Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Villabruna

Vinciguerra

Bettiol

Carboni Angelo

Verifica di poteri:

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Sansone

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Comunicazioni dei Presidente.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Patricolo, Mazza e Russo Perez hanno comunicato di non far più parte del Gruppo parlamentare del Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque.

Sono stati pertanto iscritti al Gruppo misto.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Villabruna. Ne ha facoltà.

VILLABRUNA. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi! Sono un modesto empirico, che sente l’ansia e la predilezione per le cose semplici e concrete.

Per questo io mi sono sforzato di esaminare gli articoli del progetto sotto un punto di vista che indubbiamente è modesto, ma che – per me – riveste un certo interesse: ho cercato di accostarmi, per quanto era possibile, alla realtà, per poter rispondere più agevolmente ad alcune domande che si sono affacciate alla mia mente.

Io mi sono chiesto, quali risultati positivi ci possiamo attendere, e quali vantaggi concreti ci possiamo ripromettere da questa parte della Costituzione, quando sarà stata da noi approvata, e passerà, per il collaudo, da quest’Aula nelle aule giudiziarie?

Stanno di fronte a noi questioni gravi e preoccupanti.

La prima questione è quella che riguarda la Magistratura. Siamo tutti d’accordo nel riconoscere che la Magistratura è in fase di progressiva decadenza; e tutti concordi nel riconoscere che è diventata urgente ed indilazionabile la necessità di rialzare le sorti della Magistratura. Ebbene, io mi domando: siamo noi ben certi di aver fatto tutto ciò che era possibile, per rialzare davvero le sorti della Magistratura, per portarla a quel livello di dignità e di indipendenza che è indispensabile per l’esercizio della sua altissima funzione?

V’è poi un’altra questione, alla quale stamane accennava l’onorevole Dominedò: la giustizia considerata come la suprema garanzia del popolo. Ed io mi domando: abbiamo noi fatto qualche cosa di più e di meglio, che non di dare al popolo soltanto la sensazione vaporosa che qualche cosa è stato fatto nel campo della giustizia, senza poter dire esattamente se in meglio o in peggio? Siamo noi in condizioni di poter dire che le innovazioni che, attraverso la Costituzione, intendiamo introdurre, siano di tale natura da assicurare al popolo italiano un migliore funzionamento della giustizia?

lo mi sono proposto questi interrogativi, ed ho avvertito la necessità di questo richiamo alla realtà, perché non posso dissociare il mio pensiero dal ricordo di quello che è stato il triste destino della giustizia in questo ultimo trentennio.

Io non vado a ricercare se quello che è accaduto sia accaduto per forza di cose o per colpa di uomini. Mi limito ad una semplice constatazione, ad una realtà incontestabile: in questo trentennio la giustizia è stata bistrattata e maltrattata senza pietà; la giustizia è stata messa in balia di tutti gli eventi che hanno funestato e contristato questo tormentoso periodo storico; la giustizia è diventata materia di preda, asservita a fini politici; per la realizzazione di questi fini politici la giustizia è diventata il campo sperimentale delle innovazioni le più strane, ha dovuto subire le trasformazioni e le deviazioni le più capricciose e le più insensate. Il capriccio e l’arbitrio hanno trionfato istericamente in tutti i settori della giustizia, sia nel campo funzionale come nel campo legislativo.

Nel campo funzionale, siamo passati dai giurati agli assessori, dagli assessori ai tribunali speciali, dai tribunali speciali alle assise straordinarie: un cambiamento di scena continuo, un ballo in maschera a più riprese, nel quale, purtroppo, non è cambiata soltanto la foggia dei costumi, ma, quello che è ben più grave, sono cambiate, ad ogni ripresa, il criterio della legge, la mentalità dei giudici e la composizione dei collegi giudicanti. Tutto questo non poteva non essere fonte di danni gravissimi e di gravissime ingiustizie, talvolta irreparabili. Questo nel campo funzionale.

E nel campo legislativo? Noi abbiamo dovuto sottostare al diluvio delle leggi speciali, le più barocche e le più scellerate; leggi speciali che, nelle loro sperequazioni, hanno ridotto la funzione del giudice e la funzione della giustizia a un qualche cosa di così incerto, di così malsicuro e di così contradittorio, da dare ragione a chi amaramente concludeva che, anche per la giustizia, si sarebbe potuto istituire un listino di borsa, che segni giornalmente le variazioni delle quotazioni.

Ora, tutto questo evidentemente non poteva durare: è venuto per noi il momento di una grande opera di rinnovazione e di riedificazione che, se riusciremo veramente a compiere, sarà per noi titolo legittimo di orgoglio. È venuto il momento in cui bisogna ritrovare la via per ridonare al magistrato la sua dignità e la sua indipendenza, e per conferire alla giustizia l’indispensabile requisito dell’equilibrio, della cortezza e della stabilità.

Ora, prima di noi, la Commissione dei Settantacinque si è accinta a questa grandiosa opera di rinnovazione e di riedificazione, ed io mi rendo conto della gravità e della complessità del compito che la Commissione dei Settantacinque doveva assolvere. Comprendo queste difficoltà: e basta leggere i verbali dei lavori dei Settantacinque per intravvedere lo sforzo, quasi estenuante, che la Commissione ha dovuto compiere per conciliare in formule di compromesso tendenze diverse, le quali ripetevano la loro origine non soltanto da contrasti di natura dottrinaria, ma da un fattore di natura politica, che è perfettamente comprensibile, anche se può diventare pericoloso e talvolta aberrante, sul terreno della tecnica giudiziaria. È pesato sui lavori della Commissione il ricordo ancora troppo recente, ed il risentimento ancora troppo vivo delle amare e dolorose esperienze del fascismo. Ed ecco perché, a proposito del lavoro compiuto dalla Commissione, non mi sento di dire che esso sia riuscito, per intero e in ogni punto, a superare vittoriosamente la prova.

Il progetto di Costituzione contiene alcuni principî d’ordine generale, che rappresentano la base della grande riforma giudiziaria alla quale ci accingiamo; senonché, quando il progetto passa, dall’enunciazione astratta di questi principî, all’individuazione ed alla specificazione degli organi che dovrebbero concretamente attuare quelle norme, a me pare che, in tal momento, nel passaggio dall’astratto al concreto, dal generale allo specifico, il progetto di Costituzione perda della sua omogeneità.

Io non dirò – perché potrebbe sembrare irriverenza – che il progetto di Costituzione sia uno zibaldone; mi permetterò di dire soltanto che, in qualche punto, esso dà l’impressione di un mosaico variopinto, nel quale il vecchio si mescola al nuovo senza un evidente nesso logico, ma bizzarramente, attraverso un eclettismo, disposto a tutte le accettazioni e a tutte le concessioni.

Voi, signori della Commissione, avete fatto rivivere istituti che erano tramontati e che, secondo me, non meritavano l’onore di essere riportati in vita; avete accolto innovazioni delle quali temo non abbiate calcolato tutte le possibili conseguenze. Per la voluttà di essere eclettici ad oltranza, voi avete corso questo rischio: di sminuire in voi stessi l’ardimento dei novatori e, nel tempo stesso, la saggezza e la prudenza dei restauratori.

E io cercherò di fornire qualche esempio di quanto ho detto: e mi soffermerò su alcuni punti che rappresentano il sintomo più appariscente e la manifestazione più vistosa dello spirito di arrendevolezza e di eclettismo che ha guidato la Commissione nella compilazione del progetto di Costituzione. Voglio, in particolare, soffermarmi su tre punti: la partecipazione delle donne alla Magistratura, il ripristino della giuria, la soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace.

Nessuno può contestare che la partecipazione delle donne alla Magistratura rappresenti una innovazione estremamente ardita, tanto ardita da rivoluzionare la nostra tradizione in materia di ordinamento giudiziario. Io mi sono soffermato sulla disposizione che riconosce alle donne il diritto di partecipare alla Magistratura, e vi dico francamente che questa norma mi ha seriamente preoccupato, perché mi riesce facile di intravvedere l’inevitabile pregiudizio che la giustizia subirebbe il giorno in cui anche alle donne fosse consentito l’onore di vestire la toga dei magistrati: Ed io mi sono compiaciuto, quando ho constatato che da parte di una donna, dell’onorevole Federici, era stato proposto un emendamento soppressivo che corrisponde perfettamente a quello da me proposto.

Certo, v’è da sperare nel buonsenso e nel buon gusto delle donne; v’è da sperare che le donne – o almeno una buona parte di esse – non si lasceranno prendere da una frenesia di nuovo genere; e non sentiranno un eccessivo ardore di partecipare alla vita giudiziaria.

Questo lo possiamo sperare; ma intanto il pericolo c’è.

MERLIN ANGELINA. Quale pericolo?

VILLABRUNA. Abbiamo aperto un varco, spalancata una porta, la quale potrebbe consentire alle donne, ove lo volessero o lo gradissero, di invadere il campo della giustizia.

MERLIN ANGELINA. Invadere! Come se fossimo nemiche!

VILLABRUNA. E allora, onorevoli colleghi, io mi domando: il giorno in cui le donne penetrassero nel sacro tempio della giustizia, il giorno in cui la giustizia dovesse essere amministrata da un corpo giudiziario misto, parte costituito da uomini e parte costituito da donne, me lo dite che cosa ne guadagnerebbe, o meglio, che cosa ne perderebbe la giustizia?

Non v’è Carta costituzionale, la quale possa avere la pretesa di violentare le leggi della natura; non credo che vi sia alcuna Carta costituzionale che possa compiere un tale miracolo, se pure si trattasse di un miracolo: che riesca a portare sullo stesso piano la mentalità degli uomini e quella delle donne. Le donne – e non credo con questo di recare offesa al sesso gentile…

Una voce. Anzi!

VILLABRUNA. …hanno un modo di sentire, un modo di vedere, un modo di ragionare, un modo di giudicare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno in cui avrete affidato l’amministrazione della giustizia ad un corpo giudiziario misto, che cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto; avrete creato, in sostanza, una giustizia bilingue, una giustizia che parlerà due linguaggi diversi, secondo che, nelle varie circostanze, avrà a prevalere la voce degli uomini o la voce delle donne.

Se tutto questo possa giovare al prestigio, alla serietà della giustizia, alla certezza nell’applicazione della legge, lo lascio giudicare a voi.

Altro punto: il ripristino della giuria.

Io non voglio qui ripetere quello che stamane – da pari suo – è stato detto dall’onorevole Crispo in punto di giustizia resa dai giurati; non dirò di tutti gli inconvenienti che derivano da una giustizia monosillabica, che rappresenta il trionfo dell’ignoranza, dell’impreparazione, della facile impressionabilità; una giustizia monosillabica che, appunto per essere tale, non consente la garanzia della motivazione, come non consente praticamente il rimedio del giudizio di secondo grado.

Io ho tentato di scoprire – e non vi sono riuscito – le vere ragioni per le quali il progetto di Costituzione ha ritenuto di riservare un posto d’onore alla giuria, ed ha pensato di risuscitare un rudero, superato dal tempo, e che certamente non ha lasciato di se il migliore ricordo.

Perché, perché dovrebbe risorgere la giuria? Avete inteso di rendere omaggio alla sovranità popolare? Ma, signori della Commissione, a questo avevate provveduto, e provveduto a sufficienza, quando, all’articolo 94, avevate detto che la funzione giurisdizionale è esercitata in nome del popolo.

Non vi è nessuno che non avverta la bellezza, la grandiosità di questa proclamazione! E di essa il popolo ve n’è e ve ne sarà grato.

Ve n’era a sufficienza perché il popolo si sentisse sodisfatto di questa consacrazione della sua sovranità, e non chiedeva di più. Parliamoci chiaro: coloro che si accalorano nell’esaltare la giuria, e vorrebbero rimetterla in vita, in definitiva si ostinano ad iniettare nelle vene del popolo un eccitante, un afrodisiaco che il popolo non gradisce, ma che, nella gran maggioranza, rifiuta.

Gli è che il popolo non sente l’ambizione di partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia. Il cittadino – e lo possiamo attestare noi penalisti, che di queste cose abbiamo esperienza quotidiana – per quanto può, cerca di esimersi dal fastidioso incarico di fungere da giurato. Sì, potrete trovare soltanto qualche malinconico pensionato, che non sa come riempire la propria giornata, a cui può sorridere la prospettiva di arrotondare il magro stipendio col modesto compenso che viene corrisposto ai giurati.

La realtà è che i cittadini, nella loro grande maggioranza, per quanto sanno e per quanto possono, cercano di essere esonerati dal compito di fungere da giurati. Ed allora, perché ritornare ai giurati, a questa forma di giustizia che, ripeto, è un giuoco a mosca cieca, è il trionfo della ignoranza, della impreparazione e della facile impressionabilità. Su questo terreno si era fatto un piccolo passo avanti, che dava, perlomeno, la garanzia della sentenza motivata, quando si erano istituiti gli assessori.

MASTINO PIETRO. Un grande passo indietro.

VILLABRUNA. Un piccolo passo avanti, in quanto consentiva il concorso anche del magistrato togato. Intendiamoci bene, amico Mastino, non che questa fosse stata una soluzione ideale del problema, non che l’assessorato non abbia dato luogo a gravi inconvenienti. Basterebbe ricordare lo sconcio delle cosiddette sentenze suicide, rivelatrici del contrasto che inevitabilmente sorge laddove non v’è un collegio giudicante omogeneo.

Ricordo che un mio eminente collega, quando si è costituito l’assessorato, presagendo tutti gli inconvenienti che inevitabilmente sarebbero derivati da un giudizio reso da un collegio giudicante misto, si era permesso, forse con poca riverenza, di dire che, con la instaurazione degli assessori fiancheggiati dai magistrati, la giustizia, anziché essere simboleggiata dalla donna con le famose bilance, più degnamente poteva essere simboleggiata dal centauro che, come ognuno sa, è uomo dalla cintola in su ed è bestia dalla cintola in giù. Ora, io non vorrei aggiungere irriverenza ad irriverenza, ma mi permetto di dire che, se dovessimo cercare l’emblema degno della capacità intellettuale e tecnica dei giurati, forse non basterebbe nemmeno più il centauro, ma bisognerebbe scendere ancora di qualche gradino la scala zoologica.

Ma, si dice: i giurati portano nei loro giudizi un senso di umanità, hanno una sensibilità maggiore dei magistrati togati; il giudizio dei giurati aderisce maggiormente al sentimento dell’opinione pubblica. Questo è vero sino ad un certo punto, perché credo che ognuno di noi potrebbe ricordare casi di assolutorie scandalose e, nel tempo stesso, verdetti intonati a una severità assolutamente irragionevole ed insensata. Questi squilibri, queste sperequazioni si verificano tanto con i giurati come con i giudici togati. È questione di temperamento. Vi è il giudice mite e il non mite; il clemente e il non clemente, così tra i giurati che tra i magistrati. Ma per me vi è un altro pericolo ben più grave nel responso dei giurati ed è quello a cui stamane accennava l’onorevole Crispo: nel responso dei giurati troppo spesso giuoca il fattore passionale e lo spirito di parte. Non dimentichiamo che noi viviamo in un’età nella quale i partiti si rafforzano, si estendono. La sfera di influenza dei partiti tende a farsi sempre più estesa e sempre più profonda. Lo spirito del partito oggi è presente in tutte le questioni, e soprattutto nelle questioni giudiziarie.

E quale il pericolo per la giustizia? Immaginate, ad esempio, che un democristiano sia tradotto alla Corte di assise per rispondere di un delitto politico, e che il caso voglia (e non è un caso infrequente; è quello che oggi spesso si verifica nelle assisi straordinarie) che la giuria sia composta in prevalenza di elementi appartenenti ad un partito avversario. Ma credete voi seriamente che questo disgraziato imputato potrà confidare nella serenità e nella imparzialità dei propri giudici? E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Supponete che vi sia un Tizio, il quale sia rinviato a giudizio dei giurati per rispondere, ad esempio, di vilipendio ai ministri del culto compiuto attraverso la stampa, e supponete che il caso voglia che a presiedere la giuria ci sia un mangiapreti arrabbiato sul tipo del nostro collega ed amico Tonello. (Si ride). Ma ditemi, signori, se in questo caso l’imputato non può scommettere, anche se colpevole, sulla propria assolutoria prima ancora di aver aperto bocca.

Ora questi esempi rappresentano altrettanti attentati alla serietà ed alla imparzialità della giustizia, attentati ai quali si potrebbe mettere rimedio in un solo modo, quello che ha suggerito stamane il collega Crispo, il quale, nel mettere in luce una delle tante incongruenze e contraddittorietà del progetto di Costituzione, si chiedeva: ma perché soltanto per i magistrati e non per i giurati è stata escogitata la norma, secondo cui i giudici non possono appartenere a dei partiti politici? Ma io mi domando: quanti di coloro i quali oggi battono le mani all’istituto della giuria, esaltano la giuria, sarebbero disposti ad approvare una norma, con la quale si disponesse che non possono fungere da giurati coloro che appartengono a partiti politici? A parte l’ovvia osservazione che, se si dovesse stabilire una norma di questo genere, la giuria sarebbe automaticamente ed in anticipo abolita per assoluta mancanza di materia prima.

A proposito di questa norma, mi consenta l’Assemblea di dire che non mi sento di approvare la disposizione contenuta nel progetto, con la quale, in una forma categorica e cruda, si stabilisce che i magistrati non devono essere iscritti ad alcun partito politico. E questo evidentemente non perché non avverta una necessità che è intuitiva. È intuitivo che il magistrato, se vuol salvaguardare la propria indipendenza, non può legarsi a un partito, e sottostare alla disciplina di un partito; ciò sminuirebbe la sua indipendenza, o, nella migliore delle ipotesi, creerebbe il sospetto di una minorata indipendenza; e, in certi casi, l’apparenza equivale alla sostanza.

Nella mia coscienza di liberale non soltanto, ma nella mia sensibilità di uomo, io non mi sento di approvare questa norma, perché, inserita nella Costituzione, per me questa norma ha tutto il sapore di una lezione di buon costume che si vuol dare ai magistrati, e che i magistrati non meritano.

Questo è un problema che deve essere affidato esclusivamente alla sensibilità ed alla coscienza del magistrato; è il magistrato, esso per primo, che deve avvertire il dovere morale, per la tutela della sua indipendenza, di non legarsi ad un partito; e badate, che questa è una delle tante – e forse la non più grave – delle inibizioni e delle restrizioni alle quali il magistrato necessariamente deve uniformare la sua vita pubblica e privata, per non vedere sminuito il suo prestigio, e per allontanare il sospetto che egli sia legato a forze, le quali limitino o vulnerino la sua dignità e la sua indipendenza.

Terzo punto: soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace. Io mi sono chiesto, anche qui: quale il motivo di questa norma, quale la ragione, quale il fine di questa disposizione? Mi sono chiesto: «L’avete introdotto per salvaguardare il principio della unità della giurisdizione?». La ragione, francamente, non sarebbe seria: perché basta scorrere il progetto di Costituzione per constatare che sono tante e tali le esclusioni e le eccezioni contenute nel progetto, per cui possiamo dire che la unicità della giurisdizione ormai è rimasta soltanto un pio e non glorioso ricordo.

È stato fatto, invece, per un senso di avversione, di diffidenza verso il giudice militare? E allora, permettetemi di dire che questa diffidenza è del tutto ingiustificata. E, badate, che se modestamente lo dico io in questo momento, vorrei che fosse vivo Bentini, perché venisse lui con la sua eloquenza a rivendicare degnamente lo spirito del giudice militare. Io ricordo un discorso di Bentini, pronunciato alcuni anni orsono in questa Aula. Parlando in nome del Gruppo socialista – mentre si discuteva sulla giustizia militare – Bentini, con quello slancio di generosità che gli era proprio, ha sentito il dovere di rivendicare il senso di umanità e di clemenza del giudice militare (Approvazioni). Ed allora perché sopprimere il giudice militare?

Intendiamoci bene! Io sono tra coloro che postulano una giurisdizione militare, in tempo di pace, ridotta e limitata esclusivamente ai reati tipicamente militari: cioè, la funzione punitiva militare deve consistere soltanto nella integrazione della funzione disciplinare, strumento indispensabile per tenere salda la compagine dell’esercito. Orbene, se la giurisdizione militare in tempo di pace deve essere limitata unicamente ai reati strettamente militari, con quale serietà affidare il giudizio di questi reati, che costituiscono una forma aggravata d’infrazione alla disciplina militare, a giudici ordinari?

Signori, questo significherebbe semplicemente voler disambientare la giustizia, affidare il giudizio di questi reati a magistrati svogliati, inetti, perché assolutamente lontani dallo spirito e dalle esigenze della vita militare.

Si dice: si costituisca una Magistratura specializzata. Questo dovrebbe essere il rimedio; ma, secondo me, non sarebbe un rimedio, ma un modo di complicare le cose.

Ben strana pretesa quella di prendere un ramo della Magistratura ordinaria e confinarlo in un reparto stagno. Che cosa avverrà di questo ramo, il quale, da un lato, perderebbe il contatto con la Magistratura ordinaria, e, dall’altro, non avrebbe contatto con la vita dell’esercito? Questo ramo sarebbe destinato a disseccarsi, perdendo, così, i pregi e le caratteristiche sia del magistrato civile come del magistrato militare.

È per queste ragioni che io aderisco all’emendamento proposto dall’onorevole Gasparotto per la soppressione del comma, con cui si stabilisce che i tribunali militari potranno essere istituiti soltanto in tempo di guerra.

Riguardo all’indipendenza della magistratura, non v’è più molto di nuovo da dire. È problema delicato, appassionante, divenuto attuale dopo quanto abbiamo subito durante il periodo fascista, ma è un problema non nuovo, che ha le sue radici in un lontano passato. Basterebbe ricordare che, della indipendenza della magistratura, se ne parlò innanzi al Parlamento italiano mezzo secolo fa; e molti tra di noi conoscono il mirabile discorso che in quella occasione, e su questo tema, fu pronunziato da Giuseppe Zanardelli; discorso che conserva tale freschezza di idee, da poter essere utilmente ripetuto ancora oggi in quest’Aula.

Aveva ragione il collega Bozzi, quando ieri diceva che il problema dell’indipendenza della Magistratura ha due aspetti: un aspetto, dirò così, esteriore ed un aspetto interno.

Un aspetto esteriore, che riguarda i rapporti tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato; un aspetto interno, che riguarda l’esplicazione dell’attività funzionale del magistrato in seno alla medesima Magistratura.

Ed aveva del pari ragione l’onorevole Bozzi, quando affermava che il progetto di Costituzione ha risolto soltanto a metà il problema dell’indipendenza della Magistratura. Sì, è vero, voi della Commissione avete considerato le garanzie dell’indipendenza della Magistratura in rapporto alla carriera dei magistrati; ma, alla fin fine, voi avete considerato questo problema soprattutto nei rapporti col potere esecutivo; il vostro sforzo è stato rivolto a sganciare, per quanto fosse possibile, la Magistratura dal potere esecutivo. E l’avete fatto, secondo me, in una forma che mi pare felice.

Certo, la soluzione ideale difficilmente si può trovare in questa materia. Da un lato v’è l’aspirazione di rendere la Magistratura più indipendente possibile; dall’altro, v’è una esigenza che tutti avvertiamo: non possiamo considerare la Magistratura come un astro isolato e vagante al di fuori di ogni sistema. Anche la Magistratura deve muoversi nell’ambito della sovranità dello Stato e deve collaborare con gli altri poteri dello Stato, per l’attuazione di tale sovranità. Sì, è difficile trovare una soluzione ideale; mi pare tuttavia che il progetto, su questo punto, abbia trovato una soluzione abbastanza felice, allorquando, dopo aver stabilito le necessarie garanzie, le opportune difese, che possono garantire l’indipendenza della Magistratura nel suo funzionamento interno, sia per quanto riguarda la carriera dei magistrati, sia per quanto riguarda il governo interno della Magistratura di fronte alla necessità di creare un collegamento tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato, ha stabilito, al capoverso dell’articolo 97, che «il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario».

Che cosa significa questo? Si è inteso di riconoscere al Ministro della giustizia una potestà di vigilanza sull’andamento della Magistratura, ed anche un potere ed un dovere di intervento, in caso di trasgressione. Io avrei preferito che a questo capoverso si fosse data una formulazione ancor più ampia e più chiara, che si fosse detto esplicitamente, che il Ministro della giustizia risponde del buon andamento della Magistratura in seno al Governo e di fronte al Parlamento.

Ma è stato, dicevo, risolto soltanto a metà il problema dell’indipendenza della Magistratura. Per esempio, neppure una parola è detta nel progetto sull’autonomia finanziaria della Magistratura. Eppure occorreva rendersi conto che mettere la Magistratura al riparo dalle insidie e dai pericoli che possono provenire dal potere esecutivo significa tutelare l’indipendenza della Magistratura soltanto da un fianco, ma significa anche lasciare scoperto l’altro fianco, lasciarlo esposto ad altre insidie, di diversa provenienza, ma non per questo meno temibili. Bisogna prendere gli uomini quali veramente sono. Fintanto che non si sarà risolto radicalmente il problema del trattamento economico del magistrato, fintantoché il magistrato non sarà liberato dalla preoccupazione del bisogno, noi non potremo pensare ad un magistrato sicuramente corazzato contro tutti i pericoli, che possono insidiare e minacciare la sua indipendenza.

Si è pensato di creare l’organo che dovrebbe garantire l’indipendenza della Magistratura: il Consiglio Superiore della Magistratura. Io mi permetto di dissentire sui criteri che sono stati seguiti dalla Commissione circa la composizione di quest’organo. Avete creato un corpo di guardia, con la consegna di difendere l’indipendenza della Magistratura, ne avete fatto un corpo di formazione mista, in parte nominato dalla Magistratura ed in parte dall’Assemblea. Avete pensato anche a nominare il generalissimo, nella persona del Presidente della Repubblica. Perché? A quali fini e con quali scopi avete pensato di affidare la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura al Presidente della Repubblica? Soltanto per dare maggiore prestigio a questo Consiglio? È soltanto un arabesco, un pennacchio, come direbbe l’onorevole Ruini, destinato ad abbellire la facciata? Se così è, leviamolo di mezzo senz’altro, non creiamo delle inutili illusioni, ricorrendo all’espediente di elementi decorativi. Materia ornamentale ve n’è già tanta in questa Costituzione, che toglierne una parte non credo che nuoccia alla saldezza della Costituzione stessa.

Ma, signori, dalla lettura di qualche opuscolo e di qualche ordine del giorno provenienti dall’Associazione dei magistrati, ho potuto constatare che alla presidenza del Consiglio, affidata al Presidente della Repubblica, si intende dare ben altro significato e ben altro valore.

Si sostiene: il Presidente della Repubblica sia il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, perché egli possa essere, quando occorra, il supremo moderatore ed il supremo coordinatore nei rapporti della Magistratura con gli altri poteri dello Stato. La tesi incomincia a diventare seria. Io faccio l’ipotesi di un eventuale conflitto fra i poteri dello Stato e mi domando: ma, in quale situazione di imbarazzo verrà a trovarsi il Presidente della Repubblica, il quale, in caso di conflitto, dovrebbe intervenire non come una autorità collocata al disopra della mischia, ma come il rappresentante diretto ed il diretto esponente di una delle parti in conflitto?

Quanto ai membri eletti dall’Assemblea è inutile che io dimostri – è già stato detto da altri – quale pericolo rappresenti il fatto, che proprio in seno al Consiglio Superiore della giustizia – l’organo che avrebbe la funzione specifica di tutelare l’indipendenza della Magistratura – siano inclusi elementi, i quali devono la loro elezione ad una Assemblea squisitamente politica come è l’Assemblea Nazionale.

Ma v’è qualche cosa di ben più singolare in questo articolo, permettetemi di dirlo, qualche cosa di così singolare, che per me ha persino un sapore umoristico, allorquando a proposito degli eletti dall’Assemblea Nazionale, si stabilisce che costoro non possono esercitare la professione finché fanno parte del Consiglio stesso.

V’è da presumere che, se l’Assemblea Nazionale intende scegliere gli elementi che devono far parte del Consiglio Superiore della Magistratura nella cerchia degli avvocati, ricercherà i più degni, i più eminenti: i professionisti di primo piano. Ma allora, se vogliamo stare nella realtà, ditemi quanti ne troverete professionisti di primo piano, dotati di tale spirito francescano da rinunciare ai loro vistosi proventi professionali, soltanto per l’onore di appartenere al Consiglio Superiore della Magistratura? E se costoro non fossero animati da tanto spirito di sacrificio (lo domando a voi, e lo vorrei domandare soprattutto all’onorevole Einaudi), che cosa verrebbe a costare all’erario il Consiglio Superiore della Magistratura, quando dovesse corrispondere un adeguato emolumento a questi satrapi della professione, disposti a deporre la corona di principi del foro per assumere quella di membri del Consiglio Superiore della Magistratura?

È per questo che io mi sono permesso di proporre un emendamento che modifica l’articolo del progetto. Intendiamoci bene: io personalmente sono dell’opinione che sarebbe molto meglio costituire un Consiglio Superiore formato esclusivamente da magistrati, ma si nutre il timore della casta chiusa, il timore che il Consiglio Superiore si cristallizzi nell’egoismo dei suoi interessi e delle sue prerogative. Bisogna, è stato detto, areare l’ambiente, bisogna immettere elementi estranei alla Magistratura, ecc.

Ebbene, io mi sono permesso di proporre una soluzione che non ha la pretesa di essere la più felice, ma che forse rappresenta un modo per sfuggire agli inconvenienti che ho testé enunciati; ed ho ragionato in questo modo: prima di tutto riduciamo la durata del periodo in cui i sullodati membri debbono restare in carica, onde non possano infeudare il Consiglio per la bellezza di sette anni. Riduciamola a quattro anni; parimenti riduciamo il numero dei componenti soltanto ad un terzo. Inoltre, gli elementi estranei alla Magistratura. siano scelti fra i Presidi delle facoltà di giurisprudenza, cioè tra persone lontane, per ragione dei loro studi, dalla politica, e che, per la loro cultura, per il posto che occupano, possono dare lustro al Consiglio Superiore della Magistratura. Ed ho proposto, che siano designati dal Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per togliere di mezzo la procedura macchinosa delle elezioni, e anche perché mi è stato assicurato che il Consiglio Superiore della pubblica istruzione è, di per se stesso, un corpo elettivo.

Ho finito, salvo ricordare, se l’onorevole Presidente mi consente, l’onesto e candido ordine del giorno, che mi sono permesso di presentare relativamente al ripristino delle Corti di cassazione regionali soppresse dal fascismo.

Dico candido ed onesto ordine del giorno perché le ragioni per le quali io sollecito la restaurazione di un istituto già esistente e soppresso dal fascismo, sono nitidamente esposte, ed apertamente precisate nel mio ordine del giorno. Non v’è che da scorrerlo, per conoscerle, e per poterne apprezzare l’intrinseco valore, accanto alla confutazione delle ragioni opposte.

E un ordine del giorno – (lo dico a titolo di soddisfazione) – che reca le firme di colleghi di tutti i settori della Camera. E questo è un fatto consolante, perché significa che, quando ci troviamo di fronte a ragioni di autentica giustizia, scompaiono le distinzioni e le divergenze di partito.

Il mio ordine del giorno ha suscitato proteste, che avevo preveduto, perché riconosco lealmente, che esso involontariamente ferisce interessi rispettabilissimi, anche se non tutti di ragione prettamente ideale, che si sono venuti consolidando in questi venticinque anni.

Ma ecco che è sopraggiunta la protesta della Suprema Corte, e per di più, ieri in quest’Aula ha echeggiato il grido appassionato, angosciato dell’amico Bozzi: «Corti di cassazione regionali? Ma, dopo di esse, sbucheranno le Corti di cassazione di ogni singola Regione. In tal modo – diceva l’amico Bozzi – voi frantumate l’unità della giurisprudenza, voi colpite a morte l’unità dello spirito nazionale». Poco è mancato che non si sia detto che la Patria è in pericolo…

GASPAROTTO. La patria giurisprudenza..

VILLABRUNA. Amico Bozzi, prima esistevano cinque Cassazioni regionali, e di questo delitto di lesa patria, noi non ce ne siamo mai accorti.

Si dice: «Le Cassazioni regionali frantumano l’unità della giurisprudenza». Orbene, la difformità della giurisprudenza esiste anche con la Cassazione unica, e, in fondo, non è un gran male, perché l’urto delle idee giova, nelle questioni giuridiche. Ed io mi permetto di dirle, amico Bozzi, che la Cassazione unica ha un grande inconveniente: quello di favorire uno stato di inerzia, perché una volta trovata la massima della Cassazione unica, a chi vien dopo di essa non par vero di sedersi su quella massima come sopra una soffice poltrona, dalla quale non è facile e non è gradito di sollevarsi.

E infatti, senza far torto al Supremo Collegio, non c’è che da esaminare la giurisprudenza d’oggi per dover lealmente riconoscere che, con la Cassazione unica, la giurisprudenza si è anchilosata, si è impoverita.

PERSICO. No!

VILLABRUNA. Il collega Persico dice di no, perché quanto più povera è la giurisprudenza, tanto più facili sono per lui le vittorie in Corte di cassazione. (Ilarità).

Ora, onorevoli colleghi, uno dei pregi delle Cassazioni regionali sarà precisamente quello di destare lo spirito di emulazione fra Cassazione e Cassazione, e di dare così impulso alla giurisprudenza e all’elaborazione del diritto.

E non venite a dirmi che con il ripristino delle cinque Cassazioni, ciascuna Regione pretenderà di averne una sua. Intanto resti ben chiaro che noi chiediamo che siano ripristinate esclusivamente le Cassazioni soppresse dal fascismo; per quanto riguarda quelle che potranno essere invocate dalle singole Regioni, a ciò penseranno i nostri nipoti, se questa Costituzione sarà ancora in piedi.

Ma – ed ho finito – v’è una ragione che vale, amico Bozzi, tutte le altre perché la nostra istanza sia accolta: è inutile proclamare democrazia! democrazia!, democrazia!, quando all’atto pratico si tenta poi di ostacolare qualsiasi iniziativa che sia diretta a dare una fisionomia democratica alla giustizia, che tenda a spianare la via per portare la giustizia al livello del popolo, per renderla ad esso accessibile.

È inutile voler negare una patente verità: vi sono preoccupazioni, condizioni di difficoltà che in quest’Aula non sono forse avvertite, non sono forse considerate in tutta la loro importanza; ma, nella vita reale, me lo sa dire lei, amico Bozzi, che cosa significa affrontare, specialmente in materia civile, un ricorso in Cassazione? La Cassazione è diventata un articolo di lusso, è un bel tempio nel quale possono accedere, sì, quelli che dispongono di larghi mezzi finanziari, ma dalla cui porta debbono rimanere fuori coloro che non sono in queste condizioni.

Ecco la ragione più forte, che ci ha stimolati a chiedere il ripristino di queste Cassazioni regionali. Noi domandiamo che si elimini un iniquo privilegio, che si metta la giustizia alla portata di tutti, perché un simile privilegio è ingiusto e antidemocratico!

Noi sentiamo l’onesto orgoglio di avere formulato tale istanza col nostro ordine del giorno. Avrà fortuna? Non avrà fortuna? Io non lo so. Concludo però con il dire, che io mi sento fiducioso, quando penso che il nostro ordine del giorno è stato presentato ad un’Assemblea che giustamente si gloria del suo spirito democratico, delle sue origini democratiche, e, se questo veramente è, io credo che l’Assemblea non sarà insensibile al nostro appello. (Applausi – Molte congratulazioni).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni dei deputati:

Gaetano Chiarini, per la circoscrizione di Brescia (VI);

Antigono Donati, per la circoscrizione de L’Aquila (XXI);

Francesco Restivo, per la circoscrizione di Palermo (XXX); e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti fino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi, è mia modesta opinione che il nostro intervento in questo dibattito debba avere per scopo di porre dei concreti problemi giuridici e di starvi poi vicini per quanto più è possibile; giacché questa materia del Titolo IV è assai vasta e anche un po’ seducente, per cui essa consente ed ha consentito le più ampie divagazioni; divagazioni alle volte non del tutto innocenti.

Per esempio, una di queste si è avuta a proposito delle Corti di assise, materia da procedura penale, materia che va riservata all’Assemblea legislativa di prossima elezione. Ma non si è tralasciata l’occasione per dire che il ripristino della Corte d’assise con i giurati rappresenterebbe la irruzione della folla anonima, del numero – diceva l’onorevole Crispo – indifferenziato nell’amministrazione della giustizia. Il numero indifferenziato non sa distinguere; e, di conseguenza, non sa giudicare. E poi, in via di esemplificazione, si diceva: Ma vi pare possibile nel momento in cui i giudizi penali diventano prevalentemente tecnici, avere il giudizio esatto dal povero montanaro, dall’operaio o dal semianalfabeta, che è stato scelto per l’occasione e investito dell’alta funzione della giustizia? Dimenticava però l’onorevole Crispo che le migliori arringhe in materia di tossicologia ebbe a pronunciarle Nicola Amore proprio innanzi alle Corti di assise con i giurati.

Una divagazione, a mio modo di vedere: in quanto sarebbe bastato dire che i giurati vanno selezionati, prescelti da categorie sociali che offrano le dovute garanzie, e dire ancora che alle Corti d’assise vanno riservati i delitti politici, i reati passionali, per vedere semplificato enormemente il problema e non sentirsi autorizzati a prospettarlo sotto la forma paurosa d’una demagogia che invade, per cui si è sentito quasi il bisogno di tracciare le linee di un trattatello di perfetta democrazia.

Sì, si dimentica, a proposito della aborrita Corte di assise, che il giurato poteva essere scartato se non offriva le dovute garanzie. Un maestro delle giurie è l’onorevole De Caro, e sa se c’era o meno questa garanzia! Si dimentica – d’altra parte – che la giuria è destinata alla valutazione del fatto umano, del fatto umano nel suo complesso, nella sua naturalità e passionalità, dinanzi al quale il giudice togato, abituato alla formula, all’inquadratura giuridica, alle volte resta opaco, ed inaccessibile.

Per questi oppositori la giuria è pericolosa e l’onorevole Villabruna faceva un esempio dei più caratteristici, un esempio che è stato come un anello dalla magnifica catena di idee ardite della sua esposizione. E faceva l’ipotesi di un imputato che vada a finire dinanzi ad una giuria composta prevalentemente di democristiani, ed egli sia per ipotesi un socialista o un comunista, e prospettava la triste sorte del disgraziato. Ma l’esempio non calza col vero, perché se è stato fatto il divieto ai magistrati di appartenere a partiti politici, ognuno di essi avrà ciò non pertanto le sue idee politiche, la sua passione politica; dimodoché, se quell’esempio dell’onorevole Villabruna dovesse valere qualche cosa, dovrebbe portare diritto alla abolizione di tutte le forme di giudizio, comprese quelle dei magistrati. Quell’esempio fa parte delle assurdità che vengono messe in campo per combattere l’istituto della giuria, che ha reso grandi servizi alla libertà, un istituto che comunque ci viene dalla libera Inghilterra, la quale, se non erro, non è poi il paese più arretrato ed analfabeta di questo mondo.

Dunque, si è divagato intorno alle Corti di assise.

E invece, abbiamo da porre problemi giuridici concreti. Uno per la Magistratura è stato posto, e non ho la pretesa di dire delle cose originali: quello sulla indipendenza del potere giudiziario.

Come garantire questa indipendenza? È un problema. Ma di contraccolpo ci si domanda: come evitare che la Magistratura diventi una casta? Infatti, onorevoli colleghi, un potere giudiziario che sia casta è non meno pericoloso di un potere giudiziario che sia prono, asservito al potere esecutivo. Si obiettava che un’autonomia rigorosa concessa al potere giudiziario per costituirne l’indipendenza non può portare di per se stessa al pericolo della casta chiusa, e si citava l’esempio dei consigli professionali e di questa stessa Assemblea – mi pare che parlasse così l’onorevole Crispo – la quale e i quali consigli professionali con la loro autonomia in nulla hanno pregiudicato anche al loro libero e salutare funzionamento. Ma se non erro c’è qui un equivoco fondamentale. Sta in questo: la Magistratura ha funzioni di sovranità, applica la legge, ha una forza e una attività di sanzioni operativa verso di tutti. La sentenza che sia passata in giudicato costituisce un ostacolo, uno sbarramento per tutte le pretese. Ora, i consigli professionali hanno la stessa autorità, lo stesso potere di applicazione di legge? Lo avrebbe per caso l’Assemblea politica, per esempio la nostra Assemblea Costituente? Sissignori; noi abbiamo il potere di legiferare, però questa è un’Assemblea che domani sarà sottoposta ad un giudizio – e che specie di giudizio! – quello delle elezioni; un giudizio davvero universalistico, il quale ne valuterà tutta l’opera. E se è così, questa Assemblea non può essere mai confinata nella categoria delle caste.

Ma quando diciamo che vi è il pericolo che la Magistratura diventi una casta accenniamo alla possibilità che essa diventi un potere che non ammetta forme di controllo se non attraverso la propria gerarchia. Ora, una Magistratura di questo genere evidentemente deve preoccuparci e ci preoccupa. Ma, prima di questo, l’Assemblea deve preoccuparsi di dare la garanzia dell’indipendenza alla Magistratura. C’è un articolo in questo progetto di Costituzione che è di un’audacia quasi unica; è l’articolo 126, quello che dà vita ad uno strano istituto, l’istituto della Corte costituzionale. Ad esso attribuisce un potere assolutistico quando dice che la Corte costituzionale giudica della costituzionalità di tutte le leggi.

Ora, signori miei, dire che la Corte costituzionale possa giudicare della costituzionalità di tutte le leggi a me pare che significhi dire qualche cosa che non risponde e non può rispondere all’effettivo funzionamento dei poteri dello Stato, e tanto meno al funzionamento del potere giudiziario, giacché il potere giudiziario ordinario ha rapporti con l’esecutivo, ha rapporti con le amministrazioni, ha rapporti perfino con il Parlamento. Difatti facciamo l’ipotesi (una ipotesi, del resto, che è già un fatto per quello che è avvenuto con la ratifica dell’ultimo trattato di pace che importa limitazioni anche di diritti individuali di libertà), che un trattato di carattere internazionale, ratificato dalla Assemblea, sancisca determinate forme di rapporto fra privati e i privati insorgessero, lesi nel loro diritto, presso l’autorità giudiziaria ordinaria. Potrebbe la Magistratura esimersi dal portare il suo esame sulle formalità di questo trattato e vedere se esso ha avuto tutti i crismi e se è entrato nella vita internazionale con le forme che sono prescritte perché il trattato possa avere la sua vita giuridica? Evidentemente no; il potere giudiziario avrebbe questo diritto. Alla Corte Suprema di cassazione non potrà essere vietato il sindacato della costituzionalità. Ed allora esso non può essere riservato come un patrimonio esclusivo alla Corte costituzionale di nuova creazione. Necessità quindi di garantire le condizioni dell’indipendenza a questo potere giudiziario, che può entrare in contrasto anche con gli altri poteri dello Stato nell’applicazione della legge.

Contrasto e non conflitto rivoluzionario, come ipotizzava poco fa nella sua fantasia il preopinante onorevole Villabruna, pensando addirittura ad un urto con il Presidente della Repubblica quale Presidente del Consiglio Superiore. Se si verificasse una ipotesi del genere, effettivamente saremmo in piena rivoluzione. Ma questo progetto di Costituzione garantisce la indipendenza della Magistratura? A me pare di no. Ed è proprio l’articolo 97 che la vulnera. Questo articolo 97 che la vulnera non già con la creazione di un secondo vicepresidente pleonastico, ovvero col mettere il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità dello Stato, a presiedere il Consiglio Superiore, ma con l’introdurvi l’elemento politico, e per giunta, in parità numerica con l’altro elemento eletto dai magistrati. Una parità numerica che inficia l’indipendenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Allora si ravvisa opportuno accogliere il voto dell’Associazione nazionale dei magistrati che propone vi sia l’elemento elettivo, ma con la prevalenza numerica di quello designato dai magistrati. Così avremmo nell’interno del Consiglio Superiore fattori che ne garantiscano la indipendenza e nel contempo evitino il pericolo della casta chiusa.

Perché è bene riflettere sul funzionamento e sui poteri di questo Consiglio Superiore della Magistratura, il quale segue tutta la vita del magistrato dall’assunzione alla promozione ed ai trasferimenti. Un organo del genere che fosse sotto l’influenza politica, sarebbe evidentemente un organo non adatto a dare una Magistratura indipendente, perché il magistrato è un uomo e non un eroe e sottoposto a questa forma di controllo, potrebbe essere tentato di ubbidire piuttosto alla voce del suo interesse personale anziché alla missione che lo Stato gli affida.

Di emendamenti ne sono stati proposti molti, e ne pigliamo atto con gradimento in quanto dimostrano che questa Assemblea non lascia passare le disposizioni del Titolo IV così, come sono, ma le sottopone al vaglio della sua critica e le modifica conformemente a quelle che ritiene siano le necessità nazionali.

Mi riservo in ogni modo di presentare per mio conto, se necessario, quegli emendamenti che valgano a far sì che il Consiglio Superiore sia un organo di tutela della Magistratura e non il preoccupatore.

Se, per quanto riflette la indipendenza del magistrato, si può trovare nella composizione del Consiglio Superiore qualcosa che non va occorre far presente all’Assemblea che non soltanto nel suo funzionamento può trovarsi la garanzia o meno della indipendenza della Magistratura. Alla indipendenza della Magistratura sono coordinate altre questioni, non meno importanti. Noi dobbiamo attendere ad un altro dei problemi giuridici, che io dicevo doversi proporre in concretezza al giudizio dell’Assemblea. La costituzione del pubblico ministero deve avvenire in modo che esso non sia, come oggi è, organo del potere esecutivo, ma organo giudiziario, parte del corpo della Magistratura; non sia l’occhio vigile di un potere estraneo, insinuato in quello giudiziario, ma sia invece il collaboratore per l’attuazione della legge, un elemento di questo potere.

C’è un’altra questione che non va tralasciata, non questione di carattere temporaneo; bisogna avere le Cassazioni regionali o la Cassazione unica?

È augurabile che ci sia unica Cassazione. La giurisprudenza ha variato; tuttavia ha variato meno di quando c’erano le cinque Corti regionali.

C’è un problema insito allo stesso organismo della Magistratura: il problema delle autorizzazioni a procedere.

Vogliamo l’azione penale libera, ma non rare volte avviene che l’azione penale è sbarrata da un divieto. Perché il giudizio possa avere il suo corso, c’è bisogno della così detta autorizzazione; la quale, alle volte, riguarda non già questo o quel funzionario della pubblica amministrazione, che abbia potuto commettere un reato nell’esercizio delle sue funzioni, ma persino estranei che abbiano potuto prestare la loro assistenza in fatti alle volte assai gravi, diretti contro la integrità fisica dei cittadini e la loro libertà. È la testuale disposizione dell’articolo 16 del Codice di procedura penale. Questo tuttavia è il caso meno preoccupante di divieto di esercizio dell’azione penale senza autorizzazione. Ve ne sono altri forse di maggior rilievo, diretti a creare la impunità a funzionari con attività meramente politica. Daremo le necessarie specificazioni in sede di emendamento.

Da più parti sono state avanzate istanze per il miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati, condizione prima della loro indipendenza. Non lo disconosciamo, ma ci sia lecito osservare che non è certo compito della Carta costituzionale fissare i limiti degli stipendi. Ci sia una garanzia economica, ma noi, che facciamo una Carta costituzionale, dobbiamo dettare delle norme giuridiche di carattere permanente e queste norme di carattere permanente debbono essere dirette, soprattutto, a sgombrare il terreno della giustizia da quegli impedimenti, che tuttavia ci sono, e rappresentano il triste retaggio della diffidenza della pubblica amministrazione di regimi autoritari che non consentivano che l’occhio della giustizia penetrasse nei loro organismi. Ed allora la garanzia dell’indipendenza della Magistratura non deve essere una frase così, lanciata in aria, ma qualche cosa di complesso e di assai serio. La garanzia esterna di indipendenza del potere giudiziario sta nella inamovibilità della Magistratura. Ma è bene intendere che la inamovibilità dei magistrati non è un favore personale fatto ad essi, ma è una garanzia posta nell’interesse dei giudicabili, e la inamovibilità è una massima costituzionale che non ha bisogno di essere dimostrata.

Le Costituzioni moderne hanno affermato il diritto alla inamovibilità dei giudicanti, sia pure con alcuni temperamenti.

Ma, se la Magistratura ha bisogno di garanzie giuridiche, dell’intervento a suo favore del potere costituente, diciamolo pure: la Magistratura deve trovare anche in se stessa la ragione ed il motivo della propria garanzia. In se stessa, esercitando nobilmente la sua funzione; ed intanto una delle piaghe della Magistratura è il carrierismo, che porta alle disfunzioni. Onde, se una modifica vi deve essere nell’ordinamento giudiziario, io mi augurerei che fosse la modifica che desse, come unico sistema di promozione, quello dell’anzianità e lasciasse libera soltanto la facoltà, a chi lo vuole, di poter avere la promozione attraverso il concorso per esami. Niente promozioni per il solo merito, distinto o meno che fosse. Vi sono le promozioni di categoria e di grado, le quali, affidate al potere irrefrenato del Ministro, tolgono ogni valore alla inamovibilità. Non si è fatto molto con la inamovibilità, perché il potere esecutivo, se non ha il mezzo di punire, ha quello di ricompensare. La promovibilità è tra le sue mani un mezzo di influenza tanto efficace, e conseguentemente così pericoloso quanto l’amovibilità; specialmente se si tratta di una promovibilità arbitraria. Per tal modo l’inamovibilità diventa una pura lustra. Ciò ci induce a ritenere che la promozione di grado debba avvenire per l’anzianità di servizio.

E con quest’ordine di idee modestamente esposte, giacché non ho avuto la pretesa di venire qui a tracciare la Carta definitiva del potere giudiziario, ma prospettare singoli problemi, credo di avere adempiuto al dovere che ha ciascuno di noi di dire liberamente il proprio pensiero su un titolo quale il IV, tra i più importanti della Carta costituzionale. (Applausi).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Varvaro e Fusco, iscritti a parlare, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Bettiol. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi siamo qui come dei rari nantes nel gurgite vasto di questo argomento che ci afferra tanto nei suoi momenti razionali, quanto in quelli passionali: l’argomento della Magistratura, che è poi l’argomento dell’amministrazione della giustizia che rese pietoso l’uomo verso se stesso e verso gli altri, come disse più di un secolo fa un nostro grande poeta; pietoso di quella pietas la quale è l’espressione concreta della giustizia. Ed intendiamo per giustizia la concreta applicazione della norma di legge, perché tutto il problema della Magistratura nella sua interna organizzazione, nei suoi poteri, nelle sue libertà, nella limitazione delle sue libertà, è polarizzata attorno all’applicazione singola dell’astratta norma di legge. Norma di legge che non può essere concretamente applicata così, come si appiccica un francobollo alla lettera che si spedisce, secondo l’immagine di un grande penalista vivente. L’amministrazione della giustizia, e, quindi, l’applicazione della legge è, invece, un vero e proprio dramma in quanto il processo può essere paragonato, ed è stato paragonato, ad una sacra rappresentazione, forse l’ultima delle sacre rappresentazioni che vengono ancora celebrate nel nostro secolo. Una sacra rappresentazione, quindi un dramma, che non può essere visto, impostato o risolto esclusivamente in base a criteri di logica astratta, quella logica astratta che un filosofo moderno, l’Unamuno ha considerato propria del foro e dei barbieri.

Questo problema deve essere impostato in base anche a criteri di logica concreta, in relazione non soltanto a quelli che sono gli interessi in conflitto fra di loro, come stamani accennava il collega Dominedò, ma anche in riferimento a quelli che sono i concreti valori morali e sociali. Se il problema della giustizia deve essere risolto in termini di logica concreta, più che in termini di logica astratta, è chiaro che il problema dell’amministrazione della giustizia, volenti o nolenti è, alla radice, un problema politico.

Io so che forse scandalizzerò più di uno dei colleghi che siede sui banchi di questa Assemblea, ma la conseguenza che scaturisce da questa impostazione del problema è che il momento politico non è estraneo a quella che può essere la organizzazione e la struttura della Magistratura, cioè di quell’organo che è chiamato in concreto ad applicare la legge.

Ora, se ci possono essere dei principî i quali sembrano forse sfuggire, nella loro enunciazione astratta, alla realtà concreta della organizzazione politica, è chiaro che, da che mondo è mondo, cioè da quando gli uomini hanno incominciato a riflettere sui problemi dell’amministrazione della giustizia, sono state le fondamentali concezioni politiche a determinare anche orientamenti e strutture dell’organismo giudiziario, e, quindi, anche dell’amministrazione concreta della giustizia. In altre parole questo problema deve essere impostato e risolto nel quadro delle determinanti concezioni e della realtà politica. Questo è un dato storico al quale non si sfugge. Io so che molti colleghi, moltissimi pensatori e studiosi dell’argomento, fanno appello al principio della divisione dei poteri, ed io per primo riconosco che il principio della divisione dei poteri risponde indubbiamente ad una delle fondamentali esigenze della nostra coscienza democratica, però (e lo disse anche stamane l’onorevole Dominedò) il principio della divisione dei poteri non può costituire un dogma logico e ontologico che vive al di fuori della storia; in altre parole noi, uomini che ci occupiamo di diritto e di politica, non possiamo, di fronte all’argomento della divisione dei poteri, metterci nello stato d’animo in cui, ad esempio, si mette il monaco tibetano di fronte alla montagna incantata, in una assoluta immobilità di fronte alle vette eterne e nevose, come uomini viventi al di fuori del flusso storico; noi dobbiamo sempre cercare di impostare e risolvere anche questo problema della divisione dei poteri in relazione alle strutture fondamentali del corpo politico democratico, nel quale noi ci muoviamo, e per il quale siamo qui operanti sul piano politico.

Ecco, quindi, il problema: per garantire una retta ed oggettiva amministrazione della giustizia, è necessario stabilire un regime costituzionale per la Magistratura, che sia tale da separare nettamente e marcatamente la Magistratura da ogni altro potere dello Stato, o non è più conveniente eliminare questa frattura, onde si arrivi, sì, alla necessaria libertà e indipendenza del magistrato, che singolarmente e concretamente è chiamato a dire ciò che è il diritto, ma nel quadro di un armonico riordinamento dei tre poteri.

Ora, di fronte a questa domanda, che affatica la nostra mente, le risposte sinora date da coloro che autorevolmente hanno parlato in argomento di fronte a questa Assemblea si possono ridurre a due. Da un lato (e ricordo gli interventi degli onorevoli Bozzi, Crispo e, sotto certi aspetti, dell’onorevole Villabruna) ci sono coloro che vogliono un regime costituzionale per la Magistratura, che sia veramente autonoma e indipendente da ogni altro potere, sicché, volenti o nolenti, anche se concretamente non lo affermano, devono arrivare logicamente a quel regime di casta chiusa, di circolo chiuso, dal quale essi dicono di voler, invece, rifuggire. In realtà però la logica è tale da trascinare costoro, prima o dopo, a quella conclusione, di portarli cioè, per la Magistratura, a determinare già sul piano costituzionale un regime tabù, vale a dire una specie di torre del silenzio entro la quale i magistrati nascono, vivono e muoiono, senza essere sottoposti neanche dopo la loro morte al travaglio degli avvoltoi politici che li stanno dall’alto della torre a guatare.

Ora, è indubbio che nell’ambito di questa casta, se questa casta dovesse realmente costituirsi sul piano costituzionale, per fatale corso delle cose, per fatale forza dei principî noi verremmo ad avere una Magistratura, in cui le funzioni si tramandano, come spesso accade, da padre in figlio, con una mentalità veramente chiusa, con mentalità – scusate la parola – spesso retriva.

Ora, è chiaro che questo, forse, può essere l’ideale di un certo liberalismo conservatore, di quel liberalismo che ama più i concetti che svettano al disopra delle nuvole, di quella che è la realtà viva e palpitante della nostra vita quotidiana e della nostra storia.

Dall’altra parte ci sono coloro i quali vorrebbero, invece, mettere, anima e corpo, la Magistratura sotto le forche caudine del potere esecutivo, del potere politico, sì da arrivare ad una vera e propria politicizzazione della Magistratura e dei canoni particolari, in base ai quali il magistrato sarà chiamato ad applicare la legge in relazione al caso concreto.

Questo processo di politicizzazione della Magistratura, questa totale subordinazione della Magistratura al potere politico, è stato proprio ed è proprio dei regimi antidemocratici e anticostituzionali, che non considerano il principio della divisione dei poteri come un principio direttivo, in relazione al quale questa questione dovrebbe essere impostata e risolta.

Ora, io credo che, tra queste due soluzioni, tra queste due strade opposte, le quali conducono a due poli opposti, si debba cercare di risolvere il problema passando attraverso una strada intermedia, cioè cercando di far sì che la Magistratura venga ad essere armonicamente inquadrata con gli altri poteri dello Stato, senza però che tali contatti armonici possano in concreto determinare, in relazione al singolo giudice, uno sviamento rispetto a quei canoni che debbono essere seguiti, perché la giustizia sia praticamente applicata.

Non quindi subordinazione assoluta della Magistratura al Ministro della giustizia e quindi all’esecutivo, ma d’altro canto nemmeno una soluzione che sganci completamente la Magistratura da quelli che sono gli altri fondamentali poteri costituzionali del nostro Stato democratico. Bisogna, cioè, cercare di arrivare ad una soluzione nell’ambito della quale la Magistratura possa, da un lato essere agganciata al potere esecutivo e, dall’altro, al potere legislativo, così come esiste, sotto molti profili, coordinazione fra il potere esecutivo e il potere legislativo.

Ora, voi sapete, onorevoli colleghi, che il progetto di Costituzione cerca di risolvere questo arduo problema mediante la costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, i cui membri dovrebbero essere per la metà scelti dai magistrati e per l’altra metà scelti dalle Camere, presieduto poi dal Presidente della Repubblica.

Certo, io mi rendo conto di quelle che sono le obiezioni, anche giuste e fondate, in relazione alla presenza di questa metà di componenti scelti dalle Camere. Se infatti al Consiglio Superiore vengono commessi tutti quei poteri relativi alle nomine, alle promozioni, a tutto quanto, in una parola, si riferisce che carriere, è chiaro che coloro, i quali desiderano fare carriera, potranno puntare sugli elementi politici per avere un voto di maggioranza che consenta loro di avanzare sulla accidentata scala della loro carriera.

Io riterrei pertanto opportuno non già di eliminare i membri estranei dal Consiglio della Magistratura, ma di ridurre il loro numero dalla metà ad un terzo. Quanto ai membri estranei alla Magistratura che dovrebbero esser chiamati a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, desidero dire anche che io, ad esempio, mi guarderei bene dall’aderire ad alcuni emendamenti che ho visto proposti nel fascicoletto che li raccoglie.

Non vorrei, nella specie, aderire all’emendamento proposto dall’onorevole Villabruna, il quale propone che questi membri estranei siano tutti scelti tra i presidi delle facoltà giuridiche. Io mi guarderei bene, onorevoli colleghi, dall’aderire a una simile proposta, perché, avendo io una certa dimestichezza con l’ambiente accademico in cui sono, per così dire, incardinato, so molto bene come tra l’ambiente accademico e l’ambiente della Magistratura non abbia mai corso buon sangue.

Che cosa potrebbe allora accadere, se l’emendamento proposto dall’onorevole Villabruna venisse approvato? Accadrebbe precisamente quello che avviene quando due galli si trovano insieme nello stesso pollaio, cosicché le povere galline, fra i due galli concorrenti, non riescono a deporre le loro uova.

Con ciò credo che si potrebbero evitare i guai di un Consiglio politicizzato, e si potrebbe invece arrivare ad un’autonomia che non sia anti-storicistica, cioè ad una autonomia che non sia in contrasto con quelle che sono le fondamentali esigenze storiche del momento che noi attraversiamo. Perché ogni problema – anche questo problema, ripeto – deve essere risolto in base a quelle che sono le fondamentali esigenze del corpo politico, entro l’ambito del quale noi siamo chiamati ad operare.

Ma il problema dell’indipendenza della Magistratura è ancora un problema astratto, perché quello che conta veramente è di studiare i mezzi per rendere concreta la libertà effettiva del singolo magistrato chiamato a dire ciò che è diritto. E qui, nel progetto costituzionale, credo che questa libertà sia garantita dalle norme le quali dichiarano che i magistrati sono inamovibili, dalla norma la quale afferma che i magistrati si distinguono fra di loro, non già per diversità di gradi – è pericoloso stabilire una gerarchia tra i magistrati, perché l’espressione tipica della gerarchia è il comando che il superiore rivolge all’inferiore, e che può essere in certi determinati casi cogente, obbligatorio, anche se anti-giuridico – ma per diversità di funzioni; ed in terzo luogo dal fatto che i magistrati dipendono esclusivamente dalla legge, e che essi poi non possono far parte di partiti politici o di associazioni segrete.

Io condivido pienamente il punto di vista del progetto, il quale fa divieto ai magistrati di aderire a partiti politici. Ho sentito questa mattina le intelligenti argomentazioni del collega Ruggiero, ma non mi hanno convinto, circa la necessità di vietare ai magistrati di appartenere ai partiti politici, perché l’appartenenza ad un partito politico rappresenta pur sempre una situazione psicologica nell’anima del giudice, dalla quale egli difficilmente può prescindere e che può essere influenzata dal di fuori.

Invece per quanto riguarda l’affermazione del progetto di Costituzione, là dove è detto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano e applicano secondo coscienza, io, onorevoli colleghi, credo che l’inciso «che interpretano e applicano secondo coscienza» dovrebbe essere eliminato, perché è piuttosto pericoloso, quando si ha a che fare col problema delle lacune, di fronte alle quali, inevitabilmente, il giudice si viene nella sua concreta attività, spesso a trovare. È chiaro che di fronte ad una lacuna il giudice oggi non è lasciato completamente libero di giudicare secondo coscienza o secondo i dettami di un diritto ultrapositivo, come in certi determinati ordinamenti giuridici moderni, ma deve seguire già certi canoni logici, teleologici, cogenti, che sono previsti dalle disposizioni preliminari al Codice civile. Comunque, questo inciso potrebbe lasciare dei dubbi circa un eventuale sconfinamento del magistrato nel campo della libera creazione del diritto e nell’ambito di una libera applicazione di un diritto preesistente al caso concreto.

Credo che debba essere approvato quanto è stabilito nel progetto circa il divieto di determinare o di creare dei giudici speciali in materia penale. Credo però che questo termine «speciale» vada inteso come giudice straordinario, perché già un collega mi faceva osservare come, se dovessimo applicare questa norma rigorosamente, noi dovremmo anche eliminare la magistratura nei confronti dei minorenni, perché in questo caso, se anche non si tratta di una magistratura speciale al cento per cento, si tratta pur sempre di una magistratura con una funzione speciale. Invece per quanto riguarda i giudici straordinari, si deve tener conto che essi vengono creati nei momenti di passaggio da un regime politico all’altro, o quando si verifica qualcosa di nuovo nell’ambito politico preesistente, e il giudice straordinario rappresenta una violazione del principio secondo il quale nessuno può essere sottratto ai suoi giudici naturali, cioè ai giudici precostituiti.

Ogni giudice speciale, nel senso inteso dal progetto costituzionale, deve essere eliminato, perché ogni giudice speciale è un giudice politico, che nel momento concreto dell’applicazione del diritto è quindi tale da non sottrarsi all’atmosfera del corpo al quale egli appartiene.

Io non capisco, e in ciò aderisco pienamente a quanto brillantemente ha affermato il collega Villabruna, la norma prevista dal progetto, per la quale i tribunali militari non possono essere istituiti in tempo di pace.

Voglio fare riferimento all’idea fondamentale che il diritto in genere, e anche il diritto penale e processuale in particolare, sono sempre l’espressione d’una determinata istituzione, che può essere lo Stato nella sua totalità, ma che può consistere anche in altre istituzioni che si sviluppano ed operano nell’ambito dello Stato stesso.

L’idea di questa concezione istituzionale del diritto è oggi un’idea fondamentale e congenita; quindi negare la possibilità di istituire questi tribunali in tempo di pace, significa negare alla radice questa concezione istituzionale, che non è cervellotica invenzione di giuristi che vivono al disopra delle nuvole, ma espressione concreta e concreta visione della realtà sociale dalla quale il diritto si sprigiona.

Ed è chiaro che l’esercito è un’istituzione. Militaristi o antimilitaristi, non si può misconoscere che l’esercito ha una sua origine, una sua tradizione, un suo spirito, una sua disciplina, un suo senso particolare dell’onore, rispetto al quale non valgono, ad esempio, le norme proprie della legislazione penale comune. Perché in concreto il senso dell’onore nell’ambito militare deve essere più forte, più sentito di quanto non sia nella comune legislazione. Sicché il giudice comune non potrebbe comprendere in pieno la fattispecie della situazione nella quale il militare, che abbia offeso l’onore di un altro militare o che è stato offeso nel suo onore, si viene a trovare.

Qui si tratta di concetti incarnati e immedesimati nella concreta istituzione dalla quale si sprigionano, ed è per tutelare questi valori sociali di questa istituzione ed emettere una sentenza che non urti con le fondamentali esigenze dell’istituzione stessa, che è opportuno conservare questi tribunali militari anche nel periodo di pace, e non soltanto nel periodo di guerra o in occasione di guerra.

E veniamo brevemente alla giuria.

Già da più parti qui si è parlato contro la giuria, e poche voci finora si sono levate a favore della giuria.

Una pregiudiziale: questo problema potrebbe essere anche un problema, anzi dovrebbe essere un problema di codice, cioè di legge particolare, non un problema costituzionale. Un problema da demandarsi ad una legge sull’ordinamento giudiziario, da demandarsi alla futura struttura dei codice di procedura penale, senza risolverlo sul piano costituzionale. Ché se lo si vuole risolvere sul piano costituzionale, allora sia concesso a tutti, come è stato concesso, e sia concesso anche a me di dissentire da quella che può essere la soluzione data dall’articolo 96.

Si è voluta vedere una correlazione assoluta fra democrazia e giuria. Ma io ricordo quanto, ad esempio, ieri ebbe a dire al Congresso dei giuristi di Firenze l’illustre collega Leone: che il problema della giuria non è un problema politico, che possa essere impostato in termini politici. È soprattutto e soltanto un problema di competenza, non già un problema nel quale si voglia vedere, costi quel che costi, il riflesso di una determinata concezione politica democratica o antidemocratica.

Non è già, quindi, in base al criterio dell’estrazione a sorte, ma in base all’idea della selezione per capacità tecnica, che questo problema deve essere risolto.

E se il problema deve essere risolto in base al criterio della capacità tecnica – quindi in base all’idea della selezione – è chiaro che l’istituto della giuria, così come è nello spirito di questa Costituzione, deve essere eliminato. Ma deve essere eliminato proprio per ragioni attinenti alla tecnica concreta di giudizio, perché distinguere, nel campo del diritto, nella fattispecie, l’aspetto puramente naturalistico da quella che è la qualificazione giuridica, è un assurdo.

Ed io mi richiamo a quanto insegna il maestro insigne di diritto Calamandrei, quando dice, in una sua opera, che già la determinazione concreta della fattispecie, del fatto, importa tutta una serie di giudizi, che possono essere espressi soltanto dal magistrato, in base a quelle che sono le regole di esperienza che il magistrato si è acquisite attraverso la sua più o meno lunga carriera.

Vediamo il più banale esempio di delitto di omicidio: è una cosa semplice dire sì o no. Ma, quando si tratta di stabilire se fra una determinata azione imputata ad un soggetto e l’evento di morte esiste o non esiste un rapporto di causalità, sorge un problema tremendo, che non può essere risolto facendo appello al sentimento, facendo appello alla commozione, facendo appello a quello che può essere – diciamo così – l’impeto dei giurati, tutti protesi o per assolvere o per condannare.

Questo è un problema che deve essere impostato in termini ben precisi e spesso difficili, perché le soluzioni sono diverse nel caso concreto, a seconda che si accetti la teoria della «conditio sine qua non», o la teoria della causalità adeguata.

Sono problemi di estrema difficoltà, che affaticano anche la mente di coloro che dedicano tutta la vita allo studio dei massimi problemi di diritto penale! Ora è assurdo volere rimettere questi problemi, così difficili anche sul terreno del puro fatto, a quella che può essere la sensibilità, spesso scarsa, della giuria scelta a caso o estratta a sorte da determinate urne, con la sola garanzia che ha superato l’esame di abilitazione elementare.

Quindi, questo problema è un problema tecnico che deve essere risolto senza alcuna preoccupazione di carattere politico.

C’è un altro problema da tener presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia.

San Paolo diceva: «Tacciano le donne nella Chiesa». Se San Paolo fosse vivo direbbe: «Facciano silenzio le donne anche nei tribunali», cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema della donna nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale: tutte le volte in cui si affaccia questo problema, più che la nostra ragione, il nostro sentimento unitario si deve ribellare a vedere le donne con la toga amministrare la giustizia.

Da ultimo due parole e poi ho finito.

Il progetto di Costituzione elenca tutta una serie di norme sulla giurisdizione. Ma io credo che tutte queste norme sulla giurisdizione sono norme che dovrebbero trovare collocazione nel Codice di procedura penale o in una legge dell’ordinamento giudiziario, perché, ad esempio, l’articolo 101 ricopia, quasi integralmente, una norma contenuta nel Codice di procedura penale.

Vorrei dire una cosa circa l’esclusione del rimedio dell’appello per quanto riguarda le sentenze della Corte di Assise. Questo è un problema tremendo, un problema che deve essere, un giorno o l’altro, risolto, facendo in modo che il doppio grado di giurisdizione, per quanto riguarda il fatto e il diritto, sia riservato anche alle sentenze pronunciate dalla Corte di Assise, che sono poi le sentenze che riguardano i reati più gravi, proprio quei reati nei confronti dei quali è indispensabile, necessario che siano osservate tutte le garanzie giurisdizionali per salvaguardare la libertà dell’imputato e la libertà e tutela degli innocenti. Caratteristica fondamentale, infatti, di tutte queste norme sulla Magistratura, di tutto questo affanno proprio del costituente per creare una struttura della Magistratura che sia tale da funzionare egregiamente, in concreto, è tutta polarizzata verso la necessità della difesa dei diritti fondamentali di libertà del cittadino e quindi per la difesa di quella che è l’innocenza dell’imputato. La nostra concezione democratica deve portare a indirizzare tutte queste norme a far sì che la giustizia e la libertà abbiano a trionfare, in modo – e qui chiudo – che la presunzione di colpevolezza, la quale purtroppo affiora da troppe disposizioni ancora vigenti, abbia veramente a tramutarsi, secondo quanto già noi abbiamo stabilito nelle prime norme della Costituzione, in una presunzione di innocenza. Tutte queste disposizioni riguardanti la Magistratura siano come un corollario del principio già stabilito, perché la libertà individuale, e quindi la giustizia democratica, abbiano sempre a trionfare nell’ambito del nostro ordinamento giuridico e del nostro ordinamento politico. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carboni Angelo. Ne ha facoltà.

CARBONI ANGELO. Nella elevata discussione di queste due ultime sedute, gli argomenti principali che il progetto di Costituzione propone al nostro esame – l’indipendenza della Magistratura e la unicità della giurisdizione – sono stati trattati così a fondo, che forse a chi prende la parola in questo momento riuscirà difficile non cadere in qualche ripetizione. Se questo avverrà, ve ne chiedo scusa preventivamente.

Il problema dell’indipendenza dei magistrati è, secondo me, più che un problema costituzionale e legislativo, un problema di costume individuale e collettivo.

Le solenni proclamazioni di principio, come quella che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, saranno manifestazioni teoriche, platoniche, se ad esse non corrisponderà, dal lato dei magistrati, la coscienza che la propria indipendenza è un dovere prima che un diritto, e, dal lato dei cittadini, il senso del rispetto rigorosamente dovuto a quella indipendenza in qualunque occasione. Generalmente i magistrati italiani (ed io credo di poterlo dire con cognizione di causa, perché nella mia vita non ho fatto altro che l’avvocato ed ormai ho una esperienza di parecchi e parecchi lustri) generalmente, dicevo, i magistrati italiani sono degni della maggiore considerazione e del maggiore rispetto. Essi adempiono alla loro funzione, specialmente nei gradi più modesti, con un senso di onestà e di dedizione al dovere e con uno spirito di sacrificio veramente encomiabili. Vi sono casi eroici di magistrati, che sopportano austeramente le ristrettezze più angustianti, mentre sono chiamati a decidere cause nelle quali sono in gioco interessi patrimoniali enormi e nelle quali non manca l’occasione della corruzione. Però anche il magistrato, essendo uomo, è esposto alle tentazioni del bisogno, della carriera, dell’ambizione. Sono queste le cause di pericolose deviazioni, contro le quali deve essere apprestato un buon ordinamento giudiziario, capace di rafforzare nei magistrati la coscienza che quella del giudicare è una missione superiore alle passioni umane e d’infondere nei cittadini quella fiducia nella giustizia, che è condizione essenziale per il rispetto dell’indipendenza della Magistratura.

La Costituzione deve limitarsi a porre le linee direttive, i principî basilari, per la realizzazione dell’indipendenza della Magistratura: indipendenza costituzionale e funzionale.

A questo fine sono intese le disposizioni del progetto di Costituzione, delle quali esaminerò le principali, sottolineando quelle che a me sembrano opportune, criticando quelle che mi paiono inopportune, suggerendo modestamente alcune modificazioni.

Incomincio con l’approvare nel modo più assoluto il principio della apoliticità del magistrato, fissato nel progetto di Costituzione con il divieto di appartenenza ai partiti politici. Quando si dice divieto di appartenenza ai partiti, non si stabilisce che il magistrato non debba avere idee politiche e non debba interessarsi di problemi politici (questa sarebbe una norma innaturale); si dice soltanto che il magistrato non deve partecipare attivamente alla vita dei partiti. E questa a me pare un’ottima norma, la quale varrà a sottrarre il magistrato al pericolo delle interferenze dei partiti, con enorme vantaggio per l’imparzialità della funzione giudiziaria.

Il divieto d’iscrizione ai partiti politici costituisce la reazione al malcostume del periodo precedente, quando non soltanto l’appartenenza al partito nazionale fascista era diventata condizione per poter adire ai concorsi della Magistratura, ma quando alcuni magistrati non avevano ritegno di tenere udienza vestendo sotto la toga la divisa fascista ed eccitando negli imputati l’ostentazione dei distintivi di appartenenza allo stesso partito, quasi per sollecitare una solidarietà disonesta. Giusta reazione e misura saggiamente prudenziale, seppur si possa ritenere che in regime democratico sarebbe naturalmente impossibile il riprodursi di una degenerazione verificatasi soltanto nell’ambiente aberrante del totalitarismo fascista. E mi piace ricordare che la grande maggioranza dei magistrati italiani ha accettato favorevolmente la proposta del divieto di appartenenza ai partiti politici, con la consapevolezza che esso, mentre non li estranierà dalla vita pubblica, alla quale saranno chiamati a partecipare per altra via, li porrà al riparo anche dal semplice sospetto di parzialità, che è dannoso al decoro della funzione giudiziaria, quanto la parzialità stessa.

II divieto servirà anche ad eliminare una frequente occasione di distrazione dei magistrati dall’esercizio delle proprie mansioni. Altri ha già detto che il magistrato deve fare soltanto il magistrato: deve cioè fare soltanto istruttorie, requisitorie, sentenze. Cessi la corsa agl’incarichi, ai comandi, cessino le applicazioni fuori del ruolo della Magistratura. Come è proposto in diversi emendamenti, vedrei volentieri allargato il divieto all’accettazione di cariche ed uffici pubblici e d’incarichi presso Commissioni od organi di carattere politico.

Un’altra condizione essenziale per l’imparzialità e l’indipendenza della Magistratura è quella di un trattamento economico adeguato alla elevatezza della funzione.

Non ripeterò cose a tutti note circa la condizione economica della nostra Magistratura. Qualcuno in quest’Aula, mi pare l’onorevole Villabruna, nell’ottimo discorso odierno, molti fuori di quest’Aula, hanno proposto una autonomia finanziaria, la quale dovrebbe arrivare sino alla costituzione di una cassa di raccolta di tasse sugli atti giudiziari.

Io non sono di questa opinione, perché: o l’autonomia finanziaria è veramente tale, ed allora mi pare che si dovrebbe concedere alla Magistratura il diritto di imporre essa le tasse, per raccogliere i fondi necessari ai suoi bisogni; e questo sarebbe un assurdo; oppure si fa soltanto quello che ho letto o che ho ascoltato, cioè si accorda alla Magistratura di distribuire fra i propri aderenti i fondi messi a sua disposizione, nei limiti di bilancio, dagli altri poteri dello Stato, ed allora non c’è più l’autonomia finanziaria. D’altra parte, la cassa, nella quale dovrebbero confluire le tasse su determinati atti giudiziari, costituirebbe una maggiore complicazione del nostro sistema tributario, già tanto complicato, e perciò pregiudizievole per l’amministrazione e per i contribuenti.

Preferisco pertanto che ci si limiti ad affermare e proclamare nettamente il principio della necessità di un trattamento economico adeguato alle esigenze alla dignità, all’altissima funzione della Magistratura, e sottoscrivo e mi dispongo a dare voto favorevole all’emendamento presentato dall’onorevole Mastino: «Lo Stato garantisce l’indipendenza economica dei magistrati e dei funzionari dell’ordine giudiziario».

Dopo le tante garanzie introdotte in questa Costituzione, a proposito di altri problemi, ritengo che quella proposta dall’onorevole Mastino, anche se non disponiamo sin da ora dei mezzi adeguati per adempierla, sia saggia, opportuna, doverosa; e possa servire a dare ai magistrati e a coloro che si dispongono a partecipare ai futuri concorsi, un senso di tranquillità per il loro avvenire. Però, il problema dell’indipendenza poggia più che sulla apoliticità, più che sul trattamento economico, sul prestigio dei magistrati: bisogna preoccuparsi di dare al magistrato una posizione morale adeguata alla sua funzione. A questo scopo, secondo me, serve soprattutto un buon sistema di reclutamento: occorre selezionare gli aspiranti, in modo da fare della Magistratura un corpo sceltissimo che si imponga al rispetto per le sue doti intellettuali e morali. Quindi approvo pienamente che sia messa da parte la proposta dell’elettività dei magistrati. In un paese come l’Italia, nelle attuali condizioni politiche, l’elezione dei magistrati non sarebbe un sistema encomiabile. Ed approvo anche la norma dell’articolo 98, nel quale si stabilisce, costituzionalmente, cioè impegnativamente per il legislatore futuro, l’obbligo del sistema del concorso con tirocinio. Qualcuno mi pare abbia pensato persino all’opportunità di stabilire per i concorrenti alla Magistratura il requisito di un precedente esercizio della professione forense per un certo numero di anni. Non credo che questo sarebbe opportuno, perché probabilmente, dopo un prolungato periodo di esercizio professionale, coloro che si fossero affermati, non adirebbero al concorso per la Magistratura, ed allora si diffonderebbe l’opinione che soltanto i falliti della professione forense si dedicherebbero alla carriera del magistrato.

Penso, invece, che la necessità del tirocinio sia stata opportunamente affermata nella Costituzione. Anzi, vorrei che fosse un lungo tirocinio retribuito, che si esplicasse presso tutte le autorità giudiziarie, dalle più modeste alle più elevate, perché presso le varie autorità giudiziarie il giovane magistrato acquisisse conoscenza e del diritto e del funzionamento degli organi giudiziari; e vorrei che alle funzioni giudiziarie egli fosse destinato soltanto dopo che attraverso il tirocinio si fosse accertata e confermata la sua attitudine alla funzione giudiziaria. Il concorso iniziale può servire per l’accertamento della preparazione culturale; il tirocinio servirà a vagliare il possesso delle doti morali ed intellettuali ed a dare l’indispensabile preparazione tecnica. Vorrei anche che i giovani magistrati, anziché essere destinati in primo momento alle funzioni pretorie, per poi passare ai collegi, fossero chiamati a disimpegnare le loro mansioni da principio presso gli organi collegiali, sotto il controllo e la guida dei più anziani, e solo dopo l’acquisizione di quella competenza, che si può acquistare soltanto col prolungato esercizio della funzione, fossero destinati a reggere le preture, dove si troveranno, soli con la propria coscienza, con la propria intelligenza con la propria cultura a dover risolvere gravi problemi giudiziari, amministrativi e di umanità, che trascendono quelle che sono le conoscenze comuni degli uomini.

Non mi sento invece di sottoscrivere alla facoltà, che è prevista nel progetto, di nomina di magistrati onorari. Il magistrato onorario – e noi ne abbiamo fatto l’esperienza – è per solito un uomo, il quale dedica malvolentieri alle funzioni giudiziarie il poco tempo disponibile da altre occupazioni, considera spesso la funzione onoraria di giudice come una sinecura, se non, come avviene spesso per i giovani, come un apprendistato in corpore vili per l’esercizio della professione forense.

Comunque, certamente eccessiva è la proposta che si possa procedere alla nomina di magistrati onorari non soltanto per i posti di conciliatore e di vice-pretore, come è accaduto sinora, ma genericamente per tutte le funzioni attribuite dalla legge a giudici singoli. Sarebbe così possibile la nomina di giudici istruttori onorari.

Il problema del reclutamento dei magistrati ha aperto la via ad una discussione molto delicata, durante la quale due oratori in questo pomeriggio si sono dichiarati nettamente contrari alla proposta della Commissione, cioè all’ammissione delle donne nella Magistratura. Il progetto di Costituzione propone che possano essere nominate anche le donne, nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario. Analogamente il disegno di legge per la riforma della Corte d’assise, già esaminato dalla prima Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge e che dovrà essere discusso in Assemblea, propone che le donne possano far parte della giuria. In seno alla Commissione legislativa i pareri furono contrastanti e tali saranno anche in questa Assemblea, sebbene finora si siano udite soltanto voci contrarie, come quelle degli onorevoli Villabruna e Bettiol, che mi hanno preceduto immediatamente nella discussione. Per l’esclusione della donna dalla Magistratura, si è osservato che generalmente difettano nelle donne, per temperamento e per tendenza, quelle specifiche doti di esteriore autorevolezza e di interiore equilibrio, che sono indispensabili per l’esercizio della funzione giudiziaria, e che difficilmente si trovano anche negli uomini. Io non so fino a qual punto questa osservazione esprima una realtà o sia invece l’effetto di un pregiudizio misoneistico.

Certo, la donna è psicologicamente ed intellettualmente diversa dall’uomo; certo, secondo la tradizione e secondo la concezione che la grande maggioranza di noi ha della donna, che vorremmo vedere conservata alla più alta funzione della maternità, essa non sembra molto idonea a quella del giudicare, come non si è dimostrata molto idonea nell’esercizio della professione forense. Ma non credo che si possa in questa materia procedere per affermazioni astratte, generalizzatrici. V’è tutto un progresso nella cultura, nelle attitudini, nelle disposizioni della donna. V’è stato l’ingresso vivace della donna nelle varie branche del lavoro manuale ed intellettuale, per cui non ci possiamo arrestare ad una considerazione che può essere anche superata dalla realtà. Peraltro il problema della ammissione della donna nella Magistratura si può ritenere implicitamente risolto da altre norme, già approvate, della Costituzione; di fronte alle quali si potrebbe anche considerare superflua una esplicita dichiarazione, come quella proposta dalla Commissione nel primo comma dell’articolo 98, salvo che la ragione di essa non si debba rintracciare nell’inciso terminale: «nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario ecc.», e cioè nell’intendimento di limitare per le donne l’accesso alla Magistratura, che, in mancanza di una espressa limitazione, si sarebbe dovuto considerare consentito in condizioni di perfetta parità con gli uomini. Ricordo l’articolo 3 della Costituzione, nel quale abbiamo fissato che i cittadini, senza distinzione di sesso, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia». Basterebbero queste disposizioni per aprire alla donna la via alla Magistratura. Ma v’è di più, perché nell’articolo 33 si assicura alla donna lavoratrice la parità di diritti con l’uomo lavoratore, e nell’articolo 48 si stabilisce che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza». Con quest’ultima disposizione si è riconosciuta alle donne la possibilità di accedere alla più alta carica di Presidente della Repubblica, che, secondo l’articolo 97 del progetto, comporta, ope legis, la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Quindi la proposta di ammettere le donne alla Magistratura non rappresenta che un corollario del principio dell’uguaglianza e della parità di diritti con l’uomo, tanto recisamente proclamato e ribadito.

E se questo è, se noi abbiamo fissato quelle norme costituzionali con l’intento d’impegnare il legislatore futuro, non potremo violarle noi stessi escludendo le donne dalla funzione giudiziaria. Perciò, mentre non credo che si possa negare a priori ed indiscriminatamente la capacità della donna – capacità, peraltro, da accertare caso per caso attraverso il rigore del concorso e del tirocinio, come per tutti gli altri aspiranti alla Magistratura – ritengo che non ci possiamo sottrarre, senza una troppo palese contradizione, alle conseguenze di quanto già abbiamo deliberato. Voglio aggiungere, però, che preferisco la formula della Commissione, contenente la riserva dei casi previsti dall’ordinamento giudiziario, all’emendamento proposto dalle onorevoli e gentili colleghe Mattei Teresa e Rossi Maria Maddalena, le quali vorrebbero che si dicesse che le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura. La riserva proposta dalla Commissione è opportuna, perché darà modo di adeguare l’ammissione delle donne alle esigenze dei diversi organi giudiziari ed ai risultati concreti dell’ardita innovazione.

Passo ad un altro problema, connesso con il tema dell’ammissione nella Magistratura, cioè al tema della carriera dei magistrati.

L’amico e collega Bozzi disse opportunamente ieri che bisogna sburocratizzare la magistratura; e a questo scopo corrispondono nel progetto costituzionale alcune norme che, secondo me, sono incondizionatamente da approvare. Cioè la norma che affida le assegnazioni ed i trasferimenti di sede e di funzioni, i provvedimenti disciplinari e in genere il governo della magistratura al Consiglio superiore; quella che sancisce l’inamovibilità dei magistrati, e il divieto di dispensa e retrocessione, se non con deliberazione del Consiglio superiore; e quella, infine, particolarmente sensibile, che stabilisce che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non per diversità di gradi.

Si è già sottolineata l’importanza di questa innovazione, che serve a svincolare la carriera dei magistrati non soltanto dalla soggezione al potere esterno del Ministro, ma anche dalla graduazione gerarchica, che è essa stessa ragione di parzialità e di insufficiente indipendenza, comportando non tanto l’ossequio dovuto naturalmente a chi ha la funzione direttiva dell’ufficio, ma anche l’adattamento della coscienza dell’inferiore alla volontà del superiore in grado nel momento della decisione in camera di consiglio, nel quale la coscienza dei decidenti dovrebbe potersi esternare in modo completamente libero ed indipendente. Tuttavia anche la diversità di funzioni comporta il concetto di promozioni, e pur di queste si parla nel progetto, affidandone il compito al Consiglio superiore della Magistratura. Ma le promozioni subordinate ad un accertamento periodico di merito attraverso concorsi per titoli o per esame aprono l’adito al pericolo di favoritismi e di transazioni di coscienza e tengono i funzionari in uno stato di ansietà e di reciproca gelosia. Onde io vorrei sottoporre all’esame della Commissione una mia idea: se cioè non convenga stabilire che le promozioni a funzioni più elevate debbano avvenire in base al solo criterio dell’anzianità, coordinato con un procedimento di eliminazione degl’incapaci e degl’indegni.

Una volta entrati in carriera, una volta ottenuto il riconoscimento della propria idoneità attraverso il concorso per l’ammissione in Magistratura e della propria attitudine attraverso il tirocinio, i magistrati non dovrebbero essere sottoposti ad esami o concorsi per l’ulteriore corso della carriera, salvo per accedere alla Corte di cassazione, per far parte della quale occorrono competenze specifiche ed attitudini particolari ed alla quale dovrebbero essere chiamati soltanto magistrati di valore eccezionale.

Accenno di sfuggita a un altro punto del progetto, che pure merita di essere considerato in rapporto all’indipendenza funzionale della Magistratura. Intendo riferirmi all’articolo 100, nel quale è detto che l’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria. Questa disposizione lascia il tempo che trova, in quanto non presenta nulla di nuovo rispetto alla situazione attuale, e mi sembra conveniente modificarla nel senso che sia messo a disposizione della Magistratura un proprio corpo di polizia, perché la Magistratura abbia il mezzo di far eseguire sempre, in ogni occasione, i proprî ordini.

Sinora ho parlato dell’indipendenza funzionale dei magistrati. Permettetemi ora, onorevoli colleghi, di esporre brevemente il mio pensiero su quello che è il punto cruciale della discussione apertasi qui dentro e fuori di qui, cioè sull’indipendenza costituzionale, ovvero sull’autonomia della funzione giudiziaria.

L’articolo 97 del progetto affronta la questione centrale circa il modo di realizzare costituzionalmente tale autonomia, accogliendo il criterio di attribuire a un Consiglio superiore autonomo il governo della Magistratura e riducendo le funzioni del Ministro della giustizia al compito di pubblico ministero nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati.

Questi hanno accolto favorevolmente la proposta del trasferimento dei poteri dal Ministro della giustizia al Consiglio superiore della Magistratura. Invece dalla grande maggioranza di essi – e qui dentro se ne sono avute ripercussioni autorevoli – si sono sollevate obiezioni vivacissime contro il modo di composizione del Consiglio superiore; e si è detto che soltanto un Consiglio formato esclusivamente o, quanto meno, prevalentemente di magistrati, può garantire istituzionalmente l’indipendenza della funzione giudiziaria. Ma quest’idea poggia sull’equivoco di confondere l’autonomia della funzione con quella dell’ordine che la esercita. L’istanza di indipendenza della funzione giudiziaria dalle altre funzioni dello Stato postula l’esigenza di abolire ogni vincolismo gerarchico della Magistratura dai poteri legislativo ed esecutivo, ma non postula necessariamente l’autogoverno di chi esercita la funzione giudiziaria. In altre parole, per realizzare l’indipendenza costituzionale della funzione giudiziaria, occorre che il governo dell’Ordine sia pienamente autonomo rispetto alle funzioni legislativa ed esecutiva, ma non pure che esso sia lasciato integralmente all’Ordine giudiziario. Onde, per stabilire se la creazione del Consiglio superiore, come proposto nel progetto, sodisfa all’esigenza dell’autonomia costituzionale della funzione giudiziaria, basta indagare se esso, nella sua composizione, sia un organo autonomo di governo, indipendente e dal potere legislativo e da quello esecutivo. La risposta non può non essere affermativa, perché la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura, mentre serve ad assicurare la necessaria armonizzazione di quello giudiziario con gli altri poteri dello Stato, non importa subordinazione o dipendenza verso questi ultimi.

La presidenza affidata al Presidente della Repubblica, mentre conferirà maggiore dignità al Consiglio superiore, simboleggerà nel seno del Consiglio stesso l’armonia del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato e costituirà, di per sé, una garanzia d’indipendenza.

Si è osservato che l’immissione nel Consiglio superiore di membri eletti dall’Assemblea Nazionale, e per giunta in numero pari ai rappresentanti dei magistrati, contiene il pericolo di subordinazione della Magistratura agli interessi dei partiti, e finirà col sopprimere l’indipendenza della Magistratura stessa. Ma si è dimenticato che l’Assemblea Nazionale sarà l’espressione sintetica della vita politica del Paese; che nell’Assemblea Nazionale saranno rappresentati pressoché tutti i partiti proporzionalmente alle loro forze e che la composizione dell’Assemblea si rifletterà nell’elezione dei componenti del Consiglio superiore, i quali risulteranno appartenenti alle diverse correnti politiche. Si è trascurato di considerare che a comporre il Consiglio superiore, per il fatto stesso che l’elezione spetterà alla massima Assemblea dello Stato, saranno chiamati cittadini eminenti e capaci di disimpegnare la funzione con piena indipendenza di giudizio: cittadini che in seno al Consiglio non si sentiranno rappresentanti dei partiti, ma supremi regolatori dell’Ordine giudiziario. Anche la durata della carica, superiore a quella dell’Assemblea Nazionale, costituirà elemento d’indipendenza.

Al contrario, un Consiglio superiore formato soltanto di rappresentanti dei magistrati imprimerebbe all’Ordine giudiziario il carattere di una casta chiusa, strutturalmente in antitesi con le altre forze dello Stato, e potrebbe favorire la formazione di clientele nell’interno della Magistratura e dare occasione a favoritismi incontrollati.

Quindi la soluzione proposta dalla Commissione a me pare la più adeguata per assicurare l’indipendenza della Magistratura senza il pericolo di turbare quell’armonizzazione tra le fondamentali funzioni statali, che è condizione indispensabile di una democrazia costituzionale.

Forse un correttivo si potrebbe introdurre nella proposta della Commissione, nel senso di non lasciare all’Assemblea Nazionale una facoltà indiscriminata di scelta dei componenti del Consiglio superiore e di determinare invece, costituzionalmente, le categorie degli eligendi, a somiglianza di quanto è previsto all’articolo 127 del progetto per la Corte costituzionale.

E se si teme che la funzione di pubblico ministero affidata al Ministro della giustizia nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati possa tramutare il Ministro stesso da promotore di giustizia in giudice, si trasferisca tale funzione al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.

Esaurito il tema dell’indipendenza della Magistratura, tratterò, con la maggiore brevità possibile, data l’ora tarda e la necessità di non abusare della cortesia dei colleghi, della unicità della giurisdizione. È pacifico che il frazionamento della funzione giurisdizionale in una molteplicità di organi disparati ed eterogenei contribuisce ad accrescere la crisi della certezza del diritto e che una buona giustizia deve essere concentrata nei giudici ordinari. Onde, a rigore, dovrebbe essere sancita l’unicità della giurisdizione non soltanto in materia civile e penale, ma anche in quella amministrativa. Ma, se al rigore del principio si ritiene di dover fare eccezione, conservando le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per determinate controversie che hanno bisogno di una particolare specializzazione del giudice, non si può certo consentire alla sopravvivenza delle disparate e numerose giurisdizioni speciali, che si son venute creando durante il fascismo e dopo il fascismo, per circostanze contingenti, per fini politici o peggio, per lo scopo, sia pure dissimulato con vari pretesti, di togliere le garanzie inerenti alla giurisdizione ordinaria. Sotto questo profilo il progetto di Costituzione è gravemente manchevole.

È vero che l’articolo 7 delle disposizioni transitorie prevede la revisione entro cinque anni degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti. Però l’articolo 95 consente l’istituzione di giudici speciali con legge approvata dalla maggioranza assoluta delle due Camere, per modo che si va incontro al pericolo dell’istituzione di nuovi giudici speciali. Occorre sopprimere questa facoltà, il che non significa divieto di giovarsi della partecipazione di esperti, in concorso con i magistrati ordinari, per la decisione delle controversie che richiedono una competenza tecnica specializzata, perché a tanto provvede il terzo comma del detto articolo 95, disponendo che «presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario».

Al principio dell’unità della giurisdizione non contradice la proposta, contenuta nell’articolo 96, di far partecipare direttamente il popolo all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise, perché le Corti d’assise sono organi di giurisdizione ordinaria e tali rimangono anche con la partecipazione diretta di elementi popolari.

Sotto altro riflesso il tema della giuria è interessante e, di fatto, ha interessato molto la discussione di questi ultimi due giorni; ed io intendo occuparmene solo perché la mia opinione in proposito non coincide con quella espressa dai colleghi che mi hanno preceduto.

Dall’appassionata critica dell’onorevole Turco all’ultimo discorso dell’onorevole Bettiol, attraverso l’altro discorso dell’onorevole Villabruna, ho ascoltato una serrata critica dell’istituto della giuria; e se realmente la giuria presentasse soltanto i difetti posti in luce dai colleghi e non avesse, per contro, alcun pregio, non mi resterebbe che sottoscrivere all’ostracismo tanto autorevolmente sostenuto.

Ma bisogna riconoscere che vi sono buone ragioni pro e contro la giuria.

Io    che, in seno alla prima Commissione legislativa e nel Comitato dei redattori sulla riforma delle Corti di assise, sostenni la tesi opposta a quella dell’amico Turco, non ho difficoltà ad ammettere che l’incompetenza dei giurati, il verdetto monosillabico, la mancanza di motivazione, l’impossibilità dell’appello sono certamente inconvenienti molto gravi e che devono fare riflettere molto prima di adottare una decisione.

D’altro canto, io – che pur sento preferenza nelle condizioni attuali per l’istituto della giuria – non sottoscriverei all’affermazione di coloro che vedono nella giuria una garanzia insopprimibile di libertà democratica. Convengo, invece, con l’onorevole Bettiol, il quale diceva poco fa che una cosa è la giustizia ed una cosa diversa è la politica; e riconosco pure che si può organizzare una giustizia democratica pur senza la giuria.

La democraticità della giustizia si acquisisce con l’investitura democratica dei giudici, con le garanzie di libertà e di indipendenza, con la formazione di un Ordine giudiziario che sia veramente libero, che ubbidisca solamente alla legge, che non sia mancipio di tendenze politiche, che non sia strumento della maggioranza, ai danni della minoranza.

Però, in contrario, a me sembra prevalente la considerazione che nei più gravi delitti, in quei delitti che più offendono la sensibilità popolare, e specialmente nei delitti passionali ed in quelli politici (per i quali ultimi penso che la giuria sia una necessità), il giudice popolare porta nel processo una nota più schiettamente viva ed umana, che è espressione di giustizia, se la giustizia penale deve tendere alla reintegrazione dell’ordine sociale offeso.

Il magistrato togato, attraverso l’abitudine costante e quotidiana dell’applicazione della legge scritta, talvolta diventa schiavo del formalismo giuridico, che in qualche caso si risolve in una ingiustizia sostanziale. Per contro i giurati – bisogna pure riconoscerlo – hanno impresso sovente un impulso rinnovatore e adeguatore della legge alla mutata coscienza giuridica del popolo. Le frequenti assoluzioni di mariti imputati di uxoricidi commessi per sorpresa in flagrante adulterio, che sotto un punto di vista formale furono qualificate scandalose violazioni della legge, in sostanza non rappresentavano altro che la ribellione del sentimento popolare ad irrogare una pena ritenuta eccessiva, la manifestazione di un contrasto tra la legge scritta e la coscienza giuridica del popolo, vale a dire la condanna dell’ingiustizia della norma codificata. E quella ribellione contribuì alla riforma dell’articolo 587 del Codice penale che nel testo attuale prevede la figura attenuata dell’omicidio per causa d’onore. Basterebbero queste osservazioni per consigliare maggiore ponderatezza prima di respingere l’istituto della giuria. Peraltro io ritengo che una approfondita disamina non occorra in questo momento, perché, pur convinto che nella contingenza attuale sia da introdurre la giuria nei giudizi di Corte d’assise e che essa rappresenti un progresso di fronte all’ibridismo di un corpo giudicante misto, qual è quello in vigore, penso che stabilire se vi debba o non vi debba essere la giuria non è materia costituzionale. Onde io finisco col proporre la soppressione della disposizione imperativa dell’articolo 96 ed una formulazione facoltativa che compendi l’articolo 96 ed il terzo comma dell’articolo 95 nei seguenti termini: «Presso gli organi giudiziari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate anche con la partecipazione, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, di cittadini esperti e di elementi popolari».

In questa maniera si eviteranno l’errore ed il danno di una situazione invariabile su una questione, che in sostanza è di diritto processuale e sulla quale conviene lasciare libertà di deliberazione al legislatore, perché possa risolverla in un senso o nell’altro secondo le mutevoli contingenze del tempo.

Brevissime parole sul problema della Cassazione unica, egregiamente difesa iersera dall’amico Bozzi, contrastata oggi dall’onorevole Villabruna con un ordine del giorno a firma di numerosi colleghi antiregionalisti, convertiti per l’occasione ad un regionalismo integrale.

I presentatori dell’ordine del giorno, tutti piemontesi, invocano il ripristino delle Cassazioni regionali, a cominciare beninteso da quella di Torino, anzitutto perché – essi dicono – il decentramento deve attuarsi anche nel campo dell’amministrazione della giustizia. Essi invocano, cioè, l’applicazione del decentramento in un settore col quale non ha nulla che vedere e nel quale anzi ci si deve ispirare al principio opposto, perché la funzione della Corte di cassazione, suprema regolatrice del diritto, è essenzialmente unitaria.

L’unificazione della Cassazione in materia civile – deliberata dal Governo fascista nel 1923, a somiglianza della preesistente unicità in materia penale – non fu un provvedimento di carattere politico determinato dall’indirizzo accentratore del fascismo, ma l’attuazione di un criterio sostenuto dai maggiori esponenti della scienza giuridica, della magistratura e del foro. Le Cassazioni regionali, retaggio degli antichi staterelli, portavano al frazionamento ed alla contraddittorietà della giurisprudenza con grave pregiudizio per la certezza del diritto. La Cassazione unica, in conformità di quanto praticato negli altri maggiori paesi di Europa, ha realizzato indubbiamente un progresso, pervenendo alla unificazione della giurisprudenza, ma evitando il pericolo della cristallizzazione o della immobilizzazione di essa. L’esperienza di quasi un venticinquennio dimostra che la Cassazione unica ha favorito l’interpretazione uniforme della legge, anche nelle questioni più controverse, attraverso un processo di elaborazione mediante decisioni diverse, che, mentre sono inevitabili data l’opinabilità della materia, concorrono alla determinazione della communis opinio, ed ha eliminato il grave inconveniente di una contemporanea interpretazione contrastante da parte delle varie Cassazioni regionali. Perciò può dirsi assicurata l’esigenza di una interpretazione unitaria non sottratta alla possibilità di una ragionevole revisione.

Non mi attarderò a controbattere i singoli argomenti esposti dall’onorevole Villabruna, rilevando soltanto come l’affermazione che il ripristino delle Cassazioni regionali risponderebbe ad un criterio democratico di avvicinamento della giustizia al popolo, attraverso l’economia della spesa, è inconsistente, perché la sola economia realizzabile con la ricostituzione, per esempio, della Cassazione di Torino, sarebbe quella nel costo del viaggio del difensore per recarsi dalla sua normale residenza a Torino anziché a Roma. Voglio notare, invece, che lo stesso ordine del giorno della deputazione piemontese confessa l’esigenza di un organo unico, supremo regolatore per tutto il territorio della Repubblica, quando dichiara che al coordinamento e, se del caso, alla unificazione della giurisprudenza ben saranno in grado di provvedere, come vi provvedevano prima del 1923, le Sezioni Unite. Queste dovrebbero, dunque, provvedere alla eliminazione dei contrasti tra le varie Cassazioni regionali. Ma il rimedio delle Sezioni Unite, mentre non eliminerebbe il contrasto, che di per sé rappresenterebbe un regresso, presupporrebbe la ribellione del giudice di rinvio alla decisione della Corte di cassazione regionale ed il successivo ricorso alle Sezioni Unite. E per far ciò occorrerebbe eliminare dal Codice di procedura civile la norma che il giudice di rinvio è vincolato dal principio fissato dalla Corte di cassazione e ripristinare la possibilità della ribellione e del conseguente ricorso alle Sezioni Unite. Non intendo esaminare se tutto questo sia conforme all’economia ed alla serietà della funzione giudiziaria. Aggiungerò invece che il rimedio delle Sezioni Unite sarebbe frustrato tutte le volte che il giudice di rinvio si uniformasse alla decisione della Cassazione regionale. In tali casi si avrebbe questa situazione paradossale, che una stessa norma di diritto sarebbe interpretata ed applicata diversamente nelle varie regioni d’Italia.

Concludo con l’augurio che le nostre deliberazioni su quest’ultima parte della Costituzione costruiscano le fondamenta di un ordinamento giudiziario rispondente alla suprema esigenza della tutela dei diritti e delle libertà del cittadino. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 10.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se sono stati identificati ed arrestati gli autori dell’assassinio premeditato, consumato per brutale malvagità nella persona del giovane Mario Petruccelli, appartenente al Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque di Sesto San Giovanni.

«Mastrojanni».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali serie difficoltà si oppongono per concedere i fondi necessari (circa 18 milioni annui, per dieci anni) per l’elettrodotto sottomarino necessario a dare l’energia elettrica alle isole di Ischia e di Procida (Napoli) i cui 45.000 abitanti sono da anni condannati al buio.

«Sansone».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non intende, ai sensi dell’articolo 13 della legge 20 giugno 1865, prorogare il termine – per almeno due anni – di cui all’articolo 3 del decreto 23 settembre 1938, riguardante la Mostra d’Oltremare di Napoli per evitare che il 18 novembre prossimo – senza che siasi ancora deciso sulla riorganizzazione, sviluppo, o destino della Mostra stessa – siano restituite estensioni notevoli di terreno già dichiarate necessarie per la pubblica utilità. Considerando, altresì, che la proroga invocata è conforme ad una richiesta avanzata dal Consiglio comunale di Napoli e che non è pregiudizievole per i diritti di alcuno, nel mentre si potrà seriamente pensare alla riorganizzazione del complesso tuttora abbandonato.

«Sansone».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se è vero che è di imminente adozione un provvedimento tendente alla riorganizzazione dell’Istituto centrale di statistica ed alla conseguente immissione nei ruoli dell’Amministrazione centrale solo di una aliquota del personale dipendente; ed in caso affermativo per conoscere:

  1. a) in base a quali criteri si intendano ridurre i quadri del personale, e quindi l’efficienza di un servizio che allo stato attuale, come è stato pubblicamente e autorevolmente denunciato, si trova in condizioni estremamente arretrate e pertanto richiederebbe, invece, di essere ulteriormente sviluppato, perfezionato e coordinato con tutte le altre attività statistiche razionali;
  2. b) in base a quali considerazioni si intenda immettere nei ruoli dello Stato solo parte del personale e quale sorte è riservata al personale non immesso in ruolo alla scadenza dei singoli contratti;
  3. c) se, data la crescente importanza dei servizi statistici razionali, anche per i loro riflessi in campo internazionale, non ritiene opportuno di investire della materia l’Assemblea, o per essa la competente Commissione legislativa, in modo che un provvedimento di tanta gravità garantisca, oltre che la tutela dei diritti di tutti i dipendenti, anche il necessario potenziamento dei servizi statistici nel superiore interesse della Nazione.

«Sansone».

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Faccio notare che, per quanto riguarda la mia seconda interrogazione, il termine, ai sensi del decreto che istituisce la Mostra d’Oltremare, scade il 18 novembre; se il Ministro dei lavori pubblici per quella data non avrà emesso il provvedimento che ci auguriamo, i terreni saranno restituiti ai proprietari. Ora, ad evitare un danno alla Mostra stessa, esprimo il desiderio che il Ministro voglia rispondere in tempo utile.

PRESIDENTE. Sta bene: riferirò al Ministro dei lavori pubblici. E così pure darò comunicazione, ai Ministri competenti, delle altre interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione, per sapere se non ravvisino l’urgenza di procedere allo svincolo dei centri minori dalle norme del regolamento edilizio per le costruzioni scolastiche. L’applicazione di quel regolamento, unico per tutte le regioni, le città, ed i villaggi, si risolve anzitutto a danno del carattere pittoresco delle nostre borgate, e, comportando oneri gravissimi, compromette il necessario più vasto sviluppo della edilizia scolastica, deficientissima particolarmente nelle borgate rurali e montane, per le quali le nuove costruzioni dovrebbero aderire alle effettive modeste necessità locali, pure rispondendo alle fondamentali esigenze igienico-sanitarie.

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e commercio, per conoscere se sia vero che il Governo intende sopprimere l’Istituto cotoniero italiano; e in caso affermativo quali ne siano le ragioni.

«Tremelloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, su gli incidenti verificatisi a Napoli mercoledì 5 novembre, in occasione di un corteo funebre.

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dei trasporti, del tesoro, delle finanze e delle poste e telecomunicazioni, per conoscere le ragioni che li hanno indotti e li inducono a non dare esecuzione al decreto legislativo 2 giugno 1946, n. 502, non mai abrogato, che stabiliva la cessazione della Gestione raggruppamenti autocarri (G.R.A.) e a permettere invece che detto Ente:

  1. a) continui la sua attività, acquistando altro materiale automobilistico, mediante grosse operazioni finanziarie con istituti di credito;
  2. b) assuma servizi indiscriminati di carattere turistico e sportivo e di indole strettamente commerciale mediante forme di pubblicità inconsuete per servizi statali e parastatali;
  3. c) usufruisca di assegnazioni di benzina pari a circa al 17,50 per cento di tutto il contingente destinato agli autotrasporti privati di cose;
  4. d) non sia sottoposto ad alcun onere fiscale e tributario con gravissimo danno per l’Erario;
  5. e) sia esentato dal pagamento dei diritti postali per i trasporti dei pacchi e dei colli;
  6. f) possa effettuare l’importazione dei carburanti ad esso assegnati con impiego di notevoli entità di valuta pregiata (dollari), che potrebbero essere utilizzati per altri prodotti di prima necessità;
  7. g) sia esonerato dalla osservanza delle disposizioni di cui al decreto legislativo 19 luglio 1946, n. 89.

Ciò premesso e prescindendo da altri privilegi, riconosciuti al G.R.A. nell’esercizio della sua attività, si chiede agli onorevoli Ministri interpellati se non ritengano opportuno e necessario, nell’interesse della economia in generale e dei trasporti in particolare, nominare una commissione di esperti dei Ministeri competenti e degli autotrasportatori privati, che esprima il proprio parere sulla utilità economica del G.R.A. e indichi in quale modo si possa addivenire alla sua liquidazione con il minor danno possibile per i lavoratori che vi sono addetti e per l’Erario.

«Fuschini, Balduzzi, Moro, Scalfaro, Mannironi, Murgia».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della marina mercantile, per sapere perché è stato tolto lo scalo a Catania della linea Napoli-Siracusa-Malta-Tripoli e viceversa, mentre prima della guerra il piroscafo faceva scalo a Catania sia all’andata che al ritorno.

«L’interrogante chiede che sia ripristinato tale servizio, oltre che nell’interesse della città, anche dei viaggiatori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi al Ministro competente quella per la quale si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cclxxxii.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Dominedò

Ruggiero

Crispo

Russo Perez

La seduta comincia alle 11.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Di Giovanni e Preziosi.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Essendo assente l’onorevole Carignani, al quale spetterebbe la parola, ha facoltà di parlare l’onorevole Dominedò.

DOMINEDÒ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sia consentito qualche rilievo di ordine generale sul Titolo della Magistratura, che l’Assemblea Costituente è chiamata ad esaminare a chiusura della sua opera di costruzione costituzionale. E sia consentito qualche rilievo, proprio per il motivo che, questo Titolo sta forse a rappresentare nella seconda parte del progetto di Costituzione qualche cosa di così praticamente importante da potere essere ragguagliato a ciò che nella prima parte del progetto era raffigurato dal Titolo sui rapporti economici e quindi, più precisamente, sulla giustizia sociale.

Come nella prima parte della Costituzione rivolta a definire i diritti del cittadino, se non avessimo sancito le norme tendenti ad attuare gradualmente la giustizia sociale e con essa il principio di democrazia economica, avremmo ferito la possibilità stessa di attuare la democrazia politica, così, nella seconda parte rivolta a costruire l’architettura dello Stato democratico, se non garantissimo adeguatamente il funzionamento della giustizia, espressione della volontà del potere giurisdizionale, verremmo meno praticamente alle finalità stesse che ci siamo proposte nella nostra opera.

Senza la garanzia suprema ed ultima della giustizia, non vi è creazione alcuna di diritto costituzionale che possa riempire il quadro, per quanto prospettata nello schema di una costruzione teorica apparentemente ineccepibile, più o meno vicina al tipo di Weimar, formalmente mirabile. Come diceva Alessio de Tocqueville, ciò che attiene alle garanzie del potere giurisdizionale, e quindi alla funzione stessa della giustizia, è in verità quanto di più vitale esista nelle Costituzioni moderne.

Questo raffronto fra il risalto che deve conferirsi alle norme sulla giustizia sociale da un lato e a quelle sulla giustizia in generale dall’altro, appare pertanto tale da legittimare un rapido intervento nella materia. Alieno come sono dall’indugiare su aspetti già considerati da quanti abbiano mietuto nel vasto campo, alieno come mi ritengo dal prolungare discussioni generali che siano semplicemente fine a se stesse, mirerei piuttosto a qualche considerazione, la quale possa pesare per l’ora in cui saremo chiamati a prendere le nostre decisioni. Occorre prendere atteggiamenti definitivi in relazione a questa parte del progetto, che sarà d’importanza fondamentale per dare il senso della continuità storica alla nostra Costituzione.

Posti questi rilievi preliminari, io vorrei ora chiedermi quale sia veramente lo spirito informatore del Titolo della Costituzione che disciplina il potere giurisdizionale. E vorrei tentare di coglierne l’essenza, poiché, se a ciò riuscissimo, avremmo forse trovato il metodo per risolvere tutte le questioni particolari, alcune delle quali così gravi, che sorgeranno in sede di disciplina particolare. Infatti, ci basterebbe allora adeguare i criteri per la soluzione dei problemi singoli alla definizione del concetto ispiratore di tutta la materia, là dove si giungesse in realtà a determinarlo.

Ora a me pare, cercando di seguire la trafila dei lavori preparatori e la gestazione spesso faticosa delle Commissioni, ma soprattutto sforzandomi di sentire quella che è l’aspirazione della nostra coscienza, nella veste di rappresentanti del popolo italiano in sede costituente, a me pare che la finalità centrale – e perciò lo spirito informatore del Titolo – sia esattamente quella di assicurare l’indipendenza della funzione giurisdizionale e quindi la figura del giudice libero.

Mi guardo a questo proposito da reminiscenze storiche che mi potrebbero condurre troppo oltre, sino alla scuola del diritto libero. Lascio Kantorowicz ed i suoi continuatori, perché, quando parlo di giudice libero, intendo evidentemente direi giudice libero nell’alveo della legge.

La scuola del diritto libero fa del giudice qualche cosa che si allontana dalla nostra concezione fondamentale, poiché, attraverso il così detto potere creativo del diritto nel caso concreto, il giudice finisce per sovrapporsi alla legge. Non è questa presunta libertà che noi vogliamo in un ordinamento italico e latino, il quale si ricollega necessariamente alla tradizione romanista, la più pura della nostra civiltà giuridica. Noi vogliamo un giudice libero, il quale sia ad un tempo ancorato al diritto positivo, un giudice libero che operi nell’orbita della legge, un giudice libero che dica il diritto nel caso singolo, ma insieme si inchini alla creazione generale ed astratta del diritto, la quale è opera di altri poteri dello Stato e, per il nostro ordinamento, rappresenta garanzia di giustizia, di libertà, di democrazia.

Sul piano del così detto giudice libero, il quale operi con una propria volontà creatrice nel caso singolo, noi ricordiamo quali abusi e degenerazioni siano possibili. Là dove la certezza del diritto venga meno, noi sentiamo che la funzione giurisdizionale non è più garanzia di libertà, ma strumento di oppressione della libertà. Noi sappiamo che il giudice, il quale sia libero, nel senso di poter incondizionatamente interpretare la cosiddetta coscienza popolare, e cioè una asserita coscienza collettiva, non consacrata né in diritto scritto né consuetudinario, si trasforma in un giudice che potrà seguire sino all’estrema degenerazione il concetto della Führung, presunta interprete della volontà collettiva. Signori, quel giudice tradirà il diritto: egli non sarà segnacolo di libertà, bensì veicolo di servitù. E la storia troppo recente dei nostri tempi parla duramente in questo senso.

Vogliamo invece un giudice duttile, libero nella legge, il quale abbia il senso sociale del diritto, il senso dell’avvicinamento del diritto alla vita; questo, sì, noi intendiamo.

Riprendendo una espressione nota nel campo del diritto, miriamo ad un giudice che sia sensibile non alla sola giurisprudenza dei concetti, alla giurisprudenza teoretica, schematica o dottrinale, ma che faccia penetrare la vita nelle pieghe del diritto, che sia sensibile alla giurisprudenza degli interessi, se si vorrà ricordare la formula della Interessenjurisprudenz in antitesi alla Begriffjurisprudenz. Noi a questo tendiamo, poiché è questo che fa parte del nostro senso sociale del diritto, aderente alla viva realtà delle cose. Noi non concepiamo un diritto che sia avulso dalla coscienza sociale del popolo e che per ciò stesso non risponda alle esigenze della storia.

Ecco, precisamente: vogliamo che il diritto sia nutrito di socialità, non solo nella fase creatrice, ma anche nella fase applicativa. Questo fa parte del nostro senso umano, del nostro spirito della democrazia. Questo, sì, noi vogliamo. Ma ciò inquadriamo proprio nel principio di libertà del giudice nell’ambito della legge. Perché, a chi ben guardi, accentuare il senso di socialità del diritto, porsi a contatto col palpito della coscienza comune, significa veramente cogliere lo spirito della legge, essere cioè sul piano di chi applichi, di chi dica il diritto nello stesso quadro in cui il legislatore, espressione della volontà collettiva, lo formulò, lo creò. Siamo pertanto coerenti a noi stessi, quando si accentua questa nota sociale nella fase applicativa della legge. Poiché non si rinnega, bensì si avvalora il principio della certezza del diritto, quando affermiamo che un giudice libero, così nutrito di socialità nell’esercizio della sua virtù discrezionale, debba operare ad un tempo nel campo del diritto costituito e preservare quindi l’esigenza suprema della intangibilità del diritto obiettivo. Servi della legge per poterci dire liberi, secondo la grande parola di Cicerone.

Se tutto ciò è, come fermamente credo che sia quando interpello gli strati più profondi della mia coscienza, ritengo che, sulla base di un tale criterio ispiratore, noi possiamo ora serenamente affrontare la disciplina speciale della materia, qual è prevista e quale si snoda particolareggiatamente in questo Titolo della Costituzione che andiamo per esaminare. Noi potremo vagliare questo Titolo e forse introdurvi delle varianti con perfetta coerenza ai nostri punti di partenza. Soprattutto, per essere rapidi in questo intervento, potremo, alla luce dei principî direttivi, impostare subito due dei problemi fondamentali che saremo chiamati a trattare nell’esame della materia.

La premessa che ho tentato di svolgere sulla figura del giudice quale scaturisce dallo spirito del nuovo ordinamento, dalle caratteristiche essenziali cui la Costituzione ha mirato, non può infatti non giovare per dissipare alcuni equivoci, per rispondere ad alcune obiezioni che concernono precisamente i due punti, forse essenziali, del Titolo su cui dovremo discutere.

Il primo punto corrisponde al testo dell’articolo 97 del progetto e riguarda la configurazione dell’organo supremo che sta a capo del potere giurisdizionale, il Consiglio Superiore della Magistratura. Colleghi della Costituente, noi ci troviamo dinanzi a questa situazione, secondo lo schema di progetto elaborato dalla Commissione dei Settantacinque: dopo una serie di discussioni intorno a questo delicato punto, ha prevalso il concetto per cui l’organo preposto al vertice del potere giurisdizionale – il detto Consiglio Superiore della Magistratura – dovrebbe promanare ad un tempo dall’ordine giudiziario e dalle Camere legislative, rappresentate da quell’Assemblea nazionale che non a torto abbiamo a suo tempo condannato. Duplice afflusso, in parti uguali, da parte dei rappresentanti del potere legislativo e da parte dei rappresentanti del potere giurisdizionale; e, come coronamento la presidenza dell’organo affidata allo stesso Capo dello Stato.

Entro certi limiti, sarei anche disposto ad inchinarmi all’esigenza che può aver ispirato questa concezione e non avrei difficoltà a riconoscere che, almeno negli intendimenti, vi possa essere stata la volontà di perseguire così una democratica costituzione. Si è forse pensato che in questo modo si potesse istituire una forma superiore di sindacato nei confronti del potere giurisdizionale; si è forse pensato che il suo funzionamento non dovesse restare autonomo e quasi avulso rispetto ad una possibilità di controllo da parte dell’organo che rappresenta direttamente la volontà popolare, cioè del legislativo.

Ma se anche in questo modo si fosse ritenuto di far salva un’esigenza democratica, io mi permetto di domandare se sia questo il sistema più rispondente al fine, dopo le considerazioni fin qui svolte sulla struttura, sull’essenza della funzione giurisdizionale e per ciò stesso sul concetto ispiratore della nostra Carta costituzionale, destinata a creare il giudice libero nella legge ed il potere giurisdizionale indipendente nell’ordinamento costituzionale. E credo di poter affermare che, per un duplice ordine di considerazioni, la via prescelta dal progetto non sembra la più idonea a fronteggiare l’esigenza, che può aver determinato i proponenti nel senso contemplato dall’articolo 97.

Anzitutto, da un punto di vista generale, vorrei dire che il principio della divisione dei poteri, che non intendo qui invocare in un senso meccanico o dottrinale, già starebbe, almeno nel suo significato più schietto, contro una contaminazione così aperta nel funzionamento dei diversi poteri dello Stato. Ma, prescindendo da ogni arido schematismo nella critica della norma ed andando alla sostanza delle cose, io osservo che, se è vero che il giudice è investito della sua potestà solo a seguito di un insieme di garanzie, e cioè di un sistema complesso ed organico, costituzionalmente previsto, in forza del quale esclusivamente egli diventa titolare della jurisdictio, del suo potere di dire il diritto, se questo è, come è, noi siamo già dinanzi a una decisiva garanzia d’ordine costituzionale, eccedente gli stessi schemi di Montesquieu. In questo senso: che oggi il giudice in tanto potrà esercitare quelle funzioni in quanto esse gli siano conferite secondo un moderno e perfezionato quadro costituzionale, con le garanzie quivi volute, concepite e formulate, tutte snodatigli secondo quanto rappresenta il frutto di una dichiarazione di volontà la quale, in ultima analisi, è dovuta alla stessa volontà popolare.

Se oggi costituzionalmente il giudice può dire il diritto in forza del complesso delle più adeguate garanzie che a ciò l’abilitano, ecco una prima risposta di ordine sostanziale, e non solamente formale, rispetto all’esigenza di ricollegare anche il potere giurisdizionale alla volontà popolare. Il vero controllo sulla giurisdizione è questo: che il giudice risulta investito dei suoi naturali poteri ed è conseguentemente impegnato alla propria elevazione morale e tecnica, in perfetta armonia con la volontà popolare che trova l’espressione ultima nella Carta costituzionale.

Ma vi è dell’altro. Se per assurda ipotesi ciò non dovesse essere, noi cadremmo in contradizione, venendo meno a quella stessa esigenza che ponevamo all’inizio come criterio ispiratore di tutta la materia. In questo senso: che potremmo menomare quella superiore necessità per cui, nel momento in cui si deve applicare la legge, la politica cessa di essere la protagonista e la parola passa al diritto. Nel momento stesso in cui deve funzionare il potere giurisdizionale, importa porre il giudice in condizione di essere effettivamente libero, se vogliamo ancora parlare di certezza del diritto, ricordando nuovamente Tocqueville che definiva l’arbitrario nella giustizia come il volto stesso della barbarie, e invocando l’evoluzione dei paesi a più alta tradizione democratica, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, i quali attraverso i poteri del Lord Advocate e la competenza della Suprema Corte hanno rispettivamente contemplato una partecipazione del giudiziario al legislativo, non mai una interferenza del legislativo nel giudiziario.

Ecco dunque la necessità di voltare pagina quando si passi a dire il diritto. Da allora noi pensiamo che la politica non debba più operare nel senso stretto del termine, senza volerci con ciò sottrarre ad una sana politicità del giudice, nello stesso modo in cui poco fa accentuavamo il senso di socialità della funzione giurisdizionale e in genere la sua aderenza alla voce dei tempi. Ma la politica in senso effettivo, diretta ed immediata, cioè l’efficacia determinante del gioco delle varie forze di parte, non può influire che in una prima fase: la creazione del diritto. La seconda fase, quella della più severa attuazione del diritto, se vuole essere effettivamente ricondotta all’imparziale autorità dello Stato, deve far capo al potere competente, venendo sottratta al riflesso di quel giuoco e della sua azione perturbatrice.

Ecco la risposta che tranquillizza una coscienza democratica. Probabilmente si potrebbe anche concepire una soluzione intermedia o di temperamento rispetto al sistema dell’articolo 97, poiché non ho difficoltà a riconoscere che la divisione dei poteri strettamente concepita è qualche cosa di schematico, talvolta lontano dalla vita, al punto di non avervi eccessivamente fatto leva per la dimostrazione della mia tesi. Considerando infatti che noi non dobbiamo semplicemente creare i pezzi di uno Stato, bensì lo Stato stesso nella sua unità, e cioè un congegno coordinato in vista delle sue inscindibili finalità, forse si potrebbe venire parzialmente incontro alla tesi discussa, ricercando delle soluzioni fondate su una rappresentanza ridotta e non perturbatrice del potere legislativo nel seno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Come si osservava da un eminente collega della Commissione dei Settantacinque, il Perassi, anche la tesi di una rappresentanza simbolica potrebbe esprimere la funzionalità unitaria dei vari poteri dello Stato, rispetto alle finalità giuridiche e politiche che esso è chiamato ad assolvere. A rigore, basterebbe la presenza di un solo rappresentante del legislativo per allontanare il pericolo dell’hortus conclusus, superando il luogo comune di una casta separata e irresponsabile, mediante la proiezione esterna dei suoi atti. Ma è questione di particolari, e su ciò ci riserviamo di tornare in sede di emendamenti. Oggi resta affermata questa esigenza logica e politica, in armonia all’insegnamento dei nostri maggiori, da Gianturco a Scialoja: che, in coerenza del postulato di un giudice libero nell’ambito della legge, noi dobbiamo dettare norme idonee a tradurre in atto il principio, sottraendo il giudicante alla possibile ripercussione di una lotta politica capace di turbarne l’indipendenza morale e per ciò stesso ponendolo in una condizione di superiore serenità rispetto alle passioni dell’ora.

Era questo il primo tema sul quale intendevo richiamare l’esame dell’Assemblea. Ma mi permetto ancora un momento di pregare l’attenzione dei colleghi per riferirmi ad un secondo punto, anche esso di centrale risalto, se vogliamo tendere ad attuare in concreto, a garantire effettivamente i principî dai quali abbiamo preso le mosse, e intorno ai quali può forse raccogliersi un prevalente consenso.

Il punto sul quale desidero di spendere una parola, sempre in via generale, è quello che concerne la Corte costituzionale. Se, come ritengo, questa Assemblea si orienterà verso la tesi della sua istituzione a garanzia e controllo di una osservanza fedele della Costituzione, se questo crederà logicamente di fare l’Assemblea per un ordinamento in cui, essendosi voluta una Costituzione rigida, occorrerà di continuo controllare la validità delle leggi attraverso la loro aderenza alla Costituzione, sorgerà allora, anche nell’ambito della Corte costituzionale, a termini dell’articolo 127 del progetto, un problema sostanzialmente analogo. Poiché noi dobbiamo porci questo quesito: la Corte costituzionale che funzione avrà? Creare il diritto o dire il diritto?

Ora alla Corte spetterà precisamente di dire il diritto nell’ambito della Costituzione, voluta e creata dagli organi rappresentativi della volontà popolare. Ed allora, anche in questa suprema opera di jurisdictio, la Corte costituzionale dovrà essere posta in una posizione di superiorità e di indipendenza, sia pure con l’inserzione di quelle rappresentanze che chiamavamo simboliche e potranno essere reali fino ad un certo limite, onde la sua funzione si svolga su un piano di tale elevatezza, di tale distacco dal pericolo di una influenza politica, che il cittadino italiano abbia la certezza di trovare così, negli organi contemplati dalla Carta costituzionale, la garanzia più alta per l’uniforme applicazione del diritto ai cittadini, tutti veramente uguali dinanzi alla maestà della legge.

Se ciò sarà, e noi confidiamo che così debba essere perché qui sta il significato ultimo della nostra fatica e questi sono i risultati cui dovremo pervenire per non compiere opera vana, noi potremo in piena coscienza ritenere di aver contribuito perché la costruzione del potere giurisdizionale risponda alla suprema esigenza di assicurare la giustizia, dono di Dio in terra, fondamento degli Stati, garanzia della libertà umana. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Praticolo, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. Onorevoli colleghi, il Titolo sulla Magistratura, attualmente sottoposto alla nostra considerazione, presenta una questione che – secondo me – ha importanza e giuridica e politica. È la questione che rinviene dall’ultimo comma dell’articolo 94; cioè la questione relativa al divieto di iscrizione dei magistrati nei partiti politici.

A proposito di questa norma, bisogna far subito un rilievo di carattere tecnico, che è questo: voi ricorderete che da parte dell’Assemblea fu approvato un articolo, il quale vietava l’esistenza delle associazioni segrete. Per questa ragione è assolutamente inutile sancire altra norma la quale faccia divieto particolare ai giudici di appartenere a questo genere di associazioni. Si capisce che, essendo vietata la esistenza delle associazioni segrete, è pure vietata l’appartenenza ad esse da parte di qualsiasi cittadino, e quindi pure da parte dei magistrati. Ne consegue che l’ultima parte dell’ultimo comma dell’articolo 94 deve essere necessariamente soppressa, per coerenza alla Costituzione – o, per lo meno – a quella parte della Costituzione che si riferisce a questo argomento.

Resta la questione essenziale di carattere politico e giuridico, contenuta nella norma la quale importa, così come è nel progetto, il divieto ai magistrati di iscrizione ai partiti politici. Con tutta modestia, onorevoli colleghi, io mi dichiaro contrario al progetto e ciò per una ragione la quale, oltre che essere giuridica mi pare schiettamente politica. E la ragione è questa: questa norma, come appare chiaro, stabilisce un rapporto tra i magistrati e i partiti politici, anche se il rapporto è espresso in forma negativa.

Dobbiamo quindi considerare la norma nei rapporti dell’uno e dell’altro termine, cioè nei confronti dei partiti politici da una parte e dei magistrati dall’altra. E se così è, onorevoli colleghi, mi pare che, quando si porti la nostra considerazione su uno dei termini, cioè sui partiti politici, voi vedete bene come questa norma presupponga qualche cosa che è, secondo me, chiaramente offensiva per i partiti politici.

Che cosa presuppone infatti la norma? La norma presuppone che, se è vero che esiste una certa suscettività da parte dei magistrati ad accedere a lusinghe esterne, è pur vere però che nella norma è presupposto il fatto di una attività illegittima ed antidemocratica da parte dei partiti, cioè di una attività politica la quale tenda a deformare la coscienza del giudice.

Come vedete quindi, noi arriveremmo a consacrare nella Costituzione la possibilità che i partiti politici operino contrariamente ai principî fondamentali della libertà e della democrazia; e mi pare che in un atto solenne e fondamentale quale è la Costituzione, ciò sia non soltanto inopportuno, ma veramente e stranamente offensivo per la nostra democrazia. A nessuno può sfuggire che questa norma è una sconsacrazione aprioristica della democrazia italiana, una svalutazione immanente della nostra democrazia, un giudizio preventivo e negativo dell’opera dei partiti. La Carta costituzionale è, in ultima analisi, la definizione etica di un popolo. E non è eccessivo da parte nostra consacrare nella Costituzione questa forma aprioristica di disonestà da parte dei partiti politici italiani? Con tutta modestia, onorevoli colleghi, vi dico che io mi rifiuto di pensare aprioristicamente che il mio partito possa essere capace di fare opera contraria alla libertà e alla democrazia; e vi dico anche che ho motivo di pensare che anche altri partiti non sono davvero capaci di addivenire mai ad una simile forma di attività.

Ora, se noi stabiliamo, attraverso la Carta costituzionale, che i partiti possono compiere quest’opera, mi pare che con ciò venga meno ogni presupposto etico-morale della politica italiana. Io penso che nessun deputato dell’Assemblea Costituente possa sottoscrivere una norma di questo genere, che come prima dicevo, si risolverebbe in un grave pregiudizio per la democrazia italiana.

Ma, onorevoli colleghi, a prescindere da questa prima considerazione che, come vi dicevo, riguarda uno dei termini della questione, cioè il termine «partiti politici», la questione va riguardata anche nei confronti del secondo termine, cioè dei «magistrati».

Ora, io mi domando se è data ai costituenti la facoltà di poter escludere dalla vita politica una classe di cittadini in omaggio ad un astratto principio di lesa giustizia, che fino a questo momento non abbiamo nessun diritto di ritenere che debba necessariamente essere nell’avvenire intaccato e leso. Io so che certe funzioni importano delle limitazioni e delle privazioni di diritto. Per esempio, gli avvocati, i cancellieri, i militari, i giudici stessi sono soggetti a limitazioni di attività e privazioni di diritto. Però bisogna pur vedere, onorevoli colleghi, la natura, la portata, l’entità di queste privazioni di diritto e di queste limitazioni di attività. In tutti i casi si tratta di attività e di diritti che hanno un carattere estrinseco, accessorio, non necessario, che non sono legati all’intima personalità dell’individuo, che non comportano la lesione di diritti di natura sociale.

Ma nella specie noi ci troviamo di fronte al fatto di escludere dalla vita politica tutta quanta una classe di cittadini, cioè di escluderla dall’esercizio di un diritto fondamentale e del cittadino. Non so come possa sfuggire l’importanza di questa limitazione nei confronti della classe dei magistrati italiani. Vedete, onorevoli colleghi, è vero che esiste una specie di concetto che chiamerei deteriore e negativo della politica; e di questo concetto molte volte si diventa inconsciamente vittime, per cui anche gli uomini politici non dànno alla politica quella rilevanza e quell’importanza che essa deve avere. E allora, penso che forse nei compilatori di questo progetto di Costituzione sia invalso questo concetto, cioè questa svalutazione della politica; se no non si poteva arrivare a consacrare una norma la quale nega un diritto così fondamentale ad una classe di cittadini. La politica non deve essere considerata come una superfetazione, come una soprastruttura; non deve essere considerata, come accade spesso, qualche cosa di dilettantistico o come una fiera di ambizioni o un mercato di vanità. La politica è necessità etica per il cittadino: è un dovere e un diritto.

Ora, se noi diamo della politica questa definizione, mi pare che dovremmo essere i primi a restare perplessi di fronte a questa esclusione di tutta una classe di cittadini dalla vita politica. La vita politica, nella sua vera accezione storica, intesa come continuità di umani eventi e pensieri, è un contrasto di ideali, un urto di interessi, un’espressione di valori etici, sia pure espressione contingente, ma espressione di tutto un popolo. La politica è la storia allo stato fluido che ogni giorno passa sotto i nostri occhi; è la vicenda che interessa ed impegna la nostra gente, la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, il nostro spirito.

Se questa è la politica, onorevoli colleghi (ed è questa) mi pare che non si possa escludere il giudice dal partecipare a questa forma di attività. Insomma, non possiamo relegare una classe di cittadini ai margini della vita, in una condizione di isolamento, in una zona neutra, in una specie di vuoto pneumatico, in omaggio a questo aprioristico ed astratto principio di eventuale lesione delle regole della giustizia.

Quindi, secondo me, il comma in esame non può essere ammesso nella Costituzione.

Ma esiste un terzo motivo di esclusione, che è questo. Io penso, molto modestamente, che questa norma si risolva in una specie di divieto formale, di nessun valore pratico, destituito di ogni concreta facoltà normativa: perché il giudice può rimanere fedele, o infedele alle sue funzioni, esista o non esista la norma. È impossibile che la norma possa determinare un giudice a questo o quello apprezzamento. Il giudice non è un’astrazione umana, ma è un uomo come tutti gli altri. È assurdo pensare che per effetto di questo divieto ad un certo momento il giudice diventi un essere completamente avulso dalla vita comune, destituito di ogni convincimento, insensibile agli impulsi della storia che si muove intorno a lui, isterilito nella speculazione dei principî giuridici, inteso solo alla interpretazione astratta ed all’applicazione automatica delle norme. Non mi sembra che il giudice possa vivere in questo ambiente di rarefazione metafisica. Il giudice non è la tabula rasa in cui è possibile incidere semplicemente il geroglifico non sempre decifrabile della formula di legge. Il giudice è un uomo come gli altri e, come tale, ha le sue passioni che gli vengono dal cuore, e i suoi interessi, che gli vengono dalla sua posizione di cittadino che vive nella umana società, e le sue opinioni, che gli vengono dalla sua facoltà raziocinante. E quindi, per questi motivi, penso che il giudice non possa rimanere legato, chiuso, costretto da questa norma, che secondo me si traduce poi praticamente in un divieto di carattere semplicemente formale. Infatti, a questo proposito i casi che possono verificarsi sono due: o il giudice viene sopraffatto dal suo convincimento, dal suo partito, dal suo interesse, dalla sua faziosa passione politica, da influenze esterne, e allora egli potrà determinarsi secondo modi che esulano dalla sua coscienza di galantuomo; oppure il giudice, per imprescindibile dirittura morale, riesce ad affrancarsi da ogni forma di soggezione interiore ed esteriore e seguirà allora il comandamento della giustizia e i precetti della sua coscienza.

Quindi, esista o non esista la norma, il giudice avrà sempre la possibilità di determinarsi come vuole: anzi, vi dirò questo, che forse (e non credo di esprimere un concetto peregrino, ma un concetto aderente alla realtà pratica di ogni giorno) è più pericoloso il giudice costretto ad una forma di agnosticismo formale, che il giudice il quale abbia fatto una pubblica professione di fede. Perché il primo può valersi della apparente neutralità politica per fare invalere il suo proposito infedele, mentre l’altro che ha fatto professione di fede politica mi sembra che sia legato e condizionato da quella professione di fede. Il caso del procuratore generale Pilotti, di cui si è parlato, è un esempio. Io penso che se, per esempio, il procuratore generale Pilotti fosse stato dichiaratamente iscritto al partito monarchico, molto probabilmente avrebbe avvertito un senso di peritanza, di pudore a compiere quel gesto che, come sapete, è stato commentato un po’ in tutto il paese. Egli ha commesso quell’atto, quel gesto, perché era garantito e difeso dalla sua condizione di neutralità politica.

Io penso che se, per esempio, un giudice, notoriamente democristiano, debba domani giudicare un imputato comunista, io penso che questo giudice metterà forse maggiore obiettività e cura e diligenza in quel caso che in altri casi; e così viceversa, se un giudice comunista dovesse giudicare un imputato democristiano.

È sempre una remora, un freno, una specie di controllo l’iscrizione. Quando si è espressa la propria opinione, si è legati a questa opinione. Quando si resta chiusi nel sacrario della propria coscienza si diventa impenetrabile ed ermetico. È questo un criterio pratico che io penso bisognerebbe tener presente nella valutazione della norma in esame. Accennerò ora brevemente alle piccole o grandi ragioni che hanno imposto nel progetto il divieto di iscrizione. C’è, per esempio, l’argomentazione dell’onorevole Mannironi, il quale dice: «per poter inserire nella psicologia popolare la necessaria fiducia nella Magistratura, è indispensabile che vi sia in tutti il convincimento che i magistrati sono liberi da legami di qualsiasi genere».

Io mi permetto di fare osservare che in questo modo – secondo me – la questione viene spostata, la questione non viene più valutata nella sua contenenza essenziale. Qui non viene in considerazione l’obiettivo della questione, cioè i due termini della questione, ma si pone sul piano della discussione un elemento estraneo: quello della fiducia popolare, e mi pare che così la questione si ponga erroneamente. Entrando in merito, dico che la fiducia popolare – secondo me – non può essere determinata dal fatto negativo della mancata iscrizione di un magistrato ad un partito politico, bensì deve essere determinata (questa è una regola di carattere etico da cui non si può prescindere) dalla condotta irreprensibile e indefettibile del giudice. Quindi, la fiducia deve nascere non dal fatto negativo della non iscrizione, ma dal fatto positivo della condotta del giudice.

Mi pare quindi, che non si possa tenere in considerazione questo argomento dell’onorevole Mannironi, perché si pone al centro della questione un elemento estraneo ai due termini della questione, cioè ai due termini in cui la questione deve essere chiusa e delimitata: i partiti politici e i magistrati.

Vi è poi un’altra obiezione che devo fare: quando l’onorevole Mannironi dice che bisogna suscitare nella psicologia popolare la fiducia nel giudice, mi pare che egli faccia una questione di semplice apparenza. Egli dice in sostanza questo: sia il giudice fedele o infedele alla sua funzione, si mantenga egli integro o meno, l’importante è che esista la fiducia popolare. Il che – secondo me – è una maniera di aggiustare le cose, di salvare le apparenze, di risolvere la questione su un terreno estraneo alla questione, superando molto semplicisticamente i termini giuridici e politici del problema. In effetti così si elude la questione riducendola ad un’espressione estrinseca di mera apparenza.

Esiste poi, a favore del principio di non iscrizione dei magistrati in partiti politici, un’altra argomentazione. Ed è dell’onorevole Ambrosini il quale sostiene che è necessario consacrare nella Carta costituzionale il divieto di appartenenza dei magistrati ai partiti politici e che i magistrati non devono sentirsi menomati da questa norma perché essi vengono, invece, da questa norma, posti al di sopra della politica, vengono posti (dice testualmente l’onorevole Ambrosini) «come su un altare». A proposito dei giudici che stanno sull’altare, devo dichiarare che questa è una frase retorica, vieta, che ha fatto il suo tempo, a cui i giudici non vogliono accedere e di cui si può parlare solamente quando si conoscano i giudici solo per sentito dire e non si è partecipato mai alla vita dei giudici. Tant’è vero, onorevoli colleghi, che il Primo Presidente della Corte di Cassazione, interpellato a proposito di questa norma, ebbe a dire che tale norma costituisce un grande sacrificio per la Magistratura. Sono le sue parole testuali. Quindi se questi giudici non vogliono stare sull’altare, ma vogliono scendere sulla strada, per vivere la vita degli uomini non possiamo metterceli per forza noi. Insomma, vedete, i magistrati non vogliono diventare santi di cartapesta, essi sono uomini di opinioni, di passioni, di sentimenti. Insomma, il giudice, vedete, si interessa pure lui di certi problemi fondamentali, ed essenziali, e qualche volta grandi ed eterni. Per esempio: la famiglia, la patria, l’umanità. Ed io mi domando: in ultima analisi di che cosa si occupa la politica se non proprio di questi grandi ed eterni problemi che si rinnovano ogni giorno? E se così è, se la politica è questa, come facciamo a dire a giudici: «voi non c’entrate in tutto questo, voi dovete solo subire; voi dovete estraniarvi dai grandi principî politici senza poter dire mai qualche cosa che venga dal vostro cuore o dal vostro cervello?»

Per questi motivi, che mi sembrano molto aderenti a quella che è la condizione pratica ed ideale della questione, mi sembra che debba essere soppresso il principio che pone il divieto d’iscrizione dei magistrati nei partiti politici e si debba dare al magistrato la possibilità di vivere la vita di tutti. Qui bisogna tener presente un altro principio fondamentale che è questo. Si può pensare che a un certo punto si crei un contrasto fra la libertà incondizionata, che è quella di esprimere da parte di tutti il proprio pensiero, e la lesione che potrebbe verificarsi domani in seno al principio della giustizia attraverso la politicità dei giudici. Guardiamo questi contrasti, questi conflitti, queste antitesi nel loro vero contenuto. Ed allora io vi dirò questo: forse è meglio che da parte di un giudice, di dieci giudici, di cento giudici, si compiano degli atti che ledano il principio della giustizia, ma che venga affermato il grande, immutabile principio della libertà di dire e di professare le proprie idee da parte di tutti. Insomma, se vengono in conflitto questi due grandi postulati dell’umanità, che sono il principio della libertà e il principio della giustizia, e se è vero che la giustizia è un aspetto del principio della libertà, mi pare che, se si debba sacrificare qualche cosa, debba sacrificarsi il principio subordinato. Ma questo è l’aspetto estremo della questione e del contrasto. Tenete presente, soprattutto, che noi con la norma contenuta nel progetto andiamo incontro alla consacrazione nella Carta costituzionale di quella svalutazione aprioristica dei partiti politici ed alla esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica nazionale. Tenete presente, onorevoli colleghi, il principio consacrato nella Carta costituzionale. Abbiamo detto: «Ad ogni cittadino compete il diritto di poter esprimere liberamente la propria opinione». Questo è sancito in un articolo approvato da noi tutti, ma è l’articolo più significativo della Costituzione perché esso è a base della rinnovata democrazia italiana.

Io penso che non dovremmo fare delle postille a questo articolo. Non dovremmo fare delle limitazioni a questo principio. Il principio sia tenuto nella sua interezza. Non bisogna umiliarlo con restrizioni e limitazioni.

Il principio della libertà sia quello che crediamo sia sempre stato e che sempre sarà per noi e per tutti gli italiani.

Questo principio venga tenuto e affermato al disopra di tutta la Costituzione, perché è principio fondamentale. Questo principio sia grande, sovrano, intangibile perché è il principio della libertà degli uomini. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Venditti, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, il problema della Magistratura s’identifica, a mio avviso, con quello della indipendenza del giudice, ossia della «competenza morale» del giudice, problema intorno al quale non è facile dire una parola nuova.

Il principio della indipendenza del giudice è solennemente consacrato nel progetto di Costituzione, quando si dice nell’articolo 94 che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge che interpretano ed applicano secondo coscienza»; quando si soggiunge che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete»; quando si afferma, nell’articolo 97, che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente»; quando, infine, per garantire tale autonomia e tale indipendenza, si stabilisce nell’articolo 99 che «i magistrati sono inamovibili».

Non v’è, dunque, un quesito da proporsi in rapporto alla indipendenza del giudice, ed occorre, invece, chiedersi soltanto se essa sia veramente e sufficientemente garantita con la norma relativa alla inamovibilità.

Prima che io risponda a questa domanda, mi sia consentito esprimere il mio dissenso dall’opinione or ora manifestata dall’onorevole Ruggiero, il quale ritiene che il divieto fatto al giudice di appartenere ad un partito politico costituisca evidente violazione di una delle libertà fondamentali del cittadino, e propone conseguentemente che il divieto stesso non sia mantenuto.

Le ragioni prospettate in proposito dall’onorevole Ruggiero sono innegabilmente interessanti, ma non riescono, in alcun modo, a persuadere chiunque abbia un elementare concetto della necessaria obbiettività del giudice, quale condizione dell’esercizio della sua funzione, e chiunque si renda conto della asprezza della lotta dei partiti, in un mondo completamente dominato da essi. È evidente che la norma è intesa a porre il giudice al di sopra dei partiti, ossia al di fuori di ogni passione di parte incompatibile con la funzione del giudice, nella superiorità morale d’una posizione che sia garanzia assoluta contro ogni sospetto che il giudice possa essere vincolato alla volontà o alla ideologia di una fazione, di un gruppo, o di un movimento politico qualunque.

Ogni conflitto, difatti, tra gruppi o individui di opposte tendenze, porrebbe il giudice partecipe di questo o quel partito, in una evidente difficoltà «morale nel dirimere il contrasto delle ragioni e degli interessi contrapposti, difficoltà che non potrebbe non influenzare la coscienza del giudice, onde sarebbero frequenti e innumerevoli i casi di astensione, e, più spesso, quelli di ricusazione.

Tornando al quesito che mi sono proposto, se cioè la norma dell’articolo 99, che stabilisce il principio della inamovibilità del giudice, costituisca garanzia sufficiente della di lui indipendenza, io non esito a rispondere negativamente. L’inamovibilità è, difatti, una garanzia soltanto per quei giudici che hanno raggiunto i supremi gradi della carriera, o che sono al termine di essa, per modo che, nell’uno o nell’altro caso, non possono avere alcuna preoccupazione di avanzamento. Il giovane magistrato, invece, che ha il legittimo desiderio di farsi innanzi, e d’essere promosso ai gradi superiori, non è mai del tutto indipendente, perché, ove non sia gradito, egli avrà davvero la sua particolare inamovibilità, quella di restare sempre allo stesso posto, nello stesso grado.

Non si risolve, adunque, il problema della indipendenza o della competenza morale del giudice, quando si pretende di garantirla con la inamovibilità stabilita nell’articolo 99.

Questo articolo 99, per altro, demanda al Consiglio Superiore della Magistratura il giudizio sulla dispensa o sulla sospensione dal servizio, sulle retrocessioni, sui trasferimenti o destinazioni ad altra sede o funzione, per modo che la garanzia dipende dalla deliberazione del Consiglio Superiore, e su di essa può evidentemente influire il modo in cui è composto il Consiglio stesso.

Come si potrà, adunque, garantire l’indipendenza del giudice? Questa indipendenza potrà aversi soltanto ove il giudice abbia la proprietà delle sue funzioni. Il problema non fu sconosciuto nemmeno all’«antico regime», nel quale si pretese di risolverlo, vendendosi ed ereditandosi la carica.

E non può non sorprendere che un uomo del genio di Montesquieu, accettando tal sistema di reclutamento, plaudisse ad Anastasio, che dell’impero aveva fatto una specie di aristocrazia, vendendone tutte le Magistrature. Onde, Voltaire, rispondendo a Montesquieu, scriveva: «È certamente deplorevole che Montesquieu abbia menomato l’opera sua con paradossi di questo genere, ma bisogna pure perdonargli perché uno zio di Montesquieu aveva acquistato una carica di Presidente in provincia, ed egli, Montesquieu, gli era poi succeduto in quella carica». E Voltaire conclude: «Nessuno di noi è senza debolezza».

Intendo precisare che il problema della indipendenza non è da porre in rapporto al reclutamento, perché, escluso che il magistrato possa acquistare o ereditare la carica, escluso che possa averla per elezione, o per nomina governativa, non v’è altra via che il concorso, col quale si garantisce un minimo di capacità tecnica e l’imparzialità dell’assunzione.

L’indipendenza del giudice può essere, adunque, garantita soltanto attraverso il «governo» della Magistratura, rendendolo veramente autonomo, preservandolo, cioè, da ogni ingerenza politica. Non vi è altro modo, non vi è altro mezzo. Onde è che, quando nell’articolo 97 si stabilisce che il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto per metà di magistrati e per metà di membri designati dalle Camere, riesce difficile conciliare tale norma con quella che pretende consacrare l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura. La norma dell’articolo 97 è intesa, difatti, a penetrare l’ordine dei magistrati, non soltanto di elementi del potere legislativo, come diceva l’onorevole Dominedò, ma, soprattutto, dell’ingerenza del potere esecutivo, nella maggiore e più alta sua espressione. Ed io, per verità, non riesco a rendermi conto del pensiero dell’onorevole Bozzi, quando egli si compiaceva di veder posto a capo del Consiglio Superiore il Presidente della Repubblica, rappresentando egli l’unità dello Stato.

Non riesco a rendermene conto, perché mi sfugge del tutto il preteso rapporto tra il Presidente della Repubblica, come rappresentante della unità dello Stato, e il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

Non si potrebbe, invece, a mio avviso, immaginare più pericolosa ingerenza del potere esecutivo, se è vero che il Presidente della Repubblica non è al disopra dei partiti, ma, esponente di uno di essi, non riesce mai a sottrarsi del tutto alle esigenze del proprio partito. È facile rilevare, d’altra parte, che la figura del Capo dello Stato, nella funzione di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non può non suscitare, il più delle volte, quel timore riverenziale che menoma l’indipendenza e l’autonomia di ogni deliberazione.

Quanto ai membri che dovrebbero essere designati dalle Camere, il progetto stabilisce che «gl’iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione, finché fanno parte del Consiglio».

È evidente, adunque, la preoccupazione della incompatibilità morale tra l’esercizio della professione e la carica di componenti. Ora la norma diviene una lustra, ove si consideri che non si può chiedere seriamente a professionisti di valore di rinunziare per sette anni all’esercizio professionale, onde il facile espediente dell’esercizio per interposta persona, che, lungi dall’eliminare l’incompatibilità, l’aggrava non solo, ma induce ai peggiori sospetti e alle maggiori diffidenze. Non resterebbe, pertanto, che designare professionisti in condizioni di evidente inferiorità professionale, privi di clientela, e tali designazioni non sarebbero certo destinate a conferire dignità, decoro e prestigio al Consiglio Superiore della Magistratura.

Epperò, non mi pare che si possa aderire nemmeno all’idea dell’onorevole Dominedò, di una rappresentanza simbolica o consultiva, o di numero così ridotto da essere del tutto insufficiente, non riuscendosi, per verità, a comprendere la ragione di una simile rappresentanza che, mentre vulnererebbe il principio dell’autonomia, non apporterebbe, e, anzi, sarebbe designata unicamente per non apportare un qualunque contributo alla funzione.

Per le ragioni esposte, io sono d’avviso che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere costituito esclusivamente di magistrati, né mi sembra, onorevoli colleghi, fondata in alcun modo la preoccupazione che la Magistratura possa così divenire una casta chiusa.

UBERTI. Il pericolo è per l’appunto questo.

CRISPO. Dirò qualche cosa su questo punto. Si è mai pensato che, mutatis mutandis, la nostra Assemblea sia una casta chiusa, perché si governa autonomamente, ed ha una sua disciplina e un suo regolamento? E badate che la nostra autonomia è tale da renderci giudici di noi stessi, nelle eventuali contestazioni di questa o quella elezione, e per le eventuali autorizzazioni a procedere, giudici talvolta tanto imparziali da disdire oggi ciò che fu deciso ieri, anche per fattispecie sostanzialmente identiche.

Lo stesso può dirsi dell’ordine degli avvocati. Non hanno forse gli avvocati un ordinamento proprio, un governo proprio, e una propria disciplina?

E lo stesso può ripetersi di tutti i collegi professionali. Vero è che l’ordine giudiziario non può considerarsi alla stregua degli ordini professionali, ma il richiamo è qui inteso soltanto a dimostrare la insussistenza del pericolo che, attraverso una reale autonomia si possa creare una casta chiusa. È necessario, adunque, difendere la Magistratura da qualunque ingerenza di altro potere, anche perché l’incompetenza morale è in funzione negativa anche della competenza tecnica: il giudice non indipendente diviene di fatto facile strumento a servizio della causa che sarà costretto a sostenere.

Dirò qualche parola su di un altro problema d’ordine generale, riservandomi di intervenire in sede di discussione degli articoli su questioni particolari o di dettaglio.

Intendo riferirmi alla giuria. Se il problema della Magistratura s’identifica con quello dell’indipendenza del giudice, il problema della giuria si riferisce specialmente alla competenza tecnica del giudice.

Dico specialmente, e non esclusivamente, perché io non sono d’accordo con coloro che si compiacciono di rilevare ed esaltare la competenza morale o l’indipendenza propria del giurato.

Basterebbe in proposito ricordare che, mentre nell’articolo 94 si fa divieto al magistrato di appartenere ad un partito politico, tale divieto non sussiste per il giurato. Ora, è evidente il pericolo, costituito da giurie, le quali, nel decidere, possano essere ispirate e guidate da spirito o passione di parte.

Avviene così che il magistrato, occupandosi di una questione di confine o di una contravvenzione, può suscitare e suscita diffidenza, se sia inscritto ad un partito politico, mentre il giurato, nella medesime condizioni di morale incompatibilità, può essere il più fazioso uomo di parte, e nello stesso tempo, giudice del proprio avversario politico, nei giudizi di maggiore gravità.

Io posso bene intendere il motivo per il quale non è stato ripetuto il divieto per il giurato che, giudice non permanente, ma chiamato, di volta in volta, ad esercitare una funzione non sua e che egli non ha scelto, dovrebbe adempiere non solo un gravoso dovere, ma anche sacrificare ad esso uno dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Ma, se mi rendo conto della ragione per la quale il divieto sussiste pel magistrato, e non sussiste per il giurato, ciò non significa che il giurato non si trovi nelle condizioni di morale incompatibilità per le quali s’è voluto precisamente vietare al magistrato di iscriversi ad un partito politico, con l’aggravante della maggiore competenza per materia, propria della Corte d’assise.

Sotto questo aspetto, al giurato mancherebbe evidentemente la indipendenza necessaria, soprattutto nella vita che si vive oggi, agitata e dominata dalla lotta dei partiti, dalla quale non si può pretendere che si astragga il cittadino, quando diviene giurato.

Con la indipendenza, al giurato mancherebbe anche la più elementare competenza tecnica.

Avviene così che, per giudicare di una questione di dare e di avere, o di una contravvenzione qualunque, si richiede un giudice, investito delle sue funzioni a seguito di un concorso e di un determinato tirocinio, mentre per giudicare della libertà dei cittadini, nei casi più gravi, punibili anche con l’ergastolo, basterà che il giudice abbia la sua ragione naturale, o soltanto le risorse del suo buon senso.

Quanta gente non è stata assassinata legalmente nelle Corti di assise, che furono assai spesso lo scannatoio del buon senso!

Il verdetto, per altro, non è un giudizio, poiché il monosillabo positivo o negativo del giurato costituisce, anzi, una tragica parodia del giudizio. Esso sopprime una delle maggiori conquiste della civiltà umana, la motivazione, cioè, della condanna o dell’assoluzione. E, sopprimendo la motivazione, sopprime il diritto di appello, riconosciuto per ogni condanna, sia pure a pochi giorni di reclusione o di arresto, e perfino in caso di condanna alla multa superiore alle duemila lire, e in caso di assoluzione per mancanza di prova. E col diritto di appello sopprime anche, di fatto, il ricorso per cassazione, perché, di fronte al verdetto, e all’applicazione della legge penale che, a seguito del verdetto, viene fatta dal Presidente, l’intervento del Supremo Collegio sarebbe quasi esclusivamente limitato all’esame della costituzione del giudice, e della formulazione del questionario, a casi, cioè, nei quali sarebbe assai difficile rilevare eventuali nullità.

A proposito del così detto buon senso dei giurati si potrebbe utilmente ripetere quello che un grande giudice inglese, il Coke, disse al Re d’Inghilterra. Nel 1612 Giacomo I invitò i giudici d’Inghilterra a presentarsi dinnanzi a lui per rivendicare la facoltà di sottrarre ai giudici di diritto comune tutte le cause che a lui piacesse di decidere personalmente. A tale richiesta il Coke, il primo dei giudici, obiettò, a nome di tutti, che, «secondo la legge d’Inghilterra, il Re in persona non può giudicare alcuna causa, e che tutte le cause, sia civili sia penali, dovevano essere decise dai tribunali, in sede giudiziaria, secondo le leggi, e con le consuetudini del regno».

Il Re replicò che egli reputava essere la legge fondata sulla ragione, e che egli era, al pari dei giudici, fornito di ragione. «È certamente vero», rispose il Coke, «che Iddio ha fornito Sua Maestà di un grande sapere e di doti naturali non meno grandi, ma Sua Maestà non è abbastanza dotto nelle leggi del suo reame, e le cause che concernono la vita, diritti ereditari, i beni e le fortune dei suoi sudditi, non possono essere decise secondo la ragione naturale, ma secondo le norme del diritto, e il diritto è un’arte che richiede lungo studio e lunga esperienza, prima che se ne possa raggiungere la conoscenza completa».

Mulatis mutandis, il legislatore ragiona ancora oggi come Giacomo I ragionava ai suoi tempi, sostituendo al buon senso del Re il buon senso del popolo, mentre si accentua sempre più il carattere tecnico del giudizio penale, e, quindi, la necessità del giudice specializzato, dinanzi a questioni non solo di diritto, ma anche di psicologia criminale, di psicopatologia, di tecnica della polizia, di medicina legale, di tossicologia e simili. È questa la espressione più grossolana di quel fenomeno che fu definito il culto democratico dell’incompetenza, per il quale la società, dovendosi difendere dai ladri e dagli assassini, affida l’arma di tale difesa a coloro che non possono usarla. Quell’arma, difatti, non può essere che un codice, e questo codice sarà posto – incredibile a dirsi – nelle mani di cittadini che non sanno intenderlo per poterlo applicare. È difficile, adunque, trovare una sola ragione seria a favore di un istituto, cui rimane solo il prestigio delle origini, e di una tradizione superata, ormai, dalla esperienza vissuta, e travolta da censure di ogni genere, della scuola e della pratica, del giurista, del filosofo, e anche dell’uomo della strada, censure delle quali è così penetrata la coscienza generale da essere divenute veri e propri luoghi comuni. Resta, nondimeno, a favore della giuria, un solo argomento. Occorre – si dice – democratizzare la giustizia, onde non solo deve ripristinarsi la giuria, ma essa deve divenire del tutto popolare. Oggi non potrebbe intendersi più una giuria borghese, e nemmeno una giuria borghese-operaia: è necessario istituire una giuria proletaria. Più ignorante essa sarà, e meglio risponderà alle esigenze della democrazia! Ed è questa la ragione per la quale, in una recente legge, non entrata per fortuna in vigore, titolo sufficiente per l’idoneità alla funzione del giurato era considerato il certificato di licenza elementare!

Ora, non è già che io mi dolga di questa graduale trasformazione della personalità del giurato, fino alla più bassa sua espressione! Io non dico questo. Io dico, invece, che, borghese o proletario che sia, il giurato non ha alcuna capacità tecnica per decidere della sorte dei suoi simili, e, pertanto, occorre una buona volta insorgere contro il «tabù» del principio democratico, che s’invoca a sproposito nel tema dell’amministrazione della giustizia.

È grave errore, difatti, pretendere che il popolo debba partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia, dato che il potere deriva dal popolo. Perché, se è vero che il potere dello Stato moderno deriva dal popolo, non è vero che si possa identificare lo Stato con il popolo, confondere lo Stato con il popolo. Sono due concetti distinti. E questa distinzione che ha un significato scientifico fu come il fondamento della Costituzione americana del 1776. Essa riconobbe che il potere deriva dal popolo e che, pertanto, il popolo ha diritto di governare, ma lo riconobbe, per trarne la conseguenza della necessità di rendere il popolo capace di governare. È assurdo pensare, infatti, che la massa indifferenziata possa governare. Il problema essenziale è precisamente questo: educare la massa e far sì che essa possa rispondere alle esigenze di una democrazia moderna. La Costituzione di uno stato non è, come diceva Burke, «un problema aritmetico». Il problema del governo consiste, invece, nell’organizzare il potere indiscusso e inalienabile del popolo, in modo che esso possa realizzare i suoi maggiori interessi.

Epperò, non si offende, e non si disconosce il principio democratico, quando si nega che il problema della giustizia in Corte di Assise possa porsi e risolversi in funzione delle esigenze d’una pura democrazia. L’istituto della giuria è, difatti, l’espressione d’un eccesso di democrazia, e Montesquieu ammoniva, e prima di lui Aristotele annunciava, che i regimi decadono non solo per l’abbandono dei principî che li informano, ma anche per l’eccesso dei principî stessi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevole Presidente, non credo di poter dire delle cose nuove che non siano state dette o che non saranno dette da altri insigni colleghi avvocati.

Rinuncio, quindi, a parlare, riservandomi di fare, se sarà il caso, qualche osservazione in sede di discussione degli articoli.

PRESIDENTE. Sta bene. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 13.5.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXI.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Messaggio della Camera dei deputati peruviana:

Presidente

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Risposte scritte ad interrogazioni:

Presidente

Progetto di Costituzione delia Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Turco

Bozzi

Mastino Pietro

Ciampitti

Per la nomina di tre membri dell’Alta Corte della Regione siciliana:

Caronia

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

De Martino

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

 

La seduta comincia alle 16.5.

 

RUGGIERO, ff. Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana del 30 ottobre.

(È approvato).

Messaggio della Camera dei deputati peruviana.

PRESIDENTE. Sono lieto di comunicare un messaggio inviatomi dal Presidente della Camera dei deputati del Perù, Fernando Leon de Vivero, in occasione della ricorrenza del 4 novembre:

«La Camera dei deputati del Perù, nella ricorrenza dell’anniversario della festa nazionale esprime – per il tramite della S.V. – al popolo ed al Governo italiano il suo cordiale saluto, formulando voti – in occasione di così grande data – perché i legami di amicizia che uniscono i nostri Paesi divengano ogni giorno più stretti a garanzia della pace mondiale».

Ho risposto al Presidente della Camera dei deputati del Perù, esprimendo il vivo compiacimento mio personale e dell’Assemblea per questa manifestazione di solidarietà e di Comprensione (Vivi, generali applausi).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Dugoni per il reato di cui all’articolo 595 del Codice penale.

Sarà inviata alla Commissione competente.

Risposte scritte a interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviate risposte scritte a numerose interrogazioni presentate da vari deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.

Seguito della discussione del progetto di Costituirne della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Dobbiamo iniziare oggi la discussione generale del Titolo IV, relativo alla Magistratura e del Titolo VI, relativo alle garanzie costituzionali, che come venne deciso dall’Assemblea fin dall’inizio, vengono dinanzi a noi abbinati.

Vorrei pregare gli onorevoli colleghi che si sono iscritti a parlare sulla discussione generale, ma che hanno contemporaneamente presentato emendamenti su singoli articoli, di volere svolgere nel corso del loro intervento anche gli emendamenti presentati.

In tal modo i loro discorsi avranno un riferimento concreto alla materia in esame, ed eviteremo anche di dare poi altro tempo per svolgere gli emendamenti.

Dichiaro aperta la discussione generale. Il primo iscritto a parlare è l’onorevole Turco. Ne ha facoltà.

TURCO. Onorevoli colleghi, mi trovo oltre ogni mio desiderio, e, certo, oltre ogni mio merito, ad inaugurare la discussione generale su questa che è praticamente la parte più viva e interessante della nuova Costituzione: perché buona parte del popolo può essere indifferente perfino per questa o per quella forma di Governo, può sentire, o no, la grande riforma regionale; può non essere molto preoccupata pel difficile dosaggio dei poteri del Capo dello Stato, e dalla più o meno omogenea struttura dell’Alta Corte Costituzionale, ecc.; ma tutti, dico tutti, hanno acutissimo ed immediato interesse alla pronta, retta e ferma amministrazione della giustizia, che assicuri la realizzazione effettiva della libertà di tutti e dei diritti di ciascuno. Inutile ed ingombrante lavoro resterebbe quello sinora durato per individuare ed allargare la sfera della libertà e del patrimonio giuridico di tutti i cittadini, qualora non riuscissimo ad organizzare per la vita pratica e mettere alla portata di tutti un istrumento vivo ed operante ed indipendente, che ne costituisca la permanente inflessibile garanzia.

Ora, io che sono fra i pochi superstiti di una remota generazione parlamentare che era, sì, di acuta sensibilità politica, ma assai meno della presente tecnicamente attrezzata al governo della sempre più complessa vita sociale, avrei preferito restare in silenziosa, ma vigile considerazione della splendida giostra dottrinale, che ha saturato l’attenzione di questa nobile Assemblea.

Senonché, a un certo momento, tratto ad esprimere, improvvisamente, in sede direi incidentale, il mio avviso alla Commissione parlamentare, su di un tema particolare, sul quale si è distillata e sedimentata l’esperienza di un cinquantennio di esercizio non ignobile della mia professione, quello del magistero della giuria, ho creduto di dovere accettare ed eseguire il compito di portavoce all’Assemblea della tendenza vigorosamente affermatasi nella Commissione, di contrasto irreducibile al ripristino della giuria, che ha imperversato troppo a lungo nelle aule giudiziarie, suggestionata sempre e spesso violentata dalla magniloquente ed inguaribilmente logorroica oratoria giudiziaria.

Così, iscrittomi per quella particolare discussione, per l’automatico rimando ed abbinamento in questa sede alla discussione del tema generale della Magistratura, mi trovo a rappresentare modestamente la corrente, che troppo demagogicamente si vuol gabellare per antidemocratica, ma che è invece ispirata a quel senso della realtà, che è il grado più elevato della matura sintesi mentale, e la matrice unica di ogni vero e stabile progresso civile.

Ma di ciò, a fra poco: perché non vorrei, affacciandomi alla soglia di questo poderoso argomento giurisdizionale, spingere il mio agnosticismo fino al punto di non avvistare, in rapida prospettiva, lo scontro vivace che in questo campo si è determinato fra l’istanza vigorosa, ma unilaterale, della Magistratura ed il sovrano criterio di superiore contemperanza e di equilibrio adottato dal progetto. Uno sguardo sintetico sul contrastato panorama di questo tema bisogna pur darlo, sia pure per inquadrarvi la tesi occasionale del mio discorso, che è diretto precipuamente contro la giuria popolare.

Debbo preliminarmente dichiarare che io sono un fedele, convinto assertore dei meriti della Magistratura italiana, presa nel suo grande complesso. Spesso ho ammirato dell’eroiche virtù; e quanto è stato detto del francescanesimo dei magistrati non è utopia. La Magistratura, nella sua enorme maggioranza, è degna della sua funzione, ed è proprio la radicata convinzione della necessità della unicità, direi dell’esclusività di tale funzione da parte dei giudici ordinari, che mi ha mosso a parlare. Sono un amico, dunque; ne siano ben sicuri i Magistrati.

Ma agli amici bisogna saper dire la verità, anche se sgradita e molesta: ed io dirò subito, perciò, che la posizione presa, nel movimento ricostruttivo istituzionale, dalla classe dei Magistrati è paradossale; e che nella gara delle istanze più o meno legittime, che premono sulla suprema delle nostre crisi statali, è antitetica e contradittoria.

Infatti, mentre la Magistratura reclama, ed a buon diritto, pel suo specifico settore della funzione giurisdizionale, la piena partecipazione – par inter pares – all’esercizio della sovranità; d’altro canto, nella sua tesi estremista, tende a sottrarsi, con la richiesta di indipendenza integrale ed assoluta dell’Ordine, a quella necessaria coordinazione, al collegamento con gli altri poteri sovrani, dalla cui armonica Collaborazione soltanto è possibile ottenere l’equilibrio e l’organica efficienza del complesso delle funzioni statali.

ROMANO. L’articolo 97 dice «autonomo ed indipendente». Se mai è contradittorio il progetto.

TURCO. L’onorevole Romano abbia la bontà di ascoltare, perché io non sono affatto nemico della necessaria indipendenza della Magistratura, ma affermo che, se sovrano è il popolo, nessun ordine può sottrarsi al suo volere, al suo controllo.

Ma poiché la espressione più difetta ed immediata e periodicamente rinnovantesi della volontà popolare è il Parlamento, una assoluta indipendenza (e quindi disgiunzione) della Magistratura dal Parlamento e dal Governo, sua emanazione, significherebbe rendere indipendente l’ordine giudiziario dalla stessa volontà del popolo.

D’altra parte, mentre la Magistratura si irrigidisce su questa posizione di punta (reclamando a corrispettivo del suo superdovere di garante delle elementari libertà di tutti, il superdiritto ad una splendida isolazione nel campo della sovranità, refrattaria ad ogni collegamento, ed aspirando perfino ad arbitrare la concorrente funzione degli altri poteri sovrani, col sostituire alla Corte Costituzionale il diktat del suo Consiglio Superiore), per converso, la Magistratura non esita ad adeguarsi, nei mezzi di reclamo e di rivendicazione, a tutte le varie categorie di prestatori di opere, rivendicando per sé perfino il diritto di sciopero.

ROMANO. Io ho parlato sempre contro il diritto di sciopero.

TURCO. Ma noi non possiamo condividere la sua solidarietà di casta, ed abbiamo il dovere, non solo della consapevolezza, ma anche della coraggiosa sincerità.

Ma, insomma, non sente la Magistratura che la indipendenza reclamata è un duro privilegio, che impone il coraggio di restare sola con se stessa, e che il superdiritto alla sovranità rende incompatibile la sua carenza in qualsiasi momento – come è inconcepibile lo sciopero dello Stato. No: i poteri dello Stato non possono in nessun momento scioperare, senza stroncare l’esistenza giuridica dell’organizzazione statale!

Questa aspra posizione di antitesi è stata felicemente superata dal compromesso fra l’autonomia ed il controllo, adottato dal progetto, che implica:

  1. a) indipendenza del giudice sì, ed indipendenza integrale;
  2. b) ma indipendenza assoluta del potere giudiziario, no: nel senso che non si vuol creare un corpo chiuso ad ogni influenza della volontà popolare esplicantesi attraverso l’intervento dei rappresentanti diretti del popolo.

Indipendenza del giudice, dunque: e sia indipendenza costituzionale, funzionale ed istituzionale, psicologica (per l’inamovibilità dalla funzione e dalla sede) ed economica, con riguardo alla incompatibilità con qualsiasi forma di attività economica. E su questo terreno, quando il principio fosse accettato, sarebbe agevole intendersi, anche in rapporto alle modifiche proposte circa il numero e la discriminazione dei membri politici del Consiglio Superiore, e con intesa che non si debba più sentir parlare di politica giudiziaria, e di Ministero chiave, in rapporto alla gestione giurisdizionale.

Ma non basta: dev’essere perentoriamente affermato il principio dell’unicità, della integrità, e, quindi, dell’esclusività di tale funzione, che risponde all’integrale fiducia che l’Ordine merita e meriterà sempre più con l’affinamento progressivo, mercé la specializzazione della competenza tecnica e correlative funzioni.

L’unicità importa che nuove giurisdizioni speciali (questa perniciosa crittogama della giustizia) non debbano essere instaurate, e che debbano, anche, essere prontamente eliminate tutte quelle che sono state create per circostanze contingenti e per fini politici.

La Corte Suprema ha espresso solennemente in proposito il suo parere, ed ha elencato tassativamente le sole giurisdizioni eccezionali ammissibili (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, tutela giurisdizionale degli interessi legittimi) restituendo, quindi, al Magistrato ordinario l’intera funzione giurisdizionale.

E l’integrità importa sopra tutto, a mio avviso, che non sia strappato all’ordinaria magistratura, sotto pretesto di utopie politiche ed umanitarie, il compito più delicato e geloso – e della massima responsabilità – il governo della giustizia nella zona torrida dell’alta criminalità.

Ed eccomi, con questa considerazione di culminante interesse giuridico e sociale, entrato nella tesi specifica del mio intervento.

Proprio là dove incombe la suprema responsabilità del giudice, non può, non deve mancare il tranquillante corrispettivo della garanzia della competenza della superiorità morale, della vigilata e progressiva attitudine del giudicante!

Entrata di straforo, in occasione dell’esame dei progetti Gullo per le norme complementari e la procedura del decreto legge 31 maggio 1946 sulla riforma della Corte di Assise, la questione del ripristino della giuria determinò un immediato schieramento, pro e contro, ed io, di parte contraria, fui incaricato di redigere e redassi una relazione di minoranza, che fu onorata dalla sottoscrizione dei Commissari consenzienti.

Ma la vivace battaglia venne abilmente sopita in un prudente agnosticismo, poiché si adottò il criterio di rinviare, senza specifica pronuncia, collegando la questione al vaglio dell’Assemblea in sede costituzionale. Ed è in questa sede, dunque, ed in questo momento, che, nella modestia delle mie forze, adempio al mandato conferitomi.

La nostra tesi è nitida e precisa: noi siamo contrari ad un istituto imperfetto ed imperfettibile, la cui riapparizione, se può ritenersi giustificabile nel tempo e pel tempo di eccezionale, transitorio, arroventato clima politico nel quale riapparve, non può essere accettata definitivamente, sub specie aeternitatis, sul piano tecnico costituzionale. Tutt’al più, dovrebbe, secondo l’ammonimento della Suprema Corte, rinviarsene, con l’abolizione dell’articolo 96, l’esame nel futuro ordinamento giudiziario, poiché non impegna una riforma di diritto sostanziale, ma soltanto una modifica processuale imposta dalla voce perentoria, inequivocabile dell’esperienza.

Ma, prima di giustificare tale tesi, consentitemi di sbarazzarmi di un’accusa pregiudiziale, che scaltramente ci si getta fra le gambe. Siamo reazionari noi nel contrastare non già la partecipazione del popolo, ma la diretta partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia? Siamo noi antidemocratici nel contrastare la partecipazione laica al governo della pesante giustizia criminale?

Qui, perdonatemi, è necessario precisare, con una autocitazione: tengo a riprodurre testualmente il brano correlativo della mia abortita controrelazione:

«Noi non disconveniamo affatto sulla necessità attuale ed imperiosa di democratizzare tutta l’attività statale; e siamo ben lungi dal non riconoscere esatto che la sovranità appartiene al popolo; e che, quindi, sia specifica espressione della sovranità popolare la funzione giurisdizionale. Tutto ciò attiene all’elemento fondamentale di un regime democratico, è una vera e propria esigenza democratica.

«Ma riteniamo che operi soltanto un pregiudizio democratico nella pretesa della partecipazione diretta del popolo sovrano all’amministrazione della giustizia, quando è premessa la norma fondamentale che la sovranità si esercita nelle forme e nei limiti della costituzione, e che quella giurisdizionale (come quella amministrativa) non è funzione originaria, ma derivata, ed è esercitata in nome del popolo (art. 94) e che altre forme di sovranità – la legislativa, l’esecutiva, ecc. – si esercitano dal popolo mediatamente ed indirettamente.

«Il popolo esercita democraticamente la sua sovranità, indirettamente, a mezzo degli organi che attingono origine, legittimità e potere dal popolo stesso organizzato a Stato. Così il popolo partecipa all’amministrazione della giustizia mediante l’organo della Magistratura, proposto nello stesso progetto come organo di designazione derivata dal popolo, autonomo ed indipendente, espresso e governato da un Consiglio Superiore, nel quale la voce e la volontà della Nazione è determinante e decisiva. Oggi, mediante la netta distinzione dei poteri dello Stato ed il concorso delle varie categorie sociali alla formazione delle leggi per mezzo dei loro rappresentanti, la coscienza morale e giuridica della collettività si esprime nel momento legislativo. Al giudice resta soltanto il compito di applicare la legge».

Potrei aggiungere che noi oramai siamo pervenuti ad una svolta del concetto di democrazia, che, slargandosi dal settore politico, va trasformandosi in democrazia sociale ed economica.

Comunque, anche a restar fermi al vecchio schema, è troppo chiaro che noi, oppositori della giuria, non contrastiamo l’esigenza democratica, ma soltanto un pregiudizio democratico, che è costato troppo duro nel passato alla giustizia criminale.

Ma noi siamo tanto equanimi, dopo respinta la immeritata accusa, da ammettere e convenire che nelle speciali transitorie (oggi fortunatamente superate) circostanze politiche, sul piano della necessità di una drastica ritorsione politica, anche quello che era soltanto un pregiudizio democratico, potesse e dovesse avere diritto (precario) di cittadinanza legislativa, per dar la sensazione al popolo di volersi definitivamente cancellare, direi plasticamente e di impeto, ogni vestigio della combattuta, contraria ideologia.

Giacché noi abbiamo la serenità necessaria per riconoscere, sul piano storico, la ricorrenza e l’irresistibilità del fenomeno del globale mimetismo, pel quale, in ogni crisi costituzionale, nel suo periodo parossistico di sovratensione politica, ogni manifestazione sociale si adegua e si colora della colorazione politica del momento critico che si attraversa.

Nella vita politica dei popoli, si nota un fenomeno ricorrente: quello dell’inevitabile mimetismo che regola il ritmo della evoluzione legislativa, sul passo del progresso politico sociale nella storia di ciascun paese.

Inevitabile ed opportuna è la uniforme colorazione, l’adeguamento esageratamente formale di tutti gli istituti fondamentali dello Stato all’accentuazione politica. È la tendenza mitopeica che si sgancia ed opera, nel momento della febbre politica, e sommerge e colora l’intera fenomenologia politico-sociale. Così abbiamo avuto, nella nostra crisi, la palingenesi democratica. Tutto per la e nella democrazia: niente al di fuori della democrazia. Ed allora si esagera: ma è naturale, opportuna l’esagerazione, purché temporanea, limitata al momento e pel momento di sovratensione politica transitoria.

Ecco perché l’onorevole Togliatti ha fatto bene, e non poteva far diversamente, nel periodo di estrema concitazione politica, quando gli si chiedeva da ogni lato l’abolizione delle Sezioni Speciali delle Corti politiche, a ripristinare l’istituto della giuria per quell’arroventato clima politico.

Il fascismo – con la sua tendenza mitopeica dello Stato – non riconoscendo altra sovranità che quella dello Stato, non poteva tollerare che si contrapponesse, con la giuria, la giustizia del popolo a quella del Re.

Era ben naturale, che per necessaria, immediata ritorsione politica, l’onorevole Togliatti, non riconoscendo altra sovranità che quella del popolo, affermasse anche nel piano tecnico la contrapposizione della giustizia popolare a quella dello Stato. Epperò ristabilì con il decreto-legge 31 maggio 1945, n. 500, l’organo della giuria come patentemente, immediatamente e direttamente rappresentativo della coscienza popolare, per dare la sensazione viva della unicità della sovranità del popolo, per dare la colorazione politica anche alla funzione giurisdizionale.

Ma ora che il turbine politico va, lentamente ma decisamente quetandosi, e noi legislatori siamo chiamati a fare opera duratura in una Costituzione rigida, come faremo a conservare ancora questo ibrido istituto, regalatoci dalla nostra inguaribile mania imitativa delle legislazioni straniere, a mantenerlo ancora nella nostra tradizionale, limpida e quadrata compagine legislativa?

Crollano i troni attorno a noi, o signori, tramontano vecchie e pur nobili ideologie, che hanno fatto le glorie dei secoli passati. Solo i giurati debbono permanere a perturbare sempre, con il loro ictus irragionato, incorreggibile ed irresponsabile il tremendo flusso della giustizia punitiva?

Noi, modestamente, ci opponiamo: e non tanto per ragioni di fideismo scientifico o per servaggio a pregiudiziali politiche, quanto per la costatazione realistica del bilancio fallimentare dell’istituto della giuria al banco di prova dell’esperienza. Già al principio del secolo il nostro grande Alimena lo definiva «l’organo dell’ordinamento giudiziario senza pace».

E difatti è riuscito a guadagnarsi, nel cinquantennio di sua vita funzionale, l’ostilità decisa e quasi unanime della dottrina, dei tecnici, dei congressi. E la perturbazione era così progredita che, nella prassi giudiziaria, l’opera del Supremo Collegio, più che in un controllo di diritto si era dovuta trasformare in vero e proprio controllo di giustizia.

Per noi, che abbiamo lungamente vissuto l’avventura giudiziaria dei giudici popolari, è doverosa la testimonianza che il verdetto dei giurati, in buona metà dei giudizi in Assise, quando non era il risultato di sopraffazione (o intellettuale o politica o, peggio, finanziaria), era semplicemente il risultato dell’azzardo, pel meccanico sorteggio, di quei giudici improvvisati. Onde la coscienza pubblica s’era da tempo orientata più che verso la speranza, verso la sicura attesa dell’estromissione definitiva del giurì dalla nostra legislazione. Perché, ripeto, quello della giuria è un istituto imperfetto ed imperfettibile. Infatti, due supreme facoltà umane, antitetiche fra loro, ma egualmente indispensabili, dovrebbero concorrere alla formazione di un giudizio umanamente perfetto: la intuizione e la riflessione. Donde, due tendenze contrastanti: la commossa, spontanea reattività al reato della coscienza popolare: è la prima. La seconda è l’attento consapevole travaglio del senso critico del giudice esperto.

La prima sgorga dall’irrazionale, impulsivo campo della emotività, ed è, qualche volta, divinatrice: arma prodigiosa, ma pericolosa, perché «l’affetto l’intelletto lega» e trascina oltre e contro la volontà della legge, e sbocca e non può che sboccare in un enigmatico monosillabo incontrollato ed irretrattabile, donde la lunga teoria degli errori giudiziari, che di lagrime gronda e fa terrore.

La seconda, la riflessione, è facoltà raziocinante, detersiva di ogni contaminazione alogica o sentimentale, severa e sicura investigatrice della realtà ontologica (esistenza del reato e individuazione dell’autore) e della realtà psicologica (colpevolezza e responsabilità anche in rapporto all’alterazioni psichiche ed ai riflessi sociali) con pienezza di capacità di attenzione e di critica.

Questa sbocca in una pronuncia razionalizzata della motivazione, quindi controllabile e quindi riparabile; motivazione proporzionata all’importanza della imputazione. Una giustizia, si è detto, sottratta all’obbligo della motivazione è il sintomo di uno Stato in sfacelo.

Ora, come è possibile contemperare queste due esigenze? E, nella impossibilità, a quale delle due attenersi?

Noi optiamo decisamente per la seconda, perché, mentre non è, quasi mai, da aspettarsi che il giurì improvvisi la competenza, l’attitudine critica e la dirittura morale, doti del giudice togato, c’è da aspettarsi, invece, che il giudice togato, accortamente sollecitato, superi e vinca quella, che sotto il nome di deformazione professionale, gli si rimprovera come insensibilità al flusso della realtà ed al ritmo palpitante della vita collettiva.

Non vi è giudice che possa resistere allo squillante richiamo del sentimento e alla suggestione dell’umana giustificazione dell’episodio criminoso e delle sue correlazioni sociali e politiche: come non vi è reato che, nel suo intrico psicologico, non abbia una piccola luce di umanità, che, saputa scoprire e portare in primo piano, illumina tutto l’orizzonte processuale e guida e sorregge il giudice attraverso le dighe e le precisazioni scientifiche del diritto.

Il problema definitivo da affrontare è dunque, non già quello di scegliere fra il giudice improvvisato ed irresponsabile, ed il giudice ordinario e responsabile: ma è quello di arrivare, mediante gli opportuni ordinamenti, alla formazione di un giudice ordinario compos, sagace, addestrato, aggiornato nelle varie specializzazioni apprestate da tutte le scienze moderne: e di renderlo tetragono, nella sua coordinata indipendenza, al bisogno ed alle prepotenze.

E ad un giudice così fatto, che è fortunatamente frequente, e più lo sarà nel prossimo avvenire, non bisogna negare la fiducia, e disautorarlo negandogli il compito più grave ed essenziale della funzione giurisdizionale: quello di arginare le asprezze brutali della realtà criminosa.

Voglio dirvi un’ultima parola, o signori: una parola di vita palpitante di umana realtà.

I destini degli uomini sono imperscrutabili ed irreversibili. Niente può mettere al sicuro il più giusto, il più puro, il più forte degli uomini dal trovarsi impigliato, attore o vittima, in una macchinosa vicenda giudiziaria.

Quale giudice voi preferireste per la tutela della vostra libertà, del vostro onore, dell’avvenire dei vostri figli: il giudice improvvisato ed irresponsabile, o il giudice conscio, esperto, addestrato, indipendente e responsabile?

Questa scelta, che impegna la vostra responsabilità di legislatori, voi dovete tradurre sulle tavole della Costituzione.

E se noi, accettando il sistema bicamerale, abbiamo rifiutato di credere all’infallibilità di una intera Assemblea di ottimati: come possiamo credere al tabù delle infallibilità di un manipolo raccogliticcio di giudici popolari? (Applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.

BOZZI. Onorevoli colleghi, non mi intratterrò, come ha fatto l’onorevole Turco, su un tema particolare, se pure di alta importanza, quale quello della giuria; ma cercherò di dare uno sguardo panoramico ai Titoli del progetto, che sono all’ordine del giorno.

Dico subito che sul tema trattato dall’onorevole Turco io sono perfettamente d’accordo con lui; tuttavia ritengo che il problema della giuria non debba essere risoluto in sede di Carta costituzionale, perché la giuria è giudice ordinario e la questione se essa debba esistere o no e, eventualmente, con quali competenze e limitazioni è questione da Codice di procedura penale o da legge sull’ordinamento giudiziario, così come è stato fino ad oggi.

Io vorrei, come dicevo, occuparmi del problema centrale, della indipendenza della Magistratura: tema di somma rilevanza, anche se la desolazione di questi banchi possa far pensare che non tutti la sentono. Tema che non interessa una particolare categoria di pubblici funzionari. Qui noi non stiamo ad esaminare lo stato giuridico ed economico dei magistrati, quasi essi reclamassero per se stessi speciali provvidenze, come un settore, il più qualificato, il più nobilmente qualificato, della vasta famiglia dei pubblici funzionari. Noi affrontiamo oggi uno dei problemi fondamentali in uno Stato democratico: il problema della giustizia, il problema della attuazione della legge; cosa che interessa tutti i cittadini, nei loro beni, nel loro onore. Perché, amici e colleghi, sarebbe enunciazione puramente accademica l’affermazione dei diritti di libertà, che noi abbiamo sancito nella prima parte di questa Carta costituzionale; sarebbe enunciazione accademica l’allargamento della sfera dei diritti civili e politici del cittadino verso lo Stato, se nella Costituzione non forgiassimo in pari tempo uno strumento valido, che sapesse dare garanzia di questi beni a tutti i cittadini ed a ciascuno di essi, se occorre, anche contro lo Stato, quando lo Stato dei diritti e delle libertà dei singoli si facesse violatore.

Io devo dire che vi è oggi un diffuso stato d’animo contro la Magistratura. Vorrei ricordare, quasi come attestazione autentica, le parole pronunziate in questa Assemblea da uno dei più illustri giuristi viventi e membro autorevole dell’Assemblea medesima, l’onorevole Calamandrei, il quale, in sede di discussione generale sul progetto di Costituzione, ebbe a dire: «Il Consiglio Superiore della Magistratura che, secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto essere composto unicamente di magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà di elementi politici, eletti dagli organi legislativi. In realtà, chi ha impedito all’auto-governo della Magistratura di affermarsi in pieno non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori dell’opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti; la Magistratura deve ringraziare proprio lui dell’ostilità con cui è stata accolta, ecc., ecc.».

Ora io, miei amici, non intendo – Dio me ne guardi! – rivangare qui il «caso Pilotti». Mi piace soltanto ricordare quanto ha scritto uno spirito libero e arguto: che, se l’atteggiamento del procuratore generale Pilotti, quell’atteggiamento che è stato criticato tanto duramente, fosse stato tenuto nei confronti, non già del Presidente della Repubblica, ma, poniamo, onorevole Conti, di Umberto II, il repubblicano onorevole Calamandrei avrebbe, probabilmente, esaltato l’indipendenza del magistrato, il quale…

RUGGIERO. Non l’avrebbe fatto in quel caso.

BOZZI. …il quale, anche di fronte al re, sapeva tenere alta l’indipendenza del potere che rappresentava. Di questo, adunque, non voglio parlare; mettiamo da parte gli argomenti contingenti, legati a situazioni di uomini, che passano. Altri argomenti, vorrei dire visti sub specie aeternitatis, noi dobbiamo tener presenti, perché ci guidino nello studio e nell’elaborazione di questo tema fondamentale: l’amministrazione della giustizia.

La Magistratura – lo dico io che da essa provengo ed ancor oggi vesto la toga, ed appartengo idealmente alla magistratura per una lunga generazione di famiglia – in questi ultimi 25 anni, per chi ne guardi la complessiva attività svolta, non merita forse né esaltazioni, spesso retoriche o demagogiche, ma nemmeno stroncature.

Rifacciamoci ai tempi, o signori. Vi sono state sentenze in cui evidentemente la bilancia ha pencolato sotto il peso della pressione politica; ma, nell’insieme, la giustizia, special mente la giustizia resa dai piccoli, dai modesti magistrati, è stata buona. Vorrei dire che, se vi è stata qualche deviazione, non è stata tanto nel non rendere giustizia in casi singoli, quanto in un atteggiamento generico, specialmente nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in un atteggiamento generico che si potrebbe chiamare di conformismo. II giudice, cioè, ha cercato non tanto, come dovrebbe essere suo compito, di interpretare la legge, ma di indagare lo spirito del sistema politico, l’indirizzo desiderato dal Governo, lo scopo politico-sociale che questo voleva fosse raggiunto. Potrei ricordarvi casi tipici: la giurisprudenza sulla clausola oro e sul potere liberatorio della moneta; alcune sentenze sul rapporto di impiego privato. La legge fu interpretata in un certo modo per conformarsi all’indirizzo politico del regime.

D’altra parte, o signori, se non sempre, la Magistratura è apparsa a noi su quel piedistallo ideale sul quale la vorremmo sempre vedere, dobbiamo domandarci: non è forse ciò dipeso, sia pure in parte, dalla posizione di non assoluta indipendenza in cui essa era?

Dopo la caduta del fascismo la Magistratura ha ritrovato in pieno il suo antico spirito di indipendenza, che, credete a me, non viene tanto dalle formule della Costituzione, dalle norme dell’ordinamento giudiziario, quando da un abito mentale e morale, che è soprattutto il riflesso della situazione generale politica del Paese. In uno Stato libero la Magistratura è libera, in uno Stato di servitù, la Magistratura non può non essere serva, anche se lo Statuto la proclami sovrana e indipendente!

Lo so; in questi ultimi anni la Magistratura ha emanato sentenze molto criticate in sede politica; io non mi sentirei di sottoscrivere questa o quella; non dico come uomo politico, ma anche come giurista. Ma in questa grande crisi della legalità (perché oggi il fenomeno più acuto e più grave della nostra società è la crisi della legalità), in questa profonda incertezza che ci travaglia, in questa fase di trapasso fra un mondo che non è ancora del tutto tramontato ed un altro che si delinea e si va faticosamente formando, non pensate che questo complesso di fattori non potesse non ripercuotersi anche sugli organi che hanno il compito di attuare la legge? Incertezze, anche deviazioni forse, ve ne sono state. Ma a chi va attribuita la colpa? Tenete anche presente, o colleghi, che non tutte le leggi oggi sono tecnicamente perfette. La tecnica legislativa lascia molto a desiderare. Qui, più volte, è stata sollevata la questione dell’applicazione dell’ultimo decreto di amnistia. Bisogna riconoscere francamente che questo decreto tecnicamente non era ben fatto; e bisogna riconoscere che, perlomeno in gran parte, il giudice si è trovato in difficoltà obiettive di interpretazione, che hanno potuto dare luogo ad applicazioni che a volte son potute sembrare aberranti.

Ma, tutto questo è ancora particolare. Noi oggi lavoriamo per creare il nuovo Stato, uno Stato di democrazia costituzionale. In questo Stato, quale è la posizione che assegneremo alla Magistratura?

Io ricordo che nelle sedute della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall’illustre onorevole Conti, vi fu un argomento che si poneva sempre contro l’indipendenza della Magistratura, un argomento del quale si fece paladino l’onorevole Laconi: la Magistratura è conservatrice e, quindi, reazionaria e retriva; bisogna, perciò, renderla più diretta e genuina espressione del popolo, tenerla sotto il controllo del popolo, che è l’unico depositario della sovranità. Ebbene, o signori, non vi meravigliate se io dico che la funzione della Magistratura, la funzione del giudice dev’essere proprio funzione conservatrice; conservatrice non nel senso in cui si parla di conservatorismo sul piano politico, ma conservatrice nel senso di garanzia e di custodia dello Stato democratico e dell’ordinamento giuridico.

Vediamo le cose più da vicino. Quali sono le parti della politica, quali sono le parti della giustizia? La politica finisce il suo compito nel momento in cui si traduce nella legge; la politica esaurisce la sua funzione nell’atto in cui crea la norma obiettiva che si inserisce nell’ordinamento giuridico dello Stato. Questo è il compito della politica; questa è la funzione del popolo, se noi per popolo non intendiamo, con visione frammentaria che non è democratica, questa o quella manifestazione espressa da questo o da quel partito, da questa o da quella categoria, ma intendiamo la riduzione di queste diverse manifestazioni nell’unità dello Stato, che è appunto la volontà unica del popolo, che si manifesta nei modi previsti dalla Costituzione.

In un regime di democrazia costituzionale non può esservi antitesi fra Stato e popolo.

Ora, se le parti della politica finiscono nell’atto in cui si crea la legge, quale è la funzione del giudice? La funzione di interpretare questa legge e di applicarla, funzione di conservare la legge, consacrazione della volontà popolare. Se il giudice si facesse esso stesso legislatore, e volesse attuare la legge non secondo la lettera e lo spirito di essa, obiettivamente fissati, ma secondo i suggerimenti mutevoli della cosiddetta coscienza popolare, influenzati da fuggevoli maggioranze o da altro, allora non avremmo più una società civile regolata dalla legge, ma una società regolata dal criterio del caso per caso, cioè regolata dall’arbitrio. Questa è la funzione conservatrice, non nel senso retrivo, reazionario, del giudice. Volete cambiare la legge? Si aprono nuovi orizzonti o vi è un impeto di nuove correnti sociali? Non è compito del giudice di tradurle in atto, se prima il legislatore non le abbia elevate a norma di diritto. Il giudice ha un solo dovere: di conservare, applicandolo, l’ordinamento giuridico creato dal popolo. Questa è democrazia sana e costituzionale.

E, badate, la funzione del giudice è vincolata, perché egli non è nemmeno libero di interpretare (amico Persico, sento sottovoce le tue critiche) la legge come vuole. Il legislatore interviene e regola e detta esso stesso le norme, onde la interpretazione della legge deve avvenire.

Non c’è quindi nessun campo di arbitrio del giudice: la stessa legge dà le norme di interpretazione; il giudice svolge un’attività vincolata dallo stesso legislatore.

L’onorevole Turco, nel suo discorso di poco fa, è caduto in una certa contradizione, perché ha esaltato l’indipendenza del giudice, ma ha criticato l’indipendenza assoluta dell’Ordine giudiziario, come se l’indipendenza del giudice si potesse realizzare del tutto al di fuori della Magistratura, cioè del complesso di organi in cui il giudice si inserisce, indipendente. Egli è per la semiindipendenza; il che vale tanto quanto dire per la non indipendenza. Ora, la indipendenza della Magistratura e del giudice è un problema già risolto dal popolo nell’atto in cui esso si dà una Costituzione di democrazia costituzionale.

Ma, che cosa significa indipendenza? Indipendenza, di chi? Indipendenza da che? Secondo me, il problema fondamentale è l’indipendenza del giudice, l’indipendenza del singolo giudice che dicit jus ed applica alla fattispecie concreta la norma astratta di legge, che compie – avvicinandosi in qualche momento veramente alla divinità – la difficile funzione di giudicare il suo simile, di condannarlo o di assolverlo, del giudice che risolve i conflitti patrimoniali, del giudice che reintegra sempre il diritto offeso, anche contro lo Stato.

Indipendenza del giudice, che è la cosa più importante, credete a me; indipendenza che si deve realizzare (ed è questo un punto che vorrei richiamare alla vostra particolare attenzione) non solo nei confronti del potere esecutivo e del potere legislativo, ma si deve realizzare anche nei confronti della gerarchia interna giudiziaria. Questo è un aspetto sul quale, forse, l’attenzione non è stata a sufficienza portata: indipendenza anche dai superiori. Il magistrato non deve avere superiori, nel senso gerarchico della parola; egli deve ubbidire soltanto alla propria coscienza e alla legge. (Approvazioni). Al disopra, non vi deve essere gerarchia; e questo punto è, con solennità, affermato nella Costituzione.

Ma noi dobbiamo far sì che la formula abbia contenuto e che l’affermazione di indipendenza istituzionale diventi norma di vita, si inserisca in interiore homine.

Vedete: io vi dirò cose che possono sembrare meschine; ma, secondo me, che sono vissuto nell’ambiente e ne conosco un po’ da vicino gli uomini, esse hanno importanza notevole, forse maggiore di tante formule che sono inserite nel progetto. V’è un complesso di motivi, economici, psicologici, a volte anche di vanità, che influiscono sulla coscienza o, senza affiorare nella coscienza, sul subcosciente del giudice. Che è un uomo, vive nella vita, sente le influenze della società. Vorremo isolarlo, metterlo sotto una campana pneumatica? È una cosa difficile, anzi impossibile. Ma qualche cosa si può e si deve fare: smorzare, diminuire quelli che sono i motivi che, in base all’esperienza, noi sappiamo più direttamente e più profondamente incidono nell’anima del magistrato.

Non crediate che dica cosa miserevole; ma quando io sostengo che il magistrato non deve avere onorificenze, io lo sottraggo ad uno dei motivi che l’esperienza ha dimostrato avere maggiore influenza su di lui. Ormai noi, indirettamente, abbiamo affermato che la Repubblica distribuirà onorificenze.

NITTI. Spero di no!

BOZZI. I magistrati non devono avere onorificenze: il giudice che non si è mai venduto per denaro, non si venderà nemmeno per le onorificenze.

Una voce a sinistra. Ma s’imboscherà nei Ministeri!

BOZZI. Ma credete a me che l’idea della commenda – ieri della corona d’Italia, domani della Repubblica, non so quale nome avrà – esercita grande seduzione su molti. I giudici vivono in povertà e in onestà; amano queste chincaglierie, come le chiamava un alto magistrato a me molto caro. E pur di averle non esitano a fare anticamera nei Gabinetti dei Ministri. Ma poi v’è l’esame comparativo con il collega che è commendatore ed è meno anziano o, peggio ancora, v’è il caso del presidente che è cavaliere e del giudice che è commendatore!… Tutto questo complesso di inferiorità crea una situazione psicologica di disagio, di difficoltà, di indebolimento di quello stato di serenità per cui il giudice si deve sentire pago soltanto della nobile missione che a lui è affidata: difficile privilegio che gli deve saper dare l’amore di vivere solo con se stesso.

Ma vi sono problemi più sostanziali, come quello dell’iscrizione ai partiti politici. Noi abbiamo combattuto, in sede di seconda Sottosezione, una battaglia e abbiamo affermato nel progetto, che il giudice non deve essere iscritto a partiti politici, né ad associazioni segrete.

Ma si obietta: il giudice non può forse avere una sua opinione politica? Certo che la deve avere; ma lo status di iscritto, di gregario e, peggio, di capo, di esponente di un partilo, oggi che i partiti, per intrinseca necessità, si vanno sempre più organizzando su un piano di rigida disciplina e di gerarchia, è indubbio che potrebbe esercitare sulla sua coscienza o sulla sua subcoscienza un’innegabile influenza. E quando anche il giudice riuscisse a rendersi immune, con la sua dirittura, da simili debolezze, chi potrebbe mai togliere il dubbio, il sospetto alla pubblica opinione che il magistrato, in quella o in quell’altra controversia, si sia regolato in quel modo e non in altro perché l’imputato o la parte era di quel certo partito e non di altro?

Onorevoli colleghi! Noi dobbiamo circondare del più grande prestigio la figura del magistrato e dobbiamo eliminare tutte le cause che, sia pure ingiustamente, possano dar motivo a sospetti o a riserve, che non ferirebbero il singolo, ma l’istituto in se stesso.

V’è poi un altro problema che sono costretto ad indicarvi usando un’espressione assai brutta: bisogna «sburocratizzare» la Magistratura. Bisogna sburocratizzarla non solo nei confronti degli altri impiegati dello Stato, perché il giudice è lo Stato in una delle manifestazioni della sua sovranità, è la legge vivente; ma bisogna sburocratizzarla anche nei riguardi dell’interna organizzazione. Dovrà dunque cadere la gerarchia interna, nel senso che non vi dovranno esser gradi, ma distinzioni di funzioni.

Oggi avviene invece purtroppo che i giudici sentano notevolmente l’influenza del loro presidente, del «capo», come usa dire. Il Codice di procedura stabilisce, ad esempio, che il presidente, nella sua qualità di anziano, deve votare per ultimo: è il primus inter pares. Tutti sanno che ciò invece non avviene, o avviene di rado. Il presidente dice per primo la sua opinione e questo naturalmente pone il giudice di grado inferiore in una situazione di disagio.

Onorevoli colleghi, bisogna davvero che l’uomo, in certi momenti, attinga una forza quasi divina per resistere anche al suo superiore; e noi non possiamo sempre pretendere dal giudice, che è uomo, manifestazioni di questa forza.

Perciò sarà anche necessario che la progressione in carriera sia, di regola, affidata a criteri obiettivi; ai concorsi, soprattutto.

Ma vi è poi anche un’altra questione: quella cui accennava poc’anzi l’amico Musotto: l’imboscamento dei giudici! Non c’è stato mai Guardasigilli il quale sia stato capace di condurre a termine questa grande operazione chirurgica, di riportare i giudici, tutti i giudici, nelle preture, nei tribunali, nei processi, nelle corti. I giudici non sempre amano di fare i giudici!

Preferiscono i Ministeri, i Gabinetti, le Segreterie particolari. Ci sono Magistrati che sono arrivati in Cassazione dopo anni ed anni di codesta diserzione! Tutti si lamentano che i giudici sono pochi; mi duole che non sia qui il Guardasigilli: io dico che i giudici sono sufficienti. Già molte funzioni nella riforma dell’ordinamento giudiziario potranno essere tolte ai giudici e date ad altri funzionari; ma io vorrei che, costituzionalmente, si fissasse questo principio fondamentale: che il giudice non deve essere distolto dalla sua funzione, che è quella di render giustizia. Non giudici nei Gabinetti dei Ministri, non giudici nelle Commissioni, non giudici che – ahimè! –, alle volte sospinti dalle necessità, elemosinino di far parte di questa o di quella Commissione di esame, di questa o di quella Commissione per lo studio di un determinato progetto, di questo o quel Consiglio. Dico, ahimè sospinti dalla necessità, perché le loro condizioni economiche sono di povertà: di povertà che dev’essere, per la dignità della funzione, dissimulata. Questo veramente sarà uno dei punti più fondamentali nella riforma che noi tentiamo di dare all’ordinamento giudiziario.

Ma tutto questo non è sufficiente, onorevole Turco, perché il magistrato si inserisce in una organizzazione, fa parte di un potere, che è sovrano.

Qual è il posto che noi daremo a quello che, con frase non del tutto felice, anzi, non propria secondo il mio punto di vista, è chiamato ancora «Ordine giudiziario?». Quale è l’indipendenza, per usare un’espressione tecnica, l’indipendenza funzionale di questo cosiddetto Ordine giudiziario? Dico espressione non felice, perché è tolta di peso dallo Statuto albertino, per il quale – residuo di una mentalità proveniente dalla Rivoluzione francese, che vedeva i tribunali con molto sfavore – la funzione della giustizia era quasi una funzione delegata, delegata dal sovrano. Poi, con l’evolvere dei tempi, mutarono le cose, ma l’impostazione originaria era questa: si parlava di potere legislativo e di potere esecutivo, ma non di potere giudiziario, ma di Ordine giudiziario, perché si considerava la giustizia come delegata dal re; diversamente da quanto già, per esempio, aveva fatto, con una maggiore larghezza di impostazione, lo Statuto belga del 1831, che parlava di potere giudiziario. Noi abbiamo mantenuto questa frase quasi per paura di usare la parola potere. Ebbene, il potere giudiziario è un potere dello Stato, perché è una manifestazione della sovranità dello Stato.

Come è stata garantita l’indipendenza funzionale dell’Ordine giudiziario? Non bene. Si è fatto un tentativo; il progetto si è fermato a metà, un po’ per preoccupazioni del tipo «caso Pilotti», un po’ per motivi di diverso genere, più profondi, inerenti a una visione politica che io non condivido. In fondo, il progetto dice questo: l’autogoverno della Magistratura è affidato alla stessa Magistratura.

Qui bisogna intendersi. Che cosa è questo autogoverno che mette tanta paura a qualcuno? Ma, signori, non è già che al Consiglio superiore della Magistratura si dia – come taluno forse crede e come taluno ha sostenuto – la potestà di dettarsi esso stesso le leggi della sua vita. Ma no! Molti credono che l’autogoverno significhi questo: che il Consiglio superiore della Magistratura sia un potere legiferante.

L’autonomia qui è intesa in senso non tecnico; è soltanto una potestà amministrativa. È questo il punto che voglio sottoporre alta vostra attenzione. L’accordo che molti ritengono (ed io per primo fra questi) necessario fra potere giudiziario e potere legislativo, ha già la sua prima realizzazione in ciò: è il Parlamento, ossia il potere legislativo, che detta la legge fondamentale della Magistratura, l’ordinamento giudiziario. Insomma, il Consiglio superiore non è legibus solutus, è un organo di amministrazione. Si è voluto dire: l’amministrazione della magistratura, anziché affidarla al Ministero della giustizia, al potere esecutivo, l’affidiamo ai magistrati medesimi. Ma amministrazione che si muove nei limiti e nello spirito della legge che fa il Parlamento.

Ed ecco, vedete, il primo raccordo fondamentale: la Magistratura vive sulla base e in conformità della legge che fa il Parlamento. Siamo in regime di democrazia costituzionale. La Magistratura, potere dello Stato, si amministra da sé, come il Parlamento o, per fare altri esempi, come la Corte dei conti, istituto paraparlamentare. Lo status dei magistrati, l’assunzione in carriera, le promozioni, i trasferimenti da sede a sede, i passaggi da funzione a funzione, tutto quel complesso di attività, che si designa come governo e disciplina della Magistratura, è affidato alla Magistratura medesima.

Ma l’organo di amministrazione è inadeguato. Come è composto? Del Presidente della Repubblica, che lo presiede, e di due vicepresidenti: uno di diritto, il primo presidente della Corte di cassazione, l’altro eletto dall’Assemblea; e poi di un numero di membri, metà eletti dagli stessi magistrati, in categorie determinate dalla legge, metà eletti dall’Assemblea Nazionale, cioè dalle due Camere riunite.

Io non ho niente da obiettare circa la presidenza del Presidente della Repubblica; è il sistema della Costituzione francese. Il Presidente della Repubblica, che è capo del potere esecutivo, che noi abbiamo voluto non fosse mantenuto del tutto estraneo al potere legislativo; partecipa anche alla vita della Magistratura, del terzo potere dello Stato. Dà decoro e lustro all’organo, e riafferma l’unità dello Stato, che in lui si impersona.

Comunque, è qui da sottolineare che il Presidente della Repubblica interviene nell’organo di autogoverno in quella forma che l’amico Dominedò direbbe «in via di prerogativa», perché certamente i suoi atti non sono garantiti dalla responsabilità governativa; d’altra parte non ve ne sarebbe bisogno, perché, partecipando il Presidente della Repubblica ad un organo collegiale, non ha risalto individuale la manifestazione della sua volontà, che concorre a formare, assieme a quella degli altri membri, la volontà unitaria del collegio.

Poi vi sono due vicepresidenti. Ma che cosa significano due vicepresidenti? Noi dobbiamo pensare che, di fatto, il Presidente della Repubblica non potrà intervenire nel normale svolgimento della vita del Consiglio superiore della Magistratura. Come si divideranno i compiti questi due vicepresidenti, l’uno tecnico, l’altro politico? E non sente ognuno come i componenti politici potranno essere in conflitto, se non permanente, frequente con i membri tecnici? La politica farà come il lupo: superior stabat lupus!…

Io credo che se non vogliamo creare un regime di semi-indipendenza (la peggiore delle soluzioni), bisogna far sì che il Consiglio superiore della Magistratura sia composto esclusivamente di magistrati.

Io sento le obiezioni, sento l’eco viva delle obiezioni fatte in sede di Sottocommissione, sento adesso le critiche e le riserve mosse dall’onorevole Turco. Vi sono frasi che hanno fortuna. Una è questa: la Magistratura può diventare una «casta», una casta che si può porre fuori dello Stato, domani contro lo Stato; può perfino disapplicare, come sussurrava or ora, impaurito quasi, l’onorevole Ruggiero, le leggi dello Stato. L’onorevole Ruini teme una forma di «mandarinato». Ma veramente vogliamo discutere di questo? Per il fatto che si crea il Consiglio superiore della Magistratura, che già esiste, al quale il Guardasigilli onorevole Togliatti dette una configurazione veramente democratica con la legge del maggio 1946, perché si dà vita a quest’organo, prenderebbe forma concreta il pericolo che il magistrato possa rifiutarsi di applicare la legge! Ma perché questo non può avvenire anche oggi? Ma le leggi le applica il Consiglio superiore o le applicano i singoli collegi, i singoli giudici? Temete, per caso, che il Consiglio possa dettare norme circa l’interpretazione e l’applicazione della legge? E non protestate quando ciò vien fatto dal potere esecutivo!

Se, onorevole Ruggiero, dovesse avvenire ciò che lei teme, vorrebbe dire che si avrebbe lo sfacelo dello Stato. Se noi possiamo credere come veramente realizzabile l’ipotesi che i magistrati ad un bel momento non applichino le leggi dello Stato, allora lo Stato è in frantumi. Non è più questione di Costituzione. Siamo veramente nella notte, nelle tenebre più profonde. Ma di contro a questo pericolo immaginario noi abbiamo il grande vantaggio, certo, di avere veramente una Magistratura indipendente dal potere esecutivo e quindi quelle garanzie, che io ho detto individuali, acquistano maggiore rilievo per il fatto che vi è la coindipendenza costituzionale dell’organo.

La funzione giurisdizionale non è super partes, è al di fuori delle parti. Il potere che la esercita non può non essere indipendente in senso assoluto.

Il magistrato che elegge esso stesso il Consiglio che dovrà amministrare il suo stato giuridico, la sua vita di funzionario, si sente maggiormente garantito, non ha bisogno di ricorrere al Ministro Tizio o al Ministro Caio.

Ma ritorno a un tema al quale ho dianzi fatto riferimento: il collegamento con gli altri poteri dello Stato. Ci deve essere e si attua per due forme, per due raccordi. Uno è quello che ho indicato dianzi: la legge sull’ordinamento giudiziario che è fatta dal Parlamento; quindi una influenza, dirò così, preventiva, esercita l’organo rappresentativo della volontà popolare sulla vita della Magistratura, fissando i limiti della potestà di amministrazione del Consiglio superiore e la vita stessa della Magistratura come ordine. Il secondo raccordo è il Ministro della giustizia. Il Ministro della giustizia non deve scomparire (è detto nel progetto); il Ministro della giustizia ha una serie di compiti vastissimi. Già dovrebbero tornare alla sua competenza gli affari di culto, ma poi ha tutte le questioni professionali, gli ausiliari della Magistratura, del giudice (cancellieri, ufficiali giudiziari), materia che va trattata in perfetto accordo con il Consiglio superiore perché i giudici non funzionano se non funzionano bene i cancellieri e gli ufficiali giudiziari. Non solo, ma il Consiglio superiore della Magistratura, nella mia concezione, deve essere un organo soltanto deliberante; guai se diventasse esso stesso un Ministero; guai se trasferissimo il Ministero da Via Arenula a Piazza Cavour: sarebbe la stessa situazione, forse peggiore.

L’amministrazione, come parte di preparazione e poi di esecuzione dei provvedimenti, dovrebbe restare al Ministero di grazia e giustizia. Il Consiglio superiore è organo deliberante, che dice la sua parola definitiva nella materia dello status dei giudici, (Pubblico ministero compreso) sottraendola per sempre all’influenza del Ministro, del potere esecutivo. Il Ministro, poi, che acquisterà il maggiore rilievo costituzionale di Guardasigilli, risponderà al Parlamento del buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Egli avrà il potere di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati, e giudicherà su questa azione la sezione che sarà designata dal Consiglio superiore della Magistratura con potestà giurisdizionale, così come è detto nella legge Togliatti del 1946.

Quindi voi vedete che questa possibilità di casta chiusa fuori e contro lo Stato non esiste. È una ipotesi irreale, che non può essere nemmeno addotta come argomento polemico. Si infrange da se stessa. Io quindi credo, senza entrare in particolari, che noi dobbiamo dare alla Magistratura questa indipendenza con coscienza tranquilla, sicuri che la Magistratura saprà adempiere al difficile compito.

Ma, prima di terminare, volevo accennare a due altri punti, rapidissimamente.

Il sistema creato colloca l’Ordine giudiziario in una posizione che non è costituzionalmente appropriata. Dico, soprattutto, con riferimento alla Corte costituzionale. Noi abbiamo creato una Costituzione rigida. Nessuno ne ha mai discusso ex professo, ma si dà da tutti per ammesso che la Costituzione debba essere rigida, e sarà rigida. Quindi, necessità di un organo che compia il sindacato sulla costituzionalità intrinseca della legge. Quale deve essere questo organo? Badate che qui siamo di fronte a uno dei problemi più importanti di tutta la Costituzione.

Io vi dico che ho molto riflettuto. Io ho partecipato alla formazione di questa parte del progetto, ma ho riesaminato tutti gli aspetti e tutte le soluzioni, e devo onestamente dirvi che la soluzione adottata non mi sodisfa. Noi abbiamo creato una Corte costituzionale che è un organo politico, che è un super Parlamento. Questo è estremamente pericoloso. Se, per ipotesi, la maggioranza del Parlamento, messasi sul piano inclinato della dittatura, vota una legge contro la Costituzione, noi non avremo la possibilità che la Corte dichiari l’incostituzionalità della legge, perché il Parlamento stesso forma la Corte costituzionale, e quindi l’elemento politico della maggioranza sarà presente anche in sede di Corte costituzionale. Noi sconvolgiamo tutto il sistema che vogliamo creare, non so se consapevolmente o inconsapevolmente. Questo è estremamente pericoloso. La Corte costituzionale deve essere un organo strettamente giurisdizionale, non organo politico; deve compiere un procedimento logico di accertamento: esaminare se la norma corrisponda o no, violi o no la Costituzione è un’opera che deve essere rimandata ai tecnici dell’amministrazione della giustizia, ordinaria e speciale. Vogliamo creare un organo a sé e non affidarlo alla Corte di cassazione. Va bene. Comunque, la Corte costituzionale non deve essere un organo politico perché, altrimenti, noi creeremo un super Parlamento: cosa pericolosissima, specialmente se tenete presente la natura di certe norme costituzionali che noi abbiamo inserito nella prima parte della Costituzione. Norme vaghe, norme direttive, norme programmatiche. Quando il legislatore ordinario dovrà dare concreta forma a queste aspirazioni, a queste tendenze, quale sarà il giudice che potrà dire se veramente questo compito è stato felicemente compiuto, è stato compiuto con rispondenza, con fedeltà alle norme costituzionali?

Ed un ultimo punto voglio toccare: quella della Corte di cassazione. Io ho letto un ordine del giorno che mi ha meravigliato, e mi ha addolorato e preoccupato, perché l’ho visto firmato da deputati di molti settori, il che mi fa temere che potrà passare.

Si vuole frazionare la Corte di cassazione.

Onorevoli amici, c’è la necessità dell’unità della giurisdizione. Non mi fermo su questo punto. Ma se dovessero essere approvati i concetti inseriti in quell’ordine del giorno romperemmo l’unità della giurisdizione, perché questa si realizza soprattutto attraverso l’organo supremo di interpretazione e di attuazione della legge.

Si è detto che la Cassazione esercita una funzione pedagogica. Giustissimo! Vogliamo rompere l’unità dell’ordinamento giuridico, ripristinando le vecchie Cassazioni? No, signori! Erano cinque; saranno 14, perché verrà l’onorevole Lussu che dirà giustamente: «Perché volete che la Sicilia abbia la sua Cassazione e la Sardegna no?» (Interruzioni – Commenti).

Avremo la Cassazione della Val d’Aosta. Ora, onorevoli colleghi, questa della Cassazione unica non è una legge fascista. Molti dicono: «È stata adottata nel 1923: ergo, delenda est. Porta lo stemma del littorio, via!». Signori questo è un dato puramente cronologico. Fin dal 1862 (non mi voglio soffermare; ne discuteremo partitamente quando prenderemo in esame questo ordine del giorno) vi è un progetto Minghetti, che è di una attualità impressionante per l’unità; il progetto Pisanelli; e il progetto del 1919 del guardasigilli Mortara, il più grande processualista. Vi cito sulla dottrina, Calamandrei, che ha un’opera classica: La Cassazione civile, e che sostiene in questa la sua idea della Cassazione unica.

Si dice: «Vi è pericolo della immobilizzazione della giurisprudenza». No! Noi vogliamo l’uniformità della giurisprudenza; vogliamo che a Torino non si dica cosa contraria di quella che si dice a Palermo; non vogliamo vulnerare il principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ma volere l’uniformità della giurisprudenza, non significa cristallizzare il giusto moto progressivo di essa. Cambiare la giurisprudenza, sì, ma avvedutamente, e non per esigenze che possono essere regionali, extragiuridiche, di politica regionalista. Vi dico che se questa questione dell’unità della Cassazione è suffragata da ragioni tecniche validissime, oggi se ne aggiunge una, decisiva di per sé sola. Oggi abbiamo creato le Regioni, che sono enti dotati di autonomia politica; non voglio ancora una volta parlarne male; ma abbiamo anche detto che la Repubblica deve essere una e inscindibile. Come vogliamo tradurre in atto questa unità e inscindibilità, se non attraverso questi due principî: che la legge del Parlamento è superiore alla legge della Regione; che la funzione suprema d’interpretare il diritto deve essere uguale per tutto il territorio? Questo è il tessuto connettivo costituzionalmente più importante per mantenere l’unità dello Stato.

Io vorrei pregare gli amici di riflettere su questo punto. Io ho fiducia. Sono certo, onorevoli colleghi, che l’Assemblea, per lo meno nei giorni che verranno, sentirà la profonda importanza di questo tema. Noi stiamo creando il vero strumento di difesa dei diritti e delle libertà. Non creiamo prerogative a persone: vogliamo una Magistratura che sia soltanto al cospetto della sua coscienza e della legge, quale che essa sia. La legge, una volta creata, non appartiene a questo o a quel partito, a questa o a quella tendenza, che pur l’ha voluta; appartiene allo Stato, al popolo; il giudice ha il dovere di applicarla secondo coscienza. Noi vogliamo eliminare le pressioni politiche e le ingerenze di partiti e di Governo sull’amministrazione della giustizia. Perciò ci rivolgiamo a tutti gli spiriti anelanti a vera libertà e a vera dignità di istituti civili! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, accogliendo l’invito autorevole e giusto del nostro Presidente, io illustrerò gli emendamenti da me proposti al Titolo IV dell’attuale progetto di Costituzione ed accennerò solo ai principî ed alle questioni di indole generale, che servano ad illustrarne maggiormente la bontà.

Non perderò, quindi, né vi farò perdere il tempo per esaltare l’importanza del problema oggi in discussione, in quanto ritengo sia di consenso comune il ritenere che l’ordine, la tranquillità, direi anche il grado di civiltà di una nazione sono in rapporto diretto della bontà del sistema giudiziario, che la Nazione si sa dare; ed è giusto quindi che si dia speciale importanza, in questo rinnovato clima di democrazia, alla discussione sul potere giudiziario, anche se questa importanza non riceva conferma dalla presenza numerosa dei colleghi, durante questa discussione.

Un primo pericolo, un primo inconveniente dobbiamo evitare: quello di includere nella Costituzione argomenti o elementi, che possono trovare miglior posto nel Codice di procedura o di diritto. La Costituzione dovrebbe avere anche in questo campo principî fondamentali, principî essenziali; la Costituzione dovrebbe tracciare le direttive, sulle quali poi dovranno essere formati, e compilati, i Codici di diritto e di procedura.

Ad esempio, io leggo nel progetto come la pubblicità dei giudizi e la motivazione dei deliberati giudiziari siano elementi indispensabili da fissare nella Costituzione. Convengo su questi principî, in quanto la pubblicità dei giudizi è garanzia indispensabile di giustizia, ed in quanto la motivazione spiega e giustifica il provvedimento, ed affermare la loro necessità nel progetto di Costituzione non è fuor di luogo, soprattutto perché dobbiamo lamentare che, mentre molti ricorsi, anche di condannati a pene gravi, vengono respinti (anzi non vengono dichiarati ammissibili per mancanza di motivazione), assistiamo spesso a decisioni giudiziarie, da parte degli stessi organi, prive quasi completamente della motivazione necessaria.

Ma quando, nello stesso progetto, sono affermati il diritto di ricorso in Cassazione per violazioni di legge, e l’esecutorietà delle sentenze divenute definitive, si affermano due cose e due principî che, a mio avviso, meglio sarebbe collocare nel Codice di procedura. Fedele alla promessa fatta, onorevoli colleghi, di attenermi al progetto ed agli emendamenti da me formulati, io dico subito come nell’articolo 94 del progetto toglierei – ed ho presentato un apposito emendamento in questo senso – la seconda parte del primo capoverso. Dice l’articolo: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Toglierei questa seconda parte che fa riferimento alla coscienza e lascerei solo l’altra: «1 magistrali dipendono soltanto dalla legge». Che interpretino ed applichino secondo coscienza la legge stessa è un presupposto di indole morale, che non ha bisogno di essere incluso nel progetto di Costituzione, il quale deve affermare principî giuridici, e che, certamente, non verrebbe rispettato, anche se noi l’includessimo, da quei pochissimi che eventualmente manchino di coscienza.

Nell’articolo 94 ho introdotta una dizione che mi sembra più precisa, ed è questa: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». Appositamente ho parlato di «magistrati del pubblico ministero», intendendo con ciò che la nuova fisionomia del pubblico ministero deve essere quella di un magistrato staccato dalla dipendenza del potere esecutivo; il pubblico ministero diventa così organo del potere giudiziario. Anche adesso la sua funzione principale è quella di dare giudizi di necessità e di legalità, e solo eccezionalmente esprime giudizi d’opportunità e di convenienza. È giusto, quindi, precisare che la funzione giurisdizionale è esercitata, oltre che dai giudici, anche dai magistrati del pubblico ministero.

Sono stato anche indotto a questa precisatone dal fatto che nei lavori non solo riaffiorò, ma fu sostenuto, in termini espliciti, il concetto opposto. L’onorevole Leone vorrebbe riaffermare nella Costituzione la figura del pubblico ministero dipendente dal potere esecutivo.

Con l’emendamento che ha il numero 99-bis, ed in cui è detto che «ogni magistrato esercita in modo autonomo le proprie funzioni», ho voluto stabilire l’indipendenza del giudice dal vincolo gerarchico; stabilire, cioè, la sua autonomia interna.

Questo lato del problema è stato illustrato poc’anzi dall’onorevole Bozzi ed io non mi vi soffermo più a lungo. Egli ha parlato della abituale violazione dell’obbligo, per i magistrati più giovani e di minor grado, di esprimere per primi il proprio parere nelle riunioni in camera di consiglio sulle decisioni da prendere, e lamenta che ciò metta il magistrato più giovane in difficoltà ad esprimere la propria opinione, quando il superiore gerarchico abbia già manifestato la propria, in senso diverso. Questo è un inconveniente che l’onorevole Bozzi giustamente lamenta, ma non è il maggiore degli inconvenienti. Maggiore inconveniente, ad esempio, era quello per cui nell’istruttoria le sentenze venivano rese da giudici istruttori necessariamente inferiori per grado a quei magistrati della Procura camerale, che avevano, in un senso o nell’altro, già dato, con le conclusioni definitive, il proprio giudizio.

Non si è accennato finora, onorevoli colleghi, a proposito dell’indipendenza della Magistratura, ad un argomento che è veramente essenziale. Intendo riferirmi a quello da me indicato nell’articolo 102-bis, così redatto: «Lo Stato garantisce l’indipendenza economica del magistrato e dei funzionari dell’ordine giudiziario»: Onorevoli colleghi, noi dobbiamo avere del magistrato – e l’abbiamo – una visione alta; la visione del magistrato che con nobiltà e dignità adempie alle sue funzioni, e tutti siamo d’accordo nel riconoscere che la generalità dei magistrati ha degnamente esercitato il proprio ministero. Dobbiamo però, nello stesso tempo, riconoscere che egli è un uomo come tutti gli altri, che ha necessità pratiche come tutti gli altri, e che per la tranquillità, per la serenità del suo lavoro, per la dignità del suo ministero, per la dignità stessa dello Stato, che delega ai magistrati una parte della propria sovranità, dev’essere a lui ed ai funzionari dell’ordine giudiziario garantita l’indipendenza economica. Quanto difficile sia amministrare giustizia, e non tradire i suoi segreti (e con ciò intendo soprattutto riferirmi alla posizione dei dipendenti ausiliari dell’amministrazione), mentre si vive in gravi strettezze economiche, fra mille difficoltà e troppe tentazioni, è cosa risaputa.

Necessità quindi di provvedimenti al riguardo, che non si limitino a riconoscimenti verbali. Mi pare che questo mio emendamento, se potrà essere discusso nella forma, dovrà trovarci tutti d’accordo nella sostanza.

Ho anche proposto un altro emendamento che riguarda l’immunità dei magistrati dall’arresto, nei casi in cui non concorra la flagranza di delitto. Troppo, onorevoli colleghi, è di danno per la società il caso, non infrequente, che un magistrato venga colpito nel suo prestigio da un arresto che poi risulti immeritato. Anche in Roma, se io non vado errato, precisamente lo scorso anno, si verificò il caso del «fermo» poi mutato in «arresto» di un magistrato, il quale, dopo un mese e più di carcerazione, venne riconosciuto completamente innocente degli addebiti che gli erano stati mossi. Questo si deve assolutamente evitare: il magistrato, il quale torni all’esercizio della propria funzione, dopo un periodo di carcerazione ingiusta, darà luogo a manifestazioni di stima, da parte di quelli che mai avranno dubitato della sua innocenza e che lamenteranno l’affronto ed il torto di cui fu vittima, ma nello stesso tempo non sarà mai sicuro di sfuggire alle insinuazioni artificiose ed interessate da parte di altri. Noi, in quanto rappresentanti della Nazione, godiamo di una immunità che si fonda sullo stesso principio per cui la chiedo e propongo per i magistrati: delicatezza della funzione esercitata.

Poiché si è parlato di indipendenza e si parte dal concetto indiscutibile della inamovibilità dei giudici, dobbiamo subito dire che è però giusto quanto è affermato nel progetto, per cui alla assunzione dei magistrali si deve procedere solo per concorso; il magistrato che ha speciali garanzie, il magistrato che appartiene alla categoria dei cittadini che esercitano la più alta delle funzioni, quella di interpretare ed applicare la legge, deve costituire un corpo composto di elementi scelti, deve appartenere ad una categoria, per quanto possibile, eletta.

Non si devono poi applicare i vecchi sistemi e riparare alla deficienza numerica dei magistrati con l’assumerli, senza concorso, in base al titolo di laurea, oppure ad un periodo di esercizio professionale più o meno brillante. Io sono contrario alla istituzioni di magistrali onorari, sono contrario ad inserire negli organi giudiziari magistrati tratti dall’avvocatura o dal campo accademico.

Solo attraverso un concorso rigoroso si potrà ottenere una buona Magistratura. Tanto più, quindi, sarei contrario, ove dovesse affiorare in quest’Aula, al concetto di una Magistratura elettiva. Con la elezione il popolo affida il proprio volere ai suoi rappresentanti. Nel caso della Magistratura noi siamo invece in questa condizione: che il popolo ha già manifestato il suo volere ed ha già consacrato la sua idea nella legge e nei codici che si debbono applicare. Quindi, il criterio elettivo è, non solo inopportuno, ma potrebbe essere addirittura disastroso.

Veniamo all’altro, importante argomento, quello che riguarda il Consiglio superiore della Magistratura.

In questo, onorevoli colleghi, che è uno dei punti più dibattuti, io non esito a dichiarare subito che sono contrario alla designazione da parte dell’Assemblea nazionale di membri del Consiglio superiore della Magistratura. È innegabile che la designazione conserverebbe sempre una specie di carattere, o di sapore politico, e che l’indipendenza di cui si è tanto parlato riceverebbe, per questo fatto, un colpo gravissimo; è innegabile, ancora, che la disposizione contenuta nell’articolo 97 del progetto è in stridente contrasto con l’ultimo capoverso dell’articolo 94.

Nell’articolo 94, ultimo capoverso, è scritto «I magistrati non possono appartenere a partiti politici». Io domando se non sia contradittorio e se non sia profondamente ingiusto pretendere dai magistrati di rinunziare ad una parte della propria personalità, col divieto di inscrizione nei partiti politici e, allo stesso tempo, invece, disporre che nel Consiglio superiore alla Magistratura rientri quella politica dalla quale vorremmo che il magistrato fosse escluso. Dobbiamo, senza diffidenza, riconoscere alla Magistratura l’autogoverno.

E non mi soffermo ad esaminare (per il caso che sia approvato il principio per cui elementi designati dall’Assemblea nazionale partecipino al Consiglio superiore della Magistratura), non mi soffermo ad esaminare il caso degli appartenenti agli albi forensi, che non esercitino la professione durante il periodo in cui appartengano al Consiglio superiore della Magistratura, ma che tuttavia potranno esercitarla in seguito.

Chiunque eserciti la professione sa quali possibilità – non voglio dire quali astuzie – si possono praticare, perché l’esercizio avvenga per interposta persona. Sarà possibile, soprattutto agli avvocati che esercitano, esclusivamente nei campi civile e amministrativo, servirsi, per la firma, del nome di un sostituto, di un collega, mentre l’appartenenza al Consiglio superiore della Magistratura, se non aumenterà il numero delle cause, certamente influirà, per porre in stato di possibile soggezione i magistrati.

In fatto di unità di giurisdizione io, onorevoli colleghi, sarei per l’unità della giurisdizione civile, penale e amministrativa. Ma se anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti dovessero rimanere come organi giurisdizionali, io chiederei che fosse sancito il diritto di ricorso alla Corte suprema contro ogni decisione di Magistratura ordinaria o speciale, per qualsiasi violazione o falsa applicazione della legge.

Credo che tutti siamo d’accordo, in linea per lo meno teorica, nel riconoscere che debbano essere aboliti i tribunali speciali e che nuovi tribunali speciali o commissioni straordinarie non debbano essere stabiliti. Però, intanto, nel progetto, la disposizione precisa dell’abolizione di quelli esistenti non è consacrata. È consacrato, sì, il divieto dell’istituzione di nuovi tribunali speciali, ma non è stabilita la soppressione immediata degli attuali. È stabilito che la soppressione debba avvenire entro cinque anni; ma se noi, ad esempio, dovessimo – uso questo termine un po’ volgare, ma espressivo – dovessimo, dicevo, sorbirci, per cinque anni ancora, i provvedimenti straordinari stabiliti in materia penale, per cui l’imputato viene sottratto talvolta ai suoi giudici naturali, ed affidato – direi consegnato – ai tribunali militari di guerra, se questo, dico, si dovesse verificare, dovrei dire allora che noi, con questo nostro progetto di Costituzione, non abbiamo fatto un passo innanzi, ma ne abbiamo fatto molti in una via di regresso.

Io sono favorevole alla soppressione del tribunale militare in tempo di pace. L’onorevole Bozzi, sostenendo poc’anzi la necessità della Cassazione unica, ha creduto di trovare un argomento a favore della propria tesi accennando al pericolo della richiesta di istituzione di Cassazioni in tutte le Regioni, il che, ove tale richiesta fosse accolta, determinerebbe una difformità eventuale nell’interpretazione della legge.

L’onorevole Bozzi ha detto che subito una richiesta del genere verrebbe presentata dall’onorevole Lussu per la Sardegna. Ebbene, io dico all’amico Bozzi che l’onorevole Lussu, il quale ha avuto con me uno scambio di idee sull’argomento, è favorevole alla Cassazione unica. Le ragioni per cui alcune Regioni chiedono la Cassazione regionale sono alquanto diverse da quelle cui ha fatto cenno l’onorevole Bozzi. Sono rappresentate dal fatto che sembra eccessivo accentrare tulle le cause in un’unica Corte suprema qui in Roma; che sia più difficile, per molti, la tutela dei proprî diritti per il fatto che è necessario sopportare un maggior cumulo di spese; sono rappresentate soprattutto dal desiderio di far rivivere le proprie Cassazioni regionali, che ebbero vita in certo senso gloriosa.

Ciò non di meno io, sebbene regionalista, riconosco che solo la Cassazione unica può dare un’eguale, un’uniforme, una stabile interpretazione della legge. So bene come le varie sezioni della Cassazione abbiano sovente espresso difformi pareri nell’interpretazione della legge; so benissimo che questo si è verificato anche nel campo penale. Ma so che questi errori sono correggibili e non raggiungono quella ricchezza, direi, di episodi e quella profondità di danno che invece verrebbero raggiunti se le Cassazioni fossero tante quante sono le Regioni, o se anche solo le Cassazioni risorgessero là dove ebbero vita in precedenza: Firenze, Torino, Napoli e Palermo.

La stabile, uniforme interpretazione della legge è un elemento assolutamente necessario per la vita dello Stato. E affermando, come affermo, io regionalista, la necessità di mantenere la Cassazione unica, do la riprova del come, onorevoli colleghi, il nostro regionalismo non sia un regionalismo anti-unitario. Vi sono i principî fondamentali della legge per tutta la Nazione, che hanno bisogno di un’unica interpretazione, in quanto la Nazione deve avere una direttiva fondamentale unica, che è data appunto dall’attività giurisdizionale che interpreta la legge in modo uniforme. (Approvazioni).

Ed entriamo, onorevoli colleghi, nell’ultimo argomento che io tratterò un po’ diffusamente: nella dibattuta questione della Corte d’assise. È curioso questo, ed è singolare come quasi tutti gli avvocati, soprattutto gli avvocati penalisti, siano in genere poco favorevoli alla Corte d’assise. (Commenti).

Intendiamoci: alla giuria, così come era e come funzionava anni fa, crederei che quasi tutti siamo contrari; alla giuria così come venne concretata e formulata nell’attuale progetto, crederei che anche quasi tutti siano maggiormente contrari; per lo meno sono contrari i penalisti. Ma siamo anche ugualmente contrari all’attuale funzionamento della Corte d’assise, che consiste nell’inserimento di elementi cosiddetti popolari fra i giudici togati, cioè all’assessorato. Si verifica questo, onorevoli colleghi: che il magistrato spesso considera precipua sua funzione quella di stare a guardia, per ciò che gli assessori eventualmente potranno fare. Noi dobbiamo uscire da questa situazione.

L’articolo 96 dispone che il popolo partecipi direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria, nei processi di Corte d’assise.

Io credo di non poter essere giudicato sospetto quando affermo che qui si è avuta una infiltrazione di tendenze demagogiche. Il popolo deve partecipare all’amministrazione della giustizia? Senza dubbio. Ma non è detto che debba parteciparvi solo attraverso la giuria nei processi di Corte d’assise; il popolo partecipa all’amministrazione della giustizia, informandone le leggi, rendendole più moderne, nel senso di renderle più adatte, più attuali, più adeguate all’ambiente; nel senso che la legge ha da essere modificata, rimodernata, resa viva, di modo che contempli i fatti umani così come si verificano nell’ambiente e nel periodo di tempo in cui deve essere applicata.

Io ricordo come il vecchio Codice – consentitemi l’accenno – non stabilisse minore pena per chi commettesse delitto per causa di onore. Tutt’al più si poteva ammettere il beneficio della provocazione. In seguito, opportunamente, venne introdotto un articolo, per cui i reati di sangue commessi per ragioni di onore vengono puniti con una pena speciale, di molto ridotta. Ecco che la spinta del popolo ha influito sulla modificazione della legge.

In questo senso, onorevole Bozzi, io trovo motivo per dire che non è vero che la giurisprudenza, quella che rappresenta e costituisce l’opera dei magistrati, debba necessariamente aver carattere conservatore. Il magistrato deve necessariamente applicare la legge, ma spetta al suo spirito, al senso di modernità e di umanità di cui possa essere animato, di far fare un passo innanzi alla legge stessa. I nuovi Codici, in certo senso, altro non rappresentano, se non la codificazione nuova di ciò che la giurisprudenza ha portato come nuovo contributo, per fare un passo innanzi. Ed è per questo che noi abbiamo introdotto nel Codice penale – come dicevo – un istituto relativo ai delitti per causa d’onore, considerati in modo speciale; ed è perciò che si è ristabilito il criterio delle attenuanti, ed è perciò che ha vita l’articolo 62 sulle diminuenti, articoli e principî che dovrebbero avere maggiore amplificazione.

Il popolo partecipa, quindi, all’amministrazione della giustizia, vi partecipa con le forme e per le vie di cui ho parlato. Quindi il problema delle Assise lo dobbiamo esaminare sotto un altro punto di vista.

Qual è il criterio fondamentale, in base al quale decidere se attribuire al giudizio delle assise le cause così dette di maggior competenza, oppure attribuirle ai tribunali? Dobbiamo seguire la via che porti ad una migliore amministrazione della giustizia. Questo dev’essere il criterio per decidere.

Attualmente, alla Corte di assise vengono deferiti tutti i processi in cui la pena superi i dodici anni. Questo criterio, onorevoli colleghi, non può essere seguito. Non bisogna badare ad un criterio quantitativo, bisogna badare ad un criterio qualitativo. Certi reati potranno essere ancora di competenza della Corte di assise. Quali? Ecco il punto. Potranno essere di competenza della Corte di assise, onorevoli colleghi, reati politici, qualche reato o tutti i reati passionali. Con questo criterio dovrà regolarsi la competenza delle Assise.

Io ho proposto la soppressione dell’articolo 96, non perché sia contrario a qualunque deferimento di cause alle Assise, ma perché non ammetta possa risorgere una giuria, le cui sentenze debbano decidere della vita di essere umani e dei loro averi senza neanche la possibilità di appello.

La stranezza oggi è questa: che mentre è possibile l’appello da qualunque sentenza che condanni a qualche migliaio di lire di multa o a pochi giorni di carcere, tale possibilità è vietata per le cause in cui prima c’era la condanna a morte ed oggi v’è la condanna all’ergastolo.

Di modo che si arriva a questa incongruenza: che di fronte a casi troppo appariscenti, che cioè troppo palesemente violano la giustizia, la Cassazione che dovrebbe occuparsi solo di questioni di diritto, esamina la causa talvolta in linea di fatto.

La Corte di assise, competente solo nelle poche cause alla cui natura ho accennato, dovrebbe essere sistemata e regolata in modo da garantire il diritto all’appello.

La difficoltà del problema dovrà essere esaminata in sede di ordinamento giudiziario, o potrà avere, alla luce dei criteri ora espressi, opportuna soluzione.

Devo spiegare perché non attribuisco l’esclusività della competenza ai magistrati togati, dicendo, anche a questo proposito, chiaro il mio pensiero. Devo riconoscere che non sempre e non tutti hanno l’animo aperto a correnti e a sentimenti nuovi, e voglio sperare che, con l’attribuire loro la competenza anche in molte cause ora di assise (e col togliere loro la preoccupazione di quello che sarà il comportamento dei giurati o degli assessori), siano animati nella loro opera da spirito più largamente umano e, mi permetto di dire, anche da minor senso di diffidenza verso le posizioni a difesa, se non, talvolta, verso gli avvocati.

Io avrei voluto, onorevoli colleghi, che fosse stato presente (non ne ha l’obbligo) il Ministro di grazia e giustizia, perché avrei voluto dire in sua presenza come non sia esatto quanto poc’anzi ha affermalo l’onorevole Bozzi, il quale ha detto che di magistrati ne abbiamo a sufficienza.. Noi abbiamo l’organico, se non sbaglio, del 1865. Noi abbiamo quell’organico di fronte ad una complessità di vita ben diversa di quella di allora; noi abbiamo un organico per cui, onorevoli colleghi, troppi tribunali sono disorganizzati per mancanza di giudici.

Intendo accennare, finendo, alla necessità che la giustizia di cui ci preoccupiamo con l’organamento del potere giudiziario, sia uguale per tutti i cittadini e per tutte le terre, che non si debba più verificare ciò che, ad esempio, capita a Cagliari nonostante il lodevole spirito di sacrificio di quei magistrati, che cause già istruite giacciano per mesi in attesa che si effettuino le conclusioni, rese impossibili dalla mancanza di personale. È giusto che la giustizia porti la sua luce benefica indistintamente verso tutti ed in tutte le Regioni. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ciampitti. Ne ha facoltà.

CIAMPITTI. Onorevoli colleghi, non sembri immodestia la mia, se inserisco la mia parola dimessa nella interessante discussione, alla quale hanno partecipato e parteciperanno insigni colleghi, certo più autorevoli e più competenti di me, intorno ad uno dei titoli più importanti del progetto di Costituzione.

Il mio intervento è dovuto unicamente alla lunga consuetudine professionale con la Magistratura, il che mi ispira il dovere di spendere una parola modesta, ma fervida, per la risoluzione di un problema vitale, che interessa la benemerita categoria dei magistrati, spesso indifesi e umiliati, ma sempre dignitosi, operosi, pieni di abnegazione, capaci di ogni sacrificio.

Il problema della Magistratura, altrettanto importante quanto in gran parte se non del tutto ignorato, va impostato ed affrontato coraggiosamente nella sua interezza e nella sua complessità, studiandolo a fondo e dando ad esso quella giusta soluzione che, non soltanto dalla benemerita categoria dei magistrati si attende, ma anche e soprattutto dalla coscienza pubblica. Deve essere merito dell’Assemblea Costituente dare un assetto definitivo e soddisfacente all’increscioso stato di cose attuale riguardo al potere giudiziario, che dura da troppo tempo e che minaccia di compromettere la funzione della giustizia, a giudicare dalla recente agitazione della Magistratura, allarmante segno premonitore di incresciose conseguenze. Chi crede che il disagio dei magistrati sia soltanto o prevalentemente economico, sbaglia di grosso. Anzitutto si tratta di disagio morale, di una vera crisi di prestigio. La Magistratura anela alla conquista dell’indipendenza e dell’autonomia, senza di che essa non potrà compiere serenamente e coscienziosamente la sua alta e nobile funzione, essenziale alla vita dello Stato, garanzia di ogni libertà, tutela dei diritti dei cittadini, in ogni libero ordinamento civile. Caduto il regime fascista e restaurato in Italia un regime di legalità e di libertà, occorre che questo sia validamente rispettato e difeso contro ogni sopraffazione o ingerenza e che tutti, cittadini ed organi della pubblica autorità, si assoggettino incondizionatamente al rispetto della legge. Tale garanzia può trovarsi soltanto in un potere giudiziario che sia indipendente e forte, cui si assegnino compiti ben determinati, precisandone i rapporti con gli altri poteri dello Stato.

Negandosi la più incondizionata indipendenza alla Magistratura, viene meno la condizione essenziale e fondamentale di una sana e retta giustizia, che non è possibile realizzare se chi deve amministrarla non goda di piena libertà ed autonomia. Si può anche negare il rapporto di dipendenza gerarchica nell’interno del suo funzionamento, perché il principio dell’obbedienza gerarchica, che vige nelle altre amministrazioni pubbliche o private, non è concepibile nell’ambito della Magistratura, perché chi rende giustizia deve ispirarsi soltanto alla propria coscienza, tanto che nella Magistratura collegiale vige il democratico sistema della maggioranza e non quello della dipendenza gerarchica, ed il voto del Presidente non è preminente, ma equivale a quello del meno anziano dei giudici. Se è vero che la funzione della giustizia umana ha in sé qualche cosa di divino, essa deve essere assolutamente preservata da ogni possibilità di danno, da ogni speranza di vantaggio, liberando il magistrato da ogni deleteria influenza estranea.

Secondo lo statuto albertino, la Magistratura era concepita come l’emanazione del potere regio, e l’ordine giudiziario, in sostanza, fu considerato né più né meno che come una qualsiasi branca della pubblica amministrazione.

Si disse che la funzione giudiziaria era autonoma e indipendente. Ma come considerarla effettivamente tale, se i magistrati erano soggetti al potere esecutivo per la disciplina, le promozioni ed i trasferimenti? Con lo statuto e la legge Orlando del 1908 si concessero delle guarentigie ai magistrati, ma esse non assicurarono una vera ed effettiva indipendenza, giacché non basta garantire i magistrati dagli arbitri positivi del potere esecutivo, occorrendo difenderli anche da quelli negativi, consistenti in atteggiamenti del Ministro contrari agli interessi dei magistrati. Non basta ad esempio assicurare l’inamovibilità del magistrato dalla sede, quando egli può avere interesse ad essere trasferito ad una sede più ambita, il che dipende dalla discrezione del Ministro, non sempre ispirata a giustizia e equità.

Particolarmente i magistrati delle province si lamentano che al Ministero della giustizia non sempre le cose vadano bene, specie in fatto di trasferimenti. Vero o no, giova eliminare ogni lamento ed ogni recriminazione. Il progetto di Costituzione riconosce l’esigenza dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, ma delle riserve vanno fatte, non sul fine in se stesso, sibbene sui mezzi atti ad assicurare il conseguimento del fine medesimo.

Le norme del progetto non lasciano completamente tranquilli circa la realizzazione di una vera autonomia e di una reale indipendenza del potere giudiziario, anzi si può dire che contraddicano al principio affermato nell’articolo 97 del progetto stesso. È l’autonomia amministrativa che occorre realizzare, mediante l’auto-governo della Magistratura, come già è stato ricordato da qualche collega che ha parlato prima di me. Bisogna svincolare la Magistratura dalla dipendenza, come impiegati, dal potere esecutivo. Gli organi giudiziari devono provvedere alla propria amministrazione, altrimenti, attraverso i rapporti d’impiego, il potere esecutivo continuerà sempre ad essere il vero «padrone della Magistratura».

Forse non sarebbe inopportuno svincolare addirittura i magistrati dal concetto di carriera, di grado e di promozione, a somiglianza di quello che avviene per i professori universitari. Ma se l’attuale sistema deve perdurare, la materia deve essere affidata esclusivamente ad organi amministrativi composti dai magistrati, costituiti per elezione dai magistrati stessi. In sostanza è il sistema che è prospettato nel progetto che prevede la nomina del Consiglio Superiore della Magistratura, da costituirsi con membri eletti dalla Magistratura stessa e membri di nomina del l’Assemblea Costituente.

L’ideale sarebbe, in verità, che tutto il Consiglio Superiore fosse eletto dalla Magistratura, che più di ogni altro conosce ed apprezza i migliori della propria famiglia giudiziaria. Comunque, è manifestamente eccessivo il numero dei componenti di nomina dell’Assemblea Costituente rispetto a quello assegnato ai magistrati; senza dire che, indubbiamente, la nomina da parte dell’Assemblea Costituente risentirà facilmente, se non certamente, delle influenze politiche con indubbio danno della serenità e obbiettività dei giudizi da emettersi dall’alto consesso giudiziario.

Non si comprende poi la nomina di due vice Presidenti, di cui uno da nominarsi dall’Assemblea Costituente, quando uno potrebbe bastare nella persona del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, in assenza del quale potrebbe assumerne le funzioni il membro più anziano. È ovvio inoltre che gli iscritti agli albi forensi non possano essere eletti dall’Assemblea Costituente quali componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Non basta che si inibisca loro l’esercizio della professione durante il tempo in cui faranno parte del Consiglio Superiore, poiché la professione, come è già stato ricordato, si può anche esercitare per interposta persona, sicché il pericolo di influenza in un senso o nell’altro non si elimina affatto.

L’indipendenza della Magistratura deve essere assicurata anche con un adeguato trattamento economico. Per il prestigio effettivo della Magistratura e per invogliare gli elementi validi ad entrare nella Magistratura stessa, bisogna separare la Magistratura dall’esercito di funzionari ed impiegati statali, per farne un corpo sceltissimo, non numeroso, ben retribuito di rappresentanti della giustizia, cioè di un effettivo e vero potere dello Stato. Si impone quindi l’autogoverno finanziario lasciando alla Magistratura, nei limiti stabiliti ogni anno dal Parlamento, la determinazione degli emolumenti e delle indennità spettanti ai suoi componenti.

Né dovrebbe essere difficile la istituzione di una cassa speciale, cui potessero affluire i proventi degli atti giudiziari a vantaggio dei magistrati. Non è giusto che vada alle casse dello Stato tutto ciò che si ricava dall’amministrazione della giustizia. Del resto, il bilancio della Giustizia, come è noto, è attivo, forse il solo attivo fra tanti bilanci. E nel trattamento economico della Magistratura non è il caso di lesinare.

Il magistrato si vede oggi in uno stato di inferiorità e di impossibilità di vita. Dai frequenti contatti coi magistrati, so che essi vivono di stenti; in molti casi, nella maggior parte dei casi, essi fanno una vita grama, piena di sacrifici veramente enormi. Eppure essi devono rispettare le leggi della dignità e del decoro personale e della propria famiglia; e non hanno i mezzi per sostenere le spese richieste da una vita, anche la più modesta. Non bisogna dimenticare che le ristrettezze della vita materiale dei magistrati hanno un’influenza diretta anche sul potere spirituale e sulle energie mentali del magistrato stesso. Non si può pretendere un grande rendimento, aderente alle esigenze della magistratura, quando si soffre addirittura la fame, o non si hanno i mezzi materiali per poter provvedere alle esigenze più elementari della vita.

Se si fanno poi paragoni fra gli stipendi dei magistrati e quelli di molte categorie di impiegati statali o non statali, si vede in quale umiliante situazione i magistrati si trovino rispetto ad essi. È un quadro di avvilimento quotidiano quello al quale coloro che esercitano la professione forense debbono assistere, con vero rincrescimento ed anche con un senso di commiserazione per questi paria della società, i quali, pure esplicando una nobile funzione, non sono retribuiti in maniera da potere campare la vita con certa dignità e certo decoro.

Quindi, credo che non vi debba essere alcuno tra di noi che dissenta dal proposito, veramente fermo e concreto, di poter fare quanto è in noi per sollevare, oltre che moralmente, anche materialmente, la posizione della Magistratura italiana, che veramente deve essere considerata con quei criteri di umanità, che presiedono in tutte le altre risoluzioni prese dall’Assemblea.

C’è un punto, onorevoli colleghi, che va anche considerato a proposito della Magistratura italiana: parlo delle accuse e delle offese che con molta frequenza si fanno e si muovono contro la Magistratura, attorno alla quale si è creata una atmosfera di prevenzione e di sfiducia che si va sempre più totalmente appesantendo, talvolta per superficialità di giudizio, talvolta per malevolenza, però sempre ed in ogni caso con gravissimo danno dell’alta e delicata funzione della Magistratura e con evidente discredito della funzione del potere giurisdizionale.

C’è chi accusa i magistrati di inettitudine, chi di inerzia, chi di indegnità morale, ingiustamente e pericolosamente generalizzando, con serio discapito per tanti magistrati degnissimi, e più ancora, per l’esercizio del ministerio ad essi affidato. Non si esclude che nella famiglia della Magistratura, come del resto anche in altri settori della vita, fra tanti meritevolissimi di ogni lode e di ogni stima si annidino degli incapaci, dei neghittosi, dei moralmente censurabili. Se ciò è vero, è necessario, anzi è urgente (è la stragrande maggioranza dei magistrati stessi che lo reclamano) procedere ad una salutare e rapida eliminazione degli indegni, prima che questi contagino i buoni, ed anche per evitare che prenda consistenza la voce calunniosa che tutta la Magistratura sia bacata. I magistrati veramente degni di questo nome avvertono un intollerabile disagio morale nel sapersi sospettati di colpe che non hanno, e non possono tollerare che le accuse ed i sospetti contro gli immeritevoli si estendano ad essi, togliendo loro quella tranquillità di spirito e quella serenità di giudizio che sono condizioni prime ed indispensabili per la retta amministrazione della giustizia. A me pare anzi che un procedimento di eliminazione e di epurazione, severo, sereno ed obiettivo, sarebbe stato necessario e forse indispensabile, prima che l’Assemblea Costituente si accingesse alla discussione ed alle deliberazioni di ordine costituzionale nei riguardi della Magistratura. Non è possibile decidere sull’eventuale autonomia del potere giudiziario, sul credito che il Paese può fare alla Magistratura, sulle linee fondamentali del suo ordinamento, sulla partecipazione e sulla funzione che essa dovrà esplicare per il controllo costituzionale delle leggi e sull’ampiezza della sua giurisdizione, senza aver prima presa conoscenza della situazione attuale delle condizioni in cui i magistrati operano, delle cause del malcontento diffuso nel pubblico, prima di aver accertato fino a qual punto arrivi la fondatezza delle accuse e dove comincino per avventura i preconcetti, prima di aver dato il via ad un’opera di risanamento.

L’autonomia del potere giudiziario è tale condizione di indipendenza che dovrebbe essere riconosciuta al di sopra di ogni situazione contingente, perché in caso contrario l’ordine giudiziario riceverebbe un grave detrimento. Un senso di scoramento e di sfiducia nella sensibilità del Paese e di chi lo governa verso i problemi della giustizia, che furono sempre trascurati, pervade anche quelli che furono costantemente tra i più volenterosi, i quali si vedono oggi oltraggiati da accuse indiscriminate. Un maggior danno deriva alla Nazione, in cui diminuisce il senso di fiducia nella autorità dello Stato e nella stessa democrazia, quanto più si abbassa il prestigio degli organi che in un Paese civile dovrebbero costituire l’elemento fondamentale della tranquillità. Troppo spesso oggi accade che la Magistratura si trovi ad essere bersaglio di accuse mosse da chi se ne vuole servire a scopi politici e di parte, per sollevare l’indignazione degli ignari, per scaricarle addosso responsabilità che non la riguardano. Se in democrazia la giustizia è una delle principali funzioni dello Stato, l’Assemblea dei rappresentanti del popolo tutelerà la democrazia, se si metterà in grado di difendere l’ordine giudiziario da ogni ingiusto attacco.

Prima di porre fine a questo mio intervento, mi sia consentito di riferirmi all’ultimo capoverso dell’articolo 94 del progetto di Costituzione, per quanto riguarda il divieto ai magistrati di iscriversi a partiti politici e ad associazioni segrete.

La passione di parte, secondo me, toglie o può togliere al magistrato quel senso di obiettività e di serenità che è condizione prima ed essenziale per la retta amministrazione della giustizia. Seppure il magistrato, nell’adempimento del suo dovere, riesce a sottrarsi all’influenza dell’idea politica, va soggetto sempre e inevitabilmente a sospetti dell’una o dell’altra parte, specie nei piccoli centri giudiziari, in cui, anche volendo, il magistrato non riesce a nascondere la sua fede politica, offrendosi a bersaglio di critiche, di mormorazioni, di malignazioni, il che certo non influisce al suo decoro e al suo prestigio, né determina o consolida la fiducia del popolo nei suoi giudici.

Egli potrà liberamente coltivare nel suo intimo le sue opinioni politiche e liberamente potrà esprimerle con la segretezza del voto. È bene per lui e per l’amministrazione della giustizia che egli non sia sospettato di asservire l’alta e nobile funzione affidatagli di giudicare della libertà e dei beni del proprio simile sotto l’influenza della passione di parte.

Un’ultima parola a proposito della istituzione della giuria popolare, prevista nell’articolo 96 della Costituzione. Io sono convinto e irriducibile avversario della istituzione della giuria popolare. La mia lunga esperienza professionale mi conduce a questo convincimento, che io non so se sia condiviso dalla maggioranza di questa nobile Assemblea. Ma io ricordo gli scandali frequenti, gli errori frequenti, che si sono verificati durante il funzionamento delle giurie popolari. Nella relazione del Comitato per lo studio della riforma penale, costituito dall’Istituto italiano di studi legislativi e composto di magistrati insigni, di professori universitari e di liberi insigni professionisti, sono stati esposti e lumeggiati i motivi molteplici e seri che fanno ripudiare l’istituto della giuria popolare. Molte volte, specialmente nei processi indiziari, il delitto appare avvolto da mistero e l’imputato tenta ogni mezzo per occultare la verità e sfuggire alla condanna, traendo talvolta in errore anche il giudice più accorto ed esperto.

Ora, come può un giudice improvvisato, e quindi impreparato ed inesperto, accingersi alla ricerca della verità, quando egli non ha pratica, quando egli può essere facilmente travolto ed ingannato da equivoche apparenze e da falsi testimoni?

Ricordo che l’onorevole Enrico Ferri, a proposito della funzione giudiziaria che si attribuiva alla giuria popolare, ricorse ad un esempio banale, ma significativo. Egli si esprimeva così: «Sarebbe lo stesso come affidare la riparazione di un orologio ad un calzolaio». Non è colpa della giuria popolare se non è all’altezza della funzione che le si dovrebbe assegnare. E non perché si vuole che il popolo direttamente partecipi all’amministrazione della giustizia, si devono eliminare i magistrati togati, i quali, non so perché, dovrebbero essere capaci di giudicare nelle altre cause e non in quelle che ordinariamente si assegnano alla Corte d’assise.

Del resto, se si parla di percezione logica o di intuito da parte dei cittadini che dovrebbero costituire la giuria popolare, io mi permetto di osservare che tutto ciò non basta.

Occorre che vi sia una preparazione giuridica e che si abbia il sussidio di scienze complementari, oltre che pratica e tecnica giudiziarie, per rendere meno frequenti gli errori, il che con la giuria popolare non si può conseguire.

Moderni studiosi reclamano che il giudice penale abbia forte preparazione giuridica e scientifica. Ora, i rappresentanti del popolo si smarriscono molto spesso in quella che è la ricerca della verità, perché è soltanto la lunga pratica giudiziaria che può mettere i giudici in genere in condizione di poter ricercare la verità e corazzarsi contro tutte le insidie.

Questa non è opera che può essere attribuita a qualunque cittadino; non si possono improvvisare i giudici, specialmente quando alle Corti di assise si assegnano le cause per delitti più gravi di quelli che competono al tribunale. E poi, per chi abbia pratica delle Corti di assise, basta anche considerare la facilità con cui sono conseguite le vittorie da parte di avvocati che finiscono per travolgere il giudizio dei giurati con le blandizie della eloquenza oratoria. Ecco perché si hanno le facili vittorie nelle Corti di assise. Inoltre bisogna considerare anche la influenza che si può esercitare sull’animo dei giudici popolari in conseguenza di ragioni politiche, familiari, per interessi morali, per rapporti di simpatia, ecc., che possono determinare nell’animo dei giudici popolari un atteggiamento favorevole verso l’una o l’altra parte; il più delle volte ciò accade anche inconsapevolmente, per effetto di questi stessi rapporti.

Vi sono, è vero, dei difensori della giuria popolare, i quali si servono di questo argomento: essi dicono che nelle Corti di assise ordinariamente si dà un giudizio di fatto, e questo lo possono dare anche coloro che non sono cultori del diritto e che non sono dei magistrati; ma questo è un errore, perché il fatto ed il diritto spesso si concretizzano nello stesso processo, onde non è possibile parlare distintamente del fatto e del diritto. Il più delle volte bisogna giudicare una questione di diritto insieme ad una questione di fatto ed i giudici del popolo non sono sempre in grado di risolvere queste questioni.

Per quanto riguarda l’assessorato, il rimedio mi pare peggiore. Se i due magistrati che fanno parte della Corte di assise sono in dissenso circa la risoluzione di una questione di diritto, questa si decide col voto di cinque assessori, che non sono giuristi e che di legge non si intendono affatto. Basta questo per tutto.

Quindi, non v’è nessun serio motivo – ed io ho letto molto intorno a questo argomento e non ho trovato elementi capaci di distogliermi dalla mia convinzione – perché al magistrato togato si debbano sottrarre le cause di competenza della Corte di assise, molte delle quali – del resto – sono di più facile indagine e di molto più semplice decisione. Ancora, bisogna aver riguardo a quello che è il problema delle aggravanti e delle circostanze attenuanti in Corte d’assise. Quando si parla di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti non si può prescindere da considerazioni di diritto: il giudice popolare non è in grado di esaminare se, date alcune modalità di fatto, siano o no applicabili le aggravanti o le attenuanti previste dal Codice penale e, ancora, il giudizio della giuria popolare si esprime attraverso un «sì» o un «no», senza una motivazione, senza che, cioè, chi giudica abbia il dovere e la responsabilità di dire le ragioni, la motivazione del proprio giudizio, sia esso di condanna o di assoluzione.

Per queste modeste considerazioni, credo che si debba, da parte dell’Assemblea Costituente, respingere l’articolo 96 del progetto di Costituzione, nel senso che si debba eliminare il giudizio della Corte d’assise a base di giudici popolari e che addirittura tutte le cause penali, qualunque sia la loro entità, debbano essere giudicate dal magistrato togato, il solo che abbia la competenza, la capacità, l’esperienza per assicurare il trionfo della giustizia. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani, alle ore 11. Avverto che vi sarà seduta anche alle 16, sempre per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

Per la nomina di tre membri dell’Alta Corte della Regione siciliana.

CARONIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARONIA. Rinnovo la mia proposta formale di porre all’ordine del giorno dei nostri lavori la nomina dei tre membri della Corte costituzionale per la Regione siciliana. Ho già fatto anche proposta scritta.

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, comprendo perfettamente la ragione della sua richiesta; ma non so se in questo momento l’Assemblea sia in condizione – per la scarsità dei presenti – di decidere su questo argomento.

Io le sottopongo, pertanto, la possibilità di attendere a ripresentare formalmente la questione in una delle prossime sedute, nella quale la presenza di un numero superiore di membri dell’Assemblea consenta di darle la ponderata decisione che essa merita.

CARONIA. Mi rendo conto delle ragioni di un rinvio; ma io non chiedo che si discuta stasera, chiedo che l’argomento sia posto all’ordine del giorno di una delle prossime sedute, perché il tempo che passa è a tutto danno del Governo regionale.

PRESIDENTE. Poiché, secondo quanto ho esposto alcuni giorni fa, ero tenuto a ritenere che l’Assemblea nella sua maggioranza, attraverso i propri portavoce autorizzati, avesse espresso l’avviso che fosse opportuno procrastinare la decisione, o meglio la votazione per l’elezione dei membri dell’Alta Corte prevista dallo Statuto siciliano, oggi una modificazione di questo orientamento è possibile solo se l’Assemblea stessa decida che sia posta all’ordine del giorno l’elezione di cui si discute.

Ma ritengo che questa decisione non possa essere presa stasera, ma in altro momento in cui l’Assemblea sia sufficientemente numerosa.

Pertanto, alla prima seduta nella quale constateremo che il numero dei presenti sia sufficiente per dare validità alla decisione, io proporrò la questione che lei, onorevole Caronia, ha esposto in questo momento e chiederò all’Assemblea di decidere nel merito, cioè se porre o non porre all’ordine del giorno l’elezione dei membri dell’Alta Corte. Lei è d’accordo in questo senso?

CARONIA. Sì, riservandomi di insistere nella mia proposta.

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, la sua insistenza avrà il suo valore, salvo la decisione dell’Assemblea relativa alla designazione del momento in cui si possa procedere a questa votazione.

CARONIA. Onorevole Presidente, la mia insistenza è determinata dal fatto che i Gruppi non sono stati interrogati dai rispettivi Presidenti

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, questo è un problema interno dei Gruppi nel quale io non posso entrare.

CARONIA. Onorevole Presidente, ogni deputato ha il diritto che una questione sia sottoposta all’esame dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Ed io non glielo contesto, ma lei deve darmi atto che, ogni qualvolta la Presidenza interpella i rappresentanti autorizzati dei Gruppi, è nel pieno diritto di ritenere che quanto questi rappresentanti dicono rappresenti la volontà dei Gruppi stessi, salvo ad inficiarla da parte dei singoli, come ella sta facendo in questo momento.

CARONIA. Ripeto che nel caso specifico i rappresentanti dei Gruppi non hanno espresso la volontà dei Gruppi perché questi non sono stati interrogati. Insisto nella mia richiesta.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se egli non stimi che possa tradursi in grave accusa contro il Governo l’affermazione del quotidiano Buonsenso di essere stato costretto a cessare la pubblicazione per aver perduto le abituali sovvenzioni di organismi e ceti plutocratici e questo non appena il Qualunquismo si schierò contro il Governo democristiano. Se non ritenga, altresì, che debba sollecitarsi la discussione alla Costituente della legge sulla stampa, che contempli anche la denunzia delle fonti di finanziamento dei giornali.

«Nasi».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere in via d’urgenza le ragioni per le quali è stata chiusa, per improvvise disposizioni del Provveditorato agli studi di Napoli, la sezione distaccata del Liceo-Ginnasio governativo di Meta di Sorrento, dove affluivano circa 100 allievi. Il provvedimento di chiusura è giunto tanto più improvviso e pregiudizievole, in quanto erano state già effettuate le iscrizioni e si erano anche iniziate le lezioni, e ciò in seguito alle ripetute assicurazioni del Ministro al sindaco di Meta, autorizzato alla stipula del regolare contratto di fitto dei locali.

«Crispo».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi che avrebbero consigliato il Governo a rinviare alle future Assemblee legislative, contrariamente alla comune aspettativa, la discussione e l’approvazione del progetto di legge sulla stampa, destinato a regolare in modo stabile e certo un settore dell’attività politica e culturale del Paese, turbato da ripetuti indizi di sopraffazione politica e di disordine economico e morale.

«Schiavetti, Valiani, Pertini, Cianca».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta di lunedì prossimo, facendo rilevare, per quanto concerne la terza, che il disegno di legge sulla stampa è stato presentato all’Assemblea fin dal 23 marzo scorso.

PRESIDENTE. È stata pure presentata la seguente altra interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per conoscere quali motivi abbiano potuto determinare, a nove mesi di distanza dai fatti ora addebitatigli, l’arresto del dottor Marco Giardina, segretario della Camera del lavoro di Carbonia.

«Nel corso di uno sciopero avvenuto nel gennaio scorso ebbero luogo in Carbonia alcuni deprecabili incidenti, per altro isolati e rapidamente contenuti, i cui autori furono arrestati e deferiti all’autorità giudiziaria.

«In quell’occasione il dottor Giardina, nella sua qualità di responsabile della locale organizzazione sindacale, svolse opera di freno e di pacificazione.

«Il provvedimento che lo colpisce costituisce quindi un inqualificabile sopruso non soltanto contro la sua persona, ma contro l’organizzazione sindacale che egli dirige per riconfermata volontà degli aderenti, e contro tutta la popolazione lavoratrice del bacino minerario.

«Spano, Laconi».

Poiché il Ministro di grazia e giustizia è assente da Roma, gli darò comunicazione di questa interrogazione al suo ritorno.

DE MARTINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE MARTINO. Desidererei pregare il Governo di fissare la data per lo svolgimento di una interrogazione con richiesta di urgenza da me presentata, circa il termine che si dovrebbe stabilire per la vita dell’A.R.A.R.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Sottosegretario Andreotti di voler esprimere il pensiero del Governo in proposito.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta di un’interrogazione che concerne il Ministro dei trasporti; mi pare che una volta sia stata posta all’ordine del giorno, e poi rinviata, forse per assenza del Ministro. Comunque, salva diversa comunicazione, la si potrebbe porre all’ordine del giorno di lunedì.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RUGGIERO, ff. Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti abbia preso per sopprimere quella indegna espressione della stampa, che è rappresentata dai giornali e dalle riviste che si occupano esclusivamente di descrivere, con morbose illustrazioni e particolari, i delitti e i fatti di cronaca nera, e se non ritenga che ogni tolleranza in questo campo rappresenti una grave carenza dei compiti dello Stato, che devono essere volti all’educazione e all’elevamento morale dei cittadini, mentre questa stampa, contro l’interesse sociale, rappresenta una larga, intollerabile e ignobile scuola di delinquenza.

«Firrao, Giordani, Franceschini, La Pira, Bianchini Laura, Colombo Emilio, De Martino, Camangi, Monterisi, Titomanlio Vittoria, Rapelli, Ferrario Celestino, Corsanego, Codacci Pisanelli, De Michele, Bettiol».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per sapere quali provvedimenti intendano prendere per impedire che si continui, senza alcun ritegno, a mezzo di agenzie e di giornali, una illecita attività diretta a violare il decreto-legislativo luogotenenziale 12 ottobre 1945, numero 669, il quale vorrebbe impedire che nelle sublocazioni di immobili e nelle cessioni di affitto si compiano le peggiori speculazioni ai danni di chi cerca una casa.

«Lami Starnuti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere se il Governo consente che avvengano e si ripetano manifestazioni apertamente fasciste e di carattere provocatorio, come il corteo di ieri, 5 novembre, a Napoli, per via Roma: manifestazioni che offendono la coscienza democratica degli italiani e possono diventare cagione di gravi incidenti e disordini.

«La Rocca, Sereni, Reale Eugenio, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della marina mercantile, per conoscere le decisioni del Governo circa la destinazione delle navi che ci vengono consegnate dagli Stati Uniti, in restituzione di quel nostro tonnellaggio mercantile, catturato o distrutto nei porti americani in occasione della guerra, e per cui gli armatori ricevettero, a suo tempo, l’adeguato indennizzo.

«La Rocca».

.«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere quali misure di carattere straordinario il Governo intenda adottare per provvedere alla gravissima situazione edilizia della città di Napoli. Tale situazione, già piena di pericoli, diventa ogni giorno più insostenibile, per il crollo di vecchi palazzi, per lo sgombro forzato di abitazioni in seguito alle piogge (che mettono fuori uso case vetuste, ecc.), per il permanere delle requisizioni, e via di seguito.

«La Rocca, Reale Eugenio, Sereni, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del bilancio e del tesoro, per sapere se non ritengano giusto, doveroso ed opportuno disporre nuovi stanziamenti perché le piccole e medie industrie, specialmente se colpite e danneggiate dalla guerra, possano fruire e godere dei beneficî in loro favore disposti con il decreto 1° novembre 1944, n. 367. Da notare che molte di tali industrie hanno preso ed hanno in corso preziose iniziative che corrono il pericolo di naufragare con gravissimo danno anche per l’economia nazionale se non interviene l’aiuto che fu lasciato sperare e sul quale fu fatto assegnamento in vista del suddetto decreto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga opportuno migliorare, e con la massima possibile sollecitudine, il servizio ferroviario sulla linea Ionica, istituendo una nuova coppia di treni diretti fra Reggio e Taranto e disponendo, nel contempo, l’invio di materiale rotabile nel Compartimento di Reggio, in modo da consentire che la composizione dei treni, sulla medesima linea, non venga fatta prevalentemente da carri bestiami. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per la sanità, per conoscere per quali ragioni i recenti concorsi per medici condotti sono stati banditi con le stesse modalità stabilite dal vecchio Governo: esami, titoli, limiti di età, ecc. senza nessuna agevolazione per coloro che sono in servizio; tranne quella di potervi prendere parte anche se superato il 45° anno. Ne viene di conseguenza che un medico condotto che per ragioni di educazione dei figlioli o per altre ragioni debba trasferirsi in sito migliore, anche dopo 20 anni di servizio deve non solo fare gli esami, ma vincendo il concorso viene a perdere tutti i quadrienni acquisiti dopo tanti anni di sacrificato lavoro, e quel che più bello iniziare la carriera ex novo col rischio di poter essere licenziato finito l’anno di prova.

«E se non sia il caso di disporre che i medici condotti in servizio stabile possano essere trasferiti da un comune all’altro, magari nell’istessa provincia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lucifero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se abbia notizia del malcontento diffuso tra i maestri supplenti anziani, i quali si vedono pareggiati ai giovani e giovanissimi nel concorso speciale riservato ai supplenti. Molti di questi maestri che furono già danneggiati dalla riforma Gentile ed hanno maturato dieci e più anni di supplenza, aspirerebbero ad una sistemazione per titoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Laconi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere per quale ragione non è ancora stata presa in esame la sistemazione definitiva di tutti gli epurati antifascisti del 1922-1923 dell’Amministrazione postelegrafonica riammessi in servizio in qualità di agenti diuturnisti; sistemazione che doveva essere decisa alla seduta del Consiglio dei Ministri dell’8 settembre 1947 e che è stata demandata alla Costituente per essere colà discussa in un tempo più o meno prossimo. E per far presente l’assoluta urgenza che la situazione di tale categoria venga al più presto risolta per dare ad essa la possibilità di una giusta ricostruzione della carriera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’industria e commercio, per conoscere:

se sia vero che i cartai siano stati autorizzati a trattenere la percentuale sul fatturato, di legittima spettanza dell’Ente cellulosa, e ciò a far data dagli ultimi mesi del 1945;

se sia vero che oggi, pur di giungere a una riduzione del costo della carta per quotidiani, s’intenda autorizzare i cartai a prelevare, dalle percentuali trattenute, la differenza fra il prezzo effettivo di costo della carta e quello di vendita agli editori;

se tutto ciò non costituisca un espediente al fine di stabilire un prezzo politico per la carta dei quotidiani, con una corrispondente grave limitazione della loro indipendenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ravvisi l’opportunità, data la scarsa quantità di lavoro offribile al popolo italiano in patria, di studiare i mezzi più acconci a dividere equamente il lavoro per ogni singola famiglia, onde vuoi negl’impieghi statali, vuoi presso enti privati non vengano assunti contemporaneamente più di due membri della stessa famiglia se sprovvista di beni di fortuna ovvero più di un membro in caso contrario. Per evitare l’inconveniente lamentato e lamentabile di avere in alcune famiglie una paurosa integrale disoccupazione ed in altre una ingiusta ed immeritata occupazione di vari componenti, sarebbe al riguardo necessaria una congrua emanazione di norme imperative. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda assumere a favore delle popolazioni della montagna Pesciatina e Pistoiese, le quali vedendosi distrutte lentamente, ma inesorabilmente le piante del castagno da «la malattia dell’inchiostro», non hanno sufficienti risorse per procedere ai lavori di scasso e di bonifica dei terreni rimasti nudi delle piante in parola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, per sapere quali misure sono state adottate o si ritiene debbano adottarsi per facilitare le correnti emigratorie nei Paesi d’oltremare a sollievo parziale della intermittente disoccupazione del nostro povero e popolatissimo Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno esonerare dalla ripetizione degli esami tutti o quasi tutti i maestri idonei che partecipano al concorso per il passaggio in ruolo, a norma del decreto legislativo n. 273, in data 21 aprile 1947, prescindendo naturalmente dal punteggio richiesto o abbassandolo alquanto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quando potrà essere riattivato il tronco ferroviario Roccasecca-Sora, per il quale i lavori di riattamento sono già da tempo ultimati, tenendo presente che si tratta di una linea assolutamente necessaria per la vita e lo sviluppo dei traffici delle industriose popolazioni della Valle del Liri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Murgia

Colombo

Vinciguerra

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Macrelli

De Martino

Scelba, Ministro dell’interno

Bencivenga

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Lettieri

Malvestiti, Sottosegretario di Stato per le finanze

Tremelloni

Per alcune interrogazioni con carattere d’urgenza:

Cifaldi

Presidente

Perlingieri

Perugi

Macrelli

Malvestiti, Sottosegretario di Stato per le finanze

La seduta comincia alle 11.

COVELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Ambrosini, Pallastrelli e Bianchi Costantino.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Dovendo l’onorevole Murgia assentarsi, ha pregato che sia svolta per prima la sua interrogazione, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se non ritenga necessario revocare alla Società Garigliano e suoi successori la concessione della costruzione del bacino idroelettrico del Taloro (Nuoro), già iniziata e poi abbandonata, costruzione di importanza vitale per l’avvenire industriale dell’Isola oltreché agricolo per la provincia di Nuoro e avente altresì – quale bacino a monte di quello del Tirso – la funzione importantissima di regolare le piene e impedire gli straripamenti che nella presente stagione provocano l’allagamento di diecine di migliaia di ettari del più fertile terreno isolano distruggendo le semine o rendendo impossibili altri lavori agricoli autunnali».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Effettivamente, la questione sollevata dall’onorevole Murgia ha una notevole importanza per la situazione idrica in cui si trovala sua provincia. Io ho esaminato la questione e soprattutto mi sono preoccupato dei precedenti. I risultati della indagine portano a questa conclusione: che non esiste, attualmente, alcuna concessione a favore di nessuna società.

Nel 1932, vale a dire quindici anni fa, la società Garigliano domandò la concessione per la formazione di questo bacino, per scopi irrigui e di produzione di forza motrice. Senonché, il Consiglio Superiore dei lavori pubblici si pronunziò in senso contrario, ritenendo che quell’opera proposta dalla società, che ne chiedeva la concessione, non fosse rispondente né ai bisogni della regione, né adeguata agli scopi che la concessione stessa si proponeva.

Ho esaminato quel responso, e mi è sembrato che almeno peccasse di eccessiva superficialità. Pertanto ho invitato i miei uffici a riprendere in esame la questione ed a metterla a punto al fine di vedere, come eventualmente si possa venire incontro ai bisogni della popolazione, di cui l’onorevole Murgia si è reso interprete. Allo stato attuale delle cose, non posso dare che questa risposta: il mio Ministero è sollecito a riprendere in esame la questione, che ritengo oggi molto importante, ed ove una nuova domanda, o della stessa società o di altre, venisse presentata al Ministero, essa formerebbe oggetto di attenta e benevola considerazione al fine di portare a soluzione il problema che sta a cuore dell’onorevole interrogante e delle popolazioni da lui rappresentate.

PRESIDENTE. L’onorevole Murgia ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MURGIA. Onorevoli colleghi, sono parzialmente sodisfatto della risposta del Ministro: dico parzialmente perché non è esatto quanto egli ha asserito, e cioè che una concessione alla società Garigliano non sia stata mai fatta dal Ministero dei lavori pubblici. Risulta, infatti, che il 4 gennaio 1929 la «Garigliano» firmava il disciplinare di concessione per il primo salto e il 30 settembre 1929 il Consiglio Superiore dei lavori pubblici emetteva voto favorevole per l’inizio dei lavori; il 30 giugno 1930 lo stesso Consiglio Superiore emetteva voto favorevole per l’esecuzione dei lavori di tutti e tre i salti.

In seguito a tale autorizzazione furono, infatti, eseguite opere notevoli, e precisamente: una galleria di circa 2 chilometri per la costruzione di una dighetta provvisoria per la produzione dell’energia elettrica necessaria per la costruzione dell’opera, al fine di evitare prezzi e forniture ostruzionistiche della Società Elettrica Sarda, che aveva ed ha un interesse supremo a che mai questo bacino venga costruito; fu impostata la costruzione della diga alta, costruita la strada di accesso dalla Nazionale fino al limite della diga, furono costruiti diversi altri chilometri di galleria forzata. Come dunque affermare che non è stata mai concessa un’autorizzazione alla Società Garigliano, e soprattutto come affermare che il Consiglio Superiore dei lavori pubblici aveva ritenuto l’opera non opportuna? Ciò non è possibile, di fronte ai dati sicuri e precisi che ho enunciato.

Ma ciò che soprattutto in quel giudizio di allora mi colpisce è che sia stata ritenuta non opportuna un’opera che è invece di vitale importanza per tutto l’avvenire dell’Isola dal punto di vista industriale e per la provincia di Nuoro dal punto di vista agricolo.

Quale è infatti dal punto di vista industriale la produzione dell’energia idroelettrica nell’Isola? Essa è costituita dal bacino del Tirso che produce 12.000 HP e del Coghinas che ne produce 19.866, cioè complessivamente 31.866 cavalli-vapore; mentre il solo Taloro ne produrrebbe 68.660, cioè più del doppio dei due bacini riuniti. E allora se da solo il Taloro ha la capacità di produrre il doppio dell’energia dei due bacini riuniti, quale può essere stato il motivo che ha determinato quel giudizio di inopportunità dell’opera? Forse un suo costo elevato? Assolutamente no; anzi è questo un altro elemento che dimostra in modo decisivo la convenienza e l’opportunità della costruzione. Infatti, la sua spesa è prevista in misura di circa otto volte inferiore a quella del Tirso e diverse volte in meno di quella del Coghinas. Ciò in virtù della felicissima posizione naturale del bacino, e perché esiste in loco, gratis, e abbondantissimo, un prezioso materiale da costruzione: il granito. Quindi convenienza duplice: dal punto di vista della produzione di forza e della minore spesa.

Ma ad altri due scopi di capitale importanza rispondeva il bacino del Taloro e cioè:

1°) alla bonifica di un comprensorio di ben 21.000 ettari di terreno di cui 8.000 irrigabili:

2°) alla costituzione di uno sbarramento poderoso destinato a contenere la quantità d’acqua che il sottostante bacino del Tirso non contiene e che trabocca inondando la fertilissima pianura del Campidano distruggendo le semine o rendendo impossibili altri lavori.

Quale è stato, dunque, nonostante tali evidenti vantaggi, il motivo per cui un’opera, di così capitale importanza per l’Isola, non è stata costruita? Ho accennato poco fa alla Società Elettrica Sarda come a una società rivale, che aveva interesse a che l’opera non venisse mai costruita per evitare concorrenza e inevitabile diminuzione di prezzi dell’energia, ora altissimi. Orbene la spiegazione è questa: risulta che la Società Garigliano fu incorporata nella Società Campania di Elettricità e la concessione delle dighe del Taloro passò alla Meridionale di Elettricità, che la controlla e il cui consiglio di amministrazione è costituito dagli stessi uomini della Società Elettrica Sarda. Ora preme a questa,Società, mantenere il monopolio dell’energia; e a tal fine ha in mano la concessione, ciò che giuridicamente non consentirebbe ad altri di costruire il bacino. È qui che io richiamo e invoco tutta l’attenzione del Governo perché in qualunque modo trovi una via d’uscita a questa situazione, promuovendo la costruzione dell’opera. Ciò perché in Sardegna, anche dopo che sarà costruito il bacino del Flumendosa, il fabbisogno isolano, checché se ne dica, sarà sempre di gran lunga superiore alla produzione che ne risulterà. Infatti attualmente la produzione complessiva isolana, compresa quella delle centrali termiche, si aggira appena sui 230 milioni di chilowatt. Ora, anche ammesso che il Flumendosa possa produrre 250 milioni di chilowatt (ciò che mi sembra difficilissimo), toccheremmo, sommandola alla produzione attuale, circa i 500 milioni di chilowatt. Sappiate però che quando saranno attuati i progettati, grandiosi impianti, la sola zona mineraria di Carbonia assorbirà oltre 430 milioni di chilowatt, cioè quasi tutta la produzione isolana. Aggiungete a tale considerazione il fatto che il bacino del Tirso, destinato alla irrigazione, dovrà cessare la produzione dell’energia elettrica in quanto che, per conservare l’acqua nella stagione estiva per la irrigazione della bonifica di Oristano, dovrà imporre un vincolo al serbatoio durante i mesi invernali. Tenete inoltre presente che, a tutt’oggi, quasi un terzo dei Comuni dell’Isola è ancora immerso nell’ombra per la mancanza di energia elettrica. Ciò non può essere ulteriormente tollerato. Ho messo – data la brevità dell’ora – rapidamente in luce i motivi essenziali che dimostrano la indispensabilità della costruzione del bacino del Taloro che, come ho precedentemente detto, ha una funzione triplice e precisamente:

1°) Produzione di forza motrice destinata a dare il massimo impulso alle industrie dell’Isola, che è – tenetelo presente – la più ricca regione mineraria d’Italia e dove perciò numerose altre industrie potrebbero sorgere e fiorire, trovandovi le condizioni ideali e cioè esistenza di minerali ed energia elettrica.

2°) Bonifica di un comprensorio di ben 21.000 ettari, di cui 8.000 irrigabili, e dove esistono circa un milione di olivastri spontanei che dovrebbero essere trasformati in oliveti determinando così, conseguentemente, la costruzione di case coloniche e il popolamento della zona, attualmente abbandonata per cinque mesi dell’anno a causa della quasi assoluta mancanza d’acqua, che rende impossibile la residenza stabile di pastori e di greggi; popolamento che costituirebbe il più efficace rimedio per combattere la delinquenza rurale, fino ad oggi invincibile a causa della solitudine.

3°) Sbarramento a monte per contenere, come poco fa ho detto, quella quantità di acqua che specialmente nell’autunno e nell’inverno straripa, travolgendo le coltivazioni e annientando le fatiche e i sudori di migliaia di contadini.

Concludendo, mi dichiaro pienamente sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Ministro nella parte della sua risposta dove mi assicura di aver dato già disposizioni all’ufficio competente per un più profondo esame del problema di cui intende tutta l’importanza per l’avvenire dell’Isola. E se, come non metto in dubbio, tale esame si farà da un punto di vista scientifico di giustizia e con visione lungimirante dei risultati, esso sarà un fattore potente e decisivo per l’avvenire della mia terra, la quale, una volta creati i necessari presupposti industriali ed agricoli, sarà in grado di nutrire un altro milione di abitanti.

Sotto questa luce, che è la luce giusta, questo problema isolano, che io ho modestamente agitato, interpretando la volontà e le aspirazioni del popolo sardo, assurge all’importanza di un problema nazionale; e sotto questo aspetto dovrà essere affrontato e risolto.

TUPINI. Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. L’onorevole Murgia avrebbe dovuto, secondo me, scindere nel tempo le sue osservazioni; perché per quel che mi riguarda e per quel che riguarda questo Governo, non poteva aspettarsi una risposta diversa e migliore di quella che io gli ho data. Egli chiedeva che fosse revocata una concessione. Io ho trovato che una concessione non c’è, perché il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, con voto del 19 luglio 1936, espresse parere che, sotto l’aspetto economico, agricolo ed industriale non si ravvisava l’opportunità ecc. ecc.

Le osservazioni dell’onorevole Murgia sarebbero fondate, se il suo interlocutore non fossi io, ma un Ministro del tempo fascista. Per quel che mi riguarda ripeto che non potevo dargli risposta diversa.

MURGIA. È esatto. Questi fatti riguardano il periodo del governo fascista che, nel 1936, ha impedito che fosse realizzata l’opera di cui in un primo tempo aveva innegabilmente riconosciuto tutta la necessità per l’avvenire e la prosperità dell’Isola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Colombo e Zotta, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se e quando intenda provvedere alla sistemazione degli acquedotti della Lucania ove, per la scarsa manutenzione e per la inadeguatezza degli impianti, intere popolazioni sono prive di acqua, con grave pregiudizio della salute e dell’igiene».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Anche l’onorevole Colombo, deve aspettarsi una risposta la quale riguarda questo Governo solo limitatamente al tempo della sua recente attività, non intendendo esso rispondere di quello che i precedenti Governi non hanno fatto. E all’uopo devo ricordare che la questione dell’Acquedotto della Lucania è una questione che veramente giustifica l’urgenza con la quale l’onorevole Colombo ha interrogato il Governo, perché quella regione si trova effettivamente nelle condizioni di abbandono e di carenza che l’onorevole Colombo ha ricordato.

Devo però, a mia volta, richiamare i precedenti relativi all’Acquedotto lucano.

La legge del 1942 autorizzava l’Acquedotto pugliese a provvedere alla manutenzione ed al consolidamento, nonché ai bisogni idrici delle popolazioni lucane; furono stanziati all’uopo 43 milioni, e successivamente altri dodici milioni per le opere di gestione per i primi cinque anni. La guerra ha impedito l’esecuzione di questi progetti; quindi il problema del rifornimento idrico, sia a scopo di forza motrice che a scopo di irrigazione della Lucania, risorge oggi in tutta la sua imponenza e in tutta la sua importanza.

Ora, la Società dell’Acquedotto pugliese è stata richiamata a mettere a punto i progetti, per vedere come si possa provvedere a quelle esigenze ricordate dall’onorevole Colombo e che si riferiscono a tutta la situazione dell’Acquedotto lucano. La società ha presentato una proposta di finanziamento che si aggira intorno ai due miliardi.

I miei uffici, anche prima che assumessi la direzione del Ministero, avevano esaminato queste proposte ed hanno trovato che questa somma è talmente insufficiente da bastare unicamente a provvedere alle spese ordinarie di manutenzione dell’Acquedotto medesimo.

Ho disposto perciò la messa a punto di un nuovo progetto. Frattanto ho interpellato gli uffici competenti, i quali mi hanno informato che la spesa si aggira intorno ai 6 o 7 miliardi. Questo fa sorgere un problema di finanziamento non indifferente, che, nelle condizioni attuali, non sarà tanto facile risolvere. Ma, in omaggio a quel criterio pratico che deve sempre guidarci nell’affrontare i vari problemi che riguardano la pubblica amministrazione, anche questo potrà essere affrontato e risolto gradualmente pianificando nel tempo, e cioè in più anni, l’esecuzione dell’opera e la spesa relativa con la volontà finalmente decisa di dare alla Lucania quello che essa giustamente attende.

In questo senso io ho dato direttive ai miei uffici di preparare i relativi progetti, e, intanto, ho invitato il Provveditorato alle opere pubbliche della Lucania a prendere gli opportuni accordi con l’Acquedotto pugliese al fine di predisporre il necessario per l’auspicato inizio dei lavori.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

COLOMBO. Ringrazio l’onorevole Ministro soprattutto per la concretezza di questa risposta, poiché egli ci dice che c’è qualche cosa di immediato da fare per la risoluzione di questo problema che è veramente grave. Penso che l’annunzio di una certa disponibilità di fondi e dell’ordine dato di iniziare la preparazione dei progetti porterà certamente un senso di soddisfazione in queste popolazioni, le quali sono quotidianamente costrette a percorrere dei chilometri per potersi approvvigionare di acqua.

La situazione, come poc’anzi dicevo e come l’onorevole Ministro ha ricordato, è veramente grave. Ci sono delle borgate e dei paesi dove l’acqua non arriva per niente, dove la gente, soprattutto i bimbi, vivono in una condizione, in quanto ad igiene, veramente deplorevole. Vi sono zone in cui la mortalità infantile è, a causa della dissenteria, quanto mai alta, proprio perché le popolazioni sono sovente costrette a fare uso di acque inquinate.

Certo il problema non si risolverà compiutamente con quello che è stato stabilito di fare in questo periodo e bisognerà pensarci poi, in forma più ampia. Io ringrazio ad ogni modo l’onorevole Tupini perché ci promette che si terrà ancora conto negli anni seguenti dei bisogni della Lucania.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Anche subito se ne tiene conto.

COLOMBO. Ma soprattutto desidererei che fossero immediatamente iniziati i lavori, e che venissero condotti proprio con il criterio cui ha fatto cenno l’onorevole Ministro, con il criterio cioè di inserire i particolari problemi, lungi dal considerarli a sé stanti, in una visione ampia e generale. Molto denaro infatti si è sciupato in passato, proprio perché non si è avuta una visione generale dei problemi.

E vorrei pregare anche, che si tenga conto di quegli acquedotti la cui manutenzione non è affidata all’acquedotto pugliese, ma che sono invece alla diretta dipendenza dei Comuni che si sono assunti la responsabilità della manutenzione stessa.

Concludo, pregando l’onorevole Ministro di tener conto, nella maniera più larga possibile, delle necessità di questa regione chc ha tanto bisogno di provvidenze. Lo prego altresì, in questo periodo in cui si fanno piani tanto nel settore dei lavori pubblici, quanto in quello dell’agricoltura, di voler tenere nella più ampia considerazione i problemi, in genere, dell’Italia meridionale, perché finalmente possano avere una soluzione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Vinciguerra, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere le ragioni per le quali Ariano Irpino (Avellino) non è stata compresa nel provvedimento legislativo in corso presso l’ufficio legislativo dei lavori pubblici relativo all’acquedotto consorziale dell’Alta Irpinia, mentre Ariano, comune di trentamila abitanti, difetta di acqua potabile, avendo una tubolatura inquinata da infiltrazioni e con scarsissimo rendimento, per cui nella città il tifo è quasi endemico. Per conoscere altresì se invece l’onorevole Ministro non ritenga opportuno e di giustizia disporre che Ariano derivi l’alimentazione idrica dall’acquedotto pugliese, non essendo valide e fondate le ragioni che l’Ente obietta in contrario».

L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Io concordo con l’onorevole Vinciguerra circa la situazione in cui si trova Ariano a proposito della questione del suo rifornimento idrico e dell’urgenza della sua soluzione. L’onorevole Vinciguerra non ignora i provvedimenti predisposti dal mio Ministero per l’acquedotto a favore della Regione irpina. L’onorevole Vinciguerra si domanda perché da questo acquedotto sia esclusa Ariano.

Ariano si è dovuta escludere, stando anche alle conclusioni tecniche dei competenti, perché sarebbe stato estremamente difficile poter allacciare questa località all’acquedotto degli altri comuni.

Perché i miei uffici dicono che è difficile, se non addirittura impossibile, collegare Ariano all’acquedotto degli altri comuni? Per l’enorme distanza che separa Ariano dall’acquedotto pugliese: si dovrebbero aggiungere ventinove chilometri di condutture a quelle previste; mentre le condizioni geologiche del terreno, le altimetrie, i franamenti richiedono poi anche opere d’arte estremamente costose, che dovrebbero aggiungersi a quelle già stabilite per il rifornimento idrico degli altri comuni dell’Irpinia.

L’onorevole Vinciguerra ha scritto anche a me la lettera nella quale confuta queste obiezioni dei miei uffici; dice che non è esatto che ci siano delle condizioni di terreno che rendono troppo difficile e quindi costosa l’opera; sostiene che la cifra denunziata dai miei uffici e che si aggira intorno al miliardo (Commenti), è esagerata, mentre basterebbero cento milioni, da aggiungere a quelli già stanziati per l’acquedotto dei comuni irpini, per rifornire di acqua sufficiente la città di Ariano.

Onorevole Vinciguerra, se ella mi dimostrerà, in contradittorio con le affermazioni dei miei uffici, di aver ragione, non sarà difficile aggiungere agli ottocento milioni, già stanziati per gli altri nove comuni, i cento milioni necessari per portare l’acqua anche al suo comune.

In ogni caso, io mi sono preoccupato di queste difficoltà e, portandovi un po’ di spirito pratico, ho domandato ai miei uffici: Ma è proprio necessario che noi agganciamo Ariano all’acquedotto dell’Irpinia, e attraverso l’acquedotto dell’Irpinia all’acquedotto pugliese? Non sarebbe possibile esaminare l’attuale acquedotto che fornisce l’acqua ad Ariano per migliorarlo, per aumentare il volume dell’acqua stessa? Esaminare un po’ in loco la possibilità di captare nuove sorgenti e poter quindi limitare l’opera del nostro Ministero a quella zona ridotta dell’attuale acquedotto che rifornisce già Ariano, per migliorarlo, per ripararlo, per impedire che delle infiltrazioni, come quelle lamentate dall’onorevole Vinciguerra, possano inquinare l’acqua e quindi mettere in pericolo le condizioni igienico-sanitarie della popolazione?

Io mi sono posto il problema e intendo risolverlo, perché anche a me sembra estremamente ingiusto che, mentre provvediamo con tanta sollecitudine ai nove comuni dell’Irpinia, Ariano, che è uno dei centri principali, debba restarne escluso, e mi metto a disposizione dell’onorevole Vinciguerra, per trovare insieme il modo migliore per poter sodisfare l’urgente necessità di acqua che ha il suo comune, che anche io riconosco. Ripeto che, ove questo possa essere sodisfatto con 100 milioni, io posso assicurare l’onorevole Vinciguerra e l’Assemblea che sarà facile aggiungere questa somma a quella già stanziata per poter dare anche ad Ariano l’acqua che il Governo ha assicurato agli altri comuni dell’Irpinia.

PRESIDENTE, L’onorevole Vinciguerra ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VINCIGUERRA. Avevo fatto pervenire al Ministro un memoriale con cui cercavo d’illustrare la situazione, e mi attendevo una risposta un po’più sodisfacente.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Non vedo come potesse essere più sodisfacente di quella che ho dato.

VINCIGUERRA. Ho spiegato come l’inclusione del Comune di Ariano nel piano di lavori dell’acquedotto pugliese non importi né spese eccessive, né opere straordinarie e neppure un aggravio per l’acquedotto pugliese. Esporrò degli elementi che io ricavo dalla relazione del Genio civile di Avellino, il quale, in concordanza col Provveditorato alle opere pubbliche che nel 1936 risiedeva a Caserta, aveva contemplato la possibilità di includere Ariano in questo progetto di costruzione di acquedotto consorziale.

Incomincio col rilevare, poiché così risulta da questa relazione di carattere ufficiale, che l’acquedotto dell’Alta Irpinia si estende al Comune di Guardia Lombardi. Ora, da Guardia Lombardi ad Ariano, c’è una distanza di appena 29 chilometri che non possono spaventare nessuno. Tutto l’acquedotto dell’Alta Irpinia, senza Ariano, raggiunge una lunghezza di 70 chilometri. Non so perché 29 chilometri debbano spaventare.

TIPINI, Ministro dei lavori pubblici. Settanta chilometri divisi per 9 Comuni; 29 chilometri per un solo Comune: ecco il punto da risolvere.

VINCIGUERRA. Tutta l’opera è di 70 chilometri; per arrivare ad Ariano bisogna fare un piccolo sforzo ed aggiungere altri 29 chilometri.

Ad ogni modo non è esalto che bisogna perforare il sistema dei monti, come mi pare dicesse l’onorevole Ministro, perché questa condotta di mandata – è questo il termine tecnico dovrebbe percorrere soltanto la vallata del fiume Ufita dove sorgerebbe la necessità di qualche sifone.

Quindi non si tratta né di una distanza eccessiva, né di opere di carattere straordinario per superare difficoltà orografiche.

Per di più è previsto nel progetto che il ripartitore dell’acquedotto sarà collocato a Guardia Lombardi, che sta a quota 1020, sicché l’acqua arriverebbe ad Ariano che sta più in basso a quota 800, soltanto per forza di gravità e non vi sarebbe bisogno di nessuna opera di sollevamento.

Inoltre per il Comune di Ariano basterebbero 15 litri al secondo, in rapporto alla popolazione concentrata del Comune, perché il resto della popolazione vive in campagna. Ora, 15 litri non rappresentano un aggravio per l’acquedotto pugliese che ha una portata di 6.000 litri al secondo, e ora, per una transazione che ha fatto con la Società elettrica meridionale della Campania, capterà le sorgenti di Cassano Irpino per altri 3.500 litri. Io penso che 15 litri non rappresentino un prelievo, una usura tale da diminuire la possibilità di rifornimento per le Puglie. Sono i tecnici che dicono che l’aggregazione di Ariano importerebbe una maggiore spesa, di soli cento milioni. Per quanto riguarda la spesa, il provvedimento legislativo. (lo Stato darà un contributo del 70 per cento) prevede un’opera di 800 milioni per i nove comuni dell’Alta Irpinia. Arriviamo in complesso (perché 800 milioni è la previsione), arriviamo in complesso ad un miliardo con Ariano, che deve costruire solo 29 chilometri con una spesa in più di 200 milioni. Non capisco quindi perché si parli di una spesa di un miliardo solo per Ariano; se per nove comuni, con diverse opere di sollevazione, si prevede una spesa di appena 800 milioni, perché poi, solo per Ariano, la spesa sarebbe di un miliardo? Al Ministro dev’essere evidentemente pervenuta una informazione inesatta.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Sono dati tecnici.

VINCIGUERRA. Io credo che per una spesa di circa 200 milioni non sia il caso di avere esitazioni e di escludere il comune di Ariano dai benefici di un’opera il cui merito andrà per primo al Ministro in carica.

Con ogni sincerità il Ministro diceva; vediamo se è possibile provvedere diversamente all’alimentazione idrica di Ariano.

Ma non si può! Anzitutto l’acquedotto attuale da cui derivano le acque, secondo un provvedimento del cessato regime (non voglio dire che solo per questo fu un provvedimento dittatoriale!), fu dimezzato per destinarlo anche ad alimentare il comune di Montecalvo. Sono stati poi fatti esperimenti dal Genio civile e dal Provveditorato per le opere pubbliche della Campania per vedere se fosse possibile usufruire di altre opere pubbliche e captare altre sorgenti. Questo non è stato possibile.

Esisteva la sorgente di Noce Verde dalla quale, per captare un litro al secondo, occorreva (quella era una spesa veramente inutile!) una spesa di 300 milioni. In modo che, se in conclusione Ariano non approfitta in questo momento di questa opera di alta utilità, il comune è condannato a mantenersi nelle condizioni attuali, che non sono davvero le più felici, con un acquedotto inquinato (è riconosciuto da uria relazione della Direzione di sanità, che ho citato nel mio memoriale), con tutte le conseguenze che ne derivano, col tifo che regna in permanenza fra quella popolazione.

Il problema del Mezzogiorno – di cui tutti parliamo – è soprattutto un problema di acqua e di strade. Quando si parla del Mezzogiorno si fanno tante promesse, ma quando si deve passare ai fatti…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. L’acquedotto Irpino è un fatto concreto!

VINCIGUERRA. Ma si commette una ingiustizia verso Ariano!

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Cerchiamo di riparare, l’ho già detto!

VINCIGUERRA. Del resto il Ministro Sereni aveva già disposto presso il Provveditorato delle opere pubbliche della Campania perché la conduttura fosse proporzionata alla popolazione di Ariano. Attendiamo che il Ministro Tupini dia eguale disposizione, perché se la tubatura sorge solo per il fabbisogno,di nove comuni è inutile pensare a un qualsiasi vantaggio per Ariano.

Di modo che, anzitutto bisogna provvedere al piano di questa tubatura e tenere fermo un impegno che è impegno del Governo d’Italia verso una benemerita popolazione che paga milioni e milioni di tasse e che vuole avere almeno un bicchiere di acqua. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Macrelli, ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, «per sapere quali provvedimenti saranno adottati o intendano adottare per alleviare i danni arrecati dal recente nubifragio in provincia di Forlì». L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Naturalmente io risponderò per una parte dell’interrogazione.

Per quanto riguarda la competenza del Ministero dell’interno devo premettere che l’intervento di questa amministrazione deve essere limitato, nei casi del genere, ad eventuali erogazioni speciali sui fondi per l’assistenza e attraverso l’E.C.A. in favore delle famiglie sinistrate che versano in condizioni più gravi e di più urgente bisogno, escluso, perciò, qualsiasi carattere di risarcimento di danni la cui valutazione e i cui provvedimenti esulano dalla competenza del Ministero dell’interno.

All’E.C.A. della provincia di Forlì, su richiesta del Prefetto, per l’assistenza delle famiglie bisognose, come è detto, perché danneggiate dai disastri del 22 settembre, è stata assegnata la somma di 4 milioni. Comunque il Ministero non intende limitare a questa somma i soccorsi in questo determinato settore, ma, naturalmente, occorre che da parte della autorità locali gliene venga fatta segnalazione.

Assicuro comunque che queste segnalazioni verranno vagliate con la massima benevolenza.

PRESIDENTE. L’onorevole. Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. All’onorevole Macrelli dico che i comuni che furono colpiti dal nubifragio e che formano oggetto della sua interrogazione, mi pare che siano stati cinque o sei: Bertinoro, Civitella di Romagna, Meldola, Predappio e Rocca San Casciano con le campagne circostanti. È inutile che noi adesso elenchiamo ed individuiamo i singoli danni riportati da questi comuni. Io debbo soltanto informare l’onorevole Macrelli che il mio Ministero, non appena fu informato di quanto era avvenuto, cercò di provvedere, nei limiti delle sue possibilità, a tutte le opere di pronto soccorso che costituirono un intervento finanziario di 20 milioni, che furono distribuiti con criterio di comparazione fra i vari comuni, in relazione alla entità dei danni. Furono dati a Meldola 5 milioni e 500.000 lire, a Predappio 5 milioni e 500.000 lire, a Civitella di Romagna 5 milioni e 500.000 lire, a Bertinoro un milione, a Rocca San Casciano 2 milioni e 500.000 lire.

Fu disposto anche un accertamento sommario dei danni riportati dalle opere pubbliche, e questo ammonta ad una cifra di 80 milioni salvo più approfondite valutazioni.

Ella sa, onorevole Macrelli, che per quanto attiene alla costruzione di opere definitive, in quanto non risultano sufficienti i lavori eseguiti di pronto soccorso, dovranno provvedere i comuni valendosi della legge che mette a carico dello Stato il 50 per cento dell’importo delle opere stesse. Il Governo, per quanto attiene al successivo intervento per la riparazione dei danni nei limiti delle sue disponibilità e delle leggi che regolano la materia, agirà con la massima larghezza perché sente il dovere di venire incontro a delle popolazioni che, senza loro colpa, hanno subito danni così gravi, come quelli che formano oggetto della sua interrogazione. Ad ogni modo stia tranquillo, onorevole Macrelli, che noi cercheremo di sodisfare questi bisogni con quello spirito di comprensione del quale, credo che abbiamo dato già prove concrete.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MACRELLI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno e il Ministro dei lavori pubblici per le risposte che mi hanno dato. Non sono completamente sodisfatto, ed è naturale che sia così del resto.

Noto intanto che quella somma che il Ministero dell’interno ha erogato alla provincia di Forlì, colpita gravemente dal nubifragio del 22 settembre, è una somma inadeguata. Penso che dovrà ancora essere aumentata e che dalla Prefettura e dai Comuni interessati arriveranno richieste a questo proposito. Prendo atto anche di quello che ha detto il Ministro dei lavori pubblici. Sapevo già che per alcuni comuni (non per tutti) della provincia di Forlì danneggiati da quell’alluvione, erano stati erogati per riparazioni venti milioni. La distribuzione non è stata molto equa. Bisognava aggiungere qualche cosa di più. Intanto i danni hanno raggiunto e forse superato gli 80 milioni solo per quanto riguarda le opere pubbliche. Non bisogna dimenticare però, che nel quadro generale occorre aggiungere il complesso di danni apportati in quella zona all’agricoltura. L’Ispettorato dell’agricoltura di Forlì – è un altro ufficio, siamo perfettamente d’accordo – ha mandato un rapporto al Ministero competente da cui risulta che i danni complessivamente per l’agricoltura hanno raggiunto la cifra enorme di quasi trecento milioni e l’ispettorato ha chiesto che siano dati i fondi congrui per riparare – almeno in parte – quello che è stato distrutto. Ma per rimanere sul terreno della interrogazione che riguarda il Dicastero dei lavori pubblici, farò notare che le zone colpite il 22 settembre sono quelle che, in precedenza, dalla guerra avevano riportato i danni maggiori e peggiori. Basta che io ricordi Bertinoro, Civitella di Romagna,. Meldola, Predappio, Rocca San Casciano.

Danni enormi comunque e dovunque verificatisi cui si sono aggiunti ora quelli del nubifragio. Il Ministero ha dimenticato un comune, che pure era stato segnalato dal Genio civile e dall’Ispettorato delle opere pubbliche di Bologna: Mercato Saraceno, proprio la zona cui si riallacciano i ricordi della mia lontana giovinezza.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Ed anche della più antica democrazia cristiana.

MACRELLI. La sua interruzione è opportuna, onorevole Ministro. Continui quello che ha fatto ieri sera al Colle Capitolino. (Commenti).

Dunque, si è dimenticato completamente. Vorrei che il Ministro notasse anche questa lacuna. Ad ogni modo, farò presente che il Genio civile di Forlì, pur riferendosi alle provvidenze ed alle agevolazioni di cui alle leggi 30 giugno 1940 e 21 marzo 1907, ha chiesto di urgenza un provvedimento straordinario con il quale lo Stato dovrebbe assumersi gli oneri dei lavori per le riparazioni necessarie. Io mi rivolgo al Ministro a questo proposito perché voglia accogliere le richieste. L’altro giorno, voi lo sapete, abbiamo avuto qui una battaglia per la terra di Romagna. Sembrava che si dovesse cancellare dalla storia e dalla geografia: non cancelliamola adesso anche attraverso il nubifragio e attraverso le negate provvidenze del Ministero (Si ride). Io conto tanto sull’intervento del Ministero dell’interno quanto su quello degli altri due più importanti Dicasteri: il Ministero dei lavori pubblici ed il Ministero dell’agricoltura. Sono certo che ascolteranno questa mia invocazione. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole De Martino, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere se esistono speciali ragioni che determinano nell’Azienda della strada la volontà o la necessità di ben mantenere le strade nazionali del Nord, del Centro e di parte dell’Italia meridionale, precisamente fino alla città di Salerno, mentre da Salerno in giù le strade nazionali sono quasi completamente abbandonate».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.,

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. La Direzione generale della strada mi assicura che le doglianze dell’onorevole De Martino non sono rispondenti allo stato delle cose – e nella specie, delle strade – perché l’A.N.A.S. afferma di procedere nelle opere di manutenzione e di miglioramento delle strade nazionali con un criterio uniforme e imparziale verso tutte le regioni.

La Direzione generale della strada mi fornisce anche delle cifre, in base alle quali, per quanto attiene ai 5 miliardi annui stanziati in bilancio per la manutenzione delle strade statali, questi vengono distribuiti in modo razionale e proporzionato sia alla lunghezza delle strade come al fabbisogno delle medesime, in ogni parte d’Italia. Inoltre, mi si assicura che, per quanto attiene a riparazioni di strade danneggiate per gli eventi bellici, si sta spendendo in questo momento, per le strade dell’Italia meridionale, una somma pari a un miliardo e 500 milioni. Io ho voluto portare una mia particolare attenzione sulla situazione di queste strade. Per quanto attiene all’erogazione di fondi già stanziati per i bilanci finanziari 1947-1948 e 1948-1949, noi disponiamo per la manutenzione, miglioramenti e fabbisogno delle strade statali, della somma di 6 miliardi. Si è disposto, dicevo, che vengano ripartiti per questi due esercizi nella seguente misura: Campania e Molise 320 milioni; Puglie 280 milioni; Basilicata 230 milioni; Calabria 270 milioni; Sicilia 2 miliardi e 180 milioni, tenuto conto che durante l’occupazione della Sicilia gli alleati trascurarono completamente la manutenzione di quelle strade, per mancanza di bitume e di asfalto, portandole in condizioni che meritano la più grande attenzione da parte degli organi governativi e tecnici.

Ove si consideri, onorevole De Martino, che la lunghezza delle strade stata è di 21.000 chilometri e che quelle rientranti nel comprensorio delle regioni indicate formano un chilometraggio complessivo di 7.800 chilometri, se ella fa la somma delle erogazioni per la manutenzione di quelle strade sui 6 miliardi, totalizzerà un complesso di 3 miliardi e 280 milioni, che rappresentano veramente una distribuzione tale – non so se da sodisfare l’onorevole De Martino per quanto riguarda il passato – ma, io credo, certamente da sodisfarlo per quanto riguarda il presente ed il prossimo futuro.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MARTINO. Per la prima parte, quella che riguarda le assicurazioni date dall’A.N.A.S., non posso dichiararmi sodisfatto.

L’onorevole Ministro ha detto che la distribuzione dei fondi viene fatta proporzionatamente, equamente; sono due vocaboli non concreti. Le provvidenze per le strade del Mezzogiorno dovrebbero essere in rapporto alla sua popolazione ed alle sue possibilità economiche. Anche le strade del Mezzogiorno rientrano in quel complesso problema, che noi consideriamo sotto l’appellativo di «problema del Mezzogiorno». Se l’A.N.A.S. intende distribuire le somme soltanto in rapporto al chilometraggio delle strade, allora va perpetuandosi il torto che si fa al Mezzogiorno, anche rispetto alle strade; mentre bisognerebbe cercare di dare al Mezzogiorno qualcosa di più.

Si potrebbe notare, come l’A.N.A.S. non nota, che, percorrendo le strade del Nord, non si va incontro agli inconvenienti che invece si hanno percorrendo le strade del Sud, inconvenienti dovuti alla cattiva manutenzione.

Richiamo l’attenzione del Ministro sul fatto che fino a Salerno esistono case cantoniere, mentre da Salerno in giù quasi non ne esistono. Mi sembra che l’A.N.A.S. non voglia tener presente questa situazione.

Per la seconda parte, riguardante la distribuzione dei 6 miliardi, mi dichiaro sodisfatto e spero che i fatti abbiano a seguire le promesse.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Bencivenga, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i reali motivi che hanno indotto il Governo a procrastinare fino al 30 giugno 1948, e cioè praticamente fino a dopo la convocazione dei comizi elettorali, l’istituzione del «confino di polizia», uno dei più efficaci strumenti della dittatura fascista; provvedimento, codesto, che offende gli imprescrittibili diritti della libertà, riconquistata dal popolo italiano a prezzo di sofferenze e di sangue e lede il diritto dell’Assemblea di definire quella parte della legge sull’elettorato attivo, sottoposta al suo esame, che riguarda la sospensione dal diritto elettorale (articolo 47)».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Necessità obiettive hanno imposto al Governo di prorogare la legge per cui protesta l’onorevole interrogante. Necessità obiettive: l’esistenza, o meglio, la persistenza di manifestazioni fasciste ed il dovere, da parte dello Stato, di reprimere siffatte manifestazioni. Unica legge che prevede la repressione di queste manifestazioni è precisamente quella per cui protesta l’onorevole interrogante, perché la legge a difesa delle istituzioni democratiche è tuttora pendente davanti l’Assemblea Costituente, ed, in attesa che l’Assemblea Costituente decida su questa legge, non poteva il Governo onestamente rinunziare all’unico strumento legale che gli era dato per reprimere queste manifestazioni fasciste, anche perché il Governo, per impegni di carattere internazionale, è tenuto a reprimere il risorgere od il manifestarsi di attività fasciste.

Si è trattato di una proroga che, per quanto riguarda la limitazione del diritto elettorale, verrà senz’altro soppressa dalle disposizioni che l’Assemblea Costituente prenderà in ordine alle limitazioni del diritto elettorale. Quindi è ovvio che la parte di questa legge che è stata prorogata, cadrà automaticamente il giorno che l’Assemblea Costituente avrà deciso in materia di limitazioni del diritto elettorale.

«Il Ministro di polizia» – come ha detto l’onorevole Bencivenga, ripetendo analoga espressione, che vorrebbe essere spregiativa, ripetuta da altri settori dell’Assemblea – non ha avuto che questo modesto compito: di proporre al Consiglio dei Ministri, che l’ha unanimemente approvata, la proroga della legge, e non intende servirsene come strumento di persecuzione. Perché è vero, onorevole Bencivenga, che il confino fu uno strumento di persecuzione di cui si servì il fascismo, ma è altrettanto veto che il fascismo si servì anche di tante altre cose che noi troviamo lecite e legittime. La differenza, e non è molto lieve, è questa, onorevole Bencivenga: che il confino di polizia veniva usato da un regime di dittatura e con sistemi di puro arbitrio che sono tipici del regime di dittatura; mentre, oggi, il confino è usato da un Governo democratico, non per consolidare un regime di dittatura, come fu nelle intenzioni del regime fascista, ma – come è detto nella legge – per difendere le libertà democratiche contro gli attentati da parte di chi nega, o ha negato nel passato la democrazia. E l’uso di questo potere è fatto alla luce del sole, è fatto sotto il controllo vigile del Parlamento e del Paese e da un Governo che è responsabile della sua azione davanti all’Assemblea Costituente.

L’onorevole Bencivenga sa benissimo che tutte queste cose non esistevano in regime fascista e che quindi non possiamo mettere sullo stesso piano e qualificare con le stesse parole altisonanti e dare lo stesso atroce giudizio a un provvedimento di questo genere da parte di un Governo democratico, per la tutela delle libertà democratiche.

Tuttavia, il Governo ha dimostrato, come è nel costume di un regime veramente democratico, di usare delle leggi con molta temperanza, tanta temperanza che forse l’onorevole Bencivenga non sa esattamente quale è il numero delle persone colpite da queste disposizioni. Il numero è limitatissimo; ma non faccio questione di numero. Se nelle disposizioni ci fosse un arbitrio e se questo arbitrio potesse colpire solamente una persona, noi dovremmo colpire l’arbitrio.

Ripeto che l’applicazione di questa disposizione è così temperata che sono appena ventuno le persone colpite dal confino; e le persone che vengono deferite alla Commissione per il confino hanno tutti i mezzi di difesa, in primo e in secondo grado.

Il Ministro dell’interno personalmente non interviene mai perché ha rinunciato ed ha delegato al Sottosegretario la presidenza della Commissione centrale. Gli imputati hanno tutte le possibilità di difesa legale: ma sono difesi ben più ampiamente dal controllo parlamentare, della stampa e dell’opinione pubblica.

Non c’è quindi nessuna preoccupazione che il confino possa essere uno strumento di tirannia del Governo, democristiano o non, o per scopi di partito. Questo è assolutamente lontano dalle nostre intenzioni; e gli uomini che siedono a questi banchi di Governo possono dare garanzie sufficienti, che non si serviranno mai del potere per compiere soprusi contro le libertà dei cittadini, dal momento che molti di questi uomini hanno conosciuto quello che è stato il regime fascista ed il sistema poliziesco fascista.

PRESIDENTE. L’onorevole Bencivenga ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BENCIVENGA. Mi dichiaro sodisfatto solo in parte, solo per l’assicurazione di avvalersi di queste disposizioni con molta moderazione.

Io avevo fatto una interpellanza, che poi ho cambiato in interrogazione, data l’esigenza dei lavori parlamentari, e mi ripromettevo di richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla situazione di politica interna, e sui mezzi più idonei per affrontarla.

A nessuno sfugge che esiste nel Paese un senso di malcontento e, diciamo anche, di nostalgia fascista. Ma dobbiamo anche guardare se questo non è frutto di errori commessi da noi. Quando il Comitato di liberazione nazionale a Roma ebbe l’infelice idea di fare quel decreto col quale i vecchi fascisti – anche le persone che non avevano nulla da rimproverarsi – si cacciavano come avanzi, reietti dalla società, quando si privavano del diritto di voto, quando si epuravano, quando si licenziavano e si mettevano sul lastrico padri di famiglia, è chiaro che sorgesse un senso di ribellione; ma questo è avvenuto in ogni cambiamento di regime. Però nessun regime ha preso le misure che abbiamo prese noi. Perché, signori miei, quando si è instaurata la monarchia dopo l’impero napoleonico, Luigi XVIII, non solo non ha fatto niente di male, ma ha dato pure una pensione a dei regicidi! Ora, non vi è esempio delle esagerazioni che abbiamo fatte noi. (Interruzioni – Commenti).

Comunque, c’è una questione: io, signori, credo che anche i mezzi più severi di repressione possano essere tollerati, ma quello che io combatto sono i provvedimenti di polizia, perché la polizia è uno strumento di dittatura. La polizia serve a tutto, quando la polizia non sia altro che la maschera del Ministro, che fa da dittatore.

Io vi faccio osservare che quando fu adottato il confino dal fascismo, quella era una formula non dico accettabile, ma tollerabile, e fu presentata al Parlamento, al Senato e alla Camera, ed al Senato ebbe 43 voti contrari e al Parlamento otto, perché già c’era «l’Aventino» che aveva abbandonato l’Aula.

Ebbene, dopo pochi mesi che la legge era stata approvata, questa ebbe una applicazione veramente vergognosa, ed io ne posso parlare con cognizione di causa e per fatto personale: io non avevo fatto nulla, fui chiamato di fronte ad una Commissione composta come oggi è composta; mi si domandò se io ero fascista o antifascista. Io dissi: antifascista.

La prima sanzione fu un anno di ammonizione, e fin lì niente di male. Poi, circondato da guardie e carabinieri, ho cominciato a vivere nella mia casetta; ma successivamente fui chiamato per tre giorni in questura; poi, inviato per quaranta giorni a Regina Coeli senza essere interrogato; poi, ebbi cinque anni di confino; finisco il confino e ritorno a casa, ma, non avevo nemmeno disfatto le valigie, che ebbi un’altra ammonizione, e tutto questo sotto una legge che era mitissima e molto meno grave di quel famoso decreto Bonomi del 1944.

Ora, è contro questi pericoli che io parlo; e guardate che io non dico che la polizia sia degna di biasimo e faccia questo per malvolere, ma la polizia non può fare il processo; la polizia fonda le sue decisioni sulle informazioni. Sono gli informatori, i confidenti, che possono dire quello che vogliono, perché non c’è nessun tribunale che li possa condannare per falsa testimonianza; per cui se domani uno dice che Bencivenga, che poi sarei io, cospira contro la democrazia, questo basta per impacchettarmi e portarmi via. (Commenti).

Ma, onorevole Presidente, lei pure ha passato i guai che abbiamo passato tutti noi; e quindi noi dobbiamo togliere dalle mani della polizia la possibilità di colpire a suo piacimento. Mettete cinquanta anni di galera, mettete la fucilazione, ma non applicate questo sistema di polizia, perché sono i giudici quelli che debbono condannare. Io ho passato cinque anni di confino e qui c’è qualcuno che ne ha passati anche di più. Perciò l’esperienza deve servire a qualche cosa. La polizia è uno strumento di tirannia e deve essere, quindi, ridotta solo a vigilare e a controllare, in base a leggi, l’attività materiale; ma chi deve condannare sono i giudici e non la polizia.

Questo è quello che volevo dire, il resto non ha nessuna importanza e si può trascurare. Ma io vi invito a leggere gli articoli 1 e 3 di questa legge, che oggi sono stati richiamati in vigore. Con questi articoli si può colpire chiunque di noi, anche un antifascista: solo che ad uno salti in testa di girare col frustino e gli stivali, può èssere accusato di neo-fascismo ed inviato al confino!

In queste condizioni dobbiamo portare il popolo alle urne? No, onorevole Ministrò: siamo esperti noi. Lei è troppo giovane; ma noi abbiamo fatto tutta una esperienza. Perciò io protesto; ma, naturalmente, non c’è niente da fare, perché oggi siamo su per giù con una dittatura come quella che è andata via.

(Commenti – Proteste al centro).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Vorrei ancora dire due parole all’onorevole Bencivenga, affinché non resti l’impressione che, nell’infliggere il confino di polizia, sia la polizia arbitra e sovrana.

C’è una disposizione di legge, la quale stabilisce i casi tassativi e precisi in cui si può essere mandati al confino: questo è detto nella legge, e non è la polizia che ha stabilito questo. La polizia non può mandare nessuno al confino all’infuori delle persone che vengono trovate nelle condizioni previste dalla legge. Chi decide? Non la polizia, ma una commissione in cui sono presenti anche i rappresentanti della Magistratura, perché fa parte della commissione in magistrato.

Quindi, non vedo assolutamente perché si debba parlare di arbitrio della polizia o del Ministro dell’interno, o peggio di dittatura del Ministro dell’interno, in questo caso.

Sono pienamente d’accordo con l’onorevole Bencivenga che una legge di questo genere nelle mani di un governo dittatoriale può mandare al confino anche autentici democratici. Sono d’accordo quindi e, in linea di principio, sono contro tutte le leggi che possono potenzialmente servire gli arbitri di un governo dittatoriale. Ma questa legge oggi viene applicata in un regime di democrazia da un governo democratico, con l’esistenza di un Parlamento. Il giorno in cui queste condizioni non esistessero più, non avremmo nessuna garanzia di libertà né con questa, né con qualsiasi altra legge.

Ma finché il Parlamento esiste, finché la libertà di stampa sarà una realtà concreta, finché il controllo del Paese sarà vigile sugli atti del Governo, non deve esservi nessun timore o preoccupazione che di questa legge qualcuno si servirà per commettere arbitri o attentati.

D’altronde, l’applicazione concreta di questa legge ha dimostrato come il Governo sia conscio della sua responsabilità e, soprattutto, come il Governo intenda dimostrare il suo spirito democratico.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni dell’onorevole Lettieri, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se non ritenga di disporre – in considerazione del continuo depauperamento della terra delle colline, provocato dalle piogge e dalle annuali e superficiali coltivazioni – che sulle colline, specie a forte pendio, siano sospese le coltivazioni superficiali, sia impedito il depauperamento della terra (muratura, palizzate) e sia favorita in ogni modo la piantagione di alberi a profonde e fitte radici», e allo stesso Ministro, «per conoscere se non creda opportuno favorire ed incoraggiare l’allevamento del baco da seta e l’allevamento delle api, per incrementare la produzione e la ricchezza nazionale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Rispondo per conto del Ministro dell’agricoltura, che è indisposto.

Per quanto riguarda la prima interrogazione, non occorre alcuna nuova disposizione di legge, in quanto l’attuale legislazione permette di intervenire con l’istituto del vincolo idrogeologico di cui alla legge del 30 dicembre 1923, quando i terreni di qualsiasi natura e destinazione – quindi anche quelli di collina, cui si riferisce l’interrogazione – per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con la loro buona conservazione, possano, con danno pubblico, subire denudazione, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque.        

Per quanto riguarda poi le piantagioni, vi sono numerose provvidenze legislative che vanno dalla semplice concessione gratuita di semi e piantine alla direzione tecnica ed alla concessione di contributi da parte dello Stato.

Per quanto concerne la seconda interrogazione, osservo che la bachicoltura in Italia rappresenta indubbiamente un notevole cespite di entrata, il quale può essere valutato a circa 10 miliardi come valore dei bozzoli. Essa offre inoltre lavoro a numerose maestranze industriali della trattura della seta (filanda), della tintura, tessitura, ecc.

La produzione dei bozzoli, realizzata quest’anno, è di circa 25 milioni di chilogrammi, ma in passato si sono raggiunti anche 40-50 milioni di chilogrammi.

Il patrimonio gelsicolo attualmente esistente – nonostante distruzioni effettuate in questi ultimi anni – consentirebbe di poter aumentare sensibilmente la produzione, ma i bassi prezzi dei bozzoli, in rapporto a quelli degli altri prodotti agricoli, non invogliano gli agricoltori ad incrementare gli allevamenti dei bachi.

Tali prezzi (lire 200-300 al chilogrammo) inadeguati al costo di produzione dei bozzoli, sono la conseguenza della scarsa richiesta della nostra seta sui mercati esteri, seta che veniva specialmente esportata negli Stati Uniti.

Il Ministero dell’agricoltura è convinto che occorre intervenire tempestivamente per evitare il collasso della bachicoltura, che potrebbe essere provocato dall’attuale situazione del mercato mondiale delle sete. Ciò perché è ben noto, per l’esperienza fatta in passato, che dopo una riduzione, per qualche anno, degli allevamenti, difficile riesce, se non impossibile, ritornare sulle posizioni perdute, anche quando mutino in meglio le condizioni del mercato. Il Ministero perciò si è interessato quest’anno per assicurare l’aumentato stanziamento per il corrente esercizio finanziario (2 milioni) – stanziamento inadeguato agli intendimenti che si prefigge di raggiungere se si pensa all’attuale svalutazione della moneta –, oltre alla diffusione di materiale apistico a prezzo di favore, come già fatto per lo scorso anno e che ha dato notevoli risultati, ha inoltre in animo di curare particolarmente l’assistenza sanitaria agli apiari, affinché in ogni momento si sia in grado di soffocare eventuali focolari di peste americana ed europea od altre malattie, ed ha in animo, altresì, di indire dei corsi di apicoltura, in quelle provincie ove questa si distingua per la sua importanza al fine di avere degli allevamenti razionali conformi ai più moderni accorgimenti che vengono oggi praticati.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LETTIERI Sono sodisfatto per ciò che riguarda la bachicoltura e l’apicoltura. Però raccomanderei al Ministro d’istituire a Vallo di Lucania, capoluogo del Cilento, un istituto per la diffusione dell’una e dell’altra coltura.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riferirò al Ministro dell’agricoltura e delle foreste.

LETTIERI. È naturale: è una raccomandazione. Una volta il Cilento era un terreno dove il baco da seta rappresentava un’industria fiorente e redditizia.

Per la prima interrogazione, invece, non sono sodisfatto. Ho letto ieri un magnifico articolo del Ministro Segni sul Domani d’Italia, articolo scritto dopo una visita fatta alla Basilicata, alle Calabrie, alla Puglia. In dette regioni il Ministro ha visto – egli scrive – le terrificanti argille della Basilicata; ha visto i danni incalcolabili prodotti dall’acqua piovana; ha visto la miseria; ha visto anche che intere popolazioni hanno dovuto lasciare i loro paesi, causa la miseria, e trasferirsi altrove. Noi del Cilento abbiamo colline e terreni somiglianti a quelli della Basilicata, dove v’è la stessa miseria, dove vi sono gli stessi bisogni. Il nostro povero contadino, pur di fare un po’ di grano per la propria famiglia, coltiva la terra sulle colline ripidissime, dove terra non ve n’è, o ve n’è per pochi centimetri.

I contadini scorticano quelle colline, e le piogge autunnali portano via la terra, le semenze ed i frutti degli alberi. In molti paesi non v’è più la terra; v’è l’argilla, v’è la pietra. E continuando così, fra poche diecine di anni, vedremo delle zone assolutamente spoglie e depauperate della terra, nude di alberi; su queste colline vi sono alberi tisici, invecchiati, con produzione scarsa e di cattiva qualità.

Ora, occorre arginare l’acqua piovana; occorre convogliarla. E questo lavoro non lo può fare il privato: fallirebbe. Ci vogliono lavori colossali da fare a monte. E occorrerebbe, secondo me, impedire la coltura del grano in queste zone ripide. Molte volte il povero contadino, dopo un anno di lavoro, non raccoglie neppure la quantità di semenza che ha seminato; occorrerebbe assolutamente favorire la coltura arborea. Gli alberi sulle colline con le loro radici trattengono la terra e la terra, quando non è zappata, non viene spostata facilmente dalle piogge. Secondo me, bisognerebbe incrementare assolutamente la coltura arborea, anche per sodisfare alle esigenze della gente: con la vendita dei frutti degli alberi il contadino potrebbe comperare il pane, mentre oggi, dopo un lavoro di mesi e mesi, molte volte non ha neppure il pane per sfamarsi.

Quindi vorrei raccomandare al Ministro – rifacendomi all’articolo, cui ho accennato, scritto con fede, con nobiltà di sentimenti, con cuore, con promessa di aiuti immediati, di ricordarsi che oltre alla Basilicata, alle Calabrie, ecc., v’è anche il Cilento, che è la zona più disagiata della provincia di Salerno. Vorrei raccomandare al Ministro di non fermare la sua attenzione solo sulle zone ricche di Salerno, Battipaglia, Pontecagnano, Nocera, ecc., che non hanno bisogno della visita degli uomini di Governo, ma visitare le zone disagiate, come il mio povero Cilento.

Occorre inoltre iniziare la bonifica dei torrenti principali ed io mi riferisco specialmente all’Alento che prende origine dal Comune di Stio e sbocca a mare nei pressi di Casal Velino dopo un percorso di parecchie decine di chilometri. Tale torrente colmo d’acqua nei mesi invernali con un letto largo in alcune zone molte centinaia di metri è causa di danni incalcolabili sui terreni coltivati che ne formano i limiti nel suo lungo cammino. Si potrebbe ridurne il letto a pochi metri, renderne il percorso tortuoso per attenuare l’impeto delle acque e lateralmente a tale corso ristretto sorgerebbero evidentemente immensi piani di terra fertile che in parte compenserebbero il depauperamento della terra delle colline, ove continuando l’attuale errato sistema di coltura del grano presto, fra poche diecine di anni, la terrà scomparirà del tutto e la miseria più nera piomberà sugli attuali proprietari.

Prego il Ministro d’incoraggiare la coltura arborea. Faccia piantare alberi sulle montagne, sulle colline, sulle vie comunali, provinciali, statali, pedonali, mulattiere, lungo i torrenti, lungo i fiumi. Avremo milioni e milioni di piante più di quelle esistenti. Si cooperi l’onorevole Ministro perché arrivino facilmente ai nostri laboriosi contadini semenze scelte, piante selezionate, tecnici agrari e quant’altro occorre perché la terra dia prodotti abbondanti e di qualità. Incoraggi e promuova la industrializzazione dei prodotti della terra e degli alberi. Faccia utilizzare le acque che oggi corrono inerti al mare. Smorzi la sete inesauribile del fisco a carico dei piccoli e disagiati proprietari. Crei l’agronomo condotto. Consigli l’allevamento delle api, del baco da seta, degli animali domestici. Premi i volenterosi, vada personalmente a visitare le zone più abbandonate dell’Italia meridionale, come già sta praticando.

Vada, lei Ministro, dove v’è bisogno di aiuto immediato, dove v’è la fame, dove v’è bisogno del medico illuminato, sapiente e di cuore. Vada lei in questi posti, onorevole Ministro, e vedrà che la sua visita sarà salutare, sarà efficace, sarà risanatrice.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Arata, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se non ritenga opportuno che, a differenza della condotta negativa tenuta su questo punto dal Governo negli anni decorsi, siano disposti sin d’ora, e comunque prima della semina, opportuni piani e provvidenze diretti ad ottenere il massimo incremento della prossima campagna granaria, evitandosi così che, nella completa oscurità circa gli orientamenti e i disegni del Governo, essa abbia ancora a svolgersi con criteri e piani di mera convenienza aziendale e personale, sovente contrastanti col superiore interesse e le esigenze della collettività».

Non essendo presente l’onorevole Arata s’intende che vi abbia rinunziato.

Seguono due interrogazioni dell’onorevole Scotti Alessandro:

al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria 1947-48 in merito agli ammassi obbligatori dei cereali e se ritenga di accedere alle generali richieste dei contadini, abolendo i detti ammassi che si sono dimostrati di grave onere per il bilancio dello Stato e di gravissimo peso per i produttori, non dando, d’altra parte, per risultato che una sensibile contrazione della produzione. L’interrogante fa presente che l’abolizione degli ammassi, sia pure sostituita in via provvisoria con quegli accorgimenti che potranno rivelarsi opportuni, consentirà di provvedere con maggiore sicurezza al sostentamento dei meno abbienti, specie addivenendosi alla somministrazione di una parte del salario o stipendio in natura, a cura ed a carico, naturalmente, dei datori di lavoro. Ricorda che, essendo imminenti i lavori preparatori per la semina, questa, nell’ipotesi della persistenza del regime di ammasso, si attuerebbe – dato lo stato d’animo diffuso nelle campagne – su scala ridottissima»;

al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se non ritenga opportuno soprassedere alla costituzione del Consorzio nazionale canapa, se pure con la sola partecipazione degli agricoltori, essendo tale provvedimento in contrasto con la volontà dei canapicoltori, i quali chiedono la libera disponibilità del loro prodotto. L’ammasso obbligatorio della canapa avrebbe quale risultato un’ulteriore riduzione di tale coltura, con grave danno dell’economia nazionale»».

Non essendo presente l’onorevole Scotti s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Giacchero, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se, vista la continua diminuzione delle superfici coltivate a grano e l’insufficienza delle assegnazioni di concimi chimici (circa 13 chilogrammi per ettaro), non ritenga di dovere urgentemente stabilire, prima degli inizi dei lavori di semina, il prezzo del grano per il futuro raccolto del 1948 e impegnarsi ad assegnare ad ogni comune ed a prezzo ragionevolmente proporzionale a quello del grano e tempestivamente un quantitativo sufficiente di concimi chimici».

Non essendo presente l’onorevole Giacchero, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Tremelloni, Segala e Ghidini, al Ministro delle finanze, «per conoscere quale fondamento di verità abbia la notizia, apparsa sui giornali, che in Sicilia è stata abolita la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. E per sapere, nel caso in cui la notizia sia esatta, quale atteggiamento intende prendere il Governo».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. L’Assemblea regionale siciliana ha effettivamente approvato il testo della legge che abolisce la nominatività delle azioni delle nuove società, non delle vecchie.

La legge non è stata ancora pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Regione. Questa stessa legge è stata impugnata dal Commissario del Governo davanti all’Alta Corte, ai sensi dell’articolo 25 dello Statuto siciliano del 15 maggio 1946, n. 455.

Mi sembra opportuno leggere qualche considerazione dell’atto d’impugnativa:

«Si vorrebbe derogare ad una disposizione emanata nello interesse generale costituendo con le società siciliane di nuova formazione una situazione fiscale di privilegio che potrebbe attirare il risparmio in Sicilia, ma che potrebbe avere sensibili ripercussioni sul mercato nazionale.

«Ma al disopra della norma positiva sopra richiamata, sembra che la legge sia viziata per un principio generale, quello che la potestà legislativa regionale deve trovare un limite insuperabile nella giurisdizione territoriale. Si deve perciò considerare illegittima ogni attività normativa della Regione che venga a creare un duplice ordinamento giuridico nel restante territorio dello Stato».

L’atto d’impugnativa prosegue affermando che, nel caso in esame, i titoli al portatore dovrebbero avere circolazione anche fuori della Sicilia, in contrasto con le no norme vigenti; né a tale conseguenza si potrebbe ovviare con un controllo valutario fra l’Isola ed il continente, che impedisse il trasferimento di titoli al portatore perché tale controllo sarebbe impossibile. Queste le considerazioni dell’atto di impugnativa.

E poiché l’Alta Corte, come l’onorevole Tremelloni sa, non è in funzione perché non ne sono stati nominati ancora i membri dall’Assemblea Costituente, non ha potuto esaminare e discutere l’impugnativa e ne consegue che la legge stessa è rimasta sospesa.

Sono state richieste altre informazioni all’intendenza di finanza.

L’amministrazione finanziaria segue con interesse la questione perché, avuto riguardo ai fini tributari che con la nominatività obbligatoria si possono raggiungere, sia nei riflessi dell’imposta ordinaria che di quelle straordinarie, ritiene opportuno che non sia comunque infirmato il principio della nominatività obbligatoria dei titoli azionari in tutto il territorio nazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Tremelloni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TREMELLONI. Ringrazio il Sottosegretario di Stato per le finanze per la risposta che mi ha fornito e mi dichiaro sodisfatto.

La mia interrogazione aveva appunto lo scopo di segnalare una notizia che era apparsa sui giornali e che aveva provocato un certo disappunto; aveva anche lo scopo di sottolineare alcuni segni, che vanno accentuandosi, di autarchia regionale economica. Essi rappresentano – a mio avviso – un regresso, quando lo spirito con cui i colleghi votarono per la Regione nella nostra Assemblea era tale da costituire – almeno a me pare – uno stimolo al progresso economico. La più ampia dimensione spaziale, nella soluzione dei problemi economici, ha una grande importanza; noi cadremmo in un mortale errore se volessimo procedere a ritroso, ed io mi auguro che i nostri amici siciliani sappiano per primi evitare questo allettevole ma pericoloso viottolo.

Il Governo, da parte sua, deve – a mio avviso – difendere una politica economica unitaria, deve cioè evitare che le aree depresse siano private del calore della cordiale collaborazione di tutti i cittadini e debbano sentire ragioni di autarchia nella mancanza di solidarietà da parte delle Regioni più favorite. Nell’economia del mondo – si è replicato spesso – non possono sussistere isole di prosperità nel mare della miseria; nell’economia italiana non dobbiamo consentire che questo ragionamento sia inapplicabile. Noi dobbiamo cercare che questo mare di miseria non permanga nel nostro Paese.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Governo non può che essere d’accordo con le linee generali di politica economica delineate in questo momento dall’onorevole Tremelloni.

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni sono rinviate su richiesta dei Ministri interessati:

Miccolis, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se risulta rispondente a verità quanto è stato pubblicato dal quotidiano Il Globo del 18 luglio 1947, secondo cui grano turco avariato per uso zootecnico viene venduto all’asta ad un prezzo più che raddoppiato, o quasi triplicato rispetto a quello di lire 1600-1900 corrisposto dagli ammassi agli agricoltori, i quali in genere sono nel tempo stesso allevatori ed acquirenti di mangimi. Se gli risulta che il fatto denunziato dalla stampa alla pubblica opinione si riferisce ad un caso eccezionale di speculazione, che a nessun privato sarebbe consentita, oppure ad un sistema instaurato dagli enti ammassatori, i quali per sottoprodotti, commisti a materiale estraneo di ogni natura fino al 90 per cento, richieggono prezzi di gran lunga superiori ai prodotti genuini. Se l’onorevole Ministro ritiene simile commercio, monopolistico ed esoso, lecito e capace di favorire la produzione di carni, grassi, latticini con conseguente contrazione di prezzi»;

Caso, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere come intenda sistemare giuridicamente la posizione di alcuni insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro, i quali, non essendo di ruolo, non godono dei benefici di legge pur prestando a volte per decenni il loro incondizionato servizio allo Stato; e se non ritenga opera di giustizia promuovere un decreto legislativo che parifichi agli altri funzionari statali il trattamento da farsi doverosamente agli insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro»;

Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere le cause del grave disastro sulla linea ferroviaria Camigliatello-Cosenza, gestita dalla Società Calabro-Lucana, nel quale hanno incontrato la morte cinque padri di famiglia, e si lamentano numerosi feriti. Si chiede se sia consentito, su queste linee a forte pendenza, il movimento di automotrici, logorate dal tempo e dall’uso, e per giunta sottoposte quotidianamente ad un sovraccarico di viaggiatori. I quali non lasciano né meno libero – con evidente e continuo pericolo – lo spazio riservato al conducente, di cui limitano vigilanza e possibilità di movimento e di immediata e provvida manovra»;

Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere se non creda doveroso mettere in esercizio sull’elettro-treno Roma-Reggio Calabria lo stesso materiale ferroviario in uso sull’elettro-treno Roma-Milano, aggiungendovi, come in questo, qualche vettura di seconda classe. L’interrogante chiede ancora che venga concessa, soddisfacendo i voti delle popolazioni cosentine e catanzaresi, una vettura diretta sul diretto che parte da Roma alle ore 19.10»;

Monticelli, ai Ministri di grazia e giustizia e del lavoro e previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponde a verità quanto il giornale Il Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito al mancato versamento della somma di lire 342.300 da parte della cooperativa «La Rinascita», di Grosseto, che, incaricata dalla Sepral di provvedere alla distribuzione ai vari comuni della provincia di 163 quintali di riso sequestrato il 12 febbraio 1946 dalla squadra annonaria, ne versò il ricavato l’8 agosto 1947, cioè dopo oltre un anno e mezzo, quando già era stata presentata denunzia per appropriazione indebita alla Procura della Repubblica di Novara. Per conoscere altresì quali provvedimenti si intendono adottare, anche da parte del Ministro del lavoro, verso la suddetta cooperativa»;

Monticelli, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponda a verità quanto il giornale II Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito alla mancata distribuzione alle cooperative di consumo di 200 quintali di baccalà salinato, assegnato dall’Alto Commissariato per l’alimentazione alla Federazione provinciale delle cooperative di Grosseto, e da questa rivenduto, a prezzo notevolmente maggiorato, ad una ditta di Fucecchio. In caso affermativo, quali provvedimenti intende prendere il Ministro del lavoro verso la Federazione delle cooperative di Grosseto»;

Nobile, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere quale ingegnere sia stato designato, ed in base a quali criteri, per i lavori relativi ai beni immobiliari di proprietà dello Stato italiano in Varsavia».

È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni inscritte all’ordine del giorno.

Per alcune interrogazioni con carattere d’urgenza.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Desidererei pregarla, signor Presidente, di chiedere al Ministro dei lavori pubblici quando intenda rispondere ad una mia interrogazione del 14 settembre, con la quale si sollecitano provvedimenti a favore di moltissimi senzatetto di Benevento.

PRESIDENTE. Interesserò il Ministro competente.

PERLINGIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERLINGIERI. Analoga preghiera desidero rivolgere per quanto riguarda una mia interrogazione al Ministro dell’industria e al Ministro delle finanze, interrogazione posta all’ordine del giorno di alcune sedute or sono, ma la cui discussione fu rinviata d’accordo col Ministro. Vorrei pregare che venisse fissata nuovamente la data di discussione.

PRESIDENTE. Sta bene.

PERUGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERUGI. Analoga preghiera vorrei fare io nei riguardi di una interrogazione rivolta al Ministro delle finanze, interrogazione che doveva essere discussa alcuni giorni or sono e che fu rinviata perché il Ministro non aveva elementi disponibili.

PRESIDENTE. Sarà provveduto anche per la sua interrogazione.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Giorni fa presentai una interrogazione con carattere di urgenza, diretta ai Ministri del tesoro e delle finanze, sulle pensioni di guerra e i danneggiati civili. Mi si disse che sarebbe stata data urgente risposta.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. È il Ministro del tesoro che deve rispondere.

MACRELLI. Riguarda anche il Ministro delle finanze.

PRESIDENTE. Sarà provveduto anche per questa interrogazione, onorevole Macrelli.

La seduta termina alle 12.40.