia che analoghe interdizioni fossero state fatte. Con tutto col Ministero dell’interno, immaginando che ciò fosse effettivamente avvenuto e che si intendesse da parte delle maestranze di imporre con atti di violenza questa loro richiesta, immediatamente dispose perché servizi di polizia fossero attuati nei pressi delle direzioni, delle redazioni e delle tipografie dei giornali, in modo da garantire per quanto dipendeva dalla pubblica sicurezza la libertà di stampa. Incidenti non ne sono avvenuti.

Come il Ministero dell’interno aveva supposto, l’intimazione era stata rivolta alla direzione di tutti i giornali di Roma, ed è per questo che il giornale Risorgimento Liberale di stamattina non ha creduto di far uscire le proprie edizioni. Di fronte all’intimazione che le era stata fatta, la direzione ha preferito non fare uscire il giornale piuttosto che subirla.

Questi sono i fatti.

Dai fatti emerge che non si tratta di un problema di polizia, ma di un problema assai più vasto. Si tratta anche qui di un problema di libertà, della libertà di stampa.

Non occorre fare della retorica, ed io non la farò: sarei comunque il meno indicato per farla. Sono però fra i più accesi difensori di questa libertà, e sono lieto di portare qui l’eco della stessa passione da parte del Governo.

Di conseguenza, all’onorevole interrogante non posso che rispondere che, sdegnato, come è naturale, contro questo nuovo attentato alla libertà di stampa; riconosciuta l’inaccettabilità di sistemi di questa fatta; riconosciuto anzi che si tratta di uno dei più gravi attentati che, se dovesse diffondersi e dovesse trovare la possibilità di attuazione, annullerebbe in gran parte e forse totalmente quello che è uno dei diritti sacrosanti e tanto faticosamente conquistati; il Governo intende tutelare questa libertà con ogni mezzo, all’uopo ricorrendo anche a disposizioni di carattere penale, che si riserverebbe in quel caso di presentare come di dovere.

Ad ogni modo il Governo dà ora all’Assemblea e all’onorevole interrogante l’assicurazione che su questo punto vitale non intende cedere, meno che su ogni altro.

Tanto più è doloroso questo episodio in quanto nello stesso ordine del giorno, il cui contenuto non viene discusso in questa sede (il contenuto è quello che è, può suscitare dissensi od approvazioni) si dice che i poligrafici italiani non vogliono intervenire direttamente in materia così delicata come la libertà di stampa.

Ognuno vede come questo gesto, compiuto da elementi probabilmente irresponsabili, contrasti in modo gravissimo con questa premessa, e tradisca quindi la stessa volontà dei lavoratori nel cui nome questo sopruso è stato compiuto. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Lucifero ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LUCIFERO. Signor Presidente, io sono indubbiamente sodisfatto della giusta e legittima manifestazione di sdegno dell’onorevole Marazza, che io conosco e so essere un uomo di libertà e che ama la libertà.

Sono un po’ meno sodisfatto delle dichiarazioni che fa il Governo, perché il Sottosegretario non mi ha detto esattamente quali provvedimenti voglia prendere il Governo per impedire che si trovi modo – pretestando di essere ai margini del Codice penale, mentre si è profondamente nel contenuto del Codice penale, del Codice civile e del Codice democratico (e se ho detto civile, l’ho detto nel senso di civiltà) – di conculcare ogni diritto ed ogni libertà; quali provvedimenti voglia prendere per impedire che questo sistema dilaghi.

Nel momento che scendevo dall’avere presentato al banco della Presidenza questa mia interrogazione, parlava l’onorevole Conti. L’onorevole Conti ha detto che oggi ormai non avremmo più avuto fascismo. L’onorevole Conti (mi dispiace che non sia presente) mi perdonerà se io gli dirò che per la prima volta, da tanto tempo che gli voglio bene e che lo stimo, ho sentito profondamente che i capelli bianchi li avevo io e che i capelli neri li aveva lui: perché questo è il fascismo! Questo è il fascismo che torna, nei suoi metodi e nel suo contenuto, nella sua essenza e nelle sue più profonde ispirazioni. Questa è la prova che, se per tre anni si sono perseguitati i fascisti, mai nulla si è fatto contro il fascismo; e libero è il fascismo di tornare in Italia, come stavolta. Posso dire all’onorevole Sottosegretario di Stato che noi vedremo immediatamente quali sono le intenzioni e con quanta serietà il Governo affronta questo problema, perché posso comunicare all’onorevole Sottosegretario di Stato che questa mattina alle 10 gli operai tipografi della tipografia del Giornale d’Italia, che fra gli altri giornali stampa anche il Risorgimento Liberale, hanno fatto sapere che, ove il Risorgimento Liberale stasera non pubblicasse il loro scritto ricattatorio, essi non stamperanno nemmeno questa sera il giornale. Ed io avverto il Governo che il Risorgimento Liberale, essendo liberale, non subisce ricatti e non pubblicherà quello che i ricattatori chiedono che sia pubblicato. Questo per la dignità politica di un partito politico che quel giornale rappresenta; questo per la dignità professionale dei giornalisti i quali sono degli uomini che hanno diritto di stampare quello che pensano e quello che credono e non devono essere posti sotto sindacato di qualunque operaio che abbia – quando l’ha – la licenza elementare.

GAVINA. L’operaio può non lavorare.

LUCIFERO. L’operaio è liberissimo di non lavorare ed allora non deve protestare se sarà licenziato in tronco. Però, quando l’operaio in una stessa tipografia stampa tutti i giornali meno uno, allora non è questione di libertà di lavoro, allora è questione politica, e questa è questione politica.

Ha parlato il Sottosegretario di elementi irresponsabili. No, onorevole Sottosegretario.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ritengo irresponsabili.

LUCIFERO. Responsabili e individuabili.

Quando io da questo stesso banco (ora è poco tempo) segnalai al Governo quale sarebbe stata la campagna e il metodo che si sarebbe usato contro la stampa, a proposito della distruzione della tipografia del Corriere del Giorno, già dissi: «È inutile che mi venite a raccontare che avete arrestato otto disgraziati; colpite i mandanti, i responsabili indiretti».

Il sistema continua. Si dimostrò contro il Movimento sociale italiano e si distrusse il liberale Corriere del Giorno. Poi si è distrutta la tipografia del Mattino d’Italia, a Milano, e oggi il Mattino d’Italia trova difficoltà a riuscire a Milano, sapete perché? Perché attraverso questo sistema, così abilmente organizzato ed istaurato, il tipografo, l’editore che stampava il giornale, chiede che gli si depositi la cifra corrispondente all’intero valore dei suoi impianti, perché visto che dai signori del Governo non si sente tutelato non vuole andare incontro ad altre perdite; e con ciò gli avversari di quel pensiero politico che il Mattino d’Italia degnamente rappresenta, giornale cui sono grato per l’ospitalità che mi diede in altri tempi, hanno trovato modo di liberarsi di avversari che davano fastidio, perché non tutte le aziende giornalistiche ricevono sovvenzioni da fonti confessabili od inconfessabili tali da poter versare cento e più milioni ad una tipografia per fare uscire il loro giornale. Quindi la cosa è molto bene organizzata, anche se nel caso dei miei amici del Mattino d’Italia, che io conosco bene perché ho combattuto con loro nel periodo della resistenza, essi hanno trovato il modo di uscire lo stesso. Lo faranno uscire lo stesso come l’hanno fatto uscire oggi stesso a Roma, malgrado il primo capoverso del comunicato… pardon, del decreto legislativo dei tipografi italiani.

E io dico: che sia una cosa organizzata è dimostrato da un fatto molto semplice: sullo stesso giornale, sul quale, sotto ricatto, io leggo pubblicato (è il Tempo di questa mattina) con una nota in corsivo il decreto legislativo sull’autorizzazione alla stampa, emanato dall’organizzazione dei tipografi a Genova, trovo una nota da Roma la quale narra di una riunione avvenuta ieri alle 17 e 30 all’Istituto Galileo, nell’aula magna, dove un autorevole personaggio la cui ispirazione politica è nota e perfettamente conosciuta, l’onorevole Di Vittorio, ha chiesto le stesse cose ed alla fine è stato deliberato che, ove il Governo non intendesse prendere quelle misure indispensabili che loro ritengono necessarie a normalizzare la situazione, i lavoratori si vedrebbero costretti ad applicare tutti i metodi a loro disposizione. (Interruzioni – Commenti).

Del resto, tutto questo, egregio Sottosegretario, entra in un quadro generale; lei sa meglio di me che, mentre sto parlando, i tram di Roma rientrano al deposito perché a qualcuno non faceva comodo che le famiglie dei dispersi e caduti in Russia si riunissero a Roma per esaminare i loro problemi.

GALLICO SPANO NADIA. Questo lo dice lei.

LUCIFERO. Tutto questo fa parte di un unico programma e lo stesso fatto che lei sola protesta, onorevole Spano, dimostra (cosa che già sappiamo) da dove questo programma e questa azione partono. (Benissimo!).

Io non esco dall’interrogazione. Dico soltanto al Governo: badate, il problema è politico e generale. Noi non vogliamo che nessuno possa ostacolare l’esprimersi di libere opinioni. E faccio notare che i due giornali, che per dignità loro e della stampa italiana non sono usciti questa mattina a Roma, sono La Voce Repubblicana e il Risorgimento Liberale, due giornali che furono clandestini, che hanno combattuto la battaglia della resistenza e sul cui conto non v’è nulla da dire, sotto nessun punto di vista, ma che entrambi, dai due lati opposti dello schieramento politico italiano, hanno sentito che dovevano tutelare insieme la dignità e la libertà politica loro e quella dei giornalisti.

Ed io devo dire a nome dei colleghi giornalisti (perché io non dimentico la mia origine) al Governo che lo ringraziamo molto quando ci manda i suoi agenti a tutelare la nostra pelle; ma noi non vogliamo tutelare soltanto la nostra pelle. Onorevole Marazza, lei non conosce forse come io conosco quello che è il lavoro dei giornalisti. Noi vogliamo che sia tutelata la nostra passione e la nostra dignità, perché nella tutela della nostra passione e nella tutela della dignità nostra di giornalisti, cioè di interpreti di tutte le opinioni e, quindi, dell’opinione di tutti, lei tutela ed il Governo tutelerà la libertà in Italia, la libertà del pensiero e della parola. Perché è inutile che qui dentro, in un cerchio chiuso, si sia liberi di parlare (e non so fino a quando) e basta oltrepassare quella porta perché la libertà uno se la debba veramente conquistare con i propri pugni, fino a quando basteranno i pugni.

Non ho altro da dire! (Applausi al centro e a destra).

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per chiedere quali provvedimenti intenda immediatamente adottare per i gravi incidenti verificatisi a Palermo il 14 corrente; trattasi evidentemente di incidenti artatamente inquadrati da agitatori, tendenti a turbare l’ordine pubblico e ad attentare a quelle che sono le fondamentali libertà civiche.

«Russo Perez, Cannizzo, Castiglia».

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi e quali misure adottate per reprimere e prevenire gli episodi di violenza del 14 novembre scorso contro le sedi del Partito nazionale monarchico a Palermo, durante i quali è stato ferito altresì un segretario di una delle sezioni.

«Fabbri, Covelli».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere i particolari dei numerosi episodi di violenza verificatisi in provincia di Lecce, per effetto dello sciopero proclamato in quella provincia, e le misure prese dalle autorità.

«Gabrieli, De Maria».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se considera inopportuna e perseguibile la presenza di giuliani con le loro bandiere alle cerimonie commemorative della guerra che portò alla redenzione.

«Pecorari».

Il Governo ha facoltà di dichiarare quando intende rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Mi riservo di far conoscere quando potrà essere data risposta a queste interrogazioni.

PRESIDENTE. Avverto che è stata anche presentata la seguente altra interrogazione urgente:

«Al Ministro degli affari esteri, per chiedere se non ritenga opportuno, analogamente al passo jugoslavo, che protestava all’ONU per un semplice allontanamento, diplomaticamente corretto, d’un suo rappresentante da Trieste, protestare per gli innumerevoli soprusi d’ogni genere commessi dagli jugoslavi contro le persone ed i beni di cittadini italiani nel tratto di territorio libero di Trieste tuttora sottoposto all’Amministrazione militare fiduciaria jugoslava.

«Pecorari».

Interesserò il Ministro degli esteri affinché faccia sapere quando intende rispondere.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Comunico che, in ossequio ad una tradizione di riguardo verso i partiti organizzati democraticamente in Italia, i lavori della nostra Assemblea saranno sospesi per i giorni di lunedì e martedì allo scopo di consentire ai colleghi democristiani di partecipare al Congresso nazionale del loro partito a Napoli.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Riconosco che naturalmente i colleghi, che hanno il loro Congresso da fare, debbano farlo. Ma non sarebbe possibile, invece di interrompere il ritmo di vita dell’Assemblea, che tenessimo delle sedute, non per trattare argomenti nei quali la presenza dei nostri colleghi è necessaria, ma argomenti arretrati che possono essere smaltiti? Abbiamo dei termini fissati, e il lavoro – seguitando così – resta incagliato. Ora, siccome molti colleghi non hanno la fortuna di andare al Congresso democristiano e restano qui…

FRANCESCHINI. La invito, onorevole Tonello.

TONELLO. Non è mica uno scandalo. Da noi siete venuti. Domanderei che si potesse tenere seduta lo stesso, perché non tutti i colleghi sono democristiani.

PRESIDENTE. Questo problema, onorevole Tonello, se l’è posto anche la Presidenza, poiché nessuno più di essa avverte la necessità di non sprecare il tempo. Le sarei grato però se sapesse indicarmi quali materie potremmo mettere all’ordine del giorno delle prossime sedute, che non comportino la necessità della presenza di tutti i deputati. Spero che lei non voglia proporci quattro o cinque sedute di interrogazioni.

Prima di tutto perché non avremmo sufficienti interrogazioni, per quanto queste siano numerose, e poi perché questo non ci permetterebbe di dire che l’Assemblea procede nei suoi lavori, dei quali le interrogazioni costituiscono una parte, ma non rappresentano la sostanza principale.

Ho voluto dire questo, perché non rimanga l’impressione che le preoccupazioni dell’onorevole Tonello non siano, non dico della Presidenza, ma dell’Assemblea tutta e quindi anche dei colleghi della Democrazia cristiana.

Naturalmente dovremo cercare di recuperare il tempo, che non potrà essere utilmente impiegato in questi due giorni per il nostro specifico mandato; e, quindi, riprendendo le nostre sedute, non soltanto dovremo prolungarne qualcuna per un numero di ore maggiore del solito, ma dovremo prepararci a tenere due sedute il sabato e due il lunedì prossimo e forse anche qualche seduta notturna.

Su una cosa penso che siamo tutti d’accordo: che entro questo mese dovremo completare le votazioni sul quarto e sul sesto Titolo del progetto di Costituzione.

Data questa meta, tutto sarà subordinato a che essa sia raggiunta.

Pertanto la prossima seduta si terrà mercoledì, alle ore 16, per lo svolgimento di interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenuta alla Presidenza.

COVELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ritenga opportuno, per evidenti ragioni di equità e di giustizia distributiva, estendere ai centri non capoluoghi di provincia, e che pure raggruppano vari ed importanti uffici statali, con numerosi dipendenti, e che hanno subito, tra l’altro, danni per effetti bellici al patrimonio edile, la facoltà di beneficiare delle costruzioni dell’I.N.C.I.S.; e se, a tal fine, non sia da modificare sostanzialmente il contenuto dell’articolo 345 del testo unico 28 aprile 1938, n. 1165, tuttora in vigore.

«De Martino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga urgente di estendere ai pensionati degli Enti locali non territoriali le disposizioni dei decreti 25 ottobre 1946, n. 263 e 13 agosto 1947, n. 833, relativi agli aumenti degli assegni di pensione allo scopo di togliere alla più straziante indigenza molte povere famiglie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Santi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga giusto dare disposizioni perché l’articolo 2 del decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 177, che modifica l’articolo 30 del testo unico 14 settembre 1931, n. 1175, imponendo l’imposta di consumo sul vino dei proprietari non coltivatori diretti, venga interpretato in modo da non gravare, oltre che coll’imposta di consumo anche con quella sull’entrata, sul vino che il proprietario consuma per le necessità familiari.

«All’interrogante sembra giusto eliminare in questo caso l’imposta sull’entrata, perché non si tratta di passaggio di ricchezza ma di consumo di prodotto da parte del legittimo proprietario. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Biagioni».

PRESIDENTE. La prima delle interrogazioni testé lette sarà iscritta all’ordine del giorno e svolta al suo turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 13.

Ordine del giorno per la seduta di mercoledì 19 novembre 1947.

Alle ore 16:

Interrogazioni.